Neuroscienze ed educazione plurilingue Franco Fabbro Facoltà di Scienze della Formazione, Università di Udine Il primo importante contributo che le neuroscienze hanno fornito all’insegnamento delle lingue straniere si deva a un neurochirurgo canadese, Wilder Penfield. Penfield è stato uno dei più famosi neurochirurghi della storia della medicina contemporanea, i suoi contributi sulla rappresentazione dei sistemi sensoriali e motori nella corteccia cerebrale sono universalmente noti. Accanto agli studi di neurofisiologia Penfield ha sviluppato una fondamentale serie di riflessioni sull’insegnamento delle lingue nei bambini. Penfield nacque nello stato di Washington nel 1891. Era figlio di un medico e da piccolo apprese solo l’inglese. Prima di iscriversi alla facoltà di medicina, studiò tre lingue moderne, una delle quali era il tedesco. Dopo aver terminato le superiori, per un anno fece l’insegnante di tedesco in una scuola superiore. L’anno successivo si iscrisse alla facoltà di medicina dell’Università “John Hopkins” di Baltimora dove si laureò nel 1918. Nel 1924 fu nominato professore aggiunto di chirurgia alla Columbia University. Dopo qualche anno si trasferì alla McGill University di Montreal, in Canada, come professore di neurologia e neurochirurgia. Nel 1934 divenne il primo direttore del Montreal Neurological Institute. Le ricerche compiute nel campo della neurofisiologia, neurologia e neurochirurgia gli fruttarono numerosi riconoscimenti internazionali. Nonostante alle scuole superiori avesse studiato con molto impegno tre lingue, riusciva a esprimersi, con molta difficoltà, soltanto in tedesco. Invece i suoi figli avevano appreso da piccoli, senza apparente difficoltà, oltre all’inglese, anche il francese e il tedesco, lingue che parlavano in maniera fluente e senza accento straniero. L’insieme delle esperienze cliniche e famigliari portarono Penfield a riflettere sulla cruciale questione della corretta educazione plurilingue dei bambini. Egli pubblicò una serie di lavori scientifici su questo argomento, che sono ancora oggi importanti punti di riferimento per chi si interessa ai fondamenti neurobiologici dell’insegnamento delle lingue straniere (cfr. Fabbro 2004). Penfield ha sviluppato le sue riflessioni sui metodi di insegnamento delle lingue confrontando la sua esperienza con quella dei suoi figli. Egli si chiese come mai il suo impegno nello studio di tre lingue non avesse ottenuto i risultati brillanti che i suoi figli avevano raggiunto acquisendo le lingue da piccoli e senza apparente difficoltà. Poiché riteneva che tali risultati non dipendessero dal livello intellettivo, individuò nelle modalità educative e nella plasticità cerebrale i fattori che avevano Neuroscienze ed educazione plurilingue determinato questo successo. Nella sua pratica clinica aveva notato che i bambini con afasia acquisita presentano tutti un veloce ed eccellente recupero del linguaggio, mentre l’afasia negli adulti ha un recupero molto più lento e problematico. Secondo Penfield il diverso recupero del linguaggio nei bambini era dovuto alla maggiore plasticità del cervello infantile. A suo parere il cervello del bambino nei primi dieci anni di vita è specializzato nell’acquisizione delle lingue, mentre nella seconda decade è specializzato nell’apprendimento di informazioni e conoscenze. Secondo Penfield le lingue dovrebbero essere quindi le prime discipline “insegnate” nella scuola dell’infanzia (tra i tre e i sei anni), finché il cervello è ancora duttile. Una volta acquisite, le lingue possono diventare negli anni successivi un veicolo per accrescere tutte le altre forme di apprendimento. Penfield aveva osservato che nelle famiglie degli immigrati i bambini piccoli acquisivano la seconda lingua in maniera completa e naturale, mentre i genitori stentavano ad apprendere la lingua del paese che li ospitava. Nonostante gli adulti frequentassero appositi corsi per imparare l’inglese, non riuscivano a competere con i propri figli nell’acquisizione di una seconda lingua. Egli spiegò questi scarsi risultati come conseguenza dei seguenti fattori: i) gli adulti hanno minori capacità imitative rispetto ai bambini; ii) hanno maggiori inibizioni; iii) hanno meno tempo libero; iv) sono consapevoli di apprendere una nuova lingua e vivono