La «comunicazione d`esistenza - Dipartimento di Scienze Politiche

Centro di metodologia delle scienze sociali
RAGIONE E FEDE IN KIERKEGAARD.
LA «COMUNICAZIONE D’ESISTENZA» E IL PROBLEMA DEL
RAPPORTO TRA TEMPO ED ETERNITÀ
di Antonio Martino
Working Papers
n. 113, 2009
© 2009, Pubblicazioni a cura del Centro di metodologia delle scienze sociali, LUISS Guido Carli, Roma – Viale Romania, 32 - 00197 Roma
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Kierkegaard e la filosofia del suo tempo.
«Cerchiamo colui che dobbiamo trovare,
cerchiamo colui che abbiamo trovato».
S. Agostino.
«Di tutti i peccati brillanti, le virtù affettate
sono i peggiori».
Kierkegaard.
Per nessuno dei pensatori antichi e moderni si può dire che filosofia ed esistenza
siano tutt’uno come per Søren Aabye Kierkegaard. Il suo filosofare è l’intimo e
profondo respiro d’una riflessione che verte su Dio e sulla persona, e la cui vicenda
esistenziale ha senso solo in quanto gli eventi esteriori hanno risonanza nell’io più
proprio. Meditazione ed esposizione procedono di pari passo. Il dire filosofico
kierkegaardiano è parola vissuta. Il suo continuo, diretto e conseguente meditare fluisce
attraverso la limpida e spirituale profondità della sua esposizione, semplice eppur
erudita, forse mai più ripetibile, che permette ai suoi scritti di inserirsi direttamente nel
terreno del vissuto cogliendo l’intima drammaticità della condizione umana. Un
aneddoto, risalente al periodo in cui frequentava l’Università, è illuminante per
comprenderne la problematica filosofica di fondo, poiché l’intiera sua opera è uno
specchio, particolarissimo e incantato, che ne raffigura la vita secondo gli infiniti canoni
dell’esistenza interiore aspirante. Ebbene, Sibbern, che fu professore di filosofia di
Kierkegaard all’Università, ricorda che, al tempo in cui l’hegelianesimo era dominante
negli Atenei, incontrato il suo giovane studente al Mercato generale, fu
improvvisamente investito con una domanda che prospettava l’immane compito cui il
“Socrate danese” si sarebbe sacrificato e che esprimeva, sicuramente, assieme al suo
travaglio interiore, un disperato bisogno di sincerità. Kierkegaard chiese a bruciapelo:
«che rapporto ci fosse tra la filosofia e la vita nella realtà» (hvad Forhold der var mellen
Philosophien og Livet i Virkeligheden). «Il problema mi colpì – come ebbe a dire
Sibbern – siccome tutta la mia filosofia mirava a studiare la vita e la filosofia, ma allora
io dovetti essere certamente sorpreso che per un hegeliano questa questione fosse
naturale, siccome gli hegeliani non studiavano la filosofia esistenzialmente».
Inizialmente in lotta contro la filosofia a favore della fede, poi contro il Cristianesimo
ufficiale a favore del Cristianesimo autentico, non avendo mai “la certezza di esserci
entrato o di potervi entrare”. È proprio da questo suo profondo bisogno di sincerità che
scaturisce la spirituale necessità di ritornare in se stesso. L’atto del ri-tornare, nella
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purezza del suo intento, deve essere scevro da ogni cattiva dialettica affinché si possa,
dopo l’abbaglio della conoscenza oggettiva assoluta, ri-trovare la giusta dimensione
dell’umano aspirante. Solo in questo ri-tornare è possibile un ri-trovare. Tornare al
proprio essere interiore è un atto proprio della vita in quanto esistenza. Solamente
nell’esistenziale è possibile l’interiorità. L’esistenza non è un che di dato o di oggettivo,
ma la stessa soggettività dell’azione che si afferma con la libertà. L’impegno
intellettuale e spirituale di Kierkegaard è sostanzialmente profuso nel tentativo di inibire
la confusione provocata da una dialettica che conduce verso la “cattiva infinità”
(schlechte Unendlichkeit). La cattiva infinità annulla ogni vera interiorità ed ogni
differenza qualitativa dell’essere; è diretta conseguenza della concezione dell’essere
come libertà e dell’interpretazione della libertà come possibilità pura e apertura
illimitata, come identità di essenza e di esistenza, di possibilità e realtà, di esterno e di
interno, il superamento delle opposizioni secondo la definizione hegeliana (Das Äußere
ist das Innere). Eppure, come esistenti, viviamo il travaglio e l’inquietudine del nostro
essere nel tempo. Kierkegaard capisce, sente nel proprio spirito che, quando la faccenda
diventa oggettiva, non v’è più spazio per la questione della salvezza eterna, perché
questa consiste precisamente nella soggettività e nell’interiorità della decisione. Una
risoluzione interiore, uno scrupolo (Anfaegtelse) esistenziale che è consapevolezza,
domina tutta la sua vita e gli appartiene fin dall’inizio: essersi consacrato alla causa del
Cristianesimo. Una simile figura sarà sempre importante per la Cristianità: “uno che
ferma la corsa per vedere dove ci troviamo, per vedere se il tutto non è sfumato in
un’illusione; uno che esponga il Cristianesimo completamente senza riguardi […]
portando ciascuno a provare se stesso” (Diario, 1867).
In Hegel, la dialettica è l’anima che permette il cammino del pensiero attraverso il
superamento razionale delle contraddizioni in cui resta bloccato l’intelletto. Il
movimento dialettico si struttura nei tre momenti dell’elemento logico: il momento
astratto o intellettuale, in cui il pensiero come intelletto si ferma alla determinazione
finita rigidamente opposta alle altre; il momento propriamente dialettico (negativamente
razionale) ossia il sopprimersi da sé di queste determinazioni finite e il loro passaggio
nelle opposte; il momento speculativo o positivo-razionale, che concepisce l’unità delle
determinazioni nella loro opposizione, unità che conserva ciò che vi è di affermativo
nella loro soluzione e nel loro trapasso (Aufhebung). Tre momenti di ogni realtà logica,
cioè di ogni concetto o verità in generale. Nell’Enciclopedia delle scienze filosofiche
(nel famoso § 81) leggiamo che la dialettica è “quell’oltrepassamento immanente, in cui
l’unilateralità e limitatezza delle determinazioni intellettive si presentano per quello che
sono, cioè come negazione delle determinazioni stesse. Ogni finito consiste nel
rimuovere se stesso. Il momento dialettico costituisce pertanto l’anima motrice del
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procedimento scientifico, ed è l’unico principio mediante cui il contenuto della Scienza
ottiene nesso e necessità immanenti; analogamente, è nel momento dialettico in generale
che risiede la vera elevazione, non esteriore, al di sopra del Finito”1. La dialettica
logico-ontologica di Hegel esprime la struttura triadico-dialettica della realtà stessa, che
si riproduce in tutte le forme del pensiero, della natura e dello spirito. Come noto, la
Filosofia del diritto è il tentativo di attuare la conciliazione della filosofia con la realtà
in genere: “come filosofia dello Stato con la realtà politica; come filosofia della
religione con quella cristiana […] A questo punto culminante della sua attività, egli ha
compreso il mondo reale come «conforme» allo Spirito e, d’altra parte, lo Stato
1
G. W. F. Hegel, Enzyclopädie der philosophischen Wissenschaft, Berlin, 1830; tr. it. di V. Cicero, Enciclopedia delle
scienze filosofiche in compendio, Bompiani, Milano, 2000, pp. 227-230. Nella Phänomenologie des Geistes, BabergWürzburg, 1807; tr. it di V. Cicero, Fenomenologia dello spirito, Bompiani, Milano, 1995, l’Aufhebung è
un’elevazione (Er-hebung) perché «ri-muove» qualsiasi determinazione fissa, stabile, e la riconduce all’interno
dell’automovimento del Concetto, innalzandola alla sua verità. Nel suo vero e duplice significato, l’Aufhebung è, a un
tempo, «un negare e un conservare (ein Aufbewahren)». Allora, se il Concetto (Begriff) puro è «lo sguardo del Sé nel
Sé, l’atto duplice e assoluto di vedere se stesso» che, quale elemento puro dell’esistenza dello Spirito è il fondamento
in cui la verità ha la propria esistenza e in cui ha luogo il movimento dialettico, ecco che l’unità dell’Io e dell’essere è
realtà pensante, che, come Categoria (Kategorie), consiste di tre momenti o specie categoriali: l’essenzialità (unità)
pura, la differenza pura e la singolarità (relazione tra le due precedenti). In sé e per sé la Categoria è il Concetto
Assoluto: «Il Concetto assoluto è la Categoria, e ciò significa: il sapere e l’oggetto del sapere sono identici». Come
giustamente osserva Cicero: “Per Hegel, dunque, la Categoria non ha il carattere di semplice predicato – sia poi
questo considerato in senso ontologico, come in Aristotele, o trascendentale, come in Kant, - ma è essenzialmente
soggetto”. Essere-in-sé (Ansichsein), Essere-per-sé (Fürsichsein), Essere-in-sé-e-per-sé (Anundfürsichsein), il ritmo
fondamentale del movimento dialettico è scandito da questa triade. Ora, il movimento dialettico hegeliano deve
essere compreso nel suo legame essenziale con il concetto di Spirito (Geist). Lasciamo parlare Hegel: “Il vero è reale
solo come sistema, la sostanza è essenzialmente soggetto: tutto ciò è espresso nella rappresentazione che enuncia
l’Assoluto come Spirito – concetto eminentissimo che appartiene all’epoca moderna e alla sua religione. Solo lo
spirituale è il reale: esso è l’essenza, cioè l’essente-in-sé; esso è ciò che si rapporta ad altro, il determinato, è
l’essere-altro e l’essere-per-sé – ed è il permanere-entro-sé di tale determiantezza, cioè nel suo essere-fuori-di-sé:
solo ciò che è spirituale è in sé e per sé […] Il puro autoriconiscimento nell’assoluto essere altro, questo etere in
quanto tale, è il terreno su cui si fonda la scienza, è il sapere nella sua universalità […] la condizione dell’inizio della
filosofia è che la coscienza si trovi in questo elemento. Tale elemento, però, giunge a compimento e a piena
trasparenza solo mediante il movimento del proprio divenire. Esso è la pura spiritualità, nel senso dell’universale il
cui modo di essere è quello dell’immediatezza semplice: questa semplicità quando esiste come tale, è il terreno, è il
pensiero che ha sede unicamente nello Spirito. Poiché questo elemento, questa immediatezza dello Spirito, costituisce
il carattere sostanziale generale dello Spirito stesso, esso è l’essenzialità trasfigurata, la riflessione che, essa stessa
semplice, è per sé l’immediatezza in quanto tale: è l’essere che si riflette entro sé stesso”; Fenomenologia dello
spirito, Op. cit., pp. 75-77. Nel paragrafo 82 dell’Enciclopedia, Hegel precisa che nella Logica speculativa è
contenuta anche la mera logica dell’intelletto, che può esserne subito dedotta semplicemente trascurando il momento
dialettico e razionale (abbiamo così varie determinazioni di pensiero giustapposte, ossia la logica usuale). Ma, poiché
la dialettica ha un risultato positivo perché ha un contenuto determinato, l’elemento razionale è sia pensato che
astratto ma è allo stesso tempo “un Concreto, perché non è un’Unità semplice e formale, ma Unità di determinazioni
differenti. In generale, dunque, la Filosofia non ha niente a che vedere con mere astrazioni o con pensieri formali, ma
si occupa unicamente di pensieri concreti”; Op. cit., p. 229. È precisamente a causa dell’intendimento e
dell’elaborazione sistematica idealistica – hegeliana (non risparmia critiche a Fichte e Schelling) di determinazioni
quali “Spirito”, “Logica”, “Immediatezza” (Unmittelbarkeit), “Realtà” (Wirklichkeit) “Dialettica” ecc., che
Kierkegaard introduce il concetto di esistenza. La filosofia moderna sbaglia essenzialmente perché considera la fede
come oggetto di speculazione. Non si tratta di speculare, ma, di vivere, con tutta la passione di cui siamo capaci, la
realtà della sofferenza che comporta la decisione autentica del proprio destino. Il salto nella fede è atto
essenzialmente qualitativo che nessuna determinazione concettuale può inquadrare. Di fronte all’Eterno la ragione
umana si arresta e comprende che “non deve né può comprendere”. Si confronti anche Søren Kierkegaard, Appunti
delle lezioni berlinesi di Schelling sulla “Filosofia della Rivelazione” [1841–1842], a cura di Ingrid Basso,
Bompiani, Milano, 2008.
