Dal concubinato alla famiglia di fatto: evoluzione del fenomeno(*)

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L
LE RASSEGNE
» Famiglia di fatto
Dal concubinato alla famiglia
di fatto: evoluzione del
fenomeno(*)
Arcangelo Giuseppe Annunziata
Dottorando di ricerca presso il dipartimento di Diritto privato
Roberto Francesco Iannone
Dottorando di ricerca presso il dipartimento di Diritto privato
SINTESI
a) La progressiva affermazione della famiglia di fatto
-
Nel periodo precedente alla riforma del diritto di famiglia si era
d) Famiglia di fatto e accordi di convivenza ex art. 1322 c.c.
diffuso un atteggiamento di totale ostilità e chiusura verso il rico-
In mancanza di una disciplina normativa assimilabile a quella det-
noscimento di una pur minima tutela della famiglia di fatto.
tata per i coniugi, il settore dei rapporti patrimoniali rinvia ne-
In seguito ad una rapida evoluzione della realtà sociale, anche l'at-
cessariamente alla regolamentazione pattizia. La giurisprudenza,
teggiamento verso il fenomeno della convivenza è mutato sostan-
nelle poche pronunce, ha riconosciuto la validità di tutti quei patti
zialmente e si è iniziato gradatamente a porre in evidenza la netta
patrimoniali che i conviventi, sul presupposto del rapporto di con-
distinzione tra funzione e istituzione familiare.
vivenza, concludono al fine di regolare i rispettivi rapporti econo-
In tale prospettiva si è incominciato ad attribuire anche alla fami-
mici, cercando di pervenire eventuali problemi di conduzione del
glia non fondata sul matrimonio la funzione di adempimento dei
mènage familiare che potrebbero insorgere durante l'unione. Si
doveri di mantenimento, di educazione e di istruzione della prole,
è ritenuto, infatti, che nessun principio d'ordine pubblico ex art.
nonché di sviluppo e arricchimento della personalità all'interno di
1343 c.c. si oppone all'eventuale stipula di un contratto di convi-
quel nucleo familiare che, seppur non istituzionalizzato, assolve
venza more uxorio, a patto, però, che in tali negozi non vengano
alla medesima funzione della famiglia c.d. legittima.
inseriti aspetti a carattere personale, come doveri di assistenza
-
morale e di fedeltà, i quali difettano del requisito della patrimo-
b) Inquadramento costituzionale della famiglia di fatto
nialità.
I giudici delle leggi, nelle numerose pronunce, hanno individua-
-
to il fondamento costituzionale delle convivenze more uxorio nel-
e) La qualificazione delle attribuzioni patrimoniali tra conviventi
l'art. 2 Cost. Tale norma, infatti, se intesa come norma aperta e
La qualificazione dei contributi patrimoniali tra conviventi non so-
non semplicemente riassuntiva di altre, risulta idonea a garantire
no state sempre considerate dalla giurisprudenza in maniera uni-
in via immediata tutela giuridica a tutte quelle forme associative
forme. In un primo momento si è parlato di donazioni remunera-
che si sviluppano nella realtà sociale in vista della piena realizza-
torie, poi, più precisamente, di obbligazioni naturali o di liberalità
zione della personalità dei singoli.
d'uso. Non si tratta, tuttavia, di una mera disputa dottrinale dal
-
momento che, a secondo della disciplina applicabile, l'attribuzio-
c) Dalla convivenza more uxorio alla famiglia di fatto: evoluzione
ne può essere soggetta o meno alle regole in tema di forma della
terminologica
donazione, della collazione, dell'azione di riduzione e revocatoria.
La progressiva affermazione costituzionale della convivenza mo-
Ciò che interessante rilevare è come si sia passati da una conce-
re uxorio ha condotto anche ad un'evoluzione terminologica del
zione di tipo indennitaria in favore del coniuge più debole ad una
fenomeno.
di stampo solidaristico, che è espressione dell'accettazione socia-
-
le e morale della convivenza nell'ambito della società.
L'espressione famiglia di fatto non è solo una definizione più pun-
-
tuale del fenomeno, ma anche il segno di un profondo mutamen-
f) Presunzione di gratuità delle prestazioni lavorative nell'ambito
to ideologico: famiglia di fatto non vuol dire solo convivere come
della famiglia di fatto
coniugi, ma anche e soprattutto famiglia, portatrice di quei valori
Ancora oggi è costante l'atteggiamento di chiusura della giuri-
di solidarietà ed assistenza morale che prima venivano considera-
sprudenza verso l'estensione della disciplina legislativa di cui al-
ti esclusivi della famiglia fondata sul matrimonio.
l'art. 230 bis c.c., sulla base del rilievo che elemento saliente del-
Stampato il: 19 gennaio 2010, 9:40 AM Famiglia, Persone e Successioni 2 | 1 | Febbraio
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l'impresa familiare e della sua disciplina non è l'apporto lavorati-
tezza di rapporti giuridici non impediscono di ritenere meritevole
vo in sé, né i legami affettivi, ma la famiglia in senso chiaro e le-
lo strumento del trust al fine di concedere una tutela, altrimenti
gittimo individuata nei più stretti congiunti.
inesistente, ai genitori ed ai figli, nati prima o in costanza di que-
Va dato atto, tuttavia, dell'esistenza di una giurisprudenza più
sto rapporto di fatto. In altri termini, si ritiene che la segregazio-
sensibile all'estensione dell'art. 230 bis c.c. anche alle prestazioni
ne di un patrimonio nel dichiarato intento di apprestare una tu-
lavorative rese nell'ambito della famiglia di fatto.
tela economica e di assistenza ad una famiglia di fatto, che non
-
sarebbe altrimenti assicurabile in forme neanche lontanamente
g) Rapporti patrimoniali e trust
simili a quelle del fondo patrimoniale, rappresenta quel quid che
Poiché ai conviventi more uxorio non vengono riconosciuti diritti
consente di ritenere apprezzabile lo strumento del trust in subiec-
connaturati all'esistenza di un rapporto duraturo e stabile, si ritie-
ta materia.
ne che l'assenza di un vincolo parentale e di una situazione di cer-
-
» sommario
1. La rilevanza giuridica della famiglia di fatto
1.1. Segue: la giurisprudenza innovativa della Corte Costituzionale
1.2. Segue: l'evoluzione terminologica del fenomeno
1.3. Segue: settorialità della disciplina normativa
2. La validità degli accordi di convivenza ex art. 1322 c.c. Sui possibili diritti ed interessi che possono formare oggetto di tali accordi
2.1. Le regole applicabili nelle attribuzioni patrimoniali tra conviventi
2.2. Segue: liberalità d'uso
2.3. Segue: prestazioni lavorative nell'ambito della famiglia di fatto
2.4. Segue: rapporti patrimoniali e trust
1. La rilevanza giuridica della famiglia di fatto
Qualunque trattazione sull'evoluzione del diritto di famiglia non può esaurirsi in una sterile analisi delle modifiche
del sistema normativo, ma involge necessariamente un'indagine della realtà sociale e l'individuazione dei valori e degli interessi in cui la coscienza collettiva si riconosce.
In questo settore, pertanto, gli aspetti giuridici si intrecciano inevitabilmente con la natura degli interessi coinvolti e
con le continue trasformazioni sociali, rinviando all'interprete l'arduo compito di coordinare il dettato normativo
con le sollecitazioni e le valutazione di tipo extra-giuridico.
Appare evidente, allora, come il tema della famiglia, che
rappresenta la cellula «germinale» della società, rifletta, sia
pure in «miniatura», tutte le tensioni che emergono dal contesto storico-sociale(1).
L'ultimo ventennio è stato segnato da una profonda trasformazione sociale, culturale e giuridica della struttura familiare, che ha portato all'emersione di unioni caratterizzate
dalla non totale conformità allo schema legale del nucleo
familiare legittimo(2).
È opportuno precisare, sin da subito, che la diffusione di tali relazioni di fatto trova spesso giustificazione nell'esistenza di un impedimento oggettivo alla celebrazione del matrimonio e, dunque, alla costituzione di una famiglia legittima.
Molte delle convivenze more uxorio, infatti, sono «imposte» dalla mancanza di libertà di stato dei conviventi: o perché già sposati, o perché di diversa estrazione sociale, o perché in attesa di ottenere il divorzio. In altri casi, invece, sono determinate da una libera scelta dei partners che volontariamente si accordano per non far rientrare nel modello
legale la disciplina del loro rapporto(3).
In quest'ultima ipotesi, pertanto, la regolarizzazione del
rapporto c.d. para-familiare, pur giuridicamente possibile,
è esclusa dalla coppia come scelta ideologica che può essere
anche il risultato di un netto rifiuto nei confronti dell'istituto matrimoniale(4).
A prescindere, comunque, da quali possano essere le motivazioni psicologiche e le circostanze contingenti che abbiano indotto i soggetti del rapporto a costituire una convivenza di natura familiare al di fuori degli schemi legali tradizionali, è un dato di fatto (ormai acquisito) che queste relazioni non formalizzate esistono e, una volta mutata la valutazione sociale e morale del fenomeno da par te della comunità civile, si pone il problema della loro rilevanza giuridica con conseguente necessità di una loro regolamentazione
normativa.
In realtà va segnalato che per molti anni – soprattutto nel
periodo precedente alla riforma del diritto di famiglia – si
era diffuso un atteggiamento di totale ostilità e chiusura verso il riconoscimento di una pur minima tutela della famiglia
di fatto(5).
Tale pregiudiziale approccio va sostanzialmente ricollegato
alla tradizione culturale di ispirazione del codice civile del
1942 e in un certo senso anche della stessa Carta Costituzionale che considera il matrimonio quale fondamento costitutivo della famiglia.
Per lungo tempo l'intento principale del legislatore è stato,
dunque, quello di garantire la stabilità della convivenza familiare; questo obiettivo ha imposto l'adozione di regole rigide, quali, ad esempio, l'indissolubilità del matrimonio, la
disuguaglianza tra coniugi, la discriminazione della filiazione fuori dal matrimonio. Detti principi hanno caratterizzato
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il vecchio ordine familiare, delineato dal codice civile sino
alla riforma del diritto di famiglia del 1975. La figura centrale
di questo modello giuridico, per secoli avvertito come «naturale» e quindi accettato e condiviso dal costume, era quella della potestà del capo famiglia, cui erano soggetti moglie
e figli(6).
La codificazione del ‘42 si caratterizza, quindi, per aver acquisito e delineato una nozione di famiglia ancorata a principi rigorosamente gerarchici, espressivi di una concezione
autoritaria della struttura familiare, ma orientati anche, e si
potrebbe dire soprattutto, alla conservazione del patrimonio del nucleo familiare all'interno di esso, con esclusione
di ogni apertura verso l'esterno(7).
Tuttavia, con il mutamento della considerazione dei rapporti familiari e coniugali, in seguito ad una rapida evoluzione della realtà sociale, anche l'atteggiamento verso il fenomeno della convivenza è mutato sostanzialmente e si è
iniziato gradatamente a porre in evidenza la netta distinzione tra funzione e istituzione familiare.
In tale prospettiva si è incominciato ad attribuire anche alla
famiglia non fondata sul matrimonio la funzione di adempimento dei doveri di mantenimento, di educazione e di istruzione della prole, nonché di sviluppo e arricchimento della
personalità all'interno di quel nucleo familiare che, seppur
non istituzionalizzato, assolve alla medesima funzione della famiglia c.d. legittima ex art. 30 Cost.(8).
Significativa è stata, a riguardo, la l. n. 898 del 1970(9), in
quanto ha manifestato la scelta del legislatore verso una valorizzazione dell'effettività dell'esperienza di vita nella famiglia.
In tale direzione vanno segnalate, inoltre, le importanti
aperture di tutela nei confronti dei figli naturali, che hanno trovato affermazione definitiva nella riforma del diritto
di famiglia del 1975(10), portando alla nascita di una nuova
realtà familiare meno rigida e stabile di quella affidata all'autorità del marito e basata, invece, sulla pari dignità dei
coniugi, con una forte rivalutazione dell'elemento affettivo
rispetto ai vincoli formali e coercitivi.