con ansia i possibili errori; v) agli adulti nella conversazione viene richiesta un’elevata efficacia comunicativa mentre con i bambini piccoli le aspettative sono molto più limitate; vi) gli errori commessi dagli adulti incontrano minore comprensione rispetto a quelli commessi dai bambini; e infine vii) il cervello adulto ha una minore plasticità rispetto a quello infantile. Penfield riteneva che il linguaggio fosse costituito da due sistemi, le unità verbali e il vocabolario. Per unità verbali intendeva gli aspetti percettivi, articolatori, grammaticali e le parole di base di una lingua. Era convinto che l’acquisizione delle unità verbali e il loro uso automatico si completasse prima dei sei anni. Dopo i sei anni il vocabolario inizierebbe a espandersi con una forte accelerazione nella seconda decade di vita. Secondo Penfield un ragazzo che inizia a studiare una lingua straniera nella seconda decade di vita ha davanti a sé due tipi di problemi: i) non ha più a disposizione un cervello sufficientemente duttile per apprendere le nuove ‘unità verbali’; ii) mentre inizia ad apprendere la lingua straniera deve contemporaneamente impegnarsi nello studio di numerose altre discipline e quindi ha meno tempo e meno “energia” da dedicare alla seconda lingua. Le lingue che si possono studiare nella seconda e terza decade di vita sono, a suo parere, il latino e il greco classico. Queste lingue, infatti, non vengono imparate per comunicare; è quindi sufficiente conoscere a memoria una parte del lessico e le regole necessarie per tradurre i testi da queste lingue verso le lingue moderne. Neuroscienze ed educazione plurilingue Penfield ha concluso le sue riflessioni sostenendo che se un governo illuminato desiderasse veramente far conoscere le lingue straniere ai suoi cittadini dovrebbe pianificare l’insegnamento secondo le specifiche caratteristiche del cervello umano. Se un bambino viene esposto a due o tre lingue nel periodo ideale per l’acquisizione del linguaggio (da zero a sei anni) egli apprenderà ognuna di queste lingue con l’accento e la competenza grammaticale del suo educatore. Per evitare fenomeni di mescolamento delle lingue (mixing) suggeriva che gli educatori si rivolgessero ai bambini preferibilmente in una sola lingua. Secondo Penfield quando invece una lingua straniera viene “insegnata” dopo la seconda decade di vita, in modo indiretto (“per regole”), da insegnanti che non parlano fluentemente tale lingua, diventa molto difficile ottenere buoni risultati. Come se non bastasse lo studio delle lingue con questi metodi innaturali è difficile e faticoso. A suo parere l’insegnamento scolastico di una lingua straniera dopo la seconda decade di vita e attraverso l’uso consapevole di regole è una modalità educativa innaturale. Negli ultimi venti anni Michel Paradis, professore emerito di neurolinguistica alla McGill University di Montreal, è stato lo studioso che ha maggiormente contribuito a precisare i fondamenti neurobiologici dell’educazione plurilingue. Paradis fin da giovane ha studiato diverse lingue. Per diciotto si è dedicato all’insegnamento delle lingue straniere nelle scuole superiori, per poi passare all’insegnamento universitario della neurolinguistica, in particolare relativa al bilinguismo (cfr. Paradis 2004). Durante la sua attività di insegnante di lingue straniere è rimasto colpito dal fatto che gli studenti che ottenevano le valutazioni migliori nella seconda lingua spesso non erano in grado di utilizzarla nella conversazione, mentre altri studenti con basse valutazioni ma buone capacità comunicative se la cavavano molto meglio. Basandosi sugli studi più recenti di neuropsicologia della memoria egli ha proposto una teoria neurolinguistica dell’apprendimento delle lingue con importanti risvolti educativi e didattici. Nei suoi studi Paradis ha dimostrato che la lingua materna viene acquisita e memorizzata nei sistemi della memoria implicita, mentre una lingua appresa nella seconda decade di vita, sui banchi di scuola e in maniera formale viene memorizzata prevalentemente nei sistemi della memoria esplicita. Le conoscenze relative ai due sistemi della memoria coinvolti nell’acquisizione versus l’apprendimento delle lingue hanno portato Paradis a confermare quanto aveva precedentemente affermato