SOREN KIERKEGAARD (1813-1855) Il filosofo Soren Kierkegaard

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SOREN KIERKEGAARD (1813-1855)
Il filosofo Soren Kierkegaard fu considerato dall’esistenzialismo contemporaneo
come uno dei suoi padri e da allora l’influenza del pensatore danese si è fatta
sempre più profonda, in molti campi della cultura, e specificamente in filosofia,
teologia, letteratura ed arte. Kierkegaard si definì "uno scrittore religioso" (cfr.
il Punto di vista esplicativo sulla mia opera di scrittore, scritto nel 1848 ma
pubblicato postumo nel 1859), ed in effetti tutto il suo pensiero è stato definito
una sorta di "autobiografia teologica", in quanto il suo problema fondamentale è
quello dell’esistenza di Dio o, meglio, del rapporto tra il singolo uomo e Dio.
L’insegnamento fondamentale del Cristianesimo è per Kierkegaard proprio
questo: ogni singolo uomo è direttamente coinvolto nel suo destino e la ricerca
della verità non è mai oggettiva o distaccata bensì appassionata e paradossale.
Kierkegaard considera come suo compito essenziale quello di inserire la persona
singola, con tutte le sue esigenze, nella ricerca filosofica. Non per nulla egli
avrebbe voluto far scrivere sulla sua tomba l’espressione: Quel singolo, e non per
nulla è stato uno dei critici più acuti di Hegel ed ha combattuto contro la pretesa di
identificare l’uomo con Dio, affermando invece "l’infinita differenza qualitativa" tra
l’uomo e Dio.
LA CRITICA ALL’HEGELISMO
"Nella specie animale – dice Kierkegaard – vale sempre il principio: il singolo è
inferiore al genere. Il genere umano ha la caratteristica, appunto perché ogni
singolo è creato ad immagine di Dio, che il Singolo è più alto del genere". Hegel ha
invece fatto dell’uomo un genere animale, giacché solo negli animali il genere è
superiore al Singolo. L’esistenza – sostiene Kierkegaard – corrisponde alla realtà
singolare, al Singolo; e non coincide mai con il concetto: un uomo singolo,
concreto, determinato non ha certo un’esistenza puramente concettuale. Invece la
filosofia hegeliana pare solo interessata ai concetti: essa non si preoccupa di
quell’esistente concreto che siamo io o tu. Il sistema hegeliano ha inoltre la
pretesa di spiegare tutto e di dimostrare la necessità di ogni evento. Ma l’esistenza
non può essere ingabbiata in un sistema. Ed è sempre la singola esistenza che
tiene in scacco tutte le forme di immanentismo e di panteismo, con cui si tenta di
ridurre, annullare o riassorbire l’individuo singolo nell’universale.
Ad Hegel che sosteneva l’identità di interno ed esterno, esprimendo così il
principio dell’appartenenza inseparabile che i contrari hanno nel concetto, e
grazie a cui è possibile la dialettica, il movimento, il progresso, Kierkegaard
afferma l’opposto: quanto minore sarà l’esteriorità, tanto maggiore sarà
l’interiorità (si pensi alle figure di Socrate e di Cristo: esteriormente erano
persone comuni, Socrate era anche piuttosto bruttino; ma interiormente …). Di qui
anche la contestazione del passaggio hegeliano dalla quantità alla qualità, che è
per Kierkegaard una "superstizione", in quanto si crede che, con l’aumentare delle
determinazioni quantitative, venga fuori una qualità nuova, mentre la quantità è
strutturalmente diversa dalla qualità. Infine, all’identità hegeliana di soggetto e
oggetto, essere e pensiero ecc., Kierkegaard risponde che la vita intera è basata
sulla contraddizione, sul paradosso e non vi è superamento di contrari bensì
alternative impegnative che si escludono a vicenda: non vi è nessun et et ma solo
un aut aut: o questo o quello, la vita è una scelta continua.
GLI STADI DELLA VITA
L’esistenza è il regno della libertà: l’uomo è ciò che sceglie di essere, è quello che
diventa. Ci sono tre alternative fondamentali nella vita umana: lo stadio estetico,
quello etico e quello religioso. Tra uno stadio e l’altro vi è un salto e un abisso;
ognuno di essi rappresenta un’alternativa che esclude l’altra.