1.1. Segue: la giurisprudenza innovativa della Corte Costituzionale
Un ruolo di primo piano nell'affermazione della rilevanza
giuridica delle convivenze di fatto hanno avuto, senza ombra di dubbio, gli interventi della Corte Costituzionale.
In diverse occasioni, infatti, i giudici delle leggi hanno affrontato sia il problema del riconoscimento giuridico delle
convivenze moro uxorio, sia il profilo della possibile estensione a tali rapporti di talune norme dettate per la famiglia
legittima.
In particolare, un mutamento radicale nei confronti della
rilevanza giuridica di siffatti rapporti si è avuta con la sentenza n. 237 del 1986, nella quale la Corte, pur rigettando
la questione di illegittimità costituzionale degli artt. 384 e
307 c.p. per violazione dell'art. 29 Cost., sotto il profilo della
mancata inclusione del convivente more uxorio tra i prossimi congiunti, sul presupposto che la citata norma tuteli in
modo esclusivo la famiglia legittima, afferma, se pur a livello
di obiter dictum, la rilevanza giuridica della famiglia di fatto se posta in relazione all'art. 2 Cost., e, dunque, quale formazione sociale nella quale si realizza e si sviluppa la personalità dell'individuo(11).
Il mutamento «quasi epocale» segnato da tale pronuncia si
avverte con maggiore intensità se solo si considera che precedentemente nel pensiero dei giudici delle leggi la convivenza more uxorio costituiva soltanto un mero rapporto di
fatto, privo del carattere della stabilità, suscettibile, quindi,
di venir meno in qualsiasi momento e, dunque, improduttivo di quei diritti e doveri reciproci nascenti dal matrimonio e propri della famiglia legittima(12).
Invero, la Suprema Corte di Cassazione, già nel 1977, si era
spinta ad affermare che il nucleo originato dalla convivenza
more uxorio, pur non presentando i caratteri formali della
famiglia legittima, appariva pur sempre, secondo il principio fondamentale stabilito nell'art. 2 Cost., come una «formazione sociale» finalizzata alla funzione di crescita della
persona propria della famiglia(13).
Le conclusioni a cui pervengono i giudici di legittimità partono dal presupposto che nelle situazioni di convivenza di
fatto per le basi di fondata affezione che li saldano e gli
aspetti di solidarietà che ne conseguono, sussistono interessi meritevoli indubbiamente, nel tessuto delle realtà sociali odierne, di compiuta obiettiva valutazione.
A ben vedere, infatti, si è giustamente considerato(14) che
le limitazioni che nel nostro ordinamento derivano dal riconoscimento costituzionale della famiglia come «società
naturale» «fondata sul matrimonio»(15), non possono essere intese come un segno di totale chiusura e di riprovazione
verso vincoli non formalizzati(16).
Difatti, esclusa la possibilità di invocare la tutela di cui all'art. 29 Cost.(17), l'art. 2 della Carta fondamentale, in quanto norma volta a tutelare le formazioni sociali nelle quale si
realizza la personalità umana, risulta pienamente idonea a
dare copertura e rilievo costituzionale a tutti quei rapporti
di fatto che si formano al di fuori del modello della famiglia
legittimità.
Se, dunque, la funzione dell'art. 29 Cost. è quella di accordare tutela e preminenza esclusivamente alla famiglia legittima, ciò non significa che si debba negare rilevanza e riconoscimento alla famiglia non fondata sul matrimonio.
L'art. 2 Cost., se intesa come norma aperta e non semplicemente riassuntiva di altre(18), risulta idonea a garantire in
via immediata tutela giuridica a tutte quelle forme associative che si sviluppano nella realtà sociale in vista dello piena
realizzazione della personalità dei singoli(19).
Ed è evidente che tra le formazioni sociali degne di rilievo
va sicuramente ricompresa la famiglia di fatto, alla cui base
vi è il consenso di coloro che la compongono e il legame affettivo che unisce i conviventi(20).
Un ulteriore passo in avanti verso la c.d. «affrancazione»
della famiglia di fatto si è avuta con la successiva pronuncia
n. 404/1988, nella quale la Corte Costituzionale ha affrontato la questione della successione del convivente more uxorio nel contratto di locazione nell'ipotesi di morte del conduttore, affermando l'illegittimità costituzionale dell'art. 6,
Stampato il: 19 gennaio 2010, 9:40 AM Famiglia, Persone e Successioni 2 | 3 | Febbraio
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l. n. 392 del 1978, per violazione dell'art. 3 Cost., nella parte
in cui non prevede tra i successibili nella titolarità del rapporto di locazione anche il coniuge di fatto, al quale viene
così estesa la normativa posta a presidio dei componenti
della famiglia legittima. In particolare, i giudici costituzionali considerano che, nel contesto della l. n. 392 del 1978,
l'art. 6 specifica un regime di successione nel contratto di
locazione, che supera quello previgente, in quanto destinato a non privare dell'abitazione, immediatamente dopo la
morte del conduttore, il più esteso numero di figure soggettive, anche al di fuori della cerchia della famiglia legittima,
purché con quello abitualmente conviventi (e dunque, oltre
al coniuge, gli eredi estranei, i parenti senza limiti di grado e
finanche gli affini); in ciò esprimendosi il dovere di solidarietà sociale, che connota, da un canto, la forma costituzionale dello Stato sociale e, dall'altro, riconosce un diritto sociale all'abitazione collocabile fra i diritti inviolabili dell'uomo (art. 2 Cost., ma anche art. 25 Dichiarazione universale
dei diritti dell'uomo, art. 11 Patto internazionale dei diritti economici sociali e culturali). È, di conseguenza, irragionevole e viziata da contraddittorietà logica la previsione di
legge che, pur tutelando l'abituale convivenza, non include,
tuttavia, tra i successibili nel contratto di locazione, chi era
già legato more uxorio al titolare originario del contratto; risultando, in pari tempo, leso il diritto fondamentale all'abitazione(21).
Con la pronuncia n. 310 del 1989, la Corte costituzionale,
partendo dal presupposto che l'art. 29 Cost., pur non negando dignità a forme naturali del rapporto di coppia diverse
dalla struttura giuridica del matrimonio, riconosce alla famiglia legittima una dignità superiore in ragione dei caratteri di stabilità e certezza e della reciprocità e corrispettività
di diritti e doveri che nascono solo dal matrimonio, dichiara infondata la questione di legittimità costituzionale degli
artt. 565 e 582 c.c., nella parte in cui non equiparano - ai fini della successione legittima - il convivente more uxorio al
coniuge, in riferimento agli artt. 2 e 3 Cost.
Considera, infatti, la Corte che l'introduzione nell'ordinamento della successione legittima di una nuova fattispecie
rientra nella discrezionalità del legislatore; pertanto, la questione di legittimità costituzionale dell'art. 540, 2° co., c.c.,
sollevata sotto il profilo che il diritto di abitazione della casa
adibita a residenza familiare non è concesso al convivente
more uxorio è inammissibile, poiché costituendo il diritto di
abitazione oggetto di una vocazione a titolo particolare collegata alla qualità di legittimario, tale diritto potrebbe essere esteso al convivente more uxorio solo dal legislatore, inserendolo fra i legittimari.
Difatti, la riferibilità dell'art. 2 Cost. anche alle convivenze
more uxorio (purché caratterizzate da un grado accertato di
stabilità - vedi sent. n. 237 del 1986) non implica la garanzia ai conviventi del diritto reciproco di successione mortis
causa. Tale diritto, infatti, certamente non rientra tra i diritti inviolabili dell'uomo che sono i soli presidiati dall'art. 2
Cost.(22)
Un'occasione mancata(23) può ritenersi anche la decisione
n. 281 del 1994(24), che ha affrontato, da ultimo, il più deli-
cato problema dei rapporti tra adozione dei minori e famiglia di fatto.
In tale circostanza, la Corte ha ritenuto di non accogliere le
doglianze di costituzionalità, per violazione dell'art. 3 Cost., prospettate dal giudice a quo relativamente all'art. 6,
1° co., l. n. 184 del 1983, nella parte in cui si dispone che
gli adottanti debbano essere uniti in matrimonio da almeno tre anni, e motivate dal fatto che la norma, non prevedendo la fungibilità a detto triennio di un eguale o superiore periodo di convivenza pre-matrimoniale more uxorio,
discrimini irragionevolmente gli adottanti sposati da meno
di tre anni, ma precedentemente conviventi, proprio perché essi potrebbero addirittura offrire maggiori garanzie, in
attuazione della ratio normativa che intende privilegiare i
potenziali genitori, forti di un rapporto di coppia già sperimentato come stabile. Difatti, considera la Corte, «partendo dal presupposto dell'imprescindibilità del requisito matrimoniale ai fini dell'adozione e pur non ignorando il sempre maggior rilievo assunto dalla convivenza nel costume
sociale e la funzione che essa potrebbe assumere al fine di
comprovare la solidità del vincolo dei coniugi, nell'interesse del minore, una nuova soluzione normativa, in base alla quale, eventualmente, potrebbe richiedersi agli adottanti una durata inferiore del matrimonio, ma un consistente
periodo di convivenza precedente, comporterebbe inevitabilmente la necessità di definire i criteri oggettivi svolgenti l'analoga funzione del detto triennio post-matrimoniale,
i quali, tuttavia, per la complessità delle scelte da attuare
mediante l'interpretazione dei diversi elementi e valori di
una società in continua evoluzione, possono essere ricercati nelle sole competenze del legislatore».
In altri termini, secondo i giudici delle leggi rientra nella
discrezionalità del legislatore riconoscere alla convivenza
more uxorio alcune conseguenze giuridiche.
Del resto, afferma ancora la Corte l'aspirazione dei singoli
ad adottare non può essere ricompresa fra i diritti inviolabili
dell'uomo; pertanto, è infondata la questione di legittimità
costituzionale dell'art. 6, 1° co., l. 4.5.1983, n. 184, sollevata,
con riferimento all'art. 2 Cost., sotto il profilo che esso dispone che, ai fini dell'idoneità ad adottare i minori gli aspiranti siano uniti in matrimonio da almeno tre anni, escludendo i conviventi non sposati.
Come stato considerato(25) tale questione, per la delicatezza del caso rimesso al giudizio della Corte avrebbe meritato
una riflessione più profonda, e, forse, maggiormente compatibile, in un'ottica di giustizia sostanziale, con l'esigenza di tutela di diritti fondamentali della persona umana, tra
cui quello del minore di vivere e realizzarsi in un «ambiente moralmente e socialmente sano». Non si trattava, infatti,
di riconoscere alla coppia non sposata del diritto di adozione, che non rientra tra i diritti inviolabili dell'uomo, quanto
l'equiparazione della convivenza more uxorio alla famiglia
legittima sotto il solo profilo dei presupposti richiesti dalla
legge per accedere all'adozione.
L'evoluzione giurisprudenziale della Corte Costituzionale
ha, dunque, condotto al pieno riconoscimento della famiglia di fatto non solo come fenomeno socialmente rilevante,
Febbraio | 4 | Famiglia, Persone e Successioni 2 Stampato il: 19 gennaio 2010, 9:40 AM
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ma anche giuridicamente, trovando il proprio fondamento
normativo nell'art. 2 Cost.
1.2. Segue: l'evoluzione terminologica del fenomeno
Con l'espressione famiglia di fatto si è affermata anche dal
punto di vista semantico la piena rilevanza non solo morale,
ma anche giuridica della convivenza
La progressiva «affermazione costituzionale» della convivenza more uxorio si rileva, dunque, anche sotto il profilo
più spiccatamente terminologico.
La formula famiglia di fatto è, infatti, come si è visto, il risultato finale di una complessa storia sociale che può suddividersi in tre fasi: la prima in cui si parlava di concubinato,
espressione evidentemente dispregiativa della convivenza
more uxorio, fenomeno considerato non solo «immorale»
ma anche penalmente rilevante, in quanto il concubinato
costituiva reato, nonché causa di separazione per colpa(26).
Nella seconda fase storica si è incominciato a parlare di convivenza more uxorio con l'attribuzione seppur minima di un
riconoscimento giuridico ai diritti dei conviventi. Precisamente, sul finire degli anni sessanta, la Corte Costituzionale
è intervenuta abolendo i delitti di adulterio e concubinato
dando così il via all'utilizzo dell'espressione di convivenza
more uxorio, espressione sostanzialmente neutra(27).