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prussiano-protestante si è impadronito della filosofia nella persona di Hegel. […] Egli
intendeva lo Stato prussiano del 1821 come una realtà nel senso definito dalla Logica,
cioè come un’unità divenuta immediata di essenza interna e esistenza esterna, come una
realtà nel senso «enfatico» della parola”2. Ancora, nella Fenomenologia dello spirito, la
verità filosofica del cristianesimo consiste nel fatto che Cristo ha conciliato la scissione
dell’umano e del divino. Cristianesimo significa essere nella verità sulla base
dell’umanizzarsi di Dio. La conciliazione del terreno e del divino è il «regno di Dio»
(realtà in cui Dio domina come spirito unico ed assoluto). Osserva Karl Löwith: “Il
«regno di Dio» della filosofia della religione è identico al «regno intellettuale» della
Storia della filosofia e al «regno degli spiriti» della Fenomenologia”3. La filosofia è
così la conciliazione con la realtà rappresentata dal cristianesimo attraverso
l’umanizzarsi di Dio e, in quanto conciliazione finalmente compresa, è una teologia
filosofica. Eppure, a Kierkegaard, la realtà effettuale non sembra cristiana. Lo stesso
Schelling, durante le sue lezioni a Berlino, seguite da Kierkegaard (dal 15 novembre
1841 al 4 febbraio 1842), ammise di veder sacrificato nel sistema logico hegeliano il
“concreto esistente”. Questa dialettica non è sincera, è una mascherata che potrà
senz’altro ricevere il plauso della folla (Maengde, bersaglio polemico preferito da
Kierkegaard), che come legge del Numero (Tal, det Numeriske) è determinazione
dell’animalità che sopprime la personalità e si rifugia nell’anonimia di una genericità
impersonale. La folla è la categoria più empia ed anticristiana perché sacrifica il
“concreto esistente”. Bisogna stare lontani dal “mondo” per trovarsi innanzi a Dio; il
pensiero puro hegeliano, come sintesi assoluta e comprensione dell’essere e
dell’accadere del reale, non prende in merito e sacrifica la questione del pensatore come
pensatore esistente, del proprio esistere (il paradosso del Re che rimane fuori dal
castello, adoperato da Kierkegaard, è particolarmente appropriato). Un sistema logico è
essenzialmente la sua necessaria verità sia come consequenzialità e legame interno
dell’elemento logico nelle sue unità minime (composizione semantica), che come
conseguenza necessaria delle possibilità (diverse di “tutta una qualità”
dall’impossibilità di determinazione del possibile contingente) che l’enunciato iniziale
suggerisce. Ha ben poco a che fare con il possibile contingente, con la libertà come
possibilità della scelta. Scelta e necessità sono inconciliabili. Le verità logiche sono
qualitativamente diverse rispetto alle dinamiche esistenziali. Quale logica spiega un
2
K. Löwith, Von Hegel zu Nietzsche, Europa Verlag A. G., Zürich, 1941; tr. it. di G. Colli, Da Hegel a Nietzsche. La
frattura rivoluzionaria nel pensiero del secolo XIX , Einaudi, Torino, 1981, p. 81- 83. Löwith precisa che: “La
ragione cosciente di sé – cioè la filosofia dello Stato – e la ragione in quanto realtà sussistente – cioè in quanto Stato
reale – sono unite l’una con l’altra, e «nella profondità» dello spirito sostanziale del tempo sono la stessa cosa.
Quanto per altro sta «tra» la ragione come spirito autocosciente e la realtà sussistente, quanto cioè separa ancora
quella da questa e contrasta alla conciliazione, è spiegato da Hegel, tanto apoditticamente quanto indeterminatamente,
come la «catena di una qualche astrazione che non si è ancora liberata nel concetto»”.
3
Ibidem.
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sospiro?
Pertanto, se si vuole costruire un sistema logico, bisogna partire dall’essere logico e
non assumere nulla di ciò che è soggetto alla dialettica dell’esistenza (cioè di quanto è
unicamente perché esiste o perché è esistito). La dialettica dell’esistenza è una dialettica
qualitativa. Hegel, con l’introduzione del movimento nella logica, ha introdotto “la
confusione nella logica”. Difatti, ponendo il movimento a fondamento di una sfera dove
esso è impensabile, egli cerca di spiegare la logica per mezzo del movimento mentre la
logica non può spiegare il divenire. Kierkegaard chiarisce nella grande Postilla
conclusiva non scientifica alle Briciole di filosofia (1846) che il movimento
(Bevaegelse) o divenire (Vorden, Tilblivelse), deve essere compreso “come il
presupposto inesplicabile, come il terreno comune in cui l’essere e il pensiero si
unificano e come la reciprocità continua”. E ancora: “Un sistema logico è senz’altro
possibile; ma non è possibile un sistema dell’esistenza”. Dal punto di vista ermeneuticoesistenziale la questione ha un’importanza capitale e può essere riassunta in una
domanda: Se l’esistenza è in divenire e il pensatore in quanto esistente è in divenire,
come è possibile la «comunicazione d’esistenza»?
Nel Diario è più volte ribadito il concetto secondo cui l’importanza dell’esistenza
consiste nel fatto che in essa veniamo esaminati per l’eternità. Iddio stesso ha disposto
l’esistenza in maniera tale ch’è impossibile, in questo mondo, rapportarsi “in verità alla
verità”, senza venire a soffrire, e il giudizio dell’eternità è di vedere se ognuno,
soffrendo, si è rapportato alla verità. La sofferenza (Lidelse) è il segno distintivo della
situazione cristiana, è quindi l’unica vera situazione (Situation, Forhold) nella sua
peculiare qualità di tensione dialettica del rapportarsi alla verità. Se ogni categoria
dell’esistenza presuppone e pone una situazione, la sofferenza è l’unica e vera
situazione cristiana e, come pathos dell’esistenza spirituale, l’autentica reduplicazione
(Reduplikation) della verità: il Cristianesimo comincia ad esistere per un uomo soltanto
nella sofferenza. Poiché Cristo è l’impeto esistenziale dell’eterno che venne per soffrire
e morire, solo mediante la sofferenza l’uomo raggiunge l’affinità con Dio. È nel dono
divino dell’esistenza, in questo mondo di «tribolazioni ed affanni», che si aprono
spiragli di luce in mezzo alle tenebre dell’angoscia: “Quando poi c’è un singolo che
vuole arrischiarsi un po’ più onestamente per la verità, sebbene anche lui preferirebbe
aver la verità senza dover per essa soffrire, la Provvidenza si muove a pietà di lui e lo
aiuta ad arrivare a soffrire per davvero. Naturalmente egli strilla: ahimé e ohibò ecc ….
È tuttavia questo un tratto di amore da parte della Provvidenza, se è certo che alla verità
non ci si può rapportare che soffrendo realmente e che il giudizio dell’eternità sarà se
avremo realmente sofferto per la verità, e saranno scartati tutti i sofisti” (Diario, 4081).
All’uomo non rimane che la possibilità del rapporto comunicativo esistenziale; il
singolo deve porre ascolto a quei “teneri moti del cor profondo” (interiorità) per
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preparare lo spirito al salto nella fede (tensione e abbandono). L’essenza dell’uomo
sembra consistere nella peculiarità della comunicazione come rapporto.
L’uomo è rapporto, mai sintesi. (ecco l’essenza della comunicazione in-diretta della
verità diretta). Il tipo di indagine che i greci chiamavano σχέψις (ricerca e dubbio) è
molto vicina alla fede quale essa è in Giobbe e Paolo, in Agostino, Lutero, Pascal e
Kierkegaard, “una fiducia incondizionata che si conquista a fatica e si perde con
facilità”. Nella filosofia classica skepsi ha lo stesso significato di cercare, ri-cercare,
«guardarci da vicino». “Ciò che la skepsi cerca però non è il dubbio, ma la verità”4. Per
l’essere umano la verità è sempre rapporto, è il come del suo rapportarsi, anzitutto a se
stesso, indi al trascendente. La forma della comunicazione spiega che l’apertura verso il
proprio sé autentico (ritorno all’interiorità) è fondamentalmente apertura che ri-manda
al divino. La comunicazione stessa è ispirazione (Dio che muove verso l’uomo con
l’aiuto della Grazia) all’aspirazione (Fede, ossia l’essere in carattere di quel che si
crede vivendo intensivamente fino all’«Imitazione di Cristo» e all’abbandono in Dio).
Socrate e Cristo, i “Maestri Modelli” non hanno scritto nulla: hanno insegnato a viva
voce mostrando la verità con la propria vita, ed è questa la forma primaria della
comunicazione. Chiariamo subito che la duplicità della comunicazione (Meddelelse) in
Cristo, al quale compete per sé e in sé la comunicazione diretta della verità in campo
etico-religioso in quanto Uomo-Dio e quindi verità stessa, avviene in modo indiretto
perché in figura di servo, compiendosi in forma assolutamente diretta nella Risurrezione
ed Ascensione riservata a Lui soltanto. Socrate, dal canto suo, seppur ignaro del
Momento, sapeva servirsi «dell’idea come limite» (af Ideen som Grœndsee). L’idea si
sottrae alla precarietà del tempo, essa è qualcosa di universale ed eterno e Socrate
sapeva che idee siffatte esistono, ma “ignorava «che cosa» esse fossero; ciononostante
seppe servirsene come di qualcosa che non dà scampo nel costringere l’uomo a prendere
atto del proprio se stesso. Non si pose al servizio delle idee, come fece il discepolo
Platone, ma le utilizzò sistematicamente come «limiti» contro cui urtare per poter così
rimbalzare verso il proprio se stesso, e dunque con una nuova consapevolezza della
propria positiva capacità di avere a che fare con la verità”5. Come Kierkegaard
affermava nella sua tesi di dottorato Sul concetto di ironia, in riferimento costante a
Socrate (1841), il particolare “punto di vista” di Socrate, che era la sua “ironia” nei
confronti di chi dimenticava il proprio umile se stesso, era rivolta a coloro che,
nell’oblio di sé, presumevano di potersi dedicare a cose più importanti, magari a verità
eterne. Socrate diede strategicamente un’importanza infinita alla sua ironia, e per questo
poté costantemente preferirla al possesso di qualsiasi sapere. Nemmeno a costo della
4
Skepsis und Glaube è un saggio del 1951 pubblicato nel volume di K. Löwith, Wissen, Glaube und Skepsis,
Vandenhoeck & Ruprecht, Göttingen, 1956; tr. it. di C. de Roberto e H. Walde, K. Löwith, Fede e ricerca,
Morcelliana, Brescia, 1960, pp. 32-57.
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U. Regina, Kierkegaard. L’arte dell’esistere, Morcelliana, Brescia, 2005, p. 30-34.
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vita egli avrebbe rinunciato alla fedeltà a questo suo «esistere». Gli Ateniesi dell’epoca,
che lo condannarono a morte, capirono il suo essenziale mantenersi in carattere con la
decisione. Socrate non temeva la morte, ma non per questo la desiderava; nulla
concedeva a paure o desideri: lo avrebbero distratto da se stesso. Kierkegaard coglie
nella «fede socratica» (den sokratiske Tro) qualcosa di analogo alla fede cristiana;
l’ignoranza socratica (“analogon della determinazione dell’assurdo” scriverà nella
Postilla), quella «briciola d’incertezza» (Uvishedens «Smule») aiutò Socrate a
mantenersi con tutta la passione dell’interiorità nel rapporto paradossale con la verità
eterna. La passione, per un soggetto esistente, è il culmine dell’interiorità; a tale
passione corrisponde la verità come paradosso: l’appassionata intimità del singolo
esistente con la verità trova nella stessa verità divenuta paradosso il suo fondamento.
Con Socrate la filosofia greca conquista una nuova concezione della verità che è al
tempo stesso la propria autocritica: “non più la verità come identità di essere e pensiero,
oggettività, bensì come paradosso, incertezza, interiorità. […] Con il solo aiuto di
Socrate è possibile dunque giungere a una definizione della verità valida anche per il
cristiano, e raccomandabile soprattutto al cristiano moderno, al cristiano «hegeliano»,
che nella certezza assoluta del «sistema» si dimentica della «verità essenziale», e di se
stesso in quanto «esistente»”. Socraticamente la verità eterna non è affatto paradossale,
ma soltanto nel rapportarsi all’esistente La verità più alta per un esistente è l’incertezza
oggettiva mantenuta nella ri-appropriazione della più appassionata interiorità. La
ricerca della verità e la certezza della fede cristiana si accordano con l’ironia classica
nell’intensivo rapportarsi a se stesso dell’uomo in quanto esistente. Löwith ci fa notare
come la skepsi filosofico-ironica di Socrate si estingua pian piano di fronte alla «serietà
cristiana», che, se può essere paradossale nelle sue formulazioni intellettuali, non può,
però, essere ironica. Il dubbio è divenuto, attraverso il cristianesimo,“compiuto”, più
intenso di “tutta una qualità” rispetto all’antichità. Agostino, Pascal, Kierkegaard
dubitano e cercano in modo diverso, con una passione disperata. Rispetto alle
contraddizioni razionali riguardanti la verità o la falsità di enunciati, discusse dalla
skepsi classica, il dubbio cristiano tocca il problema del se e come l’uomo peccatore
possa essere totalmente nella verità.
La modalità di comprensione della verità.
Nessuna certezza per uno spirito che cerca, solo aspirazione e perfezionamento.
Diuturna ricerca umana della verità che sembra potersi accostare alla celeberrima
sentenza lessinghiana che chiude il primo capitolo della Controreplica:
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Non la verità di cui un uomo è o si crede in possesso, ma il
sincero sforzo per giungervi, determina il valore del singolo [c.
n.]. Infatti le sue forze conseguono un miglioramento non in virtù
del possesso della verità ma della sua ricerca e soltanto in questo
consiste il sempre crescente perfezionamento umano. Il possesso
rende quieti, pigri e presuntuosi [….] Se Dio tenesse nella sua
mano destra tutta la verità e nella sinistra il solo eterno impulso
verso la verità, seppur con la condizione di dover andar errando
per l’eternità, e mi dicesse: scegli! Io mi precipiterei umilmente
alla sua sinistra e direi: concedimi questa, o Padre! La verità pura
è soltanto per te!6
L’assoluta trascendenza dell’oggetto di fede e la rottura che questa comporta rispetto
alla sfera della ragione, il paradosso dell’eterno che è nel tempo, dell’immutabile che
nasce e muore espiando i peccati dell’uomo (“La fede nella remissione dei peccati è la
crisi decisiva per diventare spirito” scriverà nel Diario, ossia la “parola d’ordine” del
messaggio cristiano nel mondo), comportano un’infrazione aperta ai principi logici, ma
“Senza rischio, niente fede” leggiamo nella Postilla; si crede proprio perché l’oggetto
della fede si manifesta come paradosso, assurdo, contrario alla ragione. Assurdo che
apre le porte all’Infinito. È la certezza oggettiva che decade, sfuma in incertezza e
timore poiché viene portata a largo, lontano dalla confortevole battigia, a “70.000 piedi
di profondità”. L’esistenzialismo teologico kierkegaardiano è pregno di una tensione
dialettica che anima il suo pensiero fino a rendere l’intimità della sua riflessione
esistenziale la più sincera e straziante theologia experimentalis. Non la “teologia
filosofica” di hegeliana memoria, ma la “teologia sperimentale” ha in sé il movimento
esistenziale, vivo, sofferto e la dialettica autentica del qualitativo rapportarsi al Divino.