Nello stadio estetico l’esteta è colui che vuole vivere nell’attimo, cercando do
coglierne la pienezza. Egli intende fare della sua vita un’opera d’arte, da cui sia
bandita la noia, la tristezza, la monotonia. "Godi la vita e vivi il tuo desiderio", dice
l’estetica, che trova il suo modello nella figura del Don Giovanni (cfr. il Diario di un
seduttore, che è uno dei capitoli di Aut aut, 1843), il quale sa porre il suo
godimento nella limitazione e nell’intensità dell’appagamento. In questo stadio
però non è possibile, secondo Kierkegaard, né scelta autentica né libertà: infatti
l’esteta lascia alle circostanze decidere per lui. Inoltre l’ultimo sbocco della vita
estetica è la disperazione. Essa sorge dall’aver voluto basare la vita solo su se
stesso e non sugli altri e su Dio. "Chiunque vive esteticamente è disperato, lo sappia
o non lo sappia; anzi, forse più di ogni altro è disperato colui che non sente in sé
nessuna disperazione". Ma se la radice della disperazione sta nel volersi accettare
dalle mani di Dio, allora è chiaro che l’esistenza autentica è quella disponibile
all’amore di Dio, quella di colui che non crede più a se stesso ma soltanto a Dio.
Vi è poi la vita etica: essa implica una stabilità e una continuità che la vita estetica,
come incessante ricerca della varietà, esclude da sé. Nella vita etica, l’uomo si
sottopone ad una forma, si adegua all’universale e rinuncia ad essere l’eccezione.
La vita etica è raffigurata dalla figura del marito e dall’elogio del matrimonio. E’
l’uomo che sceglie se stesso, che in questa scelta afferma la continuità della sua
vita, l’impegno e non la fuga dalle responsabilità; in una parola, accetta la
ripetizione. Essa è la possibilità di riconfermare il passato, accettando ogni volta e
in modo nuovo di amare la stessa donna, di avere gli stessi amici, di esprimersi
nella stessa professione. La ripetizione indica la serietà della vita, è il coraggio
etico della vita. Come uomo etico, il marito ha il dovere di conformarsi alla legge
morale che è universale, ma nello stesso tempo egli rischia di perdere nella
anonimità e nella folla la sua personalità e la sua autonomia. Inoltre nello stadio
etico ci si imbatte nella contraddizione del pentimento. Infatti, se l’uomo sceglie se
stesso fino in fondo, trova, secondo Kierkegaard, la propria origine, cioè Dio, nel
senso che c’è in noi un’ansia di infinito che non si lascia racchiudere nei limiti di
marito e lavoratore. Ma poiché di fronte alla maestà divina l’unico sentimento che
l’uomo può provare è quello della propria inadeguatezza morale, cioè della
propria colpevolezza, l’esito finale della vita etica è appunto il pentimento. L’uomo
etico viene così messo di fronte al peccato, il quale però non è più una categoria
etica bensì religiosa. Col pentimento dunque si esce dalla sfera dell’etica per
entrare in quella della religione, il che richiede il salto della fede, che è un salto
ancora più radicale di quello che divideva l’ambito etico da quello estetico.