La terza fase, coincidente con l'introduzione della nuova disciplina del diritto di famiglia del 1975(28), ha visto l'impiego
dell'espressione famiglia di fatto a testimonianza del repentino cambiamento sociale che ha preceduto quello di diritto(29).
L'espressione famiglia di fatto non è, dunque, solo una definizione più puntuale del fenomeno, ma anche il segno di
un profondo mutamento dell'orientamento dottrinario.
Difatti, parte della dottrina ha giustamente sottolineato la
valenza ideologica(30) insita nell'espressione: «famiglia di
fatto non è solo convivere come coniugi, è prima di tutto famiglia, portatrice di valori di stretta solidarietà, di arricchimento e sviluppo della personalità di ogni componente e di
educazione ed istruzione della prole, che erano finora considerati esclusivi della famiglia fondata sul matrimonio»(31).
1.3. Segue: settorialità della disciplina normativa
Nonostante il rilevo sociale e giuridico (ormai acquisito)
della famiglia di fatto al momento attuale, non vi è una disciplina organica apprestata dal legislatore al riguardo. Nel
corso degli anni si sono susseguiti diversi interventi normativi che, lungi dal formare un puzzle ben costruito, hanno
approntato una disciplina e una tutela ramificate.
A tal riguardo può risultare utile la seguente elencazione,
non completa, ma espositiva di quella frammentarietà e settorialità dell'operato del legislatore in materia di famiglie di
fatto.
In particolare si ricordano: - la l. n. 356/1958, sull'assistenza
a favore dei figli naturali non riconosciuti dal padre caduto
in guerra, quando il padre e la madre abbiano convissuto
more uxorio nel periodo del concepimento, senza aver potuto poi contrarre matrimonio a causa di fatti bellici; - l'art.
42, l. n. 313/1968, la quale parifica ai fini pensionistici alla
moglie la donna che convive da almeno un anno con un mi-
litare deceduto a causa di guerra; - in materia di istituzione
di consultori familiari, l'art. 1 L. n. 405/1975 individua come
destinataria del servizio di assistenza della famiglia la «coppia», riferendosi pertanto anche ai partner conviventi more uxorio; - l'art. 30, 1° co., l. n 354/1975 che sancisce a favore dei condannati e degli internati, dei permessi nel caso
vi sia un imminente pericolo di vita di un loro familiare o
convivente; - la l. 22.5.1978, n. 194, sull'interruzione volontaria della gravidanza che, all'art. 5, prevede la partecipazione al procedimento della persona indicata come padre
del concepito, a prescindere che sia o meno unito in matrimonio con la donna; - l'art. 6, l. 27.7.1978 n. 392, dichiarato
incostituzionale (sent. C. Cost. 7.4.1988, n. 404), nella parte
in cui non prevedeva, tra gli aventi diritto alla prosecuzione del rapporto locativo dopo la morte del titolare, anche il
convivente more uxorio, nonché nella parte in cui non prevedeva la successione nel contratto al conduttore che avesse cessato la convivenza, a favore del già convivente quando
sussiste prole; - l'art. 45, l. 4.5.1983, n. 184 (Disciplina dell'adozione e dell'affidamento dei minori), sostituito dall'art.
26, l. n. 149/2001, in cui si sancisce l'ammissibilità dell'adozione da parte della coppia non coniugata qualora non
sia praticabile l'affidamento preadottivo; - l'art. 199 c.p.p., il
quale estende la facoltà, prevista a favore dei prossimi congiunti dell'imputato, di astenersi dal deporre come testimone, anche per chi convive o abbia convissuto con il medesimo; - l'art. 4, d.p.r. n. 223/1989, che agli effetti anagrafici
considera rilevante anche la famiglia non fondata sul matrimonio; una famiglia intesa come «insieme di persone legate da vincoli affettivi, coabitanti e aventi dimora abituale
nello stesso Comune». - la l. 20.10.1990, n. 302 (Norme a favore delle vittime del terrorismo e della criminalità organizzata), all'art. 4 ha esteso al convivente more uxorio il diritto
di richiedere le provvidenze, come accordato in favore delle vittime del terrorismo e della criminalità organizzata; - la
l. n. 82/1991, sui collaboratori di giustizia, in cui si prevede
che siano usate le stesse misure di protezione nei confronti
del coniuge o del convivente; - l'art. 17, l. 17.2.1992, n. 179,
con riferimento alle cooperative a proprietà indivisa, nella
quale viene previsto che in mancanza del coniuge o figli minorenni, il convivente more uxorio si sostituisca in qualità
di socio e di assegnatario, al socio che muoia dopo l'assegnazione dell'alloggio; - l'art. 572 c.p., in materia di maltrattamenti in famiglia o verso fanciulli, in cui viene considerata famiglia non soltanto quella legittima, ma si dice che
per la configurabilità del reato non è necessaria l'esistenza
di vincoli di parentela civili o naturali, ravvisandosi un rapporto stabile di comunità familiare (che è l'oggetto della tutela garantita dalla norma) anche nei riguardi di una persona convivente more uxorio; - l'art. 317 bis c.c., il quale attribuisce ai genitori naturali conviventi l'esercizio congiunto
della potestà parentale sui figli, sancendo in siffatto modo
la rilevanza sociale del fenomeno della convivenza di fatto;
- l'art. 342 bis ss. c.c. in cui vengono previste le stesse forme
di protezione contro la violenza in famiglia anche rispetto
ai meri conviventi; - l'art. 6, 4° co., l. n. 184/1983, sostituito
dall'art. 6, l. n. 149/2001, che tiene conto della convivenza
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stabile e continuativa che ha preceduto il matrimonio per
determinare l'idoneità della coppia all'adozione; - l'art. 417
c.c., così come modificato dalla l. n. 6 del 2004, e richiamato dall'art. 406 c.c. in tema di amministrazione di sostegno,
laddove si prevede che legittimato alla proposizione dell'istanza di interdizione o inabilitazione sia anche la persona
stabilmente convivente; - l'art. 5, l. 19.2.2004, n. 40, che attribuisce la possibilità di accedere alle tecniche di procreazione medicalmente assistita alle coppie di sesso diverso, coniugate o conviventi, in età parzialmente fertile, entrambi
viventi; - l'art. 129, d.lg. 7.9.2005, n. 209 (Codice delle assicurazioni private), che equipara, ai fini dell'esclusione, limitatamente ai danni alle cose, dai benefici derivanti dai contratti di assicurazione obbligatoria, il convivente more uxorio al coniuge non legalmente separato.
Si potrebbero riportare altri interventi - tutti settoriali - susseguitisi in subiecta materia, ma, in realtà, non è di per sé
rilevante richiamarli tutti; ciò che è importante, invece, far
emergere la progressiva attenzione normativa del fenomeno e la necessità di una regolamentazione organica e d'insieme del fenomeno.
2. La validità degli accordi di convivenza ex art. 1322 c.c.
Sui possibili diritti ed interessi che possono formare oggetto di tali accordi
La famiglia legittima, o meglio il suo contenuto essenziale,
costituisce il modello al quale ancorare l'individuazione di
una famiglia di fatto, nel senso che solo quelle forme di convivenza che si nutrono di un contenuto simile a quello matrimoniale possono essere degne di tutela giuridica. La necessità di ravvisare comportamenti analoghi a quelli previsti dall'art. 143 c.c. per poter configurare una famiglia di fatto, nondimeno, depone soltanto nel senso di una doverosità
morale sociale, e non giuridica, di tali comportamenti(32).
È evidente, infatti, che quelli che sono obblighi legali per i
coniugi, nella famiglia di fatto sono invece espressione dell'autonomia dei conviventi. L'osservanza in concreto di regole analoghe a quelle in base alle quali l'art. 143 c.c. organizza l'insieme dei rapporti coniugali costituisce un vero e
proprio indice oggettivo necessario per qualificare una certa situazione come famiglia di fatto(33).
In realtà non è mancato chi ha sostenuto l'applicabilità in
via analogica delle disposizioni che governano i rapporti
personali tra i coniugi(34). Tuttavia, l'orientamento più diffuso esclude che possano concepirsi controversie concernenti rapporti personali; si è giustamente sostenuto infatti
come ogni questione ad essi attinente, se non risolta spontaneamente, determini una pura e semplice cessazione della convivenza e dunque l'insorgenza di eventuali questioni
patrimoniali(35).
È evidente, infatti, che la comunione di vita che informa
la famiglia di fatto non possa non comportare ripercussioni sul piano strettamente patrimoniale, nel senso di creare
un'interazione tra due sfere patrimoniali precedentemente
distinte. La relazione affettiva, dunque, determina l'intrecciarsi dei patrimoni facenti capo ai conviventi i quali, in misura più o meno marcata, paiono destinati a soddisfare le
esigenze derivanti dal vivere insieme come coniugi. Di qui
la necessità di precisare la natura e il regime applicabile all'elargizione effettuata da un convivente all'altro per provvedere ai bisogni conseguenti alla vita comune. Si tratta, in
buona sostanza, di capire, ad esempio, se il convivente che
non sia stato parte del contratto di acquisto di un bene possa vantare qualche pretesa sul piano della titolarità o, quantomeno, sotto il profilo obbligatorio; e, inoltre, se ciò possa
avvenire per il sol fatto che un bene sia stato acquistato durante una convivenza o in virtù di una contribuzione o collaborazione fornita.
In mancanza di una disciplina assimilabile a quella dettata per i coniugi, il settore dei rapporti patrimoniali palesa
emergenze bisognose di tutela, che si manifestano in tutta
la loro evidenza nella fase della cessazione della convivenza. Infatti, la rottura del rapporto costituisce il momento di
maggiore conflittualità, durante il quale si manifestano tutti i nodi problematici della fattispecie(36). Appare evidente
allora il ruolo di primaria importanza che può assolvere il
contratto, a seconda dei casi individuato come strumento
esclusivo alternativo o concorrente di tutela.
L'indagine è, pertanto, diretta a verificare se nell'ordinamento italiano sia possibile riconoscere validità agli accordi
di convivenza, in assenza di una legge specifica a riguardo.
La giurisprudenza nelle poche pronunce emesse fornisce
un responso positivo riconoscendo validità agli accordi stipulati ex art. 1322 c.c. Si ammette, quindi, la possibilità per
le parti di stipulare contratti atipici sia pur diretti a realizzare interessi meritevoli di tutela(37).
È necessario, tuttavia, precisare che i contratti di convivenza more uxorio non vanno intesi come accordi con cui due
persone si impegnano a vivere come coppia; ogni patto di
carattere personale è estraneo alla regolamentazione contrattuale.
Tale espressione si riferisce, invece, a tutti quei patti patrimoniali con i quali i conviventi, sul presupposto del rapporto di convivenza, concludono al fine di regolare i rispettivi rapporti economici, cercando di prevenire eventuali problemi di conduzione del «ménage familiare» che potrebbero insorgere durante l'unione(38).
L'accordo sulla gestione economica del rapporto ha, pertanto, una sua autonomia rispetto all'impegno di convivere
e pertanto neppure una immoralità di quest'ultimo può riverberare i suoi effetti sul primo. La causa del contratto risiede, come già detto, non nel legame more uxorio in sé, ma
nell'impegno di adempiere alle reciproche obbligazioni naturali(39).
In tali termini si espressa la Suprema Corte: «la convivenza more uxorio tra uomo e donna di stato libero non costituisce causa di illiceità e quindi di nullità di un contratto
attributivo di diritti patrimoniali dell'uno a favore dell'altro o viceversa solo perché tale contratto sia collegato a tale relazione, in quanto tale convivenza, ancorché non disciplinata dalla legge, non è illecita non potendo considerarsi di per sé contraria né a norme imperative, non esistendo
norme di tale natura che la vietino; né all'ordine pubblico,
che comprende i principi fondamentali informatori dell'ordinamento; né al buon costume inteso, a norma delle dispo-
Febbraio | 6 | Famiglia, Persone e Successioni 2 Stampato il: 19 gennaio 2010, 9:40 AM
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sizioni di cui agli artt. 1343 e 1354 c.c., come il complesso dei
principi etici costituenti la morale sociale in un determinato tempo e in un determinato luogo»(40).