Se il tema della Vita (Liv) occupa specialmente i Diari della gioventù fino all’epoca
delle Opere pseudonime (1843 ss. quando comincia a prendere consistenza la
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G. E. Lessing, Eine Duplik, 1778; Axiomata, 1778; Anti – Goetze, 1778. La prima edizione italiana dei testi
lessinghiani del 1778 è presentata nell’ottima e precisa traduzione di G. Ghia, Religione e libertà, Morcelliana,
Brescia, 2000, p. 33. La traduzione di Ghia è condotta in base all’edizione dei Sämtliche Werke, a cura di K.
Lachmann e F. Muncker, Berlin – New York 1979, ristampa fotostatica delle Sämtliche Schriften, 1838 – 1840,
curate da Karl Lachmann e integrate nella terza edizione, 1886 – 1924, da Franz Muncker. Le opere tradotte si
trovano nel volume XIII, rispettivamente alle pagine 19 - 90; 105 - 137; 139 - 213. La Controreplica lessinghiana è
una disputa teologica (con riferimento alla questione dell’ispirazione verbale della Bibbia), ed è proprio sul terreno
dogmatico che Lessing è chiamato a confrontarsi con il suo avversario più strenuo e ostinato: Johann Melchior
Goetze (1717 – 1786), il pastore–capo di Amburgo autore di numerosi interventi polemici contro Lessing. In un breve
commento dell’esposizione di Lessing contenuto nella Postilla, ove si tratta di come il pensatore esistente soggettivo
nel suo rapporto esistenziale alla verità ha parimenti comicità come essenzialmente pathos, si legge che: “Il pastore
capo Goetze è una figura quanto mai divertente, che Lessing comicamente ha conservata all’immortalità associandolo
in modo indivisibile alla sua esposizione”. Il riferimento al pastore Goetze, nonché la conoscenza che Kierkegaard
aveva del personaggio, avviene soprattutto attraverso lo studio degli scritti polemici di Lessing su citati. Kierkegaard,
nella Postilla (1846), si schiera dalla parte di Lessing, approvando il giudizio sull’«aspirazione incessante». Nel
Diario, a quattro anni di distanza, afferma che Lessing aveva torto poiché “ciò è un po’ troppo erotico” (il pericolo è
quello che, come nell’amore, il prezzo, la fatica del conquistare, possa interessare più della persona amata, cosa
impossibile nei riguardi della Fede) in quanto, in rapporto alla verità non è possibile stimare di più il prezzo (anche se
il prezzo del sacrificio è molto alto) così da attribuirgli maggior valore che alla verità. Tutto ciò è egoismo,
“un’aberrazione pericolosa e perfino empia”, (2367). Il Cristianesimo non è perfettibile.
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dialettica), è con il Cristianesimo che inizia per l’uomo una vita del tutto nuova nella
quale s’impone come prima cosa il rapporto alla divinità creatrice: questo rapporto non
va più riferito al genere, ma al Singolo. Ora, per via della dialettica cristiana, la vita
diventa, sempre più, mera responsabilità e carattere, sino al raggiungimento di quella
“serietà” che Kierkegaard definisce “tremenda”.
La dialettica qualitativa dell’atto di fede è salto e scelta, non conciliazione e
mediazione, ma immediatezza qualitativa della fede. La fede come dottrina divina (fides
objectiva, fides quae), resta assolutamente immutata ed è assurdo parlare di
«perfettibilità del Cristianesimo». La fede come atto del credente (fides subjectiva, fides
qua) è l’inizio assoluto nella vita dello spirito: essa è «l’immediatezza che viene dopo la
riflessione», l’immediatezza di secondo grado. È il movimento dell’ideale a rendere
ogni uomo un singolo e, proprio in questo, nel divenire Singolo, consiste la dialettica
qualitativa. C’è quindi una immediatezza (Umiddelbarhed) del reale, cioè il presentarsi
della natura e degli altri uomini (la prima immediatezza) e c’è l’immediatezza della fede
come l’inizio della vita cristiana (la seconda immediatezza). Di conseguenza, se l’agire
si rapporta sempre all’immediatezza o prima della riflessione (Reflexion) – come
impegno (immediatezza etica) – o dopo la riflessione come rischio assoluto
(immediatezza della fede), capiamo come la differenza sostanziale con l’hegelismo
consista precisamente nella diversa modalità di rapporto dello spirito con la realtà. Lo
spirito rifiuta ogni immediatezza che non è realtà e scelta, serietà sofferta del
mantenersi in carattere con la scelta del divenire cristiani. In senso esistenziale e
cristiano, spirito (Aand) non si nasce ma si diventa. Eppure, essere e comprendere nella
realtà (Virkelighed) è il contrario di comprendere nella possibilità dove manca ancora il
rischio e l’impegno effettivo. Allora, «raggiungere la realtà» (at naae Virkeligheden) è
affrontare quel che si crede il pericolo più grande. Solo come spirito è possibile per
l’uomo la dialettica qualitativa del rapporto con l’ideale divino. Ogni immediatezza che
non è rapporto spirituale, viene, di conseguenza, negata dallo spirito. La dialettica,
come vita dello spirito, è “riflessione doppia” ossia trasformazione del carattere,
rinascita secondo il Cristianesimo. La forma che permette la ricezione dell’oggetto di
fede è dono della Grazia Divina, possibilità autentica del salto nella fede. Ed ecco
spiegato il perché comunicare la verità significa testimoniare la verità (forma autentica
dell’agire in carattere con la scelta di fede); l’esistenza deve quindi porsi in rapporto
all’Uomo-Dio, Cristo, perché solo Lui è la Verità. La comunicazione come rapporto
autentico (di sé con sé stesso nell’interiorità, quindi verso l’altro da sé) è possibilità di
comprensione del patire e dell’aspirare, è carità e pietà dello spirito che Cristo-Modello
testimonia per ogni singolo uomo nella sofferenza della Passione. La “comunicazione
d’esistenza” è la morte e resurrezione di Cristo; ri-nascita, per ogni uomo, nella
compassione dell’amore (per mezzo del Divino Amore) come testimonianza di verità.
9
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La sua immensa produzione letteraria è una “comunicazione d’esistenza”. Tutto ciò,
per Kierkegaard, significava abbandonare la filosofia atea e rinnovare l’esistenza nella
religione, denunziare il Cristianesimo degenerato della Chiesa ufficiale (danese) ed
accettare nella sua integrità il Cristianesimo originario. L’inquieto fervore, la
malinconia e lo sdegno, la sua disperazione e la sua fede danno forma ad una visione
religiosa singolarmente ricca di suggestioni7. Possiamo ben affermare che l’esperienza
7
“Unico conforto gli fu lo scrivere e scrisse molto in un giro d’anni relativamente breve, poco più di un decennio. Le
sue opere sia nel contenuto come nel concatenamento che hanno fra loro, e nello steso uso degli pseudonimi,
rivelano, e lo confessa a più riprese Kierkegaard nel «Giornale», un piano prestabilito: mostrare la via di liberazione
dell’anima. Raramente come in esse, fenomeno forse unico in tutte le letterature, la concentrazione interiore di
un’anima ferita si dispiega con l’impetuosa irruenza che vuol fuggire da tutti e forse anche da se stessa, e che subito
si converte in una morbosa tenerezza per il suo stesso soffrire. S. Agostino scrive le Confessioni quando ha la
certezza della liberazione. Il Leopardi canta il dolore disperato. Kierkegaard sta in mezzo fra i due, crede in Dio e si
volge al Cristo ma il suo animo non ha conosciuto altra pace che quella pietosa della morte”. C. Fabro, Introduzione
all’ Esistenzialismo, Vita e Pensiero, Milano, 1943, p. 31. “Fin dalla mia prima età io sto gemendo con un «pungolo
nella carne», al quale si è aggiunta anche la coscienza di colpa e di peccato: io mi son sentito come eterogeneo.
Questo dolore, questa eterogeneità io l’ho capita come il mio rapporto a Dio”. È questo l’inizio del frammento del 13
febbraio 1853, dal titolo Di me stesso, X5 A 89, n. 3761, p. 24. Nel presente saggio abbiamo ritenuto opportuno ed
indispensabile, al fine di rendere chiara (compito certo arduo poiché bisognerebbe quantomeno entrare all’interno di
quella “logica degli pseudonimi”, metafora unica e squisitamente poetica-spirituale, intesa come itinerario,
personalissimo e intervallato da tappe precise, verso la liberazione dello spirito nel suo tendere ed abbandonarsi alla
Verità Divina di Cristo Modello, in quanto “Egli è l’oggetto della Fede”, è la stessa Verità) l’evoluzione esistenziale
della personalità di Kierkegaard, ricorrere più volte a quel vastissimo giacimento di preziose ed inestimabili gemme
spirituali costituito dal Diario. L’edizione italiana, a cura di Cornelio Fabro, Diario, Morcelliana, Brescia, 19481982, in 12 vol., è condotta, naturalmente, in base all’ed. originale danese, Papirer, Gyldendal Forlag, Copenaghen,
1909 ss, ed è quella di cui ci siamo serviti nella nostra breve ricerca. Per comodità di lettura, dopo ogni citazione
presa direttamente dal Diario, abbiamo preferito indicare il numero arabo progressivo tra parentesi, senza rimandare
ad alcuna nota, seguendo, in tal modo, l’ordine ineccepibile che padre Fabro (profondo conoscitore dell’opera di
Kierkegaard nonché maestro al quale massimamente l’Italia deve la conoscenza del grande filosofo danese) ha dato al
Journal, testimonianza dell’esistenza tormentata e percorsa da quel «furor scriptorius», ossia da un vitale bisogno di
poetare, ch’è stata la vita di Kierkegaard.
Turbamento continuo, ricerca strenue. Una vita che è pensiero e sforzo di scrittura “anche durante gli anni di
inattività”. Qualsiasi avvenimento e lo stesso scorrere del tempo sono per lui fonte inesauribile di ricchezza spirituale
e di possibilità d’espressione, per giungere al tipo di comunicazione indiretta che come ripetizione ed
interiorizzazione è l’unica vera comunicazione. Per un approccio sistematico allo studio critico della vita e delle
opere del “Socrate cristiano” ci è sembrato opportuno, seguendo le indicazioni di Kierkegaard stesso, dividere e
raccogliere la sua produzione letteraria in tre gruppi. (riportiamo lo schema, fedele alle suddette indicazioni, che
Fabro presenta nella sua Introduzione al Diario):
a) Le Opere pseudonime; sono le più conosciute ed hanno formato la sua riputazione. Esse sono o del tutto
pseudonime, come le prime, con Victor Eremita, Johannes de Silentio, Constantin Constantius, Nicolaus Notabene,
Vigilius Haufniensis, Frater Taciturnus, Hilarius Bogbinder ed altri secondari; od hanno per autore lo pseudonimo e
per editore lo stesso Kierkegaard, come per le Briciole e la Postilla di Johannes Climacus, La malattia mortale e
L’Esercizio del Cristianesimo di Anticlimacus. “Probabilmente” osserva Fabro “i critici hanno inteso lo sciamare
degli pseudonimi come una mascherata con diversi momenti scenici; lui invece ha fatto della mascherata la serietà
ironica del leggero pallio di Socrate, ha voluto unire il timbro chiassoso e mondano della mascherata carnascialesca
con le implorazioni di dolore e di penitenza delle processioni quaresimali dei Sacconi medievali”.
b) Le «Opere» segnate e pubblicate col suo nome. Il gruppo è rappresentato soprattutto dalle copiose Collezioni dei
Discorsi edificanti che accompagnano tutta la produzione pseudonima dall’inizio alla fine, con notevoli fenomeni
d’interferenze di dottrina e di forma.
c) Le «Carte» (Papirer), di cui la più interessante è data dal Journal o Diario: gruppo lasciato naturalmente inedito.
Tale divisione ha valore di principio perché suggerita dallo stesso autore. Nella sua Introduzione al Diario, padre
Fabro nota che “bisogna tener presente che il gruppo a) costituisce – assieme ad alcuni articoli polemici di giornali –
quella che K. Chiama la «comunicazione indiretta»; mentre i gruppi b) e c) formano la «comunicazione diretta».