La vita religiosa, la fede, va al di là dello stesso ideale etico della vita. Il simbolo
della fede è visto da Kierkegaard nella figura di Abramo (cfr. Timore e tremore,
1843), perché egli accetta il rischio della prova impostagli da Dio, accetta il rischio
di porsi di fronte a Dio nel silenzio e nella solitudine, come un singolo di fronte
all’Altissmo. La fede va al di là della stessa morale perché Dio ordina ad Abramo di
sacrificargli il figlio, quindi di commettere un omicidio. Come poter accettare una
simile prova? Ma la fede consiste proprio in quel rischio, nell’accettazione del
paradosso e della prova. L’atto di fede implica una rottura recisa con la razionalità
ed esige il passaggio, il salto, ad una sfera che è incommensurabile con la ragione
naturale. L’oggetto della fede urta contro la ragione che pretende di spiegare e di
esaurire tutto e non ammette nulla sopra di sé: per essa, che non vuole credere,
l’oggetto della fede è un assurdo. Per il credente, che ammette la trascendenza ed
è convinto che a Dio nulla è impossibile, esso è un paradosso. Il paradosso nella
verità religiosa dipende dal fatto che essa è la verità così come lo è per Dio. Qui si
usano una misura ed un criterio sovraumani, e rispetto a questo una sola
situazione è possibile: quella della fede. Proprio per il paradosso come tale il
credente è portato a credere, e non per una evidenza logica. Kierkegaard esprime
questo con la formula: "Comprendere che non si può né si deve comprendere". Lo
scandalo è per Kierkegaard il momento cruciale nella prova della fede, il punto di
resistenza e perciò il segno della trascendenza della verità cristiana di fronte alla
ragione. Lo scandalo indica il soccombere della ragione perché è il rifiuto di
"comprendere di non comprendere", giacché la ragione vuole solo comprendere.
Per Kierkegaard l’origine dello scandalo nasce dal fatto che l’uomo non si pone
come "Singolo davanti a Dio", e cioè non accetta la misura di Dio. Quando ci
poniamo davanti a Dio non c’è più spazio per finzioni, mascheramenti, illusioni, vi
è innanzitutto la scoperta che "c’è un’infinita abissale differenza qualitativa tra Dio
e l’uomo", e cioè che l’uomo non può assolutamente nulla, che è Dio a dare tutto.
Ma oltre a questo si tratta, nel Cristianesimo, di ammettere che Dio stesso si è
messo in rapporto con l’uomo, che Dio è entrato nel tempo, che l’Eterno si è
incarnato in un uomo, e questo dà scandalo! L’oggetto dello scandalo è proprio la
figura di Cristo, cioè è scandaloso credere che un uomo singolo sia Dio, che Gesù
sia Dio. Ora, la fede in Cristo è proprio superamento dello scandalo ed
accettazione del paradosso che è l’uomo-Dio; è accettazione del fatto che la Chiesa
sia militante e non trionfante. E questo può essere fatto solo con una scelta di
fede.
La scelta di fede, quindi l’accettazione del paradosso e il superamento dello
scandalo, può portare all’angoscia. Se l’esistenza è libertà, vuol dire che noi
abbiamo comunque sempre la possibilità di scegliere qualsiasi alternativa.
L’angoscia è la coscienza della nostra terribile libertà: tutto ci è possibile, quindi
possiamo anche perderci, andare incontro al disvalore, al nulla. L’angoscia è il
puro sentimento del possibile; è il senso di quello che può accadere e che può
essere molto più terribile della realtà. L’angoscia caratterizza la condizione
umana: chi vive nel peccato è angosciato dalla possibilità del pentimento; chi è
libero dal peccato, vive nell’angoscia di ricadervi. Ma l’importante è capire che
l’angoscia forma: essa infatti distrugge tutte le finitezze, tutte le nostre presunte
certezze assolute, scoprendo tutte le loro illusioni.
Se l’angoscia è tipica dell’uomo nel suo rapportarsi col mondo, la disperazione è
propria dell’uomo nel suo rapporto con se stesso. Abbiamo già visto, parlando
dell’esteta, che cos’era la sua disperazione. Qui possiamo aggiungere che essa è
l’incapacità di risolvere il rapporto con se stessi; è la colpa dell’uomo che non sa
accettare se stesso nella sua profondità; è vivere, giorno dopo giorno, la propria
incapacità di vivere, cioè è un eterno morire senza tuttavia morire fisicamente;
essa è dunque la malattia mortale, non perché conduca alla morte dell’io, ma
perché è "il vivere la morte dell’io". Il credente però possiede il "contravveleno"
sicuro contro la disperazione: è la fede, il credere che a Dio tutto è possibile. La
fede è l’eliminazione della disperazione, per cui l’uomo, pur orientandosi verso se
stesso e volendo essere se stesso, non si illude della sua autosufficienza ma
riconosce la sua dipendenza da Dio. La fede sostituisce alla disperazione la
speranza e la fiducia in Dio. Ma porta l’uomo al di là della semplice razionalità:
essa è, come sappiamo, paradosso e scandalo.