Tali contratti, pertanto, non contrastano né con l'ordine
pubblico, né con il buon costume(41) allorquando emerge
che l'intento dei partners è quello di garantire reciprocamente il proprio futuro, ponendo le basi economiche per la
costituzione di una comunità familiare anche solo di fatto.
Difatti, a ben vedere, nessun principio d'ordine pubblico
(ex art. 1343 c.c.) sembra opporsi all'eventuale stipula di un
contratto tra conviventi more uxorio; diverso è, tuttavia, il
discorso in relazione ai contenuti che potrebbero costituire
l'oggetto dell'atto di autonomia privata.
Una violazione dell'ordine pubblico potrebbe, infatti, ravvisarsi qualora si inseriscano nel contratto aspetti a carattere
meramente personale, come i doveri di fedeltà, di assistenza morale, di collaborazione e di coabitazione. In realtà, l'esclusione di qualsiasi vincolo di tipo personale dai possibili
oggetti dei contratti di convivenza è già desumibile dal fatto
che, difettando gli stessi del requisito della patrimonialità,
non possono qualificarsi come «prestazione» ai sensi dell'art. 1174 c.c., e, di conseguenza, non possono essere dedotti in un contratto ai sensi dell'art. 1321 c.c.(42).
Il richiamo ai principi dell'ordine pubblico è, dunque, d'obbligo nel caso in cui si cerchi di imporre il rispetto di vincoli
di tale natura per via indiretta: ad esempio, mediante la previsione di una clausola penale (ex art. 1382 c.c.). La previsione di una tale clausola, pur permettendo di «patrimonializzare» gli impegni personali dei conviventi, rendendoli idonei a costituire oggetto di un contratto, non consentirebbe
al contratto stesso di sfuggire alla declaratoria di nullità per
violazione dell'ordine pubblico in quanto lesivo della libertà personale dei contraenti.
Una volta ammessa, in via generale, la possibilità di accordi
tra conviventi more uxorio volti alla regolamentazione dell'assetto economico da applicare alla vita in comune, è necessario indagare quali siano, in concreto, i singoli rapporti
patrimoniali che possono formare oggetto di regolamentazione pattizia tra i conviventi.
Nelle numerose pronunce e sentenze dedicate alla famiglia
di fatto, risulta evidente come gli interessi che i conviventi
trattano nei loro accordi si possano ricondurre nell'ambito
di due definite fattispecie: quella relativa ai rapporti patrimoniali tra le parti e quella relativa alle decisioni riguardanti i figli nati durante l'unione.
Una delle questioni più interessanti si è posta in tema di validità del diritto di usufrutto su di un immobile concesso dal
convivente durante la relazione affettiva, venuta successivamente a cessare. In merito si è pronunciato il Tribunale di
Savona che, sulla base di motivazioni inquadrate nell'ambito di quel fenomeno definito come di «contrattualizzazione» del diritto di famiglia, ha fornito risposta positiva(43).
Secondo il giudice di merito i contratti in forza dei quali i
conviventi danno un qualche assetto al loro rapporto sono
da ritenersi leciti e validi quali contratti atipici secondo i canoni dell'art. 1322 c.c.(44).
Tra i possibili contenuti dei contratti di convivenza la dottrina italiana è, inoltre, orientata ad ammettere accordi aventi
ad oggetto l'impegno unilaterale di mantenimento da parte
di un convivente a favore di quello più bisognoso.
Rientrano in tale schema negoziale quei contratti volti alla
contribuzione dei bisogni comuni.
I dubbi sono sorti quando l'accordo tra i conviventi venga
raggiunto solo verbalmente, ed è evidente che i problemi
crescono maggiormente allorquando si è in presenza di reciproche pretese restitutorie che i partners fanno valere alla
cessazione della loro convivenza.
In tale evenienza, non è possibile dare una risposta univoca, ma è necessario individuare soluzioni diverse tenendo
conto delle peculiarità del caso concreto.
Ad ogni buon conto, gli accordi non scritti non possono assumere valenza assoluta, in quanto si deve tener conto della necessità di una interpretazione secondo buona fede del
contratto, improntato ad un principio di solidarietà e lealtà
contrattuale, proprio per l'esigenza di garantire e di preservare il ragionevole affidamento che ciascuna parte attribuisce al contenuto dell'accordo o di talune sue parti(45).
2.1. Le regole applicabili nelle attribuzioni patrimoniali
tra conviventi
In tutti quei casi i cui i conviventi non abbiano preventivamente deciso come gestire i loro comuni affari familiari, ovvero in tutti quei casi in cui non si siano accordati verbalmente o non abbiano, per esempio, stipulato contratti di
usufrutto a favore dell'altra parte, essi saranno costretti a
ricercare rimedi alternativi al regime convenzionale, come
appunto l'obbligazione naturale o l'impresa familiare, al fine di giustificare le reciproche attribuzioni.
In questa prospettiva emerge come nella convivenza si possa positivamente attingere non solo come causa degli accordi stipulati, ma anche come causa delle attribuzioni patrimoniali che i conviventi vicendevolmente si siano scambiati nel corso del loro rapporto.
I contributi patrimoniali dei conviventi non sono stati, però,
considerati sempre alla stessa stregua, in quanto in un primo momento la Cassazione ha accostato le attribuzioni patrimoniali alle donazioni remuneratorie, per poi riconsiderare tali apporti come obbligazioni naturali(46) o liberalità
d'uso(47).
La qualificazione delle attribuzioni patrimoniali tra conviventi, da sempre oggetto dell'attenzione degli interpreti,
non è di poco rilievo giacché, a seconda della disciplina ritenuta applicabile, l'attribuzione potrebbe essere o meno
soggetta alle regole in tema di forma della donazione, collazione, riduzione, revocatoria(48).
La questione relativa alle elargizioni corrisposte durante la
convivenza - da oltre quarant'anni - è stata impostata configurando un vero e proprio dovere morale di assistenza in
capo a ciascuno dei conviventi.
Si è, dunque, ritenuto esistente un vero e proprio obbligo
di natura sociale di contribuzione in favore della convivente(49).
Stampato il: 19 gennaio 2010, 9:40 AM Famiglia, Persone e Successioni 2 | 7 | Febbraio
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Ed è evidente che, una volta avvenuto l'adempimento in
modo spontaneo, si è giunti ad attribuire alla prestazione
effettuata una rilevanza non solo sociale ma anche giuridica mediante la possibilità di invocare la soluti retentio: si veniva, difatti, a configurare una vera e propria obbligazione
naturale(50).
Allo schema dell'obbligazione naturale, dunque, la giurisprudenza ormai da tempo-superando l'originario inquadramento nell'ambito della donazione remuneratoria - fa
riferimento ogniqualvolta si tratta di decidere in ordine alla richiesta di restituzione di somme corrisposte da un convivente a favore dell'altro durante il rapporto. Peraltro, il
predetto schema è configurabile solo allorquando la prestazione costituisca adempimento dei doveri morali scaturenti
dalla convivenza suscettibili di essere adempiuti mediante
una prestazione di carattere patrimoniale.
Conseguentemente, l'attribuzione patrimoniale a favore
del convivente non costituisce sempre e comunque l'adempimento di un dovere morale, ben potendo essere espressione della volontà di conformarsi agli usi o sottendere lo
spirito di liberalità o, ancora, essere collocata dalle parti, nonostante la relazione affettiva, nell'alveo dell'onerosità.
Affinché sia in concreto configurabile un'obbligazione naturale, d'altra parte, occorre che la prestazione sia proporzionata al dovere morale di cui costituisce esecuzione; secondo un costante orientamento giurisprudenziale, infatti,
«un'attribuzione patrimoniale a favore del convivente more
uxorio può configurarsi come adempimento di un'obbligazione naturale allorché la prestazione risulti adeguata alle
circostanze e proporzionata all'entità del patrimonio e alle
condizioni sociali del solvens»(51).
Ciò che è rilevante sottolineare è come si sia progressivamente passati da una concezione di tipo «indennitaria» ad
un'altra di stampo solidaristico, che trae la sua fonte nella reciprocità dell'obbligazione naturale e nell'affidamento
che entrambi i conviventi ripongono sulla stabilità dell'unione di fatto(52).
Tale evoluzione è, evidentemente, da ricollegarsi al mutamento sociale e al pieno riconoscimento morale ed ideologico della famiglia di fatto.
L'accresciuta sensibilità nei confronti di istanze solidaristiche, il mutato ruolo della donna nonché l'inquadramento
sistematico della famiglia di fatto all'interno della categoria
delle formazioni sociali costituzionalmente garantite hanno prodotto un mutamento nell'orientamento della giurisprudenza proprio sul punto della complessiva valutazione
del fenomeno.
Si tratta di un atteggiamento che emerge anche a livello di
regole applicative declinate, dove, pur ribadendo l'esclusione di qualsivoglia pretesa di mantenimento o di contribuzione legalmente azionabile, si osserva che il fondamento dell'obbligazione naturale viene individuato non già in
un obbligo di tipo rimediale per un pregiudizio subito dalla stessa convivenza, ma in un dovere morale di assistenza
assimilabile, in un certo senso, al dovere posto a carico dei
coniugi dall'art. 143 c.c.(53).
2.2. Segue: liberalità d'uso
Particolarmente complesso appare qualificare le attribuzioni eseguite nell'ambito della convivenza in termini di liberalità d'uso.
Si tratta di stabilire se l'autore possa pretenderne la restituzione, una volta cessata la convivenza.
I dubbi derivano in considerazione di una decisa presa di
posizione della Corte di Cassazione la quale, con riguardo
a una fattispecie in cui vi era stata un'elargizione di gioielli
di rilevante importo fatta allo scopo di consentire la prosecuzione del rapporto, nel confermare la pronuncia d'appello, ha affermato che in detto caso si è fuori dalla liberalità
d'uso «caratterizzata dal fatto che colui che la compie intende osservare un uso, cioè adeguarsi ad un costume vigente nell'ambiente sociale di appartenenza, costume che determina, anche, la misura dell'elargizione in funzione della
diversa posizione sociale delle parti, delle diverse occasioni ed in proporzione delle loro condizioni economiche, nel
senso che, comunque, la donazione non debba comportare un depauperamento apprezzabile del patrimonio di chi
la compie»(54). Con la conseguenza che il dono deve essere
qualificato come donazione, nulla per difetto di forma ogniqualvolta manchi l'atto solenne.
Tale conclusione del Supremo Collegio è stata oggetto di vivaci critiche, atteso che non pienamente rispettoso del contesto (convivenza stabile e duratura) nel quale tali doni erano avvenute.
Del resto, il ricorso allo schema dell'obbligazione naturale
– ovvero della liberalità d'uso – era diretto a tutelare il convivente c.d. debole, segnatamente la donna, la quale al termine della convivenza si vedeva sovente costretta a restituire le elargizioni ricevute sul presupposto che, trattandosi di
donazioni, quasi mai veniva rispettato il requisito della forma solenne(55).
L'obiettivo perseguito dalla giurisprudenza era dunque evidente ed è stato peraltro agevolato, sotto il profilo dei rapporti sociali, dal progressivo venir meno del giudizio di disvalore che ha caratterizzato per lungo tempo l'unione non
fondata sul matrimonio.
Va, pertanto, criticata tale decisione in quanto fondata su
un eccessivo formalismo del dato normativo, senza tener
conto dell'esigenza che sorge tra due persone legate stabilmente da un solido vincolo affettivo di scambiarsi validamente doni anche di rilevante valore – senza incorrere nella
sanzione della nullità della dazione – allorquando lo scambio non rivesta la forma sacramentale codicisticamente richiesta.
2.3. Segue: prestazioni lavorative nell'ambito della famiglia di fatto
Un'ulteriore modalità con la quale i conviventi gestiscono le
reciproche entità patrimoniali va individuata nelle prestazioni lavorative che talora essi compiono a vantaggio reciproco l'uno dell'altra, soprattutto mediante quella situazione, piuttosto diffusa nell'esperienza quotidiana, rappresentata dalla partecipazione nello studio professionale o nell'impresa del partner.