Appartengono pure alla comunicazione diretta un’aggiunta della Postilla e tre saggi critico-espositivi: Il punto di
vista della mia attività di scrittore (1848), Per un esame di se stessi, raccomandato ai contemporanei (1851), Giudica
10
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religiosa di Kierkegaard, traendo rinnovato e ampio vigore dalla sua travagliata vicenda
esistenziale, implica la continua alternanza tra «vicinanza a Dio», in virtù del mediatore
Cristo, e «lontananza da Dio», creatore inaccessibile alla creatura peccatrice. Nella
Postilla, il cristianesimo viene presentato essenzialmente come paradosso e scandalo
“che non si lascia ridurre ad oggetto di speculazione”. In Nomi Propri, Emmanuel
Lévinas afferma che la grandezza della verità trascendente e il suo stesso essere
trascendente sono conseguenza della sua umiltà: “[…] la verità trascendente si
manifesta come se non osasse dire il suo nome e, perciò, sempre sul punto di partire;
perciò non viene a collocarsi tra i fenomeni con i quali si confonderebbe
immediatamente, come se non venisse da altrove”8. Il carattere indecifrabile della verità
trascendente consiste nel suo strutturarsi in modo esistenziale, vivo, storico ma nella
peculiarità, per l’uomo, del sempre incomprensibile, del non-conoscibile. Inconoscibile
per la ragione. Diverso è il rapportarsi alla verità trascendente per mezzo della Fede
(Tro) o, per meglio dire, secondo il senso esistenziale attribuito da Kierkegaard al
credere, nella Fede. Il cristianesimo come fede è un problema di esistenza non di
scienza. È questione soggettiva e non oggettiva. Solo gli occhi della Fede vedono ed
accettano lo “scandalo assoluto” dell’Uomo-Dio, lo scandalo dell’«umiltà della verità
perseguitata». E Cristo, Verità incarnata, scandalizza in quanto a Lui l’umiliazione
appartiene in modo essenziale. Non si tratta di giustificare o di provare, ma di credere.
“Per credere non è necessario essere contemporanei a Gesù. La realtà è che vedere un
uomo non è sufficiente a farmi credere che quell’uomo è Dio. È la fede che mi fa vedere
in un fatto storico qualcosa di eterno: e rispetto all’eterno «ogni epoca sta egualmente
vicina». La fede è sempre un salto, sia per chi è contemporaneo a Cristo sia per chi non
lo è”9. Umiltà (Ydmyghed) è avvertire la presenza e l’opera di Dio nel mondo e, al
contempo, testimoniare con l’atto di fede e con l’azione caritatevole la grazia divina. Il
da te stesso (1851-52); il primo e il terzo sono stati pubblicati postumi dal fratello Pietro. Da aggiungere un saggio
giovanile di critica ad Andersen, la tesi magistrale sull’Ironia e i 10 fascicoli del Momento di cui il 10º rimase inedito
sul suo tavolo, pronto per la stampa, quando un attacco di paralisi il 2 ottobre 1855 lo abbatteva al suolo per portarlo
al sepolcro l’11 novembre. La differenza essenziale fra i tre gruppi è press’a poco questa. Nel gruppo a) i vari
pseudonimi – scelti ad hoc – esprimono possibilità varie di esistenza, in una sfera di idealità pura estetica, etica,
religiosa. Non danno quindi mai direttamente il pensiero e la vita reale del vero Autore K., benché svolgano anche
pensieri suoi e siano sostanziati da fatti espressi o sottintesi della sua vita personale. Rispetto agli Pseudonimi, egli
dice di comportarsi spesso da semplice «lettore». Cioè le possibilità di esistenza ivi esposte idealizzano e isolano
l’uno o l’altro aspetto di quella vita che tumultuava e lottava in lui per cercare una «evasione»: o per tirarlo in basso o
per portarlo in alto, così che dovunque in quei libri egli viene a trovarsi «fuori di sé». La Pseudonimia è quindi un
gioco che però K. ha fatto ed ha preso molto sul serio[ …] Nel gruppo b) è K. che parla e parla anzitutto a se stesso e
«davanti a Dio». Dedicati in gran parte alla memoria del padre, i discorsi cercano «Quel singolo», il «suo lettore» che
almeno per i primi era la ex-fidanzata Regina Olsen.
Il Diario […] rivela il suo animo come nessun altro suo scritto, se non sempre per la perfezione dello stile,
certamente per l’intimità e sincerità, per una profondità di analisi dell’uomo interiore ed una commozione di stile che
l’avvicinano alle Confessioni di S. Agostino. Il Diario soprattutto coglie allo stato nascente i pensieri che hanno poi
riempito i due gruppi precedenti”.
8
E. Lévinas, Noms Propres, Fata Morgana, 1975; tr. it. a cura di F. P. Ciglia, Nomi propri, Marietti, Casale
Monferrato Genova, 1984, p. 93.
9
D. Antiseri, Come leggere Kierkegaard, Tascabili Bompiani, Milano, 2005, p. 37.
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serissimo rimprovero è di non “giocare al Cristianesimo” (At lege Christendom), di non
professare a parole e nel culto la fede senza attuarla nella pratica della vita (accusa
rivolta al vescovo Mynster), poiché il senso esistenziale (seppur terribilmente
problematico nella sua realizzazione, poiché l’autentica concezione cristiana
dell’esistenza richiede l’imitazione del Modello) del Cristianesimo consiste
nell’esercitare una sorta di contrappeso regolatore contro le sofisticazioni della
mondanità. Nel Diario leggiamo che “dal punto di vista cristiano la Fede abita
nell’esistenziale”. Il significato della vita per ogni Singolo consta nel prendere
coscienza che tocca in questa vita decidere per l’eterna felicità. Orbene, quale
determinazione ontologica esprime il rapporto fra uno spirito esistente, conoscente, e la
verità assoluta?
È questo il problema della particolare concezione dell’assurdo come differenza
qualitativa assoluta tra l’uomo peccatore e Dio. “La Fede è follia perché fede nello
«scandalo» dell’Uomo-Dio”10. Il problema non è pensare ciò che non si può spiegare
(Dio). Per Kierkegaard il pensare è essenzialmente un atto dell’esistente stesso, del
singolo che abita la possibilità e cerca di giungere, attraverso la passione della propria
interiorità, alla fede. Il pensiero che si affida alla dialettica del superamento,
all’immanenza della speculazione assoluta nel momento dialettico dell’Aufhebung,
ovvero al superamento mediante il quale gli opposti vengono negati nella scambievole e
10
Ibidem, p. 86. Nella Premessa al suo lavoro, Antiseri nota che “l’opera di Kierkegaard è imponente ed immensa” e
che nel suo scritto ha “intenzionalmente insistito su alcuni episodi esistenziali (c. n.) della vita di Kierkegaard, su
concetti di fondo e su bersagli polemici della sua filosofia. Episodi significativi della vita di Kierkegaard: “il gran
terremoto” della sua vita, cioè il rapporto con il padre; il “gran rapporto” con Regina Olsen; il “grande scontro” con il
vescovo Mynster; i colloqui con Cristiano VIII. Concetti di fondo del suo pensiero: il “Singolo”; gli stadi sul
cammino della vita; la scuola dell’angoscia; la Provvidenza e la Redenzione come categorie della disperazione; la
fede come fede nell’assurdo, come fede contro la ragione; la figura del “venerabile padre” Abramo e quella dell’
“indimenticabile” Giobbe; il Cristianesimo come problema di “comunicazione indiretta”. I bersagli polemici: Hegel;
il vescovo Mynster; la Folla; i giornali; lo scientismo; la “teologia scientifica”. Tutti punti nodali, insomma, della vita
e del pensiero di Kierkegaard – nuclei concettuali capaci di convogliare e ordinare intere catene di riflessioni e di
offrire così un motivato riferimento ermeneutico nella lettura di uno dei più vasti e ricchi – e difficili lasciti filosofici
dell’Occidente”. Gli scritti di Kierkegaard sono tra i più difficili di qualsiasi letteratura, “ancor più difficile il pensiero
che non si riattacca a nessuna Scuola e non vuole fare scuola; quasi indecifrabile lo scopo, tanto dell’insieme quanto
delle parti dell’insieme – ciò che rende la comprensione ancora più ardua. E non si tratta di varie, di molte o poche,
difficoltà – quella che K. chiama la «comunicazione indiretta» - che cresce, si potenzia e si complica da Pseudonimo
a Pseudonimo e nelle parti di uno stesso pseudonimo, per virtuosismo di genio e per malinconia e passione di dolore
ad un tempo. Così la massa dei suoi Scritti spaventa a prima vista anche i più allenati: disorienta in essa l’assenza
apparente di una trama e di un’idea ben definita: trama e idea le quali sono di fatto affermate ad ogni libro e capitolo,
ma che poi sembrano sfuggire ad ogni tentativo di accostamento e di presa. Queste Opere, in bilico fra il romanzo
autobiografico, il saggio filosofico e la meditazione religiosa, attirano e respingono un po’ tutti. Attira il tema, la
dialettica, lo stile; respinge l’orchestrazione, quanto inattesa altrettanto sicura, opulenta. Oppure attira
l’orchestrazione col suo nerbo e respinge lo stile turgido, carico e sonante che non lascia mai un attimo di tregua per
prendere fiato” afferma giustamente Fabro nell’Introduzione al Diario. Rimane da dire che la maggior parte degli
interpreti divide l’attività Pseudonima in tre fasi: estetica, filosofica e religiosa, ma Kierkegaard stesso rivendica di
essere stato fin dall’inizio (Aut-Aut, 1843) uno “scrittore religioso”. La «teoria degli stadi», ch’è caratteristica nelle
prime opere pseudonime, passa in seconda linea nel Diario, specie nella fase più matura, probabilmente perché
Kierkegaard capì che non si possono dare stadi allo stato puro, ma ciascuno si può mescolare con l’altro e
assolutamente non ci può essere lo stadio religioso disgiunto da quello etico. Per i riferimenti bibliografici cfr. anche
Salvatore Spera, Introduzione a Kierkegaard, Laterza, Roma – Bari, 2002.
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astratta opposizione, per essere insiemi conservati nella superiore unità della sintesi, è
destinato all’indifferenza e al nichilismo.
Il Singolo e il pensiero che non si può pensare.
Il principio di identità, che domina la dialettica dell’immanenza, trasforma
quest’ultima in «sistema», autoalienazione dal proprio essere esistenziale, dall’io
vivente. Porre il principio di identità come fondamento del principio di contraddizione
significa eludere il pensiero essenziale del pensatore come pensatore esistente, in
divenire. Finché io vivo nel tempo, il principio d’identità non è che un’astrazione.
“Niente è più facile quindi che lusingarsi, e far credere agli altri di pensare l’identità del
tutto, lasciando cadere le differenze. Ma si potrebbe domandare a qualcuno di costoro,
com’egli si comporti nella vita, poiché nell’identità si opera fuori del tempo. Così il
suicidio è l’unica conseguenza morale del principio di identità, se lo si vuole mantenere
nel tempo. La confusione risulta quindi soltanto dal fatto che si vive in categorie diverse
da quelle in cui si pensa quando si scrivono i libri. O miseria del mestiere dello scriba!”
(Diario, 1037). Per tutta la vita, ogni singolo uomo, si troverà sempre nella
contraddizione, perché la vita stessa è contraddizione. La dialettica che non riproduce la
viva contraddizione dell’esistenza è pura astrazione e infinità del suo movimento. Il
“sistema” risulta essere inattaccabile dall’interno proprio a causa della sua particolare
dialettica che, intrinsecamente, è movimento autoaffermantesi. Che l’unità del principio
di identità preceda la contraddizione è innegabile, ma, avverte Kierkegaard, soltanto con
la contraddizione comincia l’esistenza. Cominciare con l’immediato è proprio del
momento dialettico astratto (riflessione infinita) il cui metodo è un cammino inverso, un
ritorno all’origine. Nella Wissenschaft der Logik l’andare avanti è un tornare indietro al
fondamento, all’originario e al vero, dal quale il cominciamento dipende ed è in realtà
prodotto. L’uomo è così intrappolato nel circolo della cattiva riflessione, nel movimento
apparente del metodo dialettico-speculativo. Kierkegaard è convinto che una riflessione
autenticamente esistenziale deve cominciare in virtù di una risoluzione, non “di un
talento (o per stupidità, per moda, ecc., per non restare solo!)….. comincio con
l’immediato, ciò non spiega nulla” (Diario, 1040). «Cominciare» è sempre una
risoluzione e come tale, in fondo, riguarda sempre l’eternità. È la fede come frattura,
strappo con il contingente che permette allo spirito l’autentica riflessione qualitativa. La
pietra d’inciampo dello scandalo arresta ed impone riflessione a un esistente. L’assurdo
assurge a veridico stato metafisico dell’uomo cosciente: l’Eterno ripiega su se stesso per
essere Momento. Eterno nel tempo. È il Paradosso (Paradox) ossia la categoria
dell’assurdo come oggetto della fede. Il paradosso, come vero pathos della vita
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spirituale, indica l’oggetto della fede, ossia l’assurdo. Conviene, a tal punto, fermarci e
meditare sulla questione essenziale:
«Perché l’essere, se l’esistenza stessa è sofferenza?»
È possibile che la domanda metafisica porti ad opzioni differenti,
ma in ogni caso è impossibile reprimerla. Il dolore affligge
l’uomo e il mondo animale – ma l’angoscia intellettuale che
attanaglia quel mendicante di senso assoluto che è l’uomo, è un
fondamentale tratto antropologico. Ed è di fronte alla sofferenza,
e soprattutto di fronte alla sofferenza degli innocenti, dei
bambini, che la domanda metafisica si fa irreprimibile. La realtà
della sofferenza innocente è il nervo scoperto della domanda
metafisica e ci costringe a scegliere tra l’assurdo e la speranza.11
La ‘sofferenza innocente’ è il volto di Cristo crocifisso, dell’Uomo-Dio morto nel
tempo e nella carne per una resurrezione di vita del genere umano. Condanna di ogni
speranza è il non accettare il messaggio di Cristo quale incarnazione nella realtà
temporale dell’eterno Amore Divino. Questo è lo straordinario lavoro del filosofo
danese: l’aver cercato un senso esistenziale, vivo ed unico in quella che è la possibilità
dell’unione tra tempo ed eternità.