Penfield. Un sistema educativo che ha l’obiettivo di fornire una reale conoscenza delle lingue straniere deve far in modo che queste possano essere memorizzate nella memoria implicita, come avviene per la prima lingua. L’insegnamento delle lingue straniere, secondo Paradis, deve essere quindi prevalentemente realizzato negli asili nido (0-3 anni) e nelle scuole materne (3-6 Neuroscienze ed educazione plurilingue anni). In queste strutture educative le lingue straniere non devono essere “insegnate” ma devono essere “utilizzate” nell’interazione comunicativa. Neurolinguistica clinica e apprendimento delle lingue Lo studio dei pazienti bilingui con disturbi acquisiti del linguaggio è stato uno dei metodi più utilizzati per definire la rappresentazione cerebrale delle lingue. Questi studi hanno permesso di capire che la rappresentazione delle lingue nel cervello dipende dalle modalità di apprendimento e dal periodo in cui questo avviene. Nel 1930 fu pubblicato il primo caso clinico che sosteneva l’ipotesi di una diversa rappresentazione delle lingue nel cervello. Si trattava di un giovane ufficiale tedesco che durante la prima guerra mondiale aveva subito una lesione d’arma da fuoco nel lobo frontale sinistro (Fabbro 1996). Prima della guerra l’ufficiale era stato professore di latino e di greco in un liceo. Come è noto queste due lingue possono essere apprese soltanto in maniera esplicita, cioè attraverso la memorizzazione consapevole delle parole, delle regole grammaticali e delle regole di traduzione. Subito dopo essere stato ferito l’ufficiale tedesco rimase muto per qualche mese. In seguito si accorse che era in grado di esprimersi soltanto in latino, una lingua che non aveva mai utilizzato per comunicare con le persone. Visto che pochi riuscivano a comprenderlo aveva sviluppato un strategia per farsi intendere da tutti. Egli prima preparava mentalmente la frase in latino, quindi sempre interiormente la traduceva in tedesco e infine la esprimeva verbalmente. Questo è stato il primo esempio a conferma dell’esistenza di una differente rappresentazione cerebrale di una “lingua viva”, come il tedesco (memoria implicita), rispetto a una “lingua morta”, come il latino (memoria esplicita, cfr. Fabbro 2004). Una lesione al cervello può quindi colpire in maniera selettiva un tipo di memoria e danneggiare soltanto una lingua, mentre gli altri sistemi della memoria possono essere risparmiati e ancora disponibili. Alcuni anni fa ho avuto l’opportunità di studiare una paziente che dopo una lesione ai gangli della base dell’emisfero sinistro non era più in grado di parlare la sua lingua materna, mentre riusciva a esprimersi nella seconda lingua, appresa alle elementari, e mai utilizzata nella vita di ogni giorno (cfr. Fabbro 1996, 1999). La lesione ai gangli della base, una struttura della memoria procedurale, aveva compromesso l’uso della prima lingua rendendo possibile l’espressione solo nella seconda lingua, sostenuta a livello neurofunzionale da strutture corticali. Questo secondo caso di afasia bilingue con recupero paradossale della seconda lingua prova che l’età e le modalità di apprendimento sono responsabili di una differente rappresentazione delle lingue nel cervello. Neuroscienze ed educazione plurilingue Neurofisiologia dell’apprendimento delle lingue Il ruolo del periodo e delle modalità di apprendimento sulla rappresentazione cerebrale delle lingue è stato studiato attraverso i potenziali evento-relativi (ERPs), una tecnica derivata dalla elettroencefalografia. In particolare sono state indagate le componenti semantiche e grammaticali della prima e della seconda lingua. Si è potuto così documentare che gli elementi grammaticali della prima lingua (L1), ovvero le parole di classe chiusa, sono rappresentati nel lobo frontale dell’emisfero sinistro. Mentre gli elementi semantici della prima lingua, cioè le parole di classe aperta, sono invece rappresentati nelle porzioni posteriori di entrambi gli emisferi cerebrali, prevalentemente a sinistra. Quando la seconda lingua è stata appresa dopo gli otto anni le parole di classe aperta delle due lingue sono rappresentate nelle stesse strutture cerebrali (porzioni posteriori di entrambi gli emisferi, di più a sinistra), mentre le parole di classe chiusa sono rappresentate in