Febbraio | 8 | Famiglia, Persone e Successioni 2 Stampato il: 19 gennaio 2010, 9:40 AM
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Lo strumento contrattuale appare come l'unica tutela preventiva rispetto a chi ha convissuto per anni ma non ha preferito regolare pattiziamente il proprio legame.
Si tratta a questo punto di individuare la posizione che il diritto assume in riferimento a tali prestazioni lavorative e nel
comprendere se per l'ordinamento siano considerate come
attività meramente gratuite oppure a carattere oneroso.
L'evoluzione della giurisprudenza si snoda in due momenti storici: da un lato vanno considerate le posizioni assunte
prima dell'entrata in vigore dell'art. 230 bis c.c., introdotto dalla legge di riforma del diritto di famiglia e che pone il
principio della normale remunerabilità del lavoro familiare; dall'altro quelle intervenute in un momento successivo e
sulle quali, ovviamente, ha inciso il contenuto del suddetto
articolo(56).
La prima sentenza in subiecta materia, risale ad anni addietro la riforma del diritto di famiglia.
Si tratta di una pronuncia della Corte d'Appello di Milano, la
quale ha sostenuto che chiunque avesse prestato una propria attività a favore altrui ha diritto di essere compensato
indipendentemente dai rapporti di altra natura che possono intercorrere tra il datore di lavoro e il prestatore(57). È
pertanto ammissibile l'esistenza di un rapporto di lavoro tra
uomo e donna conviventi more uxorio, quando sia accettata l'esistenza dell'animus contrahendi.
Alcuni anni dopo la Suprema corte afferma, invece, che l'attività lavorativa resa dalla donna nell'azienda del proprio
compagno, in costanza quindi di convivenza more uxorio,
debba necessariamente presumersi come gratuita, dal momento che, in relazione alle modalità della fattispecie, risulta evidente che la predetta attività di lavoro era stata esplicata a puro titolo di beneficienza(58).
Traendo alcune prime, seppur parziali, conclusioni prima
dell'entrata in vigore dell'art. 230 bis c.c., la giurisprudenza si era assestata sulla presunzione relativa di gratuità nei
rapporti di lavoro tra coniugi, la quale trovava applicazione
anche per i conviventi more uxorio.
Tale orientamento della giurisprudenza tuttavia portava
a conclusioni, in talune fattispecie, oggettivamente inique(59).
Con l'introduzione del concetto di impresa familiare, pur in
presenza di una norma apparentemente esplicita, la giurisprudenza ha iniziato ad interrogarsi sulla sua applicabilità anche alla famiglia di fatto, visto il contenuto particolare
dell'art. 230 bis c.c. il quale tutela il lavoro del familiare nella
famiglia o nell'impresa(60).
L'art. 230 bis c.c. ha introdotto, dunque, nel nostro ordinamento la figura dell'impresa familiare, la quale ha comportato un ribaltamento della posizione della giurisprudenza;
si è passati, infatti, dalla presunzione di gratuità del lavoro
prestato in comune, alla presunzione di onerosità in un rapporto non di subordinazione, bensì parasocietario.
Analoghi problemi si pongono ovviamente nell'ambito della convivenza. La prima questione che si è posta, quindi,
è stata quella di accertare se fossero applicabili anche al
convivente lavoratore le disposizioni di garanzia, contenute
nell'art. 230 bis c.c. in tema di impresa familiare.
La Suprema Corte chiamata a pronunciarsi sulla questione
all'indomani della riforma del diritto di famiglia, ha sostenuto l'inapplicabilità dell'art. 230 bis c.c. ai conviventi more
uxorio(61).
I giudici di legittimità hanno ribadito l'inestensibilità della
disciplina legislativa al convivente, sulla base del rilievo che
«elemento saliente dell'impresa familiare e della sua disciplina non è l'apporto lavorativo, che è ravvisabile in qualunque rapporto di lavoro, né i legami affettivi, ma la famiglia
in senso chiaro e legittimo individuata nei più stretti congiunti».
L'atteggiamento di chiusura è rimasto sostanzialmente immutato anche se si sono fatte strada nel tempo alcune pronunce interessanti di apertura(62).
Appurato che la giurisprudenza esclude nettamente l'applicazione analogica alla famiglia di fatto dell'art. 230 bis c.c. e
quindi di quella norma che sancisce la presunzione di onerosità del lavoro familiare, va sottolineato, che non qualunque convivenza soggiace alla presunzione di gratuità delle
prestazioni lavorative, ma solo quella che si fonda su una
solida affectio coniugalis(63).
La Cassazione ha infatti stabilito che «la presunzione di gratuità delle prestazioni lavorative svolte in seno alla famiglia
di fatto può essere affermata soltanto in presenza di una
convivenza contraddistinta dalla comunanza spirituale ed
affettiva e dall'equa ed effettiva partecipazione dei conviventi alle risorse della famiglia di fatto»(64).
In sostanza, quindi, se il rapporto si fonda su di una profonda comunanza di affetti e se non sia fornita la dimostrazione dei requisiti della subordinazione e della onerosità della
prestazione, allora quest'ultima dovrà presumersi necessariamente gratuita, salva appunto la prova della sua onerosità(65).
Va dato atto, in ogni caso, dell'esistenza di una giurisprudenza di merito, per cosi dire «illuminata» o semplicemente
più sensibile, favorevole all'estensione dell'art. 230 bis c.c.
alle prestazioni lavorative rese nell'ambito della famiglia di
fatto(66).
2.4. Segue: rapporti patrimoniali e trust
È noto che l'ingresso del trust nel nostro ordinamento è avvenuto con la ratifica della Convenzione dell'Aia del 1985 (l.
16.10.1989, n. 364).
Con la ratifica della Convenzione, posto il principio generale che riconosce la tutelabilità dell'atto di autonomia privata in quanto volto a perseguire interessi meritevoli di tutela,
ai sensi dell'art. 1322 c.c., è stata risolta ogni questione circa l'ammissibilità del trust, sia internazionale che interno,
come confermato, dopo alcune iniziali perplessità, dal prevalente orientamento dottrinale e giurisprudenziale di merito(67).
La causa del negozio istitutivo di trust è il programma di
«segregazione» (art. 11 Convenzione) di una o più posizioni soggettive, o di un complesso di posizioni soggettive unitariamente considerato (beni del trust), delle quali il disponente si spogli, o trasferendole a un terzo (il trustee), o isolandole giuridicamente nel proprio patrimonio, per la tute-
Stampato il: 19 gennaio 2010, 9:40 AM Famiglia, Persone e Successioni 2 | 9 | Febbraio
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la di interessi che l'ordinamento ritiene meritevoli di tutela
(scopo del trust).
Invero, il nostro ordinamento già contempla in numerose
disposizioni fattispecie di segregazione patrimoniale.
Una di queste ipotesi è ravvisabile nel fondo patrimoniale
ex art. 167 c.c. che consente ai coniugi o ad un terzo di destinare determinati cespiti al fine specifico dei bisogni della
famiglia.
L'art. 170 esclude la possibilità di aggredire il fondo patrimoniale, a meno che il terzo creditore non agisca per il pagamento di debiti contratti per il bisogno familiare.
Orbene, come è stato rilevato, analoga sembra essere la situazione costituita dal trust, che prevede la sussistenza di
una porzione patrimoniale separata e destinata, ex art. 2
Convenzione dell'Aia, al raggiungimento di uno scopo specifico ovvero alla soddisfazione dell'interesse del beneficiario.
Altro caso di segregazione patrimoniale ex lege è quello previsto dall'art. 1707 c.c. che vieta ai creditori del mandatario
che ha agito in assenza di contemplatio domini l'escussione dei beni mobili o immobili acquistati in esecuzione del
mandato, fatte salve alcune prescrizioni sottese alla tutela
dell'affidamento dei creditori.
Ancora, in materia di successioni mortis causa, i creditori personali dell'istituto possono soddisfarsi sui beni costituenti oggetto della sostituzione fede commissaria solo limitatamente ai frutti civili e naturali, in virtù dell'espresso
disposto dell'art. 695 c.c.
Dall'effetto segregativo nel patrimonio del trustee consegue
l'impossibilità per i creditori di quest'ultimo di attaccare i
beni trasferiti, ovvero di sottoporli a sequestro o pignorarli –
alla stessa stregua dei beni costituiti in fondo patrimoniale
– fino a che sia vigente ed operativo il vincolo del trust o fino
a che il vincolo non venga caducato per effetto di annullamento o revocazione del negozio costitutivo(68).
Ai sensi dell'art. 13 Convenzione dell'Aja è possibile, però,
negare il riconoscimento di un trust «interno» (il cui «centro di gravità» non presenta elementi di estraneità rispetto all'ordinamento italiano, sebbene la disciplina sia costituita da una legge regolatrice straniera) nel caso in cui il ricorso all'istituto e alla disciplina straniera appaia fraudolento, volto, cioè, a creare situazioni in contrasto con l'ordinamento in cui il negozio deve operare(69). Ciò che il Giudice deve valutare, pertanto, è se l'atto istitutivo del trust è
(o non è) portatore di interessi che sono meritevoli di tutela per l'ordinamento giuridico senza limitarsi alla semplice
definizione dello «scopo», ma estendendo l'analisi al «programma» che si è prefissato il disponente nel momento in
cui ha deciso di dar vita al trust.
Orbene, poiché come è noto ai conviventi more uxorio non
vengano riconosciuti diritti connaturati all'esistenza di un
rapporto duraturo e stabile, ma che - non di meno - la tutela della prole e degli assetti patrimoniali nell'interesse degli stessi costituiscono elementi degni di rilievo(70), si ritiene che l'assenza di un vincolo parentale e di una situazione di certezza di rapporti giuridici non impediscano di ritenere meritevole lo strumento del trust al fine di concedere
una tutela, altrimenti inesistente, ai genitori ed ai figli, nati
prima o in costanza di questo rapporto di fatto. Si è inteso
cioè affermare che la segregazione di un patrimonio nel dichiarato intento di apprestare una tutela economica e di assistenza ad una famiglia di fatto, che non sarebbe altrimenti
assicurabile in forme neanche lontanamente simili a quelle
del fondo patrimoniale, rappresenta quel quid che consente di ritenere apprezzabile lo strumento del trust in subiecta
materia. ■
(*) Annunziata è l'autore dei par. 1, 1.2., 2.1. e 2.4.; Iannone è l'autore dei
par. 1.1., 2., 2.2. e 2.3.
(1) In tal senso si veda Cassano, Evoluzione sociale e regime normativo della
famiglia. Brevi cenni per le riforme del terzo millennio, in Dir. famiglia, 2001,
3, 1160 ss., il quale opportunamente osserva come nel settore del diritto di
famiglia il giudice debba partecipare attivamente e con contributo creativo
al processo di individuazione della norma applicabile alla vicenda concreta (c.d. approccio di psicologia giudiziaria). Nella moderna teoria dell'interpretazione questo fenomeno viene definito con la suggestiva espressione di
precomprensione.
(2) D'angeli, Profili della famiglia di fatto: la fattispecie, in Rass. dir. civ.,
1988, 225 ss.
(3) Per Carbonnier, «Non diritto come scelta individuale» («Flexible droit.
Textes pour une sociologie du droit sans rigeuer»), Paris, 1979, 4ª ed., 27
(4) D'angeli, Profili della famiglia di fatto: la fattispecie, cit., 231 ss.
(5) Per un approfondimento in tema di famiglia di fatto, v. Finocchiaro,
Convivenza extraconiugale e convivenza more uxorio. Differenze (ai fini del
diritto all'assegno di divorzio), in Giust. civ., 2002, 1001; cfr. inoltre Digregorio, Convivenza more uxorio e successione: nuovi spunti di riflessione, in
Giur. it., 2004, 532.
(6) Cicu, Il diritto di famiglia, Roma, 1914, rist. con Lettura di Sesta, Bologna, 1978, 91.
(7) Giacobbe, Famiglia: molteplicità di modello o unità categoriale? in Dir.
famiglia 2006, 3. 1219.