La sofferenza umana è essenzialmente legata alla verità, e la riflessione
kierkegaardiana, operando direttamente sul senso della domanda metafisica, diviene
dialettica del nostro destino. Noi è l’uomo, la persona, è il Singolo come “ancora che
deve arrestare la confusione panteista”. L’individuo sente l’angoscia, le nere spire del
nulla avvolgono il suo cuore, soffocano l’anima, annegano l’uomo – universo12
nell’abisso del niente. L’angoscia, rivolta essenzialmente al possibile e all’avvenire,
essendo fondata sul nulla, è lo stato che precede il peccato. In verità, il nulla (Intet) è il
momento dialettico della tentazione, che mette l’anima in angoscia come fece il
serpente con Adamo ed Eva. Ed ecco che il peccato irrompe (hervobricht) individuando
la singolarità della specie umana. È la qualità che distingue il singolo individuo, poiché
è il «salto» dell’uomo dallo stato sognante dell’angoscia alla ripetizione di sé come
spirito. Propriamente, la coscienza del peccato è l’«isolante assoluto», poiché soltanto il
11
Antiseri, Ragioni della razionalità. Proposte teoretiche, vol. I, Rubbettino, Soveria Mannelli, 2004, p. 318.
“«Universo», Uni–versum, è una bella parola per esprimere che tutto il creato serve ad un solo signore, che si volge
soltanto a Uno”. Diario, Dal 2 gennaio 1849 alla metà del 1849, X¹ A 203, p. 187. L’espressione uomo – universo è
manifestazione della perdita di direzione dell’esistenziale essere uomo sperduto nel tempo effettuale e mondano che,
non trovando la comunione con l’Amore Eterno, si ferma, intrappolato nelle lungaggini che la temporalità predilige:
apparenza, indugio e chiacchiere. D’altro canto, l’aspetto positivo di tale preparatoria condizione esistenziale è la
possibilità (dopo aver assunto in sé la coscienza del peccato) del “salto” nella Fede, della congiunzione della fonte
con il suo scaturire, dell’eternità con il tempo (da notare come il quantitativo, per mezzo della dialettica qualitativa
viene quasi trasfigurato spiritualmente in qualità dal salto nella Fede), poiché “L’eternità è l’affrettarsi continuo, è
l’intensivo e ciò che si rapporta essenzialmente all’azione, alla trasformazione del carattere”. Bisogna notare che
Kierkegaard, in svariate pagine della sua immensa produzione, proclama la necessità di aderire con la mente e con
l’opera al Vangelo di Cristo, di conformarsi a Lui nella mortificazione dell’uomo naturale e nell’aspirazione alla vita
futura nel godimento eterno di Dio.
12
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peccato è «mio», e, pertanto, costituisce il fondamento del Cristianesimo.
Eppure, lo stesso spirito è una sintesi imperfetta, è esistenza. Insondabile pienezza,
sintesi difficile di interiorità e aspirazione, notte mistica che tende verso l’aurora della
speranza, limite di grazia. Codesta notte è la mia luce, direbbe Camus. L’angoscia,
determinata in modo autentico, è la realtà della libertà come possibilità offerta alla
possibilità (“vertigine della libertà”). Lo spirito, come ciò che unisce nella loro più
intima tensione scelta e possibilità, è libertà. Con il dispiegarsi della spiritualità,
l’angoscia si svincola dal niente come suo fondamento, interiorizzandosi nella realtà
dell’esistenza ove la proibizione determina l’opposizione di bene e male (peccato).
Parliamo qui di passaggi qualitativi (o determinazioni qualitative), di vere e proprie
trasformazioni del quantitativo: il fatto che si crei una coscienza, che l’idea divenga
anima e l’anima si rinnovi in spirito (il passaggio dalla sfera etica alla fede è sempre un
salto). “Si può fare il passaggio da una determinazione quantitativa ad una qualitativa
senza il salto? E non consiste in questo tutta la vita?”13. V’è bisogno di una essenziale
sincerità con se stessi, con l’interiorità che ha sete di Dio per sbarazzarsi della
pantomima recitata da chi ostenta la sicurezza del conoscere oggettivo o addirittura
assoluto. La vera comunicazione è interiorità e non plauso esterno, ripete fino allo
stremo Kierkegaard. Se la dialettica hegeliana prende avvio dal campo dell’essere
astratto, l’uomo concreto kierkegaardiano ha come dimora la sfera dell’esistenza
personale. Nel primo caso ci si trova nella calma della “mediazione” (Vermittlung), nel
secondo caso si ha il divenire che incede dalla libera scelta. È in questa scelta che
l’uomo diviene spirito e l’esistenza stessa altro non è che il divenire dello spirito come
tale: egli non si salva che nel “rischio assoluto” del credere. Non l’evidenza dei concetti
ma la passione dell’ideale, la convinzione interiore, porta l’uomo alla fede. L’interiorità
(Inderlighed) è la sincerità del proposito di essere disposti a sacrificare tutto nel
rapporto che ogni singolo deve avere con Dio. L’uomo abbisogna della franchezza di
essere se stesso, di rapportare la propria finitudine all’infinito divino per mezzo della
preghiera (Bön) che è il “punto di Archimede” della vita cristiana e che, nella situazione
della vita terrestre, costituisce la felicità più alta. Kierkegaard ricorda nel Diario che
«Giustamente gli antichi dicevano che “pregare è respirare”, ed è sciocco chi domanda
il “perché”. Perchè io respiro? Perché altrimenti morrei. Così con la preghiera». Come il
“respirare” non modifica il mondo ma serve solo a riprodurre in me stesso la vitalità,
così la preghiera è rinascita continua del rapporto con Dio.
Credere senza dubitare. Credere in Dio nel dolore e nel male della condizione umana,
13
S. Kierkegaard, Diario, 1842-43, IV C 87, n. 972, p. 115. Salto qualitativo possibile solo nell’esistenziale libertà
del Singolo. Libertà che, come Kierkegaard afferma ne Il concetto dell’angoscia, è sempre comunicante. La vera
comunicazione è rapporto qualitativo (aspirazione intenzionale verso il trascendente) nell’autentico rapportar-si
qualitativo al Divino per mezzo della Fede. Nessuno sconto, nessuna mediazione; si compie la necessità di un destino
liberamente scelto (Singolo), demiurghi di noi stessi, creati liberi liberamente dal nulla.
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come Abramo che “credette e non dubitò, egli credette l’assurdo”14. Essere, come il
“venerabile Padre Abramo”, un “cavaliere della fede” che avanza sul terreno del
paradosso, solitario nel tempo come Singolo, consorte dell’eternità nella Fede.
L’esistere proprio di ogni uomo è, nella sua autenticità, rapporto con Dio. L’unica
modalità esistenziale autenticamente possibile per l’uomo nel suo rapportarsi al divino
è “il Singolo” (Enkelte). Löwith sottolinea che la categoria del singolo vien usata da
Kierkegaard in duplice senso: il singolo significa chiunque, ma come singolo. Il singolo
è una possibilità universale, accessibile a tutti, possibilità che è la necessità della fede.
È l’io consapevole di se stesso, della sua collocazione nel mondo in quanto possibilità di
sintesi tra eternità e temporalità che, nell’autenticità della sua singolarità, nel suo voler
essere se stesso autentico, fonda nella fede la propria possibilità autentica: “Essere
«spirito» è essere «io»: Dio vuole degli «io», perché vuole essere amato.” (Diario,
4161). Ed è proprio nella poeticissima figura di Giobbe che il salto nella sfera religiosa
è compiuto per mezzo di quella “categoria individualissima, fuori dall’universale,
rivolta alla personalità nella sua irripetibilità e nella sua solitudine: essa rientra nei
rapporti diretti che un Singolo ha con Dio, e cioè trasferisce l’uomo nella sfera
religiosa”15, ossia della “prova” come rapporto diretto del Singolo con Dio. Se nella
specie animale il singolo è inferiore al genere, ci spiega Kierkegaard, nel genere umano,
essendo ogni individuo creato ad immagine di Dio, il Singolo è più alto del genere: “«il
Singolo» è la categoria per la quale devono passare dal punto di vista religioso il tempo,
la storia, il genere umano. E colui che resistette sulle Termopili non ebbe una posizione
più giusta di me che sono riuscito almeno a rendere attento a colui che è stato su questa
gola di molti: «il Singolo». Egli dovrebbe impedire agli eserciti di attraversare questa
gola: se l’attraversano la sua battaglia è perduta”16. È l’umile servitore «senza autorità»
(uden Myndighed) a parlare, “per esortare, invitare, muovere i molti ad attraversare
questa gola de «il Singolo», che nessuno può attraversare – si noti bene – senza
diventare il Singolo; il contrario è categoricamente impossibile”.
14
Kierkegaard, Timore e tremore, in Opere, vol. I, Piemme, Edizione a cura di C. Fabro, Casale Monferrato (AL),
1995, p. 198. Tutte le citazione del testo kierkegaardiano, sono condotte in base all’edizione italiana delle Opere a
cura di Cornelio Fabro, Piemme. Per una maggiore chiarezza espositiva si è scelto di indicare, in nota, anche il titolo
dell’opera.
15
Antiseri, Come leggere Kierkegaard, Op. cit., p. 79. La citazione è di Luigi Pareyson. Rimandiamo direttamente al
testo di Antiseri per qualsiasi ulteriore chiarimento riguardo le figure di Abramo e Giobbe e del primissimo ruolo
spirituale e pratico che occupano nella riflessione kierkegaardiana. Antiseri, inoltre, prende in considerazione ed
analizza anche le interpretazioni speculative della figura di Giobbe proposte da Kant e da Hegel. Nel Diario leggiamo
che “…il mio enigma è quello di Abramo”. Lo sfondo personale, in cui Kierkegaard elabora il sacrificio di Abramo, è
sicuramente riferibile alla sua essenziale eterogeneità spirituale che sempre lo allontanava dal consueto mondano. Il
“venerabile padre Abramo” si confronta con la trascendenza, ed accetta la terribile missione che Dio gli affida. Là
ove l’immanenza si esprime nella sua irrevocabilità, ossia in campo etico, Abramo espone se stesso e, come «secondo
padre del genere umano», ogni uomo alla “prova” della trascendenza e, in forza dell’assurdo, risolve a favore della
vita il sacrificio di Isacco.
16
Kierkegaard, Il punto di vista della mia attività di scrittore, in Opere, vol. I, p. 107.
16
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Il «problema di Lessing» e la dialettica qualitativa.
È con l’irruzione dell’eterno nel tempo, con Cristo, Uomo-Dio, che l’uomo si ritrova “davanti” a Dio. Se il Singolo è il modo umanamente autentico di un possibile
rapporto con Dio, per soddisfare l’eternità bisogna essere essenzialmente nudi, bisogna
fuoriuscire dal tempo, compiere il salto della fede, avvicinare l’istante eterno con il
momento della scelta di fede nel paradosso assoluto dell’Uomo-Dio (fondamento ed
essenza del momento). È questo, secondo la nota definizione di Kierkegaard, il
“problema di Lessing”. Questione di capitale importanza che si struttura attorno al
rapporto tra tempo ed eternità, e che nella formulazione kierkegaardiana diviene: “Può
mai una decisione nel tempo avere una portata per l’eternità?”. Lessing si domandava:
“Se sul piano storico non ho nulla da obiettare contro la risurrezione di Cristo stesso,
debbo io perciò ritener vero che questo Cristo risorto era figlio di Dio?”17
Saltare mediante verità storiche in una classe interamente diversa di verità e
pretendere di rimodellare in rispondenza a quest’ultima tutti i concetti metafisici e
morali, ossia modificare essenzialmente tutte le idee fondamentali riguardo l’essere del
divino, è una µετάβασις είς άλλο γένος18. Se tutto ciò non è una metabasi, “allora non so
più che cosa Aristotele abbia voluto dire con questo termine” dichiara Lessing. È questo
il “brutto e largo fossato” che Lessing non riesce a valicare, per quante volte “ne abbia
tentato il salto”. Kierkegaard, nella Postilla, nota che essere vicinissimi al salto non è
nulla, “proprio perché il salto è la categoria della decisione”. Certo a Lessing non manca
una buona dose di ironia e la consapevolezza del bisogno della fede come salto non gli
era estranea, ma proprio per questo egli allarga a dismisura il fosso. Lessing fa difetto
della personalissima categoria della disperazione, questa “malattia mortale” che solo il
salto nella fede può guarire. La fede è il rapportarsi del tempo all’eternità, il sospiro
della libertà che trova la quiete nell’Amore. In Cristo che “aveva l’idea assoluta, c’era
anche la sofferenza assoluta assolutamente” (Diario, 4023). La fede è, allora, l’unica
17
Lessing, Ueber den Beweis des Geistes und der Kraft, in Gesammelte Werke, a cura di P. Rilla, Berlin, 1954-58,
vol. VII, pp. 280- 281; tr. it a cura di N. Merker, G. E. Lessing, Sul cosiddetto «Argomento dello Spirito e della
Forza», in Religione, Storia e Società, Editrice La Libra, Messina, 1973, pp. 176-177. Scritto apparso anonimo nel
1777, è rivolto contro quei teologi (in ispecie Johann Daniel Schumann) i quali fondavano la validità della religione
cristiana appunto sul cosiddetto «argomento dello spirito e della forza», cioè sull’ispirazione divina degli evangelisti.
Tale argomento aveva ricevuto la sua prima formulazione dettagliata nel Contra Celsum, di Origine. Nei passi 1, 2
Origene ha affermato che “A favore della nostra fede esiste un argomento particolare, che compete soltanto ad essa e
supera di molto gli argomenti greci condotti con l’ausilio della dialettica. Quest’argomento superiore viene definito
dall’Apostolo Paolo «l’argomento dello spirito e della forza»: argomento «dello spirito» in ragione delle profezie che
sono adatte a suscitare nel lettore la fede soprattutto là dove esse trattano di Cristo, e argomento «della forza» in
ragione degli stupefacenti miracoli”.
18
La «metabasi in altro genere», come noto, è la trasgressione di una regola logica che avviene quando nel corso di un
ragionamento si salta da un ambito concettuale ad un altro, onde non si giunge alla dimostrazione della verità del
demonstrandum, bensì all’enunciazione di un’affermazione interamente diversa.
17
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vera speranza che la sofferenza, l’umiliazione e l’abbandono siano per una ri-nascita
dell’uomo in Cristo. Il paradosso dell’Uomo-Dio è una di quelle ferite da cui non si
guarisce e la fede stessa è una ferita che bisogna tener aperta. Come dice S. Paolo nella
Lettera agli Ebrei: “Fides est sperandarum substantia rerum, argumentum non
apparentium”. E Dante, nel XXIV canto del Paradiso, esaminato da S. Pietro intorno
alla virtù della fede, così risponde: «Come ’l verace stilo / ne scrisse, padre, del tuo caro
frate, / che mise teco Roma nel buon filo, / fede è sustanza di cose sperate,/ ed
argomento delle non parventi; / e questa pare a me sua quiditate». La risposta al
“problema di Lessing” nelle Briciole e nella Postilla, ha voluto significare che il valore
della storia dipende dalla decisione che ogni singolo prende nel tempo rispetto
all’eternità. Il tempo quindi ha un valore infinito, certamente non come tempo cosmico
– misurabile (quantificazione spaziale convenzionale, spazio che misura il tempo), ma
come spazio della possibilità della libertà (tempo restituito a se stesso, divenire
cadenzato dalla scelta e dal mantenersi in carattere rispetto ad essa, coscienza del
tempo come atto qualitativo spirituale). La possibilità della scelta, dell’atto di fede,
rende la temporalità umana qualitativamente infinita. Il cristianesimo insegna che la
via è nel divenire soggetto. “Timore e tremore denotano che si è in divenire e ogni
uomo singolo, come anche l’intera umanità, ha e deve avere coscienza d’essere in
divenire”19. I momenti temporali non sono, quindi, punti ‘indifferenti’, la decisione che
ogni singolo prende per suo conto consacra la qualità e la struttura della sua storia. La
verità storica dell’Incarnazione è inutile se non c’è il salto (di cui Lessing sente
l’importanza esistenziale senz’essere, tuttavia, in carattere con la situazione) come “la
decisone κατ’έξοχήν, che decide per l’appunto di ciò ch’è cristiano e di ogni
determinazione dogmatica. […] Tutto il cristianesimo ha per fondamento il timore e
tremore: sì, esso consiste nel timore e tremore (che sono per l’appunto le categorie
disperate del cristianesimo e del salto), nel paradosso; sia che ora lo si accetti (cioè
coll’essere un credente), sia che lo si respinga (precisamente perché è il paradosso)”20.
Anzi, precisamente per questo, “ciò che allora più conta nel tempo non è la totalità della
storia, ma il ‘momento’ (Oejeblikket) che pone la decisione: il momento
dell’Incarnazione o morte di Cristo, il momento da cui dipese la salvezza del genere
umano: il momento della Grazia e della conversione ch’è la rinascita dell’uomo, il
momento della morte di ciascuno da cui dipende la salvezza eterna del singolo”21. La
dialettica hegeliana come dinamica dell’essere astratto e del concetto, è priva del
momento ch’è realtà del divenire.
Se questo Dio non fosse venuto in terra, dichiara Kierkegaard nelle Briciole di
filosofia, non avremmo avuto il momento e saremmo privi del paradosso. L’«umano
19
Kierkegaard, Esercizio del Cristianesimo, in Opere, vol. III, p. 232.
Kierkegaard, Postilla conclusiva non scientifica alle «Briciole di filosofia», in Opere, vol. II, p. 226
21
Fabro, La dialettica della libertà e l’Assoluto. Per un confronto fra Kierkegaard ed Hegel, in Op. cit., p. 54.
20
18
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generale» non potrebbe “scandalizzarsi”22, non potrebbe rompere con l’immediatezza,
ossia col sentimento, la fantasia, la ragione. Lo scandalo è il segno distintivo della realtà
cristiana ed è possibilità di fede, passione della realtà. Mentre il pensatore oggettivo è
“indifferente rispetto al soggetto pensante e alla sua esistenza, il pensatore soggettivo,
come esistente essenzialmente interessato al suo proprio pensiero, è esistente in esso”23.
Tale pensiero ha come essenza propria una particolare specie di riflessione o dialettica:
“quella dell’interiorità, della possessione, con cui esso appartiene al soggetto e a nessun
altro”. Il pensiero soggettivo non pone tutto in risultato, come fa il pensiero oggettivo,
cercando il consenso dell’umanità. Il pensiero soggettivo è un porre in divenire, poiché
lo stesso pensatore soggettivo come esistente è sempre in divenire, “ciò che del resto è
ogni uomo che non si è lasciato ingannare a diventare oggettivo, a diventare la
speculazione in modo disumano”. La temporalità, allora, non è solamente il campo
quantitativo della ripetibilità, ma, come realtà della cognizione è il qualitativo ripetersi
della possibilità dell’autenticità come unicità della passione cristiana. La cognizione
del singolo, individuato dal peccato (Synd come principium individuationis,
estrinsecazione e consapevolezza della specificità della condizione umana), è essa
medesima attiva e per la natura stessa della sua attività diviene etica (ετει nell’accezione
di facoltà dell’animo o qualità è vicino come senso esistenziale al termine φύσει azione
abituale o disposizione naturale, mente) della struttura dell’azione, determinazione del
proprio destino secondo l’onestà delle proprie azioni. Atto e perciò esistenza. Scelta e
realtà positiva. Unione del pensiero e dell’essere nell’io vivente.
L’«io penso» sotteso a tale pensiero soggettivo non ha niente in comune con la
concezione cartesiana del cogito (capovolta esistenzialmente in sum ergo cogito). È un
io esistenzialmente reale, che sente e sceglie nell’interiorità del proprio se stesso, ove
non c’è menzogna. Lo sviluppo di un pensiero dell’interiorità è, ci dice Kierkegaard, la
riflessione–doppia del pensare soggettivo. La differenza sostanziale tra pensiero
soggettivo e pensiero oggettivo, si può così esprimere nella forma della comunicazione.
È questo il valore positivo attribuito da Kierkegaard alla parola e alla sua forza
redentrice che mai viene meno. A partire dal drastico contrasto tra una fede imposta ed
una fede scelta si può meglio capire il pensiero kierkegaardiano (nessun esortare alla
fede o comunicazione diretta del cristianesimo è possibile; solo l’interiorità della
riflessione nella scelta della fede è il modo autentico e indiretto di testimoniare la fede
cristiana). Il dire filosofico di Kierkegaard è parola vissuta, tensione, espressione di
libertà spirituale nel mantenersi in carattere con la decisione. Egli accetta il suo compito
e testimonia con la vita e con l’opera che la sofferenza del diventar cristiani è l’arte
suprema dell’esistere. Capiamo così come per il “Socrate del Cristianesimo”, nel modo
22
Il nostro autore ci ricorda che la dicitura greca è σκανδαλίζεσθαι, termine derivante da σκάνδαλον («urto»).
Interessante, per il concetto di fede come salto, la trascrizione sanscrita, che così suona: skandoti, «balzare».
23
Kierkegaard, Opere, vol. II, p. 192–314. Ove non specificato le citazioni sono riprese dalla Postilla.
19
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autentico dell’esistenza come scelta e salto nella fede, il Cristianesimo non possa essere
considerato un «momento» all’interno della speculazione, una mediazione verso il
raggiungimento di una sintesi superiore. Se la mediazione è momento essenziale della
speculazione, è precisamente la determinazione del cristianesimo come «dottrina
filosofica», affermazione tipica del secolo XIX, secolo “terribilmente speculativo”, che
Kierkegaard combatte strenuamente. Per Hegel, «maestro in contaminazioni
teologiche!», il cristianesimo ha una superiorità assoluta su tutte le altre religioni perché
ha rivelato Dio come spirito in quanto è trinitario e in quanto si è manifestata in Cristo
l’unità del divino e dell’umano. Hegelianamente ciò è l’elevarsi dell’autocoscienza
verso i momenti propri del concetto e, al contempo, stretta necessità per la vera scienza
di comprendere questi momenti in modo assoluto. Sicuramente dobbiamo ad Hegel la
comprensione più acuta della consapevolezza della libertà come asse portante della
civiltà occidentale. Egli fu il primo a riconoscere ed affermare l’incidenza decisiva del
Cristianesimo nella riflessione sul fondamento della libertà: il concetto della libertà
universale radicale, nel senso di nucleo originario della dignità di ogni uomo, è entrato
nel mondo soltanto con il Cristianesimo. Esso è ignoto al mondo orientale che riserva la
libertà al despota, ed è rimasto estraneo allo stesso mondo greco-romano che, pur
avendo la coscienza della libertà, sapeva che solo “alcuni uomini” sono liberi e non
l’uomo in quanto tale, cioè ogni uomo in virtù della sua umanità e non soltanto in virtù
del censo, del carisma, della cultura, ossia in virtù di quella che Kierkegaard chiama
l’ingiustizia delle distinzioni particolari nel “banchetto della fortuna” dal quale rimane
escluso l’uomo comune.
La libertà, questa «croce dei filosofi», che in Hegel si risolve nell’autocoscienza
assoluta (nel trapassare del finito nell’Infinto tramite la riflessione) per Kierkegaard, che
valorizza il finito, la libertà ha solo un valore esistenziale: quello di rendere determinata
tramite la scelta una possibilità indeterminata. Se l’esperienza religiosa, apice e
compimento del suo pensiero24, è fondata sulla consapevolezza del peccato, dobbiamo
ammettere che “la questione non è se il cristianesimo abbia ragione, ma cosa esso sia”25.
24
“Io sono e sono stato uno scrittore religioso (jeg er og var en religiose Forfatter), tutta la mia attività letteraria si
rapporta al cristianesimo, al problema del «diventare cristiani»” scrive Kierkegaard ne Il punto di vista della mia
attività di scrittore. Una comunicazione diretta. Rapporto alla storia di Søren Kierkegaard, in Opere, vol. I, pp. 2122
25
Kierkegaard, Opere, vol. II, p. 516. Ci sembra opportune ricordare che Hegel, nel paragrafo 482 dell’Enciclopedia
delle scienze filosofiche, afferma: “L’idea si manifesta così soltanto nella volontà che è una volontà finita, ma che è
pure l’attività di sviluppare l’Idea e di porre come Esserci il contenuto dispiegatesi dell’Idea – Esserci che, in quanto
Esserci dell’Idea, è Realtà. Questo è lo Spirito oggettivo […] Poiché lo spirito libero è lo Spirito reale, i
fraintendimenti che lo concernono hanno le conseguenze pratiche più pericolose; infatti una volta che gli individui e i
popoli hanno colto a livello rappresentativo il Concetto astratto della Libertà essente-per-sé, non c’è altro che abbia
forza altrettanto irresistibile, appunto perché si tratta dell’Essenza propria dello Spirito, e, precisamente della sua
stessa Realtà. Intere regioni del mondo, l’Africa e l’Oriente, non hanno mai avuto questa Idea, e ancora ne sono privi.
Ne l’hanno avuta i Greci e i Romani, Platone e Aristotele, e neppure gli Stoici […] Questa Idea è venuta al mondo
con il Cristianesimo, secondo il quale è l’individuo in quanto tale ad avere un valore infinito: l’uomo essendo oggetto
20
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La speculazione manca di questo importante e fondamentale chiarimento preliminare.
Tempo ed Eternità: la «comunicazione d’esistenza».
Per evitare il fraintendimento del termine «dottrina», Kierkegaard definisce il
cristianesimo «comunicazione d’esistenza» determinando in modo pregnante la sua
differenza dalla speculazione:
Il cristianesimo non è dunque una dottrina, ma esprime una
contraddizione di esistenza ed è una comunicazione di esistenza.
Se il cristianesimo fosse una dottrina, non potrebbe eo ipso
costituire l’antitesi della speculazione, ma sarebbe un momento
dentro di essa. Il cristianesimo riguarda l’esistenza, l’esistere; ma
l’esistenza, l’esistere sono precisamente l’antitesi della
speculazione. 26
La libertà è esistenza che comunica. La comunicazione indiretta, riflessione doppia
dell’esperire spirituale e comunicante del rapportarsi al divino, è testimonianza e vita in
carattere con la decisione, essendo la libertà autentica (coscienza del peccato) ri-nata
(riflessione positiva del negativo) nel Momento. La fondazione dell’umana libertà è
presentata qui in forma “squisitamente cristiana e sostanzialmente tomista: essa suppone
la distinzione reale della creatura dal Creatore, la creazione dal nulla della libertà finita
e fine dell’amore di Dio, è destinato ad avere il suo rapporto assoluto con Dio come Spirito, e a far dimorare entro sé
questo Spirito. In altre parole: l’uomo è in sé destinato alla Libertà suprema.
Se nella Religione in quanto tale l’uomo sa che il rapporto con lo Spirito assoluto è la propria essenza, egli ha inoltre
presente che lo Spirito divino entra anche nella sfera dell’esistenza mondana, e vi entra come la sostanza dello Stato,
della famiglia, ecc”. Tali rapporti sono destinati ad un perfezionamento perché, attraverso tale esistenza, al singolo
uomo diviene immanente la predisposizione etica come perfettibile e superiore moralità. Kierkegaard combatte
precisamente contro il concetto di “perfezionamento” del Cristianesimo (o perfezionamento per mezzo del
Cristianesimo che colto nella sua essenza esistenziale è fede ed abbandono; oltre non si può andare) che, non essendo
una dottrina ma una comunicazione d’esistenza, non è perfettibile, e contro l’uomo divenuto “folla e numero”,
immanenza sorda alla voce dell’interiorità aspirante del singolo. Così, per Hegel, il soggetto è l’attività
dell’appagamento degli impulsi, ossia attività della razionalità formale. Tale soggetto è la trasposizione della
soggettività del contenuto all’oggettività, nella quale il soggetto si sillogizza con se stesso. Ciononostante, Hegel
ammette che la volontà della libertà deve essere carattere (Charakter), non semplice impulso che pretende di essere
appagato, ma coscienza spirituale divenuta “l’Essere” privo di impulsi. “Questa Libertà che ha il contenuto e il fine
della Libertà, però, è essa stessa innanzitutto soltanto Concetto, principio dello spirito e del cuore, ed è destinata a
svilupparsi in oggettività, in Realtà giuridica, etica e religiosa, come pure in Realtà scientifica.” Op. cit., pp. 784- 789.
L’inter-esse del soggetto non è esistenziale ma rimane ancora impigliato nella trappola dell’astrazione logica (la
necessità logica è la natura dell’essente) azionata secondo il ritmo sillogistico-dialettico del sillogismo speculativo, in
cui l’estremo dell’universale - Allgemeinheit – è connesso con l’estremo della singolarità – Einzelheit – attraverso il
termine medio della determinazione o particolarità – Bestimmung, Besonderheit. L’autentico inter-esse ed il vero
mantenersi in carattere sono individuati da Kierkegaard come rapportar-si qualitativo al divino (rottura con
l’immanenza e l’immediatezza speculativa), salto nella fede. La comprensione del cristianesimo non deve essere
speculativa, in quanto voler speculare su di esso è il fraintendimento più alto e pericoloso. Comprendere il
cristianesimo significa realizzarne gli insegnamenti nell’esistenza.
26
Ibidem, p. 517.
21
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da parte della Divina Onnipotenza, la trascendenza assoluta della divina essenza, e
infine la libertà assoluta della creazione stessa”27. È l’esistenza a dare al tempo il
movimento autentico della riflessione qualitativa (fede) e il Paradosso dona al
movimento la temporalità autentica del momento. L’essenza del Cristianesimo consiste
quindi nel “potenziare la passione portandola al massimo; ma la passione è appunto la
soggettività, e questa – nella sfera dell’oggettività – non esiste affatto”28. Nella grande
Postilla è più volte affermato il giudizio analitico – fenomenologico secondo cui il
soggetto esistente, in quanto esistente, è in divenire. Essendo l’uomo in divenire, come
singolo che vive nella realtà dell’essere in carattere con la scelta, l’unica modalità (come
forma) del rapportarsi al trascendente è la passione (πάθος, che per Aristotele è
l’affezione, ossia la qualità, stato in cui ritrova una sostanza; Metafisica, ∆, 21) della
scelta di fede nell’assurdo e nello scandalo del paradosso, fede in ciò che assolutamente
rompe con l’immanenza: l’Eterno che si fa tempo.
Solo per il singolo soggetto è possibile il rapportarsi al trascendente, ed in ciò
consiste l’essenza qualitativa-dialettica della riflessione doppia interna alla
comunicazione d’esistenza. Scrive Kierkegaard: “La soggettività è la verità; la
soggettività è la realtà”29. La biunivocità, ovvero la sostanziale corrispondenza del
processo del divenire con l’esistenza stessa del pensatore, “fin quando egli è esistente, è
in divenire”30, rimanda alla concezione greca della natura dell’esistenza. Se il processo
del divenire coincide in modo essenziale con l’esistenza, la temporalità umana
qualitativamente autentica è lo spirituale mantenersi nell’aspirazione. È il riverbero
dell’origine che ci giunge, rimando di rimandi senza fine, sempre una traccia o “traccia
di traccia” come direbbe Derrida. Il principio ci sfugge, elude l’umana ragione. Ogni
tentativo di comprensione dilegua in mancanza di senso se ignoriamo il nostro essere in
divenire. Lo stesso pensatore, nella finitezza della sua sofferenza, creato libero dal nulla,
per mezzo di un atto libero dell’infinita libertà divina è aspirazione; ogni spirito,
nell’irripetibilità della sua singolarità è aspirazione, ossia rapporto e comunicazione.
Cominciare una riflessione con l’immediato (come pretendeva Hegel) è impossibile
poiché anch’esso è ottenuto mediante la riflessione. L’immediato non è mai perché è
tolto quando è. Voler abbassare l’eternità a realtà storica e comprendere la necessità
della storia affidando la riflessione alla logica, significa porre un inizio che si riflette in
sé come principio ermeneutico di ogni indagine, divenendo, in tal modo, infinito. Siamo
27
Fabro, La dialettica della libertà e l’Assoluto. Per un confronto fra Kierkegaard ed Hegel, in Op. cit., p. 48.
Notiamo qui brevemente che la Grazia in senso tomistico è in rapporto al divino sapere e non al divino volere. Il
“dottore angelico” salva la libertà umana spiegandoci che la volontà divina (Onnipotenza) non influisce direttamente
nelle libere scelte umane. La Grazia divina opera efficacemente solo quando Dio sa già (Onniscienza) che l’uomo vi
consentirà liberamente.
28
Kierkegaard, Opere, vol. II, p. 251.
29
Ibidem, p. 479.
30
Ibidem, p. 211.
22
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nuovamente di fronte alla cattiva infinità. Ogni riflessione che evita il pensiero
fondamentale dell’impossibilità di iniziare con l’immediatezza è un inganno. Un
sistema logico non può pretendere un cominciamento assoluto. Non vi è mai un inizio
senza presupposti, poiché anche se non si presupponesse altro, si presuppone sempre
l’atto con cui si fa astrazione da tutto.
Si domanda Kierkegaard: “«Cattivo» non è forse una categoria etica?”. E proprio
perché tale vi è bisogno di una risoluzione, il cominciamento dialettico deve essere una
rottura. Solo quando “l’inizio, con cui la riflessione si arresta, è una frattura, così che lo
stesso inizio assoluto emerge attraverso la riflessione continuata all’infinito, allora
soltanto l’inizio è senza presupposti. Se invece si tratta di una rottura con cui
s’interrompe la riflessione perché possa emergere l’inizio, allora quest’inizio non è
assoluto perché è avvenuto mediante una µετάβασις είς άλλο γένος”31. I principi
supremi non si possono provare che indirettamente. Questo è un pensiero che si trova
spesso sviluppato nella Logische Untersuchungen di F. A. Trendelenburg (1802- 1872),
geniale interprete di Aristotele, stimatissimo da Kierkegaard. Il salto (Spring) nella fede
ha niente di quantitativo. È la qualità (temporalmente autentica come divenire o
movimento della dialettica qualitativa) del Singolo che precipita nel divino “abisso di
luce” di kafkiana memoria. Bisogna chiudere gli occhi per non annegare, aggiungeva
Kafka. Solo nel comunicare è possibile una comunione con l’Assolutamente Altro. È
questo l’insegnamento della fede nello scandalo del Paradosso Assoluto, è questo
l’Amore di Cristo. La comunicazione, come «comunicazione d’esistenza», è la
comunione di tempo ed Eternità, ed esprime la differenza qualitativa tra l’immediato
(speculazione) e il momento (scelta).
Quale tipo di comunicazione bisogna ri-cercare? Qual’è il senso esistenziale della
comunicazione? Cosa propriamente ci dice la comunicazione autentica del Messaggio
che l’Eterno ha donato al tempo?
Nella Postilla viene menzionata l’opera di Plutarco, Iside e Osiride. In essa Plutarco
ricorda come Esiodo abbia indicato quali nature fondamentali il Caos, la Terra, Tartaro
e Amore: “Amore manifestamente significa esistenza, ovvero ciò con cui la vita è nel
tutto, quella vita ch’è sintesi di finito e infinito […] Ma cos’è l’esistenza? È quel
bambino ch’è generato dal finito e dall’infinito, dal tempo e dall’eternità, ed è perciò
sempre aspirante”32. L’amore è sempre aspirante, cioè il soggetto pensante è in
divenire. Tutto questo è ben espresso dalla concezione socratica dell’esistenza. Più il
soggetto ha in sé l’infinito, tanto più egli è esistente, è in sé il divenire. Cristianamente,
tutto ciò, è la «reciprocità continua» tra il divino e l’umano, poco prima
dell’inesplicabile, ma solo testimoniabile, salto nella fede. La possibilità dello scandalo
31
32
Ibidem, p. 235-236.
Ibidem, p. 212.
23
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risulta essere dialetticamente decisiva e si presenta come intrinseca all’oggetto di fede: è
il momento dialettico di sintesi tra l’Assurdo e il Paradosso, oltre a segnare il “confine”
tra Paganesimo, Ebraismo e Cristianesimo.
Per il tempo (la temporalità umana) l’Eternità non ha origine gnoseologicaqualitativa diretta né dalla possibilità né dalla realtà ma, come Kierkegaard ha
dimostrato, dal movimento (quindi in modo indiretto), ossia dal movimento del Tempo
verso l’Eternità (Fede) nella possibilità offerta dall’Eternità al Tempo (Amore, Grazia).
L’Eternità che ferisce il tempo è Amore (Caritas). Il tempo ferito è spirito, singolo
uomo per il quale la qualità esistenzialmente autentica e pienamente attuata è fede come
rischio e salto, libertà che accetta la ferita dell’eternità. È la colpa del peccato, libera
volontà che si abbandona all’Eterna volontà divina, che ri-cerca la verità nel perdono
della Grazia Divina. Ecco perché nel Diario, tra il 1854–55, sono annotate parole di
terribile e mistica profondità: “La verità è una trappola: non si può averla senz’essere
preso. Tu non puoi aver la verità prendendola in trappola, ma solo lasciandoti prendere
in trappola”. Lo Scandalo è la trappola, e noi possiamo ammirare, in questo sottile
meccanismo di analisi esistenziale, il pensatore formatosi “alla scuola dei Greci”.
L’essere spirito è movimento, divenire autentico nella coscienza piena della dialettica
qualitativa (fede), dono divino e mezzo eminente per poter penetrare “la pienezza e il
sapore” (plene et sapide) della vita e della parole di Cristo. Ecco una prima vera traccia
di quel filo (Traad) che ci guida nel labirinto delle opere di Kierkegaard, indicando lo
scopo della sua produzione: raggiungere quella semplicità della situazione autentica
comunicata direttamente dalla serena verità del messaggio evangelico. La limpida ed
immediata (per chi ha davvero fede il Momento permane) verità del Vangelo è passione
del Paradosso. Alla passione dell’esistenza, ossia alla libera scelta quale inizio della vita
dello spirito, la ragione umana risponde con il pathos del salto nella fede. Attraverso la
morte espiatoria sulla croce, il peccato è rimesso e la coscienza angustiata si libera nello
spirito. Kierkegaard, allora, nello scritto Dømmer selv! Til Selvprøvelse Samtiden
anbefalet (Giudicate voi stessi! Per l’esame di sé, raccomandato ai contemporanei,
1851-52) si affida all’«enfasi» sui fatti od “opere” attraverso cui si osserva la “legge
della libertà” e si diviene uno che “mette in pratica la parola” osservando il
comandamento dell’amore. Il contenuto principale della Lettera di Giacomo (l’epistola
“preferita” di Kierkegaard) è proprio l’osservanza del comandamento dell’amore
(“amerai il prossimo tuo come te stesso”) che impedisce l’esibizione di parzialità e la
mancanza di compassione per il povero. La forma stilistica della “parènesi” ch’è
espressione perfetta della divina ispirazione e verità delle parole del Vangelo di Cristo
(il Discorso della Montagna ne è l’esempio più puro ed universale), è frequente anche
nella Lettera di Giacomo. Ciò non toglie che, come appurato, sul piano dell’esistenza e
nel pieno abbandono all’eterno, possa darsi un movimento dialettico, quale scelta che
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muovendo dal momento si dà come un «retrocedere procedendo»: è questo il
movimento della ripresa, anticipazione dell’eterno nell’esistenza. Della ripresa
(Gjentagelse), nel suo confronto con Hegel, Kierkegaard scrive che essa è ciò che per
“errore” fu chiamato mediazione. La “religione pura” implica interesse per il bisognoso.
L’inter-esse (o cura) è carità. L’interiorità dello spirito, nella pietà, deve essere ri-preso,
mantenuto, e comunicato indirettamente nell’atto caritatevole (diretto). Il
comportamento cristiano include un modello di vita che non è controllato dal desiderio
o dalla mondanità; esso è manifesta sottomissione a Dio, che ama e si dona fino
all’umiliazione e Passione di Cristo.
Se la mediazione è l’essenza della speculazione, il cristianesimo è l’antitesi della
stessa mediazione. Si domanda Kierkegaard: “Ma cos’è l’antitesi della mediazione?” e
risponde “È il paradosso assoluto”. Il paradosso assoluto è l’Uomo- Dio, Gesù Cristo.
“Comprendere che non si può (ne si deve) comprendere”33 è una formula usata spesso
da Kierkegaard per spiegare il rapportarsi dell’uomo a Dio nello scandalo del
paradosso. Rapporto fondato su quella che è l’infinita differenza qualitativa tra uomo e
Dio ed esplicitato dalla dialettica qualitativa che ne scaturisce. La dialettica qualitativa,
quindi, sussiste in virtù della rottura che la coscienza del peccato opera con
l’immanenza.
La realtà cristiana suppone l’eterogeneità tra il finito e l’infinito (distinzione
ontologica tra tempo ed eternità), il “salto” qualitativo. La ragione naturale comprende
che l’oggetto della fede è incomprensibile.
Ora c’è da chiedersi: com’è possibile una comunicazione dell’incomprensibile?
Il Momento risolve il problema con il Paradosso, portando seco l’attuabilità della
comprensione esistenziale della cooriginarietà di peccato e libertà. All’uomo, libertà
individualizzata dal peccato, è possibile, come singolo, compiere il salto nella fede e,
liberandosi dell’angoscia, abbandonarsi alla Verità dell’Amore Eterno. A decidersi per
Cristo è sempre il Singolo, e non l’umanità. Il Cristianesimo è entrato nel mondo
stabilendo che la Persona sta più in alto della dottrina. Per questo ogni generazione deve
cominciare da capo, e la stessa contemporaneità con Cristo sarebbe stata inutile senza il
salto nella fede. Di conseguenza (poiché il Cristianesimo non è una dottrina), rispetto al
Cristianesimo non è indifferente la persona di chi l’espone (come per una dottrina) quasi
bastasse esporlo con esattezza obiettiva. “No, Cristo non ha istituito docenti, ma
33
Formula certamente suggerita da Tertulliano. Fabro nota che Kierkegaard, nello sviluppo del suo pensiero, è stato
fortemente stimolato dalla Theodicea di Leibniz, il quale nel «Discours de la conformité de la foi avec la raison» cita
questa sentenza del De carne Christi di Tertulliano: “Mortuus est Dei Filius, credibile est quia ineptum est; et
sepultus revixit, certum est quia impossibile”. Molte sono anche le analogie tra Hamann e Kierkegaard sul rapporto
tra fede e ragione. A tal proposito: Cornelio Fabro, Foi et raison dans l’ouvre de Kierkegaard, in «Revue de sciences
philosophiques et théologiques», XXXII, 1948, pp. 169 e seg, pubblicato nella versione italiana nel 1957, nel volume
dello stesso Fabro, Dall’essere all’esistente, Morcelliana, Brescia, 1957, 1965² edizione riveduta.
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imitatori”. Se il Cristianesimo (appunto perché non è una dottrina) non si reduplica in
chi l’espone, costui non espone il Cristianesimo: perché il Cristianesimo è una
comunicazione d’esistenza e può essere esposto soltanto con l’esistere. Esistere in esso
è esprimerlo esistendo: questo è reduplicare. (Queste importanti considerazioni sono
espresse in tutto il loro tormento nel Diario, dal 16 luglio 1848 al 2 gennaio 1849).
Ed ancora: “Il cristianesimo è la serietà tremenda: è in questa vita che si decide la tua
eternità […] essere cristiano è l’essere come spirito, è l’inquietudine più alta dello
spirito, l’impazienza dell’eternità, un continuo timore e tremore: che viene acuito dal
trovarsi in questo mondo perverso che crocifigge l’amore…” (Diario, 1930). Il
fondamento della fede, in quanto questa è il rapporto della persona esistente con la
Persona divina, non è nei presupposti dogmatici e razionali della dottrina, ma nella
figura del Maestro, nella Persona di Cristo di fronte al quale vale solo il principio
dell’immediatezza seconda (l’immediatezza prima è, aristotelicamente, la sensazione),
l’immediata adesione, ovvero l’atto di fede di fronte all’autorità che, naturalmente, non
viene dalla dottrina ma dalla Persona: e questo è il paradosso del cristianesimo.
L’assurdità della fede non è in funzione dell’essenza (ossia della vera realtà che è Dio),
ma dell’esistenza umana fuori dalla situazione dialettica del qualitativo rapportarsi al
divino: il cristianesimo è assurdo per quel esistente, per l’essere esistentivo,
existentiell34, che è fuori dalla fede. Soltanto la divina Onnipotenza, proprio perché
infinita, può creare una natura libera, indipendente nel suo ordine. Il libero arbitrio non
è qualcosa di puramente dato, ma è frutto di lotta e di esercizio: non si tratta quindi di
provare che si ha la libertà, ma di esercitarla nella scelta di Dio stesso. Solo il timore e
tremore (Frygt og Baevn, ossia la tensione dialettica del nostro rapporto a Dio nella
preoccupazione della salvezza eterna; “nessun affare fatto o concluso ma una cosa
sempre precaria” scriverà nel Diario) e la costrizione (Tvang) corrispondono, nella
situazione esistenziale, alla trascendenza della legge che viene da un legislatore
trascendente che non è più l’uomo o l’umanità in generale (questo fu, secondo
Kierkegaard, l’errore di Kant, ovvero pensare che l’uomo “sia a se stesso la sua legge”,
parlare cioè di autonomia) poiché, senza un terzo che stia fuori e costringa, ogni
presunta esistenza dialettica è illusione. Se timore e tremore esprimono la soggezione
della fede necessaria per gettarsi «nelle braccia dell’assurdo», essere sotto costrizione
significa essere uno strumento. Questo significa essere spirito: così l’apostolo è stato
34
Ricordiamo che rispetto alla tradizione filosofica tedesca, il termine Exsistenz – e quindi existentiell – non era più
riferito da Kierkegaard a qualsiasi ente, ma esclusivamente all’uomo, per caratterizzare in prospettiva cristiana il fatto
che l’uomo certamente esiste, ma in maniera diversa rispetto alla vera realtà che è Dio. Senza entrare ulteriormente
nel merito di una discussione esegetica riguardo il termine, vi è da dire che per Heidegger “Esistentivo” è tutto ciò
che si riferisce al piano “ontico”, vale a dire ai caratteri dell’ente in quanto tale, contrapponendosi pertanto al piano
propriamente “ontologico” costituito da ciò che è “esistenziale”. Solo con Sein und Zeit (1927) Heidegger giungerà a
fare un uso sistematico del termine, sottolineando che l’ “analitica esistenziale” ha in fondo radici esistentive, ovvero
è radicata nell’esserci stesso che si interroga sulla propria esistenza (si parla di “risolutezza” a livello esistentivo).
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costretto, così il “testimone della Verità”, così chiunque sceglie Dio. Per questa ragione,
come nota Fabro nel saggio introduttivo al testo kierkegaardiano Atti dell’Amore, il
compito essenziale della comunicazione (del discorso edificante, della predica) non è
quello di presentare una dottrina, ma soprattutto di stimolare una decisione, di
provocare un risveglio per la decisione della fede, di mettere in moto la dialettica
esistenziale della reduplicazione (Reduplikation). Ecco perché a Kierkegaard è caro S.
Giacomo: la fede senza le opere è morta.
Allorché lo stesso Kierkegaard riconsidera la propria opera, non esita a definirsi uno
“scrittore religioso”. Solo raccogliendosi in una profonda intimità spirituale è possibile
porsi in ascolto delle sue parole che vivono ed esistono con il suo spirito nella ripetizione come riflessione doppia della comunicazione indiretta. Poeta religioso e
filosofo della fede, teologo a tendenza cristologica, aspirante all’imitazione del Modello
e tuttavia consapevole che il compito affidatogli dalla Grazia (Naade) è un “grido nella
notte”, isolato dal mondo e ch’eppur giunge al cuore di ogni singolo; fiore della notte
che sboccia da uno spirito malinconico e tormentato, la cui unica gioia era il pensiero e
la consapevolezza del dono che offriva, ad ogni uomo, restituendo al Cristianesimo la
sua dignità originaria e all’esistenza singola il frutto maturo: il come della fede assieme
a ciò che ha sempre chiamato la soggettività della verità. Pensatore – sperimentatore, il
suo io poetico-reale plasma, con accorte e dirette rappresentazioni estetiche,
l’aspirazione umana nelle diverse forme esistenziali ch’essa assume prima che la
comunicazione d’esistenza, compresa ed accettata, permetta al singolo l’ascolto del
proprio spirito e la grazia della fede. Gli Pseudonimi, questi “autori poetico reali” come
lui li chiama, sono lo sperimentato e l’esperimento ad un tempo stesso: i suoi scritti
hanno le sfumature dell’esistenza e il colore multiforme e sempre cangiante dell’intero
paesaggio dell’esistere, nelle molteplici figure che assume l’angoscia dell’innocenza
prima e della colpa poi.
Per essere sinceri con se stessi bisogna raccogliersi nell’interiorità del proprio io e,
anzitutto, questo fu per Kierkegaard difficile, a causa di quel “pungolo nella carne” che
lo tormentava. Il “pungolo” (come lui lo chiama in riferimento a S. Paolo) era, forse, il
suo essere essenzialmente uno spirito malinconico. Una malinconia profonda e amara,
quasi acedia, spleen, torturava il suo spirito. È certo questo uno dei motivi profondi del
suo sentirsi “eterogeneo” rispetto al mondo, e, la penosa sofferenza della malinconia, lo
porta a sentirsi estraneo anche da se stesso. Eppure questo poeta è anche un pensatore
cristiano e, tutto il suo lavoro di indagine e profonda penetrazione psicologica dello
stato esistenziale rappresentato (basi pensare ad Aut-Aut) dall’opera e dallo pseudonimo,
tende verso l’esposizione della dialettica psicologica della scelta.
La sua malinconia gli impediva «di dare del “Tu” a se stesso» e tutto il mondo
fantastico che ha cavato da sé con i propri pseudonimi è il difficile percorso che
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conduce all’interiorità autentica: i pensatori essenziali hanno un messaggio essenziale
che non passa con il tempo, e tutta la sua opera è il ri-proponimento della domanda
essenziale: che cosa dice e che cosa dà Gesù Cristo alla mia vita?
Giovanni Paolo II, nell’enciclica Fides et ratio, ha scritto che il figlio di Dio
crocifisso è “l’evento storico contro cui s’infrange ogni tentativo della mente di
costruire su argomentazioni soltanto umane una giustificazione sufficiente sul senso
dell’esistenza. Il vero punto nodale, che sfida ogni filosofia, è la morte in croce di Gesù
Cristo”. La morte di Cristo come epifania suprema del suo amore è, per ciò stesso,
rivelazione piena e definitiva del senso dell’esistenza dell’uomo. Senso è l’amore che si
dona nella sua totalità.
Un esercizio della sincerità verso se stessi, questa è la filosofia per Kierkegaard, e in
tal senso anche la sapienza è il “comportamento attivo verso la verità della propria
esistenza: non il sistema o la speculazione ma il giornale intimo dell’avventura
irripetibile in cui si decide, da ciascuno di noi, la nostra sorte di uomini autentici […]
Così Kierkegaard si è proposto di cercare la verità cristiana, non alla maniera dei
professori e dei pastori, ma sperimentandola nella propria esistenza. La sua filosofia
vuole essere una vera e propria teologia sperimentale, e in questo senso è una
autobiografia teologica”35. Il suo è un invito all’interiorità del comunicare ch’è anche
ascolto e corrispondenza. Per chi crede davvero, la perdita dell’innocenza è
l’abbandonar-si a Dio. L’esperimento poetico diviene serietà tremenda. La tragica
lontananza dell’uomo da Dio è trasfigurata in una spiritualità poetica esistenzialmente
aspirante, ed è possibile, per Kierkegaard, come in un’idilliaca carezza che abbraccia il
creato, sospirare: “Buon giorno, aligero abitante del cielo, tu che leggero spazi là dove
noi fatichiamo tanto per arrivare” (Diario, 665). Nel gennaio del 1908 il Pascoli sente
anche lui la tragica lontananza del creato intiero da Dio, eppure, non aspirando
esistenzialmente al divino, prova una Vertigine: «Precipitare languido, sgomento,/ nullo,
senza più peso e senza senso./ Sprofondare d’un millennio ogni momento!/ di là da ciò
che vedo e ciò che penso,/ non trovar fondo, non trovar mai posa,/ da spazio immenso
ad altro spazio immenso;/ Forse giù giù, via via, sperar…che cosa?/ La sosta! Il fine! Il
termine ultimo! Io,/ io te, di nebulosa in nebulosa,/ di cielo in cielo, in vano e sempre,
Dio!». Pascoli smarrisce il senso perché la situazione angosciosa dell’esistenza umana
si trova in lui ancora immersa nella struttura dell’infinità temporale e spaziale
dell’universo fisico: manca il momento che permette il movimento qualitativo, e, così, la
sua lontananza è una caduta, un “precipitare” e non un salto.
L’ideale di Kierkegaard è una vita umana strutturata, formata, ancorata al divino. La
fede è l’impegno della nostra stessa libertà nell’apertura verso Dio. È il cuore spezzato
35
P. Prini, Storia dell’esistenzialismo, Edizioni Studium, Roma, 1989, pp. 20-24.
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di un poeta a parlare e “questo poeta sono io” afferma nel Diario. Questo “caos di
spirito, tristezza e fede”36, annotava nel suo Diario:
“Si Christum nescis, nihil est si caetera discis / Si Christum discis, satis est si caetera
nescis”.
36
F. Kafka, Lettera a Max Brod, marzo 1918, in Lettere 1902 – 1904, tr. it. a cura di E. Pocar, Mondadori, Milano,
1988, p. 286.
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