strutture cerebrali differenti: nel lobo frontale sinistro per la prima lingua e nelle regioni posteriori del cervello, come fossero parole di classe aperta, per la seconda lingua. Ciò significa che una lingua appresa dopo gli otto anni tende ad avere una minore rappresentazione nei sistemi della memoria procedurale. Quando invece la seconda lingua viene acquisita prima degli otto anni le parole di classe chiusa, ovvero gli elementi grammaticali più importanti, sono organizzati nelle stesse strutture nervose della prima lingua. Questi sofisticati studi di neurofisiologia sperimentale confermano dunque che l’età di apprendimento della seconda lingua può influenzare il tipo di rappresentazione delle lingue nel cervello. La maturazione differenziata di alcune strutture della memoria impedisce che una seconda lingua appresa dopo il periodo critico venga “depositata” nelle strutture della memoria procedurale. L’organizzazione della seconda lingua in sistemi della memoria differenti rispetto alla prima lingua influenzerà le modalità di utilizzazione delle due lingue per tutta la vita. La competenza fonologica e la competenza grammaticale di L2 risulteranno limitate e l’uso di questa lingua sarà meno automatico e richiederà un lavoro mentale maggiore rispetto all’espressione nella lingua materna. Neuroanatomia funzionale e apprendimento delle lingue Negli ultimi anni sono stati eseguiti numerosi studi per visualizzare le strutture del cervello bilingue durante i compiti linguistici di comprensione e produzione di parole e di frasi. Le tecniche di neuroimmagine utilizzate sono state la Risonanza Magnetica funzionale (fMRI) e la Tomografia a Emissione di Positroni (PET). Queste ricerche, come quelle di neurofisiologia, hanno sottolineato l’importanza di alcuni fattori quali l’età e la modalità di apprendimento nella rappresentazione cerebrale delle lingue. Neuroscienze ed educazione plurilingue Le ricerche sulla rappresentazione cerebrale delle parole di classe aperta della prima e della seconda lingua hanno evidenziato un’organizzazione simile per le due lingue nelle aree temporoparietali dell’emisfero sinistro, confermando i risultati di ricerche precedenti di neurolinguistica clinica e di neurofisiologia sperimentale. Altre ricerche sono state dedicate allo studio della rappresentazione cerebrale della sintassi. Un primo studio ha valutato la rappresentazione cerebrale di L1 e L2 in due gruppi di bilingui fluenti formati da persone immigrate negli Stati Uniti prima dei sette anni (bilingui precoci) e dopo i 7 anni, in età adulta. Nei soggetti di entrambi i gruppi l’area cerebrale coinvolta nella comprensione è la stessa per entrambe le lingue (area di Wernicke). Al contrario l’area responsabile della produzione fonemica e grammaticale (area di Broca) è simile per le due lingue nei bilingui precoci, ma è diversa nei bilingui che hanno appreso l’inglese da adulti (cfr. Fabbro 2004). In un importante lavoro coordinato da Daniela Perani è stata studiata, mediante fMRI, la rappresentazione cerebrale in tre gruppi di bilingui italiano-tedesco. Il primo gruppo è formato da individui che hanno acquisito le due lingue contemporaneamente (acquisizione di L2 prima dei 3 anni). Il secondo gruppo è formato da bilingui che hanno acquisito il tedesco prima degli otto anni (L2 acquisita prima degli 8 anni). Il terzo gruppo è formato da bilingui che hanno appreso il tedesco dopo gli otto anni di età. I primi due gruppi di bilingui possiedono una conoscenza perfetta del tedesco sia a livello fonologico sia a livello morfosintattico, mentre i soggetti del terzo gruppo commettono numerosi errori morfosintattici e nell’uso del tedesco presentano un forte accento straniero. Nel primo gruppo (Early Acquisition High Proficiency [EAHP]) l’attivazione cerebrale rilevata durante l’esecuzione di compiti grammaticali è identica nelle due lingue (italiano e tedesco) e coinvolge in maniera focalizzata le classiche aree del linguaggio. Nel secondo gruppo (Late Acquisition High Proficiency [LAHP]), nonostante le competenze linguistiche siano uguali a quelle del primo gruppo, la seconda lingua ha una rappresentazione cerebrale più estesa rispetto alla prima. Nel terzo gruppo (Late Learning Low Proficiency [LLLP]) la seconda lingua tende ad occupare in maniera