LA VERITA’ E’ LA SOGGETTIVITA’
Del resto, la verità cristiana non è per Kierkegaard una verità da dimostrare, ma è
piuttosto una verità da testimoniare. Kierkegaard afferma, a questo proposito, che
"la soggettività, l’interiorità è la verità" intendendo non certo che la verità è
soggettiva o relativa, ma che la verità è tale quando è scelta e vissuta in prima
persona, quando è una "verità per me", per la quale io possa vivere e anche
morire. E questa è proprio la verità quale mi viene dal Cristianesimo: esistere vuol
dire rapportarsi alla verità che è Cristo, vuol dire scegliere di vivere la fede,
testimoniando con la propria vita l’importanza della verità in cui si crede, contro
ogni speculazione astratta, che non mette in questione il singolo.
LA CRITICA AL CRISTIANESIMO DEL SUO TEMPO
Nella cristianità stabilita – dice Kierkegaard – si è purtroppo dimenticato cosa
vuol dire essere cristiani. Si è dimenticato che la fede esige il salto supremo, cioè
l’accettazione dell’uomo-Dio; si è dimenticato che la fede in Cristo è superamento
dello scandalo e accettazione della croce, che è perciò l’accettazione del modello
(Gesù), sofferente. Kierkegaard addita in Lutero il primo responsabile della
mondanizzazione del Cristianesimo. Il protestantesimo, secondo Kierkegaard, ha
scaricato tutto il compito della salvezza sul comodo cuscino della fede-grazia,
abolendo il celibato, l’ascesi, il martirio, il chiostro. Così, per il filosofo danese, "il
Cristianesimo nella cristianità non esiste più", perché la cristianità ha abolito il
Cristianesimo del Nuovo Testamento e lo ha tradito trasformandosi in una sorta di
comodo paganesimo. L’eresia più terribile, oggi, è quella che consiste nel "giocare
al Cristianesimo".
NOTA BIOBIBLIOGRAFICA
Soren Aabye Kierkegaard (che letteralmente si traduce Severino Abele Cimitero!)
nacque in Danimarca, a Copenhagen, il 5 Maggio 1813. Il padre, commerciante,
aveva sposato in seconde nozze la propria domestica. Questo matrimonio fu
fecondo di ben sette figli: Kierkegaard fu l’ultimo dei sette e nacque quando il
padre aveva già 56 anni. Nella sua famiglia, e soprattutto nel padre, Kierkegaard
vide il segno di un tragico e misterioso destino. Parlando di una "oscura" colpa del
padre, egli affermò che la rivelazione di quella colpa costituì per lui il "grande
terremoto" della sia vita. Il rapporto di Kierkegaard col padre e con la famiglia fu
una "croce" vissuta sotto il segno del castigo di Dio. E di natura religiosa fu anche
quella "spina nella carne" che impedì a Kierkegaard sia di sposarsi con Regina
Olsen (ruppe il fidanzamento) sia di diventare pastore o di fare qualunque altra
professione socialmente riconosciuta. Passò la sua breve vita interamente assorto
nella scrittura e nella meditazione, grazie anche ad una eredità paterna che gli
permise la completa indipendenza economica. E, del resto, nei confronti della sua
stessa attività di scrittore, egli dichiarò di porsi in un "rapporto poetico", cioè in
un rapporto di distacco e lontananza : distacco ancora accentuato dal fatto che
Kierkegaard pubblicò i suoi libri sotto pseudonimi diversi, quasi ad impedire ogni
riferimento del loro contenuto alla sua stessa persona. Questi elementi biografici
vanno tenuti presenti per la comprensione dell’atteggiamento di Kierkegaard nei
confronti della vita. Morì l’11 Novembre 1855.
Le sue opere più famose sono: Sul concetto di ironia; Aut aut (di cui fa parte
il Diario di un seduttore); Timore e tremore; La ripetizione; Briciole di filosofia; Il
concetto dell’angoscia; Postilla conclusiva non scientifica alla Briciole di filosofia; Il
punto di vista sulla mia attività di scrittore; La malattia mortale; Discorsi edificanti;
il Diario.
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