Quando soldati e ufficiali scelsero di battersi per la libertà

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25 Aprile
La difficilissima ed eroica scelta dei militari italiani all’estero
Quando soldati e ufficiali
scelsero di battersi per la libertà
di Ilio Muraca
Furono migliaia
ad unirsi
ai partigiani
della Grecia,
dell’Albania,
della Jugoslavia,
della Francia
e della Corsica.
Il massacro
di Cefalonia
Soldati italiani in Grecia
prima di unirsi ai partigiani.
a Resistenza dei militari italiani al
tedesco, a seguito dell’armistizio
dell’8 settembre 1943, si è sviluppata inizialmente, in maniera organica e
determinata, soltanto all’estero, specie là
dove le condizioni delle unità ivi dislocate, a motivo di alcune circostanze favorevoli, lo hanno consentito. La distanza
dai nostri confini, l’assetto di guerra e di
permanente mobilitazione in cui esse si
trovavano, per il persistere di una estesa
guerriglia, la maggiore coesione e prontezza operativa dei reparti, rispetto a
quelli della madrepatria, la necessità di
combattere per aprirsi la via di casa e, in
alcuni casi, il positivo atteggiamento dei
movimenti di liberazione locali, sono
stati tutti fattori che hanno stimolato la
volontà di opporsi allo strapotere e all’arroganza germanica e di misurarsi con
essa, in una impresa che, fin dall’inizio,
poteva considerarsi disperata.
Purtroppo, il fatto che i maggiori comandanti all’estero siano
stati tenuti all’oscuro
dell’imminente armistizio, a differenza dei loro
pari grado in Italia, ha
giocato un ruolo dirompente nel creare quella
situazione di disordine e
di smarrimento che, nel
giro di pochi giorni e,
spesso, di poche ore,
avrebbe causato il crollo
psicologico e la diaspora
della maggior parte delle
loro grandi unità e la
frammentazione
della
Resistenza in episodi
sporadici, anche se non
privi di un alto valore
morale, per il contributo
di sangue versato.
Ma è stato proprio questo drammatico disorientamento dei vertici dell’Istituzione
militare,
senza precedenti nella
storia del Paese, a dare
inizio, per decisione
spontanea di comandanti
L
e di semplici gregari, a quella lotta armata che, nel contribuire in misura significativa alla liberazione di quei territori
stranieri, nei quali essi erano considerati
occupatori, ha finito per riscattare la loro
dignità di soldati e, attraverso esperienze
nuove, delineare un assetto diverso di
quei princìpi di democrazia con i quali
l’Istituzione stessa avrebbe dovuto in seguito misurarsi.
Per una migliore comprensione di come
quella lotta armata si è andata maturando, è opportuno indicare, per sommi capi, la scansione dei tempi delle più importanti decisioni del Comando Supremo e dello Stato Maggiore Esercito dell’epoca, le sole che dovevano contare, in
quel frangente, e che condizionarono il
comportamento dei comandanti delle
quattro Armate e delle loro trentacinque
divisioni ubicate all’estero, con una forza
di 300.000 uomini circa.
29 luglio 1943: il gen. Roatta, Capo dello SME (che successivamente sarebbe
passato alla RSI) dopo cinque giorni,
inutilmente trascorsi, dalla caduta di
Mussolini, informa segretamente i Comandanti delle varie Armate, ad eccezione dei due dei Balcani meridionali, sulle
misure da prendere contro eventuali colpi di mano germanici. Ma, nel frattempo, i tedeschi hanno già messo in atto un
piano, predisposto da tempo, per la ridislocazione delle loro unità, sia in Italia
che all’estero, allo scopo di contrastare la
ventilata defezione dell’Italia.
10 agosto: prosegue l’afflusso delle divisioni tedesche nella penisola, anche senza il consenso del Comando Supremo. I
maggiori Comandi italiani dei Balcani
continuano ad essere tenuti all’oscuro di
quanto sta accadendo.
12 agosto: parte per Lisbona il gen. Castellano, per trattare l’armistizio con gli
alleati.
3 settembre: firma dell’armistizio a Cassibile, in Sicilia. Badoglio, Capo del Governo e del Comando Supremo, autorizza la diramazione, ma solo per alcuni
Comandanti d’Armata, impegnandoli al
patria indipendente l 11 aprile 2010 l 33
massimo riserbo, della “memoria
44”, con l’indicazione delle misure da attuare contro i tedeschi, in
caso di aperti atti di aggressione.