(8) In tal senso Cass., 8.2.1977, n. 556, in Giur. it., 1977, I, 1, c. 833
(9) Cfr. Bessone, Alpa, D'Angelo, Ferrando, La famiglia nel nuovo diritto,
Bologna, 1977, 56.
(10) Anche se la dottrina più sensibile denuncia la mancanza di un'effettiva
equiparazione; cfr. da ultimo Bianca, Dove va il diritto di famiglia?, in Familia, 2002, 3 ss. L'Autore mette in evidenza come non tutte le discriminazioni
siano state cancellate con la riforma. La più importante è quella a carico dei
figli irriconoscibili, destinati a rimanere «figli di nessuno». Una residuale discriminazione colpisce anche i figli naturali riconosciuti, che se hanno uguali
diritti e doveri verso i genitori, sono, invece, privati del diritto di parentela,
non sono, cioè, «parenti dei parenti dei loro genitori», cosa che si riflette soprattutto in tema di successioni. La Corte Costituzionale nella sentenza n. 55
del 4.7.1979 (in Foro it., 1980, c. 908, con nota di Dogliotti) ha, però, dichiarato l'incostituzionalità dell'art. 565 c.c. poiché non prevedeva la successione tra fratelli naturali. Ha, poi, cambiato orientamento in una sentenza del
1990 e ribadito recentemente nella sentenza n. 532 del 15.11.2000 l'esclusione della parentela naturale dalla successione legittima.
(11) C. Cost., 18.11.1986, n. 237 «è infondata la questione di legittimità costituzionale degli art. 307, 4° co., e 384, 1° co., c. p., nella parte in cui non prevedono che l'operatività dell'esimente di cui all'art. 384 si estenda altresì al
convivente more uxorio, in riferimento all'art. 29 Cost.»; «L'art. 29 - come del
resto fu pressoché univocamente palesato in sede di Assemblea Costituente - riguarda la famiglia fondata sul matrimonio, cosicché rimane estraneo
al contenuto delle garanzie ivi offerte, ogni altro aggregato pur socialmente
apprezzabile, divergente tuttavia dal modello che si radica nel rapporto coniugale», in Foro it., 1987, I, c. 2353; Dir. famiglia, 1987, 28. In un passo successivo della pronuncia la Corte, tuttavia, afferma che: «In effetti, un consolidato rapporto, ancorché di fatto, non appare - anche a sommaria indagine - costituzionalmente irrilevante quando si abbia riguardo al rilievo offerto al riconoscimento delle formazioni sociali e alle conseguenti intrinseche
manifestazioni solidaristiche (art. 2 Cost.). Tanto più - in ciò concordando
con i giudici remittenti - allorché la presenza di prole comporta il coinvolgimento attuativo d'altri principi, pur costituzionalmente apprezzati: mantenimento, istruzione, educazione. In altre parole, si è in presenza di interessi suscettibili di tutela, in parte positivamente definiti (si vedano ad es. gli
artt. 250 e 252 c.c. nel testo novellato con la l. 19.5.1975, n. 151), in parte da
definire nei possibili contenuti. Comunque, per le basi di fondata affezione
che li saldano e gli aspetti di solidarietà che ne conseguono, siffatti interessi
appaiono meritevoli indubbiamente, nel tessuto delle realtà sociali odierne,
di compiuta obiettiva valutazione». Tale pronunzia ha posto in evidenza la
necessità di una tutela non solo dei figli nati fuori dal matrimonio, ma anche
della posizione dei conviventi, in quanto soggetti che hanno dato vita ad un
rapporto coniugale di fatto. La svolta segnata da tale decisione è senza precedenti e rappresenta un sicuro avanzamento delle posizioni sul tema. Interessante una pronuncia emessa dal Tribunale di Genova nel 1979 che in un
certo senso anticipa le posizioni assunte dalla Corte Costituzionale, riconoscendo all'art. 2 Cost. la valenza di una norma posta a garanzia della liceità
della famiglia di fatto. V. Trib. Genova, 17.12.1979, in Giur. it., 1980, 544, con
nota di Roppo.
Febbraio | 10 | Famiglia, Persone e Successioni 2 Stampato il: 19 gennaio 2010, 9:40 AM
LE RASSEGNE
(12) C. Cost., 14.4.1980, n. 45: «La situazione del convivente more uxorio
è del tutto diversa da quella degli altri soggetti contemplati dalle norme impugnate, essendo tal convivenza soltanto un mero rapporto di fatto, priva
del carattere della stabilità, suscettibile di venir meno in qualsiasi momento
e improduttiva di quei diritti e doveri reciproci nascenti dal matrimonio e
propri della famiglia legittima. Ciò comporta che una ingiustificata disparità
di trattamento non è ravvisabile né nei confronti del figlio naturale dei conviventi, fondandosi il di lui diritto alla proroga sulla tutela giuridica dei figli
nati fuori del matrimonio, giusta l'art. 30, 3° co., Cost., né nei confronti degli
altri soggetti, indicati dalle norme accanto al coniuge ed ai figli, trattandosi
di soggetti legati al conduttore da rapporti giuridici di parentela o di affinità».
(13) Cass., 8.2.1977, n. 556, in Dir. famiglia, 1977, 514, con nota di Liotta.
Secondo l'autore i principi costituzionali affermati dagli artt. 2, 3, 29 e 30 rappresentano un chiaro ed evidente riconoscimento di modelli alternativi alla
famiglia nata dal matrimonio.
(14) Balestra, La convivenza more uxorio: profili di rilevanza, relazione
Convegno Alghero «La famiglia nel terzo millennio» del 6.5.2006, 1 ss.
(15) Già Calamandrei osservò che «… da un punto di vista logico ritengo
che sia un gravissimo errore che rimarrà nel testo della nostra Costituzione
come una ingenuità quella di congiungere l'idea di società naturale - che richiama al diritto naturale - colla frase successiva fondata sul matrimonio,
che è un istituto di diritto positivo. Parlare di una società naturale che sorge
dal matrimonio, cioè in sostanza da un negozio giuridico, è per me, una contraddizione in termini. Ma tuttavia, siccome di queste ingenuità nella nostra
Costituzione ce ne sono tante, ce ne potrà essere una di più». Brano tratto
da Calamandrei, La Costituzione della Repubblica nei lavori preparatori dell'Assemblea Costituente, Roma, 1970, II, 1201.
(16) In tal senso si veda Corasaniti , Famiglia di fatto e formazioni sociali, in Aa.Vv., La famiglia di fatto, Atti del convegno nazionale di Pontremoli
(27-30.5.1976), Montereggio-Parma, 1977, 143 s.; Prosperi, La famiglia non
fondata sul matrimonio, Camerino-Napoli, 1980, 84 ss.; Perlingieri, La famiglia senza matrimonio tra l'irrilevanza giuridica e l'equiparazione alla famiglia legittima, in Una legislazione per la famiglia di fatto?, Napoli, 1988,
136 s.; Falzea, Problemi attuali della famiglia di fatto, in Aa.Vv., Napoli, 1988
51 ss.; Dogliotti, voce Famiglia di fatto, in Dig. disc. priv., sez. civ., VIII, Torino, 1992, p. 192; Busnelli - Santilli, La famiglia di fatto, in Comm. Cian,
Oppo e Trabucchi, VI, 1, Padova, 1993, 759 nonché 779, ove si indica il principium individuationis della famiglia di fatto rispetto allo schema generico
delle formazioni sociali ex art. 2 Cost.; Tommasini, La famiglia di fatto, Il diritto di famiglia, in Tratt. Bessone, I, Torino, 1999, 503 s.; Balestra, La famiglia di fatto, Padova, 2004, 1 ss.; Bianca, La famiglia, Milano, 2005, 25 ss.; v.
tuttavia Trabucchi, Natura Legge Famiglia, in Riv. dir. civ., I, 1977, 1 ss.; Jemolo, La c.d. famiglia di fatto, in Raccolta di scritti di colleghi della facoltà
giuridica di Roma e di allievi in onore di Rosario Nicolò, Milano, 1982, 47;
Mengoni, La famiglia in una società complessa, in Iustitia, 1990, 4.
(17) Si veda, tuttavia, Lipari, La categoria giuridica della «famiglia di fatto»
e il problema dei rapporti personali al suo interno, in Aa.Vv., La famiglia di
fatto, Atti del convegno di Pontremoli, 1976, 56 s., ove si afferma che, ferma
restando l'impossibilità di negare ogni rilievo all'atto matrimoniale giacché,
in tal caso verrebbe ad essere svuotato di contenuto l'art. 29 Cost., qualora tra
i due momenti (società naturale e matrimonio) «dovesse esistere una imprescindibile correlazione, la famiglia verrebbe negata come società naturale e
integralmente rimessa alla discrezione del legislatore»; cfr. Dogliotti, Famiglia di fatto, cit., 193, che ritiene ipotizzabile, in virtù della medesima funzione assolta anche alla luce dell'art. 30 Cost., l'applicazione dell'art. 31 Cost.
(18) In passato è stato sollevato il quesito se la norma di cui all'art. 2 Cost.
dovesse considerarsi come norma di chiusura, cioè riassuntiva (in un'unica
norma preliminare) di tutti i diritti e le libertà fondamentali tutelati espressamente dalla Costituzione, ovvero come disposizione di apertura che consente di attribuire rilevanza giuridica ad altre libertà e valori personali non
espressamente tutelati dalla Carta fondamentale ma che, fatti propri dalla
coscienza sociale, vengono progressivamente riconosciuti dalla giurisprudenza e dal legislatore ordinario. Nettamente prevalente è oggi la seconda
tesi (in tal senso si veda: Barbera e Fusaro, Corso di diritto pubblico, Bologna, 2004, 82 ss.), in base alla quale l'art. 2 Cost., riconoscendo e garantendo
i diritti inviolabili dell'uomo, ha la funzione di tutelare e garantire tutti quei
diritti naturali e quei valori di libertà non ancora tradotti in specifiche norme
costituzionali, ma che emergono distintamente nell'evoluzione del costume
sociale e di cui il giudice e l'interprete si fanno carico. Sul versante della giustizia costituzionale, tuttavia, va sottolineato che la Corte, piuttosto che utilizzare direttamente l'art. 2 Cost. come norma aperta, spesso ha introdotto
nel nostro ordinamento i c.d. nuovi diritti interpretando estensivamente il
catalogo dei diritti già riconosciuti (si pensi al diritto alla vita, che è stato ritenuto il presupposto implicito di tutti gli altri diritti); oppure tenedone conto
nel giudizio di bilanciamento fra interessi (si pensi al diritto all'abitazione,
che può rientrare nei limiti derivanti dalla funzione sociale della proprietà);
oppure ancora interpretando le norme costituzionali sui diritti alla luce delle numerose convenzioni internazionali e regionali in materia. Secondo alcuni autori (si veda in particolare: Bin e Pitruzzella, Diritto costituzionale,
Torino, 2009, 74 ss.), poi, accettando la lettura dell'art. 2 Cost. quale «catalogo aperto dei diritti» ed allargando l'insieme dei diritti fondamentali, non si
fa altro che restringere l'ambito di effettivo godimento, in quanto ognuno di
essi sarà costretto a bilanciarsi con un maggior numero di interessi potenzialmente configgenti.
(19) Perlingieri, Sulla famiglia come formazione sociale, in Rapporti personali nella famiglia, a cura di Perlingieri, Napoli, 1982, 39; D'Angelo, La famiglia di fatto, Milano, 1989, 323 ss., ove ulteriormente si afferma che «tra i
diritti inviolabili dell'uomo, richiamati con formula indeterminata dalla pre-
detta norma, può ben essere ricompresso il diritto di convivere ad modum
coniugii, espressivo di una fondamentale libertà della persona, alla quale,
peraltro, è garantito tanto il diritto di formare una famiglia legittima quanto
il diritto di non formarla, cioè la libertà matrimoniale nel suo contenuto positivo e negativo, quanto il diritto di procreare»; Gazzoni, Dal concubinato
alla famiglia di fatto, Milano, 1983, 146 ss.; v. in giurisprudenza Cass. pen.,
31.3.1994, in Riv. it. dir. e proc. pen., 1996, 371, con nota di Peyron, ove si afferma che la convivenza di fatto costituisce un diritto di libertà tutelato costituzionalmente ex artt. 2, 18 e 29 Cost., e, come tale, di carattere assoluto
e tutelabile erga omnes.
(20) Perlingieri, La famiglia senza matrimonio tra l'irrilevanza giuridica
e l'equiparazione alla famiglia legittima, in Una legislazione per la famiglia
di fatto?, cit., 136 ss.
(21) «È costituzionalmente illegittimo - in riferimento agli artt. 2 e 3 Cost. l'art. 6, 1° co., l. 27.7.1978, n. 392 (disciplina delle locazioni di immobili urbani) nella parte in cui non prevede tra i successibili nella titolarità del contratto
di locazione, in caso di morte del conduttore, il convivente more uxorio», C.
Cost., 7.4.1988, n. 404, in Giur. it., 1988, I, 1, 1627, con nota di Trabucchi; in
Giust. civ., 1988, I, 1654; in Riv. giur. edil., 1988, I, 506; in Informazione prev.,
1988, 837; in Rass. equo canone, 1988, 16; in Leggi civili, 1988, 515, con nota
di Giove; Impresa, 1988, 2045; in Arch. locazioni, 1988, 286; in Foro it., 1988,
I, c. 2515, con nota di Piombo.
(22) «È inammissibile, richiedendosi alla Corte Costituzionale di compiere scelte discrezionali, riservate al legislatore, la questione di legittimità costituzionale dell'art. 540, 2° co., c.c., sollevata nella parte in cui non include
il convivente fra i componenti della famiglia aventi diritto di abitazione sull'alloggio comune, non riservando allo stesso, anche se escluso dal novero
dei successibili a titolo di erede, almeno il diritto di abitazione sulla casa adibita a residenza della coppia se di proprietà del defunto, o comune. Il giudice a quo non ha considerato che nel sistema del codice il suddetto diritto
di abitazione presuppone nel legatario la qualità di legittimario al quale la
legge riserva una quota di eredità. Ciò comporta che con la prospettazione
della questione non si chiede alla Corte semplicemente di inserire il convivente more uxorio nella previsione dell'art. 540, 2° co., bensì si sollecita l'introduzione nell'ordinamento della legittima di una nuova fattispecie strutturalmente e funzionalmente diversa da quella posta a modello (venendo ad
essere attribuito il diritto indipendentemente dalla chiamata all'eredità), a
tutela diretta e specifica dell'interesse alla conservazione dell'alloggio (laddove a fondamento della disposizione dell'art. 540, 2° co., non c'è il bisogno
dell'alloggio, ma vengono in considerazione altri interessi di natura non patrimoniale ricollegati alla qualità di erede del defunto, quali la conservazione
della memoria del coniuge scomparso, il mantenimento del tenore di vita,
delle relazioni sociali e degli status symbols goduti durante il matrimonio). Si
chiede, cioè, alla C. Cost. di operare una innovazione nel sistema normativo
che esula dai suoi poteri, spettando al legislatore valutare il grado di meritevolezza di tutela dell'interesse all'abitazione nella ipotesi in esame (eventualmente introducendo un diritto personale di godimento temporalmente
limitato)», C. Cost., 26.5.1989, n. 310, in Giur. cost., 1989, 1400; in Giust. civ.,
1989, I, 1782; in Informazione prev., 1989, 1041.
(23) Astone, Ancora sulla famiglia di fatto: evoluzione e prospettive, in Dir.
famiglia, 1999, 4, 1466.
(24) C. Cost., 6.7.1994, n. 281, in Dir. famiglia, 1994, 1197; in Famiglia e dir.,
1994, 485, con nota di Dogliotti; Giur. cost., 1994, 484.
(25) Astone, Ancora sulla famiglia di fatto: evoluzione e prospettive, cit., 462
ss.
(26) C. Cost., 6.7.1994, n. 281, in Famiglia e dir., 1994, 485, con nota di Dogliotti, con questa pronuncia la Corte Costituzionale esclude la possibilità di
adozione per i coniugi già conviventi more uxorio oltre il triennio ma uniti in
matrimonio da tempo inferiore.
(27) C. Cost., 19.12.1968, nn. 126 e 127, in Giust. civ., 1969, 4; C. Cost.,
3.12.1969, n. 147, in Giust. civ., 1970, 3.
(28) L. 19.5.1975, n. 151.
(29) Con l'espressione «famiglia di fatto» si intende «una comunanza di vita
e di interessi, non basata su un mero rapporto sessuale di carattere ancillare», v. Astiggiano, Convivenza more uxorio con un terzo e diritto all'assegno
divorzile da parte dell'ex coniuge onerato: problematiche e prospettive, in Famiglia e dir., 2007, 329.
(30) Così Ferrando, Sul problema della «famiglia di fatto», in Giur. di Merito, 1975, II, 134.
(31) Dogliotti, La Corte Costituzionale attribuisce (ma solo a metà) rilevanza giuridica alla famiglia di fatto, in Dir. famiglia, 1990, I, 767-795.
(32) Cfr. Paradiso, La comunità familiare, Milano, 1984, 106; Santilli, Note
critiche in tema di famiglia di fatto, in Riv. trim. dir. e proc. civ., 1980, 842;
Bernardini, La convivenza fuori dal matrimonio, Padova, 1992, 113; D'Angeli, La tutela delle convivenze senza matrimonio, Torino, 1995, 68 ss.; Ferrando, Convivere senza matrimonio: rapporti personali e patrimoniali nella
famiglia di fatto, cit., 192; Tommasini, La famiglia di fatto, cit., 508; Polidori,
Convivenza e situazioni di fatto. I rapporti personali, in Tratt. Zatti, 2006, 824.
(33) Ferrando, Il matrimonio, in Tratt. Cicu e Messineo, continuato da
Mengoni, Milano, 2002, 224.
(34) Furgiuele, Libertà e famiglia, Milano, 1979, 288, che esclude l'applicabilità soltanto dell'art. 143 bis, 143 ter (articolo abrogato dall'art. 26, l.
5.2.1992, n. 91) e 145 c.c.; v. anche Alagna, Famiglia e rapporti tra coniugi nel
nuovo diritto, Milano, 1983, 414 ss.; Prosperi, La famiglia non fondata sul
matrimonio, 1980, 256 ss., il quale, pur ammettendo il ricorso all'analogia,
esclude l'applicabilità degli artt. 143, 143 bis, 143 ter, 145, 146 ult. cpv., 156. In
giurisprudenza v. Trib. Savona, 29.6.2002, in Famiglia e dir., 2003, 596, con
Stampato il: 19 gennaio 2010, 9:40 AM Famiglia, Persone e Successioni 2 | 11 | Febbraio
LE RASSEGNE
nota di Ferrando, che affronta in particolare il problema dell'applicazione
analogica dell'art. 143, 3° co. c.c.; nonché Pret. Genova, 21.5.1981, in Foro it.,
1982, I, c. 1459, con nota di Dogliotti, che ha esteso la norma di cui all'art.
145 c.c. alla famiglia di fatto in considerazione dei fini che caratterizzano la
relativa procedura; decisione criticata da Gazzoni, Dal concubinato alla famiglia di fatto, Milano, 1983, 117: «questa solitaria fantasticheria non merita di certo attenzione alcuna, essendo essa solo frutto di un aprioristico convincimento, tanto ciò è vero che l'affermazione è del tutto apodittica e priva
della benché minima motivazione»; di diverso avviso Dogliotti, Famiglia di
fatto, cit., 195.
(35) Gazzoni, Dal concubinato alla famiglia di fatto, cit., 116 s.; Pret. Milano, 8.2.1990, in Foro it., 1991, I, 329, ove si è affermato che la situazione di convivenza more uxorio non implica alcun diritto al mantenimento
di ciascuno dei conviventi nei confronti dell'altro; ugualmente Trib. Napoli,
8.7.1999, in Famiglia e dir., 1999, 501, con nota di Morello Di Giovanni.
(36) Balestra, Gli effetti della dissoluzione della convivenza, in Riv. dir.
priv., 2000, 475.
(37) Trib. Pisa, 20.1.1988, in Nuovo dir., 1988, 561; Trib. Savona, 29.6.2002,
in Famiglia e dir., 2003, 596, con nota di Ferrando. In questa direzione si è posta anche la giurisprudenza di legittimità, v. Cass., 8.6.1993, n. 6381, in Corriere giur., 1993, 947, con nota di V. Carbone; Trib. Cassino, 16.10.1995, inedita.
(38) Oberto, I contratti di convivenza tra autonomia e modelli legislativi, in
Famiglia e dir., Padova, 1999; Spadafora, Rapporti di convivenza more uxorio e autonomia privata, Milano, 2001.
(39) Oberto, l'autonomia negoziale nei rapporti patrimoniali fra coniugi,
in Famiglia, 203, 617 ss.
(40) Cass. 8.6.1993, n. 6381, in Vita notarile, 1994.
(41) Sia consentito il richiamo a Annunziata, Buon Costume: un concetto
difficile da definire, in www.diritto.it., 2006.
(42) Si esprimono in senso contrario alla possibilità per i conviventi di assumere impegni di natura personale Gazzoni, Dal concubinato alla famiglia
di fatto, cit., 164; Trabucchi, Pas par cette voie s'il vous plaît!, in Riv. dir. civ.,
1981, I, 349.
(43) Interessante sul punto la pronuncia emessa dal Trib. Savona, 7.3.2001,
in Famiglia e dir., 2001, 529, con nota di Dogliotti. Nell'ambito di una famiglia di fatto (sull'esistenza della quale non c'è contestazione), una donna acquista un immobile e lo stesso giorno conclude un accordo, nella forma della
scrittura privata, con il suo partner, costituendo in usufrutto, a favore di questo, l'immobile appena acquistato, senza indicare un termine di cessazione.
Venuta meno la convivenza, le parti si interrogano sul valore e gli effetti di
questa scrittura: così l'uno chiede di essere dichiarato titolare di un diritto
di usufrutto vitalizio sull'immobile e, addirittura, che si condanni l'altra a lasciare l'immobile stesso, già destinato a casa familiare, attualmente «occupato senza titolo» la controparte chiede invece dichiararsi la nullità della scrittura privata, sia che essa venga riguardata come atto a titolo gratuito ovvero
oneroso. Per il giudice la scelta più semplice e senza particolari problemi sarebbe stata proprio quella di accogliere la domanda della donna: la scrittura privata, se intesa come liberalità, sarebbe da intendersi nulla per difetto
di forma, se intesa come contratto a titolo oneroso, sarebbe parimenti nulla
per difetto di causa e/o sinallagma. Così facendo, si sarebbe peraltro esclusa,
nella specie, ogni rilevanza alla convivenza more uxorio, considerando la posizione dei conviventi come quella di soggetti totalmente estranei tra di loro.
Il giudice di Savona accoglie la domanda dell'uomo, ritenendo sussistente
l'usufrutto a suo favore. Certo, ad un primo approccio passionale, la decisione potrebbe suscitare perplessità: summa iniuria , e forse non summum ius.
(44) La stessa osservazione si è portati a fare in riferimento ad una precedente pronuncia del Tribunale di Bari riguardante un problema analogo a
quello risolto dal Tribunale di Savona; si veda Trib. Bari, 21.1.1977, in Dir.
famiglia, 1979, 1186, con nota di Bessone.
(45) Trib. Savona, 29.6.2002, in Famiglia e dir. 2003, 596, con nota di Ferrando. La sentenza offre spunti di riflessione tra cui in particolare la genericità assoluta delle pretese restitutorie avanzate dai conviventi frutto evidentemente di un accordo meramente verbale.
(46) Numerosi sono gli Autori che, sia pure con sfumature ed elementi di
diversità, negano una qualsiasi equiparazione delle obbligazioni naturali alle
obbligazioni giuridiche: v., tra gli altri, Oppo, Adempimento e liberalità , Milano, 1947, in part. 261; Mori - Checcucci, Appunti sulle obbligazioni naturali, Genova, 1947, 76 ss. per il quale si è in presenza di una giusta causa dell'arricchimento dell'accipiens; opinione già espressa da Giorgianni, L'obbligazione, I, rist. inalt., Milano, 1968, 117 ss., nel suo corso di lezioni; Barassi, La teoria generale delle obbligazioni, 2ª ed., II, Milano, 1948, 386 ss.; Mosco, Onerosità e gratuità degli atti giuridici, Milano, 1942, 47, il quale parla
comunque di una giuridicità potenziale; De Simone, La sanatoria del negozio giuridico nullo, Napoli, 1946, 72 s.; Moscati, Pagamento dell'indebito, in
Comm. Scialoja e Branca, sub. art. 2034, Bologna-Roma, 1981, 309 ss.; Trabucchi, Istituzioni di diritto civile, 30ª ed., Padova, 1997, 533; Bianca, Diritto
civile, 4, Milano, 1997, 784; sotto la vigenza del codice abrogato, Bonfante, Il
concetto dell'obbligazione naturale, in Riv. dir. comm, 1914, II, 360 ss.; Finzi,
Studi sulle nullità del negozio giuridico, I, Bologna, 1920, 19 s., il quale, considerata l'opinione dominante a quei tempi, si affrettava a spiegare perché
la considerazione dell'obbligazione naturale in termini di rapporto privo di
giuridicità non dovesse apparire eretica.
(47) Cass., 7.10.1954, n. 3389, in Giust. pen., 1955, II, 222. Nella pronuncia
viene affermato che il pregiudizio arrecato alla donna dalla seduzione e dalla
successiva convivenza more uxorio con il seduttore non costituisce adempimento né di un dovere giuridico né di una obbligazione naturale ma è da configurarsi come donazione remuneratoria. Successive pronunce hanno indi-
viduato negli apporti patrimoniali dei conviventi delle obbligazioni naturali
o delle liberalità d'uso, e non più quindi delle donazioni remuneratorie. V.
Cass., 24.11.1998, n. 11894, in Famiglia e dir., 1998, 205, con nota di V. Carbone.
(48) Proprio le gravi implicazioni conseguenti alla qualificazione in termini di donazione, seppur rimuneratoria, delle attribuzioni effettuate al convivente more uxorio, indussero la giurisprudenza sul finire degli anni cinquanta a configurare l'esistenza di un dovere morale e sociale tra conviventi. L'obiettivo che si intendeva perseguire era di tutelare il convivente c.d. debole,
segnatamente la donna, la quale al termine della convivenza si vedeva sovente costretta a restituire le elargizioni ricevute sul presupposto che, trattandosi di donazioni, quasi mai veniva rispettato il requisito della forma solenne (ampia documentazione degli orientamenti giurisprudenziali succedutisi a partire dalla fine del XIX secolo su questi temi in D'Angeli, La tutela
delle convivenze senza matrimonio, Torino, 1995, 88 ss.; v. anche Lanzillo,
Il matrimonio putativo, Milano, 1978, 27 ss.; Busnelli-Santilli, Il problema
della famiglia di fatto, in una legislazione per la famiglia di fatto?, Napoli,
1988, 118; Bernardini, La convivenza fuori dal matrimonio, Padova, 102 ss.;
Balestra, Gli effetti della dissoluzione della convivenza, cit., 475 ss.
(49) Ampia documentazione in Oberto, I regimi patrimoniali della famiglia di fatto, Milano, 1991, 83 ss.
(50) Sul tema, in generale, si rinvia a Balestra, Le obbligazioni naturali, in
Tratt. Cicu, Messineo e Mengoni, continuato da Schlesinger, XLVIII, Milano,
2004, 233 ss.; Cass., 20.1.1989, n. 285, in Rep.Foro it., 1989, Obbligazioni in
genere, n. 23; Trib. Roma, 13.5.1995, in Gius., 1995, 3593, con nota di Lascialfari, secondo cui non può «essere posto in dubbio che nella valutazione corrente della società moderna la convivenza more uxorio può essere fonte di
doveri morali e sociali, per i quali, pur non essendo stata accordata dalla legge alcuna azione a tutela del loro adempimento, è stata però esclusa la tutela di quanto spontaneamente pagato». Nella prospettiva delineata – secondo cui solo le attribuzioni patrimoniali effettuate in adempimento di doveri morali sono idonee ad integrare la fattispecie dell'obbligazione naturale –
non va esente da critiche l'affermazione secondo cui «le donazioni tra conviventi non vanno qualificate come remuneratorie, ma come adempimento
di obbligazioni naturali»: Franceschelli, Famiglia di fatto, in Enc. dir., Agg.,
VI, Milano, 2002, 372.
(51) Cass., 13.3.2003, n. 3713, in Giur. it., 2004, 530, con nota di Di Gregorio; in Riv. giur. sarda, 2005, I, 267, con nota di Cicero, ove ulteriormente si
aggiunge che «l'indagine sulla sussistenza di un dovere morale e sociale e lo
stabilire se una prestazione abbia il carattere della adeguatezza e della proporzionalità si risolve in un accertamento di fatto, riservato al giudice di merito, incensurabile in Cassazione se sorretto da motivazione sufficiente ed
immune da vizi logici e da errori di diritto»; si tratta, peraltro, di un orientamento affermatosi con riguardo all'obbligazione naturale in generale. Del
tutto particolare - e certamente non condivisibile - il principio affermato dalla Corte d'Appello di Cagliari (29.7.1982, in Riv. giur. sarda, 1988, 49, con nota di Dore), secondo la quale, per potersi parlare di adempimento di obbligazione naturale, come tale irripetibile, occorrerebbe dimostrare che la relazione abbia danneggiato il convivente che eccepisca la soluti retentio.
(52) Sia la giurisprudenza di legittimità che di merito ritengono che le attribuzioni patrimoniali costituiscono adempimento di una obbligazione naturale, per la cui ripetizione non è data azione, le somministrazioni di denaro
della donna al convivente more uxorio in precarie condizioni economiche.
Cass., 3.2.1975, n. 389, in Foro it., 1975, I, c. 2301; Cass., 15.1.1969, n. 60, in
Foro it., 1969, I, c. 1511; Cass. 25.1.1960, n. 68, in Foro it., 1961, I, c. 2017; Trib.
Roma, 13.5.1995, in Gius, 1995, 3593, con nota di Lascialfari.
(53) In tal senso si veda Caggia, Il regime patrimoniale nella famiglia di
fatto, in Enc. giur., 2008, 338
(54) Cass., 24.11.1998, n. 11894, in Corriere giur., 1999, 54, con nota di V.
Carbone; in Vita notarile, 1999, 1216, con nota di Memmo. I giudici di legittimità, del resto, già in alcuni anni primi avevano qualificato come vere e proprie donazioni i doni tra fidanzati; Cass., 8.2.1994, n. 1260 Giur. it., 1995, I, 1,
684, con nota di Bucelli.
(55) Ampia documentazione degli orientamenti giurisprudenziali succedutisi a partire dalla fine del secolo scorso in D'Angeli, La tutela delle convivenze senza matrimonio, cit., 88 ss.; v. anche Busnelli-Santilli, Il problema
della famiglia di fatto, in Aa.Vv., Una legislazione per la famiglia di fatto?,
cit., 1988, 118; Bernardini, La convivenza fuori dal matrimonio, cit., 102 ss.;
Lanzillo, Il matrimonio putativo, Milano, 1978, 27 ss.
(56) L. 19.5.1975, n. 151.
(57) App. Milano, 20.10.1953, in Foro padano, 1953, II, 78. Una successiva
pronuncia della Cassazione giunge alle medesime conclusioni, precisando
che «la presunzione di gratuità delle prestazioni di lavoro rese da un convivente more uxorio in favore dell'altro non ha carattere assoluto, ma deve accertarsene l'applicabilità caso per caso», v. Cass., 20.1.1955, n. 136, in Foro
it., 1956, c. 226.
(58) Cass., 31.1.1967, n. 276, in Giust. civ., 1967, 1320.
(59) Si pensi ad aziende, come un bar, un ristorante o simili, gestite da marito e moglie per anni ed anni, ma intestate ad uno solo di essi, ove il coniuge
lavoratore non proprietario, oltre a non aver percepito nulla quale corrispettivo, si trovava, poi, magari dopo anni, in seguito ad una separazione personale estromesso dall'azienda.
(60) Ferrando, Convivere senza matrimonio:rapporti personali e patrimoniali nella famiglia di fatto, in Famiglia e dir., 1998, 183.
(61) Cass., 18.10.1976, n. 3585, in Foro it., 1977, c. 1949. I giudici esprimono
una posizione univoca ritenendo che «l'art. 230 bis c.c. che disciplina l'impresa familiare, costituisce norma eccezionale, in quanto si pone appunto
Febbraio | 12 | Famiglia, Persone e Successioni 2 Stampato il: 19 gennaio 2010, 9:40 AM
LE RASSEGNE
quale eccezione, rispetto le norme generali in tema di prestazioni lavorative
ed è pertanto insuscettibile di interpretazione analogica».
(62) Trib. Roma, 10.7.1980: «non sembra potersi applicare in materia di
convivenza more uxorio o comunque di famiglia di fatto la nuova disciplina
recata dall'art. 230 bis….ciò che non esclude naturalmente la rilevanza e produttività di effetti giuridici, sotto profili diversi da quello qui dedotto, della
collaborazione lavorativa prestata dalla donna nell'impresa del convivente»,
in Dir. fall., 1980, 611, con nota di Farenga.
(63) Mazzocca, Prestazioni lavorative «affectionis vel benevolentiae causa»
tra persone conviventi more uxorio, nota di commento a Cass., 24.3.1977, n.
1161, in Giust. civ., 1977, 1190.
(64) Cass., 17.2.1988, n. 1701, in Foro it., 1988, c. 2306, con nota di Calò.
(65) Cass., 4.1.1995, n. 70, in Rep. Foro. it., 1995, c. 1667. È interessante un
ulteriore pronuncia della Cassazione, la quale osserva che al fine di stabilire
se le prestazioni lavorative, svolte nell'ambito di una convivenza more uxorio, diano luogo ad un rapporto di lavoro subordinato oppure siano riconducibili ad una diversa relazione, il giudice può escludere l'esistenza del rapporto di lavoro subordinato solo in presenza della dimostrazione rigorosa di
una comunanza di vita ed interessi tra i conviventi che non si esaurisca in un
rapporto meramente spirituale, ma analogamente al rapporto coniugale, dia
luogo anche alla partecipazione effettiva del convivente alle risorse della famiglia di fatto. V., Cass., 13.12.1986, n. 7486, in Mass. Giust. civ., 1986, II, 2144.
(66) Trib. Ivrea, 30.9.1981, in Riv. dir. agr., 1983, 11, 463, con nota di Salaris.
(67) Cfr., tra le altre, Trib. Bologna n. 4545 dell'1.10.2003; Trib. Trento, sez.
dist. Cavalese, decr. del 20.7.2004.
(68) Cfr., nella giurisprudenza di merito, Trib. Brescia, sent. 12.10.2004;
Trib. Siena, ord. 16.1.2007.
(69) Cfr., in tal senso, Trib. Bologna, (sent.) 1.10.2003, n. 4545; Trib. Trieste,
23.9.2005.
(70) In tal senso Trib. Trieste, 19.9.2007, in Notariato, 2008, 3, 251, con nota
di Rossano; Sull'ammissibilità dell'azione revocatoria ex art. 2901 c.c. si veda Trib. Cassino, 8.1.2009: «Deve essere accolta l'azione ex art. 2901 c.c., e
quindi deve essere disposta la revoca dell'atto di disposizione patrimoniale
di un bene immobile compiuto in favore di un trust istituito per soddisfare le
esigenze della famiglia del disponente allorquando l'intento fraudolento ai
danni dei creditori possa presumersi avuto riguardo alla consapevolezza, in
capo al disponente e al trustee, dato lo stretto rapporto familiare tra di essi
intercorrente (suocero-nuora), del pregiudizio arrecato ai creditori, nonché
al fatto che il disponente sia anche il beneficiario del reddito trust ed abbia
mantenuto per sé il diritto di abitazione nell'immobile stesso, conservando
altresì in capo alla famiglia il controllo del patrimonio vincolato», in Trust,
2009, 4, 419.
Stampato il: 19 gennaio 2010, 9:40 AM Famiglia, Persone e Successioni 2 | 13 | Febbraio
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