ancora più estesa numerose aree corticali e sottocorticali. Questa ricerca indica che l’acquisizione precoce della seconda lingua (tra i 3 e gli 8 anni) determina risultati a livello linguistico uguali all’acquisizione precocissima di L2 (prima dei 3 anni), ossia completa competenza fonologica e grammaticale in L2, mentre vi sono significative differenza a livello neurobiologico, infatti, l’acquisizione di L2 prima dei 3 anni corrisponde a un periodo di forte sviluppo della sinaptogenesi, con i sistemi della memoria procedurale ancora molto plastici, mentre tra i 3 e gli 8 anni la sinaptogenesi cresce in maniera molto più lenta e si riduce progressivamente la plasticità nei sistemi della memoria procedurale. La maggiore rappresentazione cerebrale del tedesco (L2) nei bilingui che lo hanno appreso dopo i tre anni corrisponde ad un Neuroscienze ed educazione plurilingue maggiore fabbisogno energetico durante l’utilizzazione di questa lingua. Per questo tipo di bilingui esprimersi nella seconda lingua risulta dunque più “faticoso” che nella lingua materna. Conclusioni Numerosi studi di psicolinguistica hanno evidenziato che non è mai troppo tardi per diventare bilingue; una persona, infatti, può apprendere una seconda lingua in qualsiasi periodo della vita (Fabbro 2004). Gli sforzi necessari per apprendere una lingua straniera e il livello di conoscenza raggiunto dipendono, invece, dall’età in cui un individuo viene esposto a tale lingua. E’ un dato riconosciuto che soltanto l’acquisizione precoce di una seconda lingua garantisce una conoscenza completa a livello fonologico e grammaticale. L’importanza e la validità di questo concetto è stato recepito a livello legislativo dall’Unione Europea. La Gazzetta Ufficiale delle Comunità Europee del 3 gennaio 1998 riporta una Risoluzione del Consiglio dell’Unione Europea del 16 dicembre 1997 riguardante “L’insegnamento precoce delle lingue nell’Unione Europea”, nella quale si afferma che: “ferma restando la pari dignità di tutte le lingue dell’Unione, occorre riflettere sugli strumenti che possono permettere di raggiungere il duplice obiettivo di preservare la diversità culturale e linguistica e di promuovere il plurilinguismo europeo. L’apprendimento precoce può costituire un fattore di qualità nell’apprendimento delle lingue e in tal modo contribuire al conseguimento di siffatti obiettivi”. I dati e le riflessioni esposte in questo libro suggeriscono che il periodo migliore per realizzare un’educazione plurilingue in ambito scolastico coincide primariamente con l’asilo nido (0-3 anni) e secondariamente con la scuola dell’infanzia (3-6 anni)1. Le lingue acquisite in un periodo così precoce devono continuare a essere utilizzate nelle scuole elementari e nelle medie. Queste considerazioni ci permettono di capire i limiti delle recenti riforme sull’insegnamento della lingua straniera nella scuola italiana, che spostando l’introduzione della lingua straniera dalle medie inferiori alle elementari, ancora fanno perdere ai bambini gli anni “migliori” per acquisire le lingue. Numerose esperienze educative e ricerche in ambito neurolinguistico suggeriscono che le lingue si imparano meglio quando esse non vengono insegnate ma adoperate. E’ il caso dei bambini dell’asilo nido e della scuola dell’infanzia. Nessuno può pensare di insegnare gli elementi grammaticali di una lingua straniera a bambini che non hanno ancora compiuto sei anni. Questi bambini, pur non conoscendo la grammatica di una lingua, sono in grado di impararla facilmente mediante il gioco e l’interazione comunicativa. Neuroscienze ed educazione plurilingue Riferimenti bibliografici Aglioti S., Fabbro F. 2002. Cervello poliglotta e apprendimento delle lingue. Le Scienze Dossier, 14: 84-89. Fabbro F. 1996. Il cervello bilingue. Roma: Astrolabio. Fabbro F. 1999. The Neurolinguistics of Bilingualism. Hove: Psychology Press. Fabbro F., Alberti B. 2002. Il bambino e il linguaggio. Milano: Ghedini. Fabbro F. 2004. Neuropedagogia delle lingue. Roma: Astrolabio. Neville H.J., Coffey S.A., Lawson D.S., Fischer A., Emmorey K., Bellugi U. 1997. Neural systems mediating American Sign Language: Effects of sensory experiences and age of acquisition. Brain and Language, 57: 285-308. 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