L’ordine esecutivo dovrà essere diramato dallo stesso Comando Supremo solo eccezionalmente, i
maggiori comandi dipendenti potranno agire di iniziativa. Ancora
una volta, rimangono esclusi dalla
“memoria 44” i Comandanti delle
Armate nei Balcani meridionali,
della Grecia e dell’Egeo. Questi riceveranno tali disposizioni poco
prima dell’armistizio se non addirittura alcune ore dopo il suo annuncio.
8 settembre: comunicazione alleata dell’armistizio. In una tempe-
della “memoria 44” non è stato
ancora trasmesso.
11 settembre: solo dopo che il re
e il governo sono giunti al riparo,
a Brindisi, viene trasmesso il messaggio che dichiara i tedeschi come nemici.
14 ottobre: dopo 36 giorni dall’armistizio, il re si decide a dichiarare guerra alla Germania.
Nel frattempo l’esercito tedesco
ha già iniziato ampie retate di militari italiani, nelle strade e nelle
caserme, abbandonandosi ad atti
di crudele repressione verso coloro
che, militari o civili, non rispettano le loro ingiunzioni. Per quelli
che avevano già scelto di resistere,
Soldati italiani in Jugoslavia mentre vanno ad arruolarsi con i partigiani.
stosa riunione, Badoglio viene indotto a leggerne via radio il testo,
prima della sua fuga da Roma. Peraltro, la frase con cui si dispone
che “le forze italiane reagiranno ad
eventuali attacchi da qualsiasi provenienza”, è ambigua e tale da suscitare in tutti i comandanti di unità le più svariate interpretazioni e
congetture.
9 settembre: nei palazzi, ormai
vuoti, del Comando supremo e
dello Stato Maggiore Esercito
squillano inutilmente i telefoni; i
pochi ufficiali rimasti non sanno
cosa rispondere alle pressanti richieste di chiarimenti e di aiuto,
provenienti da ogni parte. Tanto
più che il previsto ordine esecutivo
34 l patria indipendente l 11 aprile 2010
spesso disobbedendo agli ordini
superiori, il messaggio è inutile e
tardivo così che la Resistenza fuori
d’Italia, da parte di intere unità,
ancora militarmente bene organizzate, come di singoli individui,
trae proprio origine da questi
comportamenti, al limite dell’insubordinazione.
Essi sono la conseguenza delle incertezze e dell’attendismo dei comandanti più elevati sui quali tuttavia, è bene precisarlo, grava la responsabilità della tutela della vita di
decine di migliaia di uomini. Abituati a ricevere continue direttive
dall’alto, che legittimassero il loro
operato, e ad una vicinanza, spesso
subordinata, dei comandi tedeschi
che avevano loro delegati ovunque,
i comandanti di Armata e di Divisione, nella maggioranza dei casi,
finiscono per permettere ai loro dipendenti di decidere del loro destino lasciandosi facilmente ingannare
o convincere a cedere ai metodi, a
volte blandi a volte crudeli, degli
ex alleati, decisi ad ottenere la resa
delle unità italiane a qualsiasi costo,
anche della soppressione o della
strage dei rivoltosi, a qualsiasi grado essi appartenessero, come è avvenuto per Cefalonia.
Nasce così, del tutto spontaneo, il
fenomeno dei “partigiani all’estero”. Una scelta di campo fatta, da
ufficiali e soldati, in sintonia con i
più naturali sentimenti popolari, in
cui è possibile riconoscere un diffuso antifascismo esistenziale, quale reazione ad un regime che li
aveva vincolati ad una alleanza innaturale e antistorica e precipitati
in quelle tragiche condizioni; un
antifascismo che, in un secondo
tempo, ma solo per alcuni di essi,
si sarebbe rivestito anche di contenuti politici. Comunque, si è trattato di una scelta particolarmente
difficile per tutti, specie sotto l’aspetto psicologico, in particolare
per i quadri, in quanto fatta al di
fuori di ogni tradizione militare
del tipo di obbedienza in cui si
erano formati, nelle accademie,
nelle scuole e nei reggimenti di
antica tradizione monarchica; una
scelta attraverso la quale accettavano sistemi di governo, di gerarchia
e di combattimento diversi, se non
opposti, a quelli tradizionali, in
una logica nuova, dove nessuno di
essi poteva vantare altri precedenti
se non quelli del rispetto e del prestigio guadagnati sul campo.
Questo ultimo aspetto, specie per
gli ufficiali, rappresenterà l’ostacolo più duro da superare. Molti di
essi, infatti, prima di venire fiaccati
dagli scontri quotidiani, dalla fame
e dalle malattie, saranno travolti e,
in seguito, emarginati dalle formazioni combattenti, proprio da questo modo nuovo di intendere diritti e doveri, in una mutazione di
comportamenti imposta dai nuovi
compagni di lotta, già ideologicamente motivati e altrettanto risoluti a far rispettare le regole di una
guerriglia che, una volta scelta,
non avrebbe consentito né ripensamenti né defezioni.
Premesso tutto ciò, è opportuno rilevare alcune differenze
sostanziali con la guerriglia in
Italia. Intanto, la caduta del fascismo non aveva avuto, nei
territori d’oltremare, lo stesso
impatto e significato della madrepatria. Per quei militari
quell’evento non aveva provocato, inizialmente, alcun sostanziale mutamento, se non la
speranza che la guerra potesse
volgere finalmente al termine.
In seguito, per quelli che avevano scelto di fare i partigiani,
la morte del fascismo sarebbe divenuta il punto di non ritorno rispetto al passato, a ciò spinti sia
dal particolare tipo di conflitto
ideologico che dall’attento controllo che, sulle loro opinioni ed
atteggiamenti, avrebbero esercitato i nuovi compagni di lotta.
Sul piano militare e organizzativo
poi, i combattenti all’estero, subito inquadrati in unità già collaudate e di pronto impiego, non hanno
avuto il tempo di adattarsi alla
nuova condizione né alcuna possibilità di scegliersi una destinazione, tranne nei casi in cui si presentava loro l’occasione di un rifugio,
ma sempre con il consenso dei
partigiani, presso famiglie di civili
o di contadini o accettando incarichi meno rischiosi, come quello di
“lavoratori ausiliari”. In Italia, invece, chi aveva deciso di andare in
montagna si sceglieva, di solito, la
formazione e, di riflesso, l’ideologia od il partito, basandosi spesso
su precedenti rapporti personali di
fiducia e di amicizia con i capi, sia
pure mutevoli nel tempo.
Per quanto riguarda la questione
dell’approvvigionamento, che per
le unità all’estero si è sempre
mantenuta al limite della sopravvivenza, a motivo degli incessanti
cicli operativi, era impossibile agli
italiani fare assegnamento sull’aiuto dei nativi, avari per consuetudine e comunque già ridotti allo
stremo dalle continue requisizioni
degli intendenti delle brigate, gli
unici autorizzati a rifornire i loro
dipendenti. E ciò, al contrario di
quanto avveniva in Italia, ove il ridotto raggio di azione delle formazioni e la loro modesta consistenza consentivano un più frequente ricorso alle risorse del luo-
Il Sottosegretario alla Guerra Mario Palermo visita in Albania la Brigata “Gramsci”.
go, agevolato dai legami di sangue, di amicizia o di semplice comunanza di ideali con i donatori.
Un cenno particolare merita anche la dibattuta questione dell’indottrinamento politico dei resistenti all’estero, da molti erroneamente ritenuto obbligatorio. In
effetti, un maldestro tentativo di
educazione politica all’inizio ci fu,
specie per gli ufficiali, ritenuti inguaribilmente “borghesi”.
In Jugoslavia, esso si realizzò attraverso la lettura di testi marxisti,
provenienti dall’URSS e approssimativamente tradotti. Ma in seguito, visto il suo scarso successo e di
fronte alle coraggiose reazioni di
alcuni comandanti, che rivendicavano un trattamento di alleanza
paritaria, l’indottrinamento venne
sospeso e impartito solo su base
volontaria, senza alcuna discriminazione per chi vi si rifiutava. C’è
da aggiungere che, anche fra i volontari, alcuni lo fecero soprattutto per motivi di opportunità, considerati i privilegi spettanti all’incarico di commissario, cui sarebbero
stati normalmente destinati.
Anche l’uso delle uniformi italiane
non venne mai contestato o vietato dai partigiani locali, tranne nei
casi in cui l’usura aveva ormai ridotto quei capi di corredo a inutili stracci. Ma, anche quando il ricambio era costituito dalle calde
uniformi inglesi, gradi, stellette e
mostrine continuarono ad apparire
sui brandelli delle giacche grigioverdi e sui copricapo, dei quali
nessuno volle privarsi, quale irrinunciabile distintivo di italianità.
L’uso stesso della stella rossa,
spesso sovrapposta al fregio dell’arma di appartenenza, non venne mai imposto, ma fu sempre
una libera scelta di quei militari
che vedevano, in quel simbolo, un
segno di rottura con il passato.
Tant’è che, al rientro nell’Italia liberata, quel segno venne subito
rimosso. Occorre inoltre considerare il contesto territoriale in cui
la Resistenza all’estero si svolse;
un contesto assai poco conosciuto, straniero per lingua, religione,
costume e consuetudini, popolato
specie nei Balcani meridionali, da
razze diverse, ancora più povere
di quelle delle regioni contadine
dalle quali la maggior parte dei
militari proveniva. Ma anche in
quel nuovo “habitat”, il soldato
italiano ha saputo dimostrare le
sue qualità umane, di adattamento, di generosità, ingegnosità e,
soprattutto, esprimere, nelle circostanze più tragiche, una inaspettata capacità di soffrire, senza
quasi mai cedere alla tentazione di
arrendersi, di consegnarsi ai tedeschi, i quali, con incessanti appelli
ed un insidioso volantinaggio,
continuavano ad invitarlo nei loro
vicini presidi, offrendo in cambio
la salvaguardia della vita.
Nonostante tutto questo, i rapporti fra italiani e partigiani locali non
furono esenti da contrasti e pregiudizi, che spesso sfociarono in
punizioni crudeli e persino fucilazioni, anche per reati di modesta
entità, come quelli del furto di alimenti a danno del popolo, o per
presunte colpe, specie di ufficiali e
sottufficiali, commesse in periodi
antecedenti al loro passaggio ai
partigiani. Numerose furono le
vittime di tale duro trattamento,
anche se occorre aggiungere che
un identico, estremo rigore veniva
adottato pure nei confronti dei nativi. A tali difficoltà va aggiunta,
patria indipendente l 11 aprile 2010 l 35
per gli italiani, la necessità di barcamenarsi nell’intrico delle etnie
diverse, proprie dei territori balcanici. Queste, con i loro differenti
moventi, politici e religiosi, giocavano un ruolo primario nella condotta delle operazioni e nell’alternanza delle alleanze, in una lotta
senza quartiere, fatta anche di
estreme barbarie, alla quale però il
soldato italiano, per istintiva ripulsa, ha saputo sempre rimanere
estraneo.
Da ultimo, un cenno sui contatti
con la madrepatria, particolarmente sentito e sofferto. Solo la divisione “Garibaldi” del Montenegro, dopo un periodo di silenzio,
poté mantenersi in contatto con
l’Italia, anche se Tito non volle
mai riconoscere la dipendenza diretta di quella grande unità dal
Comando Supremo italiano. Per il
resto, le altre formazioni, come ad
esempio la brigata “Italia”, operante alle dipendenze della più valorosa divisione proletaria titina,
non ebbero mai un collegamento
radio con il governo del sud, tanto
che, per lunghi mesi, non ci fu alcuno scambio di notizie con i familiari residenti nel territorio liberato, ad eccezione di qualche raro
e fortunoso contatto. Fu questo
uno dei maggiori travagli per quei
soldati, sia pure stoicamente sopportato, ed una delle più angosciose differenze dalla guerra partigiana in Italia.
Per finire, per quel che riguarda il
numero di coloro che, dopo l’8
settembre, scelsero la resistenza al-
Partigiani della “Gramsci” in Albania.
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l’estero, la loro stima, è estremamente aleatoria. Una cosa appare
incontrovertibile, e cioè che si è
trattato di una maggioranza assoluta di militari in servizio, comprendente ogni arma e specialità,
comprese Marina ed Aeronautica,
sia pure in percentuali proporzionalmente ridotte. Ma non è stato
tanto il numero a contare, quanto
il significato di una scelta di libertà
che, alla fine, ha fatto registrare
una elevatissima percentuale di caduti, valutabili in oltre ventimila.
Va ad onore delle Forze Armate
italiane avere espresso, dalle loro
fila, soldati come quelli, capaci di
continuare a fare il loro dovere in
condizioni di pericolo e difficoltà
estreme, portando in esse i valori
ed i sentimenti dell’italianità ed accettando di confrontarsi con valori
e sentimenti spesso in contrasto
con loro.
Al termine del conflitto, per molti
di essi, quel contrasto si sarebbe
volto in un danno, tanto da assoggettarli ad ingiustificati trattamenti discriminatori, che hanno finito
per danneggiarli nel lavoro e nella
carriera. Malgrado ciò, nessuno di
essi ha mai rinnegato quella sua
preziosa esperienza.
Da una rapida sintesi degli avvenimenti occorsi nei territori in cui
essi hanno operato, si ricava quanto segue.
Albania
Nel 1940, il paese era stato annesso al regno d’Italia. Al momento
dell’armistizio, la situazione mili-
tare viene bene illustrata dal seguente stralcio della relazione del
generale Rosi, comandante del
Gruppo Armate Est con sede Tirana, che così cercava di giustificare
il suo ordine di consegnare le armi
ai tedeschi, nel processo che, dopo
la guerra, lo vide imputato.
“Gli avvenimenti dimostrarono
che l’azione travolgente delle masse tedesche, bene armate ed equipaggiate (4 divisioni di fanteria, 1
divisione da montagna), era preparata da lunga mano dai loro Comandi, ai quali certamente era noto ciò che a noi era invece ignoto,
perché nulla io conoscevo delle
trattative condotte dal Governo di
Roma e continuavo ad agire in
buona fede nei confronti dei tedeschi”.
Questi ultimi, dopo il 25 luglio,
avevano cominciato ad appoggiare
il movimento separatista albanese
del Kosovo, mentre gli alleati parteggiavano invece per un libero
governo albanese all’estero, e i
partigiani per un governo comunista, nell’Albania meridionale. Di
qui, un intreccio di interessi contrastanti difficile da capire. In queste condizioni, la notizia dell’armistizio giunse al Comando del generale Rosi alle ore 18.00 dello
stesso 8 settembre. Essa venne subito smentita da Roma, ma poi
confermata alle ore 20.00.
Il Comando supremo italiano dette ordine alle divisioni dell’Armata
di raggiungere la costa; ma ormai
era troppo tardi. Il morale era basso. Le unità tedesche erano già penetrate profondamente nel territorio, fino al porto di Durazzo, ove
si verificarono aspri combattimenti; le comunicazioni telefoniche
con i vari comandi erano state nel
frattempo interrotte. A quel punto, il giorno 10, il generale Rosi
dette l’ordine di consegnare le armi pesanti ai tedeschi, con la illusoria speranza del rimpatrio. Solo
la divisione “Firenze” non credette a quella promessa e si salvò quasi per intero, sfuggendo sulle
montagne, al seguito del suo comandante, il generale Azzi. In
quei frangenti tumultuosi, anche
la divisione “Perugia” merita una
particolare menzione per i sacrifici
sopportati ed i molti combattimenti intrapresi lungo la via verso
il mare. La sua fu una tragica “anabasi”. L’unità visse giornate terribili, nel tentativo di raggiungere
ora un porto ora un altro, a seconda degli ordini ricevuti, continuamente variati. La tragedia si concluse a Porto Edda, con la esecuzione in massa degli ufficiali e sottufficiali che avevano osato ribellarsi ai tedeschi. Il comandante
della divisione, generale Chiminello, venne ucciso per primo e, si dice, ebbe mozzata la testa. Fu soprattutto la speranza dell’imbarco,
malgrado essa apparisse sempre
meno probabile, ad animare le
lunghe marce di quelle migliaia di
soldati, i quali, pur di arrivare alla
costa, combattevano e, via via che
si smembravano, venivano disarmati, depredati, spogliati di tutto
da bande di malviventi albanesi. Il
ten. col. Emilio Cirino raggiunse
fortunosamente Bari, per far presente la tremenda situazione della
divisione e, malgrado invitato a restare, tenne fede alla parola data,
tornando in Albania, ove venne
catturato e fucilato. Il ten. col. di
Stato Maggiore Goffredo Zignani,
dopo aver rifiutato l’ordine del
suo comandante di divisione di
consegnare le armi, si pose alla testa di un battaglione di formazione, affrontando in diversi scontri i
tedeschi, finché, catturato, non
venne anch’egli fucilato, meritando, per il suo sacrificio, la massima
ricompensa al valor militare. Il generale Azzi, con migliaia di soldati, era intanto salito sui monti, ove
aveva costituito il Comando Italiano Truppe alla Montagna, con la
sua divisione ed elementi della
“Arezzo”, “Brennero”, “Perugia”, “Ferrara” e “Parma”. Da essi
doveva nascere in seguito il battaglione “Gramsci”, poi diventato
brigata, che partecipò a tutta la
campagna albanese, fino alla liberazione di Tirana, in cui entrò da
vincitore, acclamato dalla popolazione.
Corsica
L’isola, occupata dalle forze dell’Asse nel 1942, è stato l’unico
paese in cui, dopo l’8 settembre, le
divisioni italiane “Cremona” e
“Friuli”, insieme alle loro unità di
supporto, hanno combattuto secondo i metodi di guerra conven-
Fraternità d’armi italo-albanese tra la “Gramsci” e reparti dell’ENLA.
zionali, avendo la meglio su una
divisione corazzata tedesca ed una
brigata motorizzata SS. Il merito
principale va al comandante delle
“truppe italiane della Corsica”, generale Giovanni Magli, ed ai suoi
uomini, rimasti disciplinati e bene
inquadrati. È questo un esempio,
altamente significativo, di ciò che
si sarebbe potuto ottenere anche
altrove, con il prestigio di capi simili a quel generale. Alcuni giorni
prima dell’armistizio era pervenuta al Magli la “memoria 44”, sul
comportamento da tenere con i
tedeschi, in caso di loro probabili
reazioni. Perciò, la situazione era
tenuta sotto controllo. A nulla valsero le due visite del generale Kesselring nell’isola, per indurre il comandante italiano ad una stretta
collaborazione. Così, quando la
90a divisione tedesca, proveniente
dalla Sardegna, si accinse ad attraversare la Corsica per imbarcarsi a
Bastia, facendosi scudo della brigata SS, fu lo scontro, a volte durissimo, lungo tutti gli itinerari di
movimento. Negli ultimi giorni di
settembre giunsero in aiuto, ad
Ajaccio, unità francesi della 1a divisione marocchina, ma solo dopo
che gli italiani avevano ormai sopportato la parte più dura dei combattimenti.
Da quel momento, le operazioni
sul fronte di Bastia proseguirono
congiuntamente, fra italiani e francesi. La 90a corazzata tedesca e la
brigata SS furono costrette ad im-
barcarsi, dopo aver subito gravissime perdite ed abbandonato gran
parte del loro materiale, tanto che
questo episodio potrebbe paragonarsi alla Dunkerque tedesca della
seconda guerra mondiale.
I bersaglieri italiani, entrati per
primi nella città ormai distrutta di
Bastia, cedettero questo onore ai
francesi. Alle unità italiane vennero in seguito ritirate le armi pesanti, per consegnarle agli alleati, secondo le clausole armistiziali. Da
parte sua il generale De Gaulle si
rifiutava persino di stringere la mano al generale Magli, il vero liberatore della Corsica. Vi fu grande
amarezza fra gli italiani. Quelle
due nostre divisioni rientrarono
nella primavera del ’44 in Patria,
per costituire i due omonimi gruppi di combattimento della guerra
di liberazione.
Francia
Le quattro divisioni della 4ª Armata, di stanza nella Provenza,
erano ancora in buone condizioni
morali e di efficienza alla data dell’armistizio. L’attività operativa, a
fronte del movimento partigiano
del maquis, scarsamente organizzato, non aveva comportato un
notevole dispendio di energie. Il
Comando supremo italiano, prima
dell’8 settembre, anche se in contrasto con quello tedesco, aveva
approntato il piano di rientro in
Patria di tutte quelle divisioni. Al
momento dell’armistizio, questo
patria indipendente l 11 aprile 2010 l 37
movimento stava avvenendo a piedi, poiché era stato deciso di utilizzare gli automezzi per il carico
ed il trasporto dei materiali. Di
conseguenza, l’8 settembre, un
enorme massa di uomini appiedati
venne sorpresa, in lenta marcia,
lungo i vari itinerari costieri e
montani, verso il Piemonte e la Liguria. Al loro seguito, si incamminava una lunga fila di famiglie
ebree, che cercavano scampo alla
ormai certa cattura da parte dei
nazisti. Il generale Vercellino, comandante della 4ª Armata, aveva
ricevuto la “memoria 44” e aveva
diramato gli ordini necessari per
reagire ad eventuali attacchi dall’ex alleato. Ma i tedeschi conoscevano meglio dei nostri quello che
sarebbe accaduto e misero subito
in atto un piano preordinato per
bloccare porti, stazioni ferroviarie,
nodi stradali e passi montani, così
che, con poche unità, ma estremamente mobili e dotate di mezzi
corazzati, impedirono ogni possibilità di transito agli italiani, in
condizioni operative difficili e psicologicamente impreparati allo
scontro.
Tuttavia, i combattimenti furono
numerosi anche se sporadici al
Moncenisio, al Col di Tenda, alla
stazione ferroviaria di Nizza, a
Mentone e altrove. Presto, venne
meno la volontà di perseverare in
tali azioni e prevalse il desiderio
istintivo di guadagnare le vie di casa. Perciò, quando ancora le sorti
potevano essere giudicate incerte,
il generale Vercellino, il giorno 10
settembre, decideva di sciogliere
l’Armata e di mettere i suoi uomini in libertà: una decisione clamorosa, che fa ancora oggi riflettere,
anche se motivata dal timore di
rappresaglie tedesche sulla popolazione locale. Così, migliaia di uomini sbandati poterono raggiungere l’Italia. Chi non poté farlo,
restò in Francia, ma la massa venne catturata e internata. Tanti di
coloro che raggiunsero il Piemonte e la Liguria, ufficiali, sottufficiali e soldati, passarono alla Resi-
Francesi e italiani alla liberazione di Parigi nel 1944.
38 l patria indipendente l 11 aprile 2010
stenza italiana, divenendo ben presto il nerbo di quelle iniziali formazioni partigiane.
Anche di quelli rimasti in Francia,
molti si unirono al movimento del
maquis, accolti con amicizia, e
combatterono per la liberazione
della Francia; alcuni si arruolarono
nella legione straniera. Purtroppo
De Gaulle, dopo la resa tedesca,
ordinò che, indistintamente, tutti i
militari italiani colti in territorio
francese, compresi coloro che avevano combattuto per la sua causa,
venissero internati, spesso negli
stessi campi dei tedeschi. Fu una
decisione ingiusta, che gli alleati
cercarono in parte di mitigare. Per
questo, la maggior parte di quei
militari finirono per essere considerati “eroi senza nome né bandiera”, misconosciuti perfino nei
loro diritti.
Grecia continentale
e del Mar Ionio
Il paese era presidiato dalla 11a Armata, forte di sette divisioni. Il
movimento partigiano ellenico,
pur diviso in fazioni ostili fra loro,
aveva messo a dura prova e logorato le nostre unità, in particolare
quelle dell’interno. La malaria era
devastante; la lontananza di anni
dalle famiglie, a causa della mancanza di avvicendamenti e di razionali turni di licenze, stava producendo effetti debilitanti fra gli
ufficiali e la truppa. Inoltre, una
eccessiva confidenza e vicinanza
sentimentale, specie nei centri urbani, fra popolazione greca e italiani, malgrado venisse stigmatizzata da continue disposizioni, avevano finito per erodere lo spirito
combattivo dei soldati, ormai in
attesa, dopo la notizia dello sbarco
alleato in Sicilia, della fine della
guerra. A quel punto, le ragioni
della occupazione italiana e della
contro guerriglia, a danno di un
popolo che si considerava amico,
erano divenute sempre più labili; i
vincoli della disciplina si erano
molto rilassati.
Così, l’8 settembre, giunse la resa
dei conti. L’11a Armata, cosiddetta “dell’amore”, crollò di schianto.
C’è però da rilevare che troppo
improvviso fu l’armistizio, che lo
stesso comandante dell’Armata
conobbe solo il giorno dell’an-
nuncio, senza alcuna preventiva
informazione.
Mentre ormai lontana e irraggiungibile si presentava per gli italiani
la loro casa, rapida e spietata fu la
reazione dei tedeschi, che si erano
mantenuti altezzosamente estranei
ad ogni forma di convivenza con
la popolazione civile. Le loro unità, saldamente raggruppate e fortemente armate, mentre quelle italiane erano sparpagliate e povere
di mezzi di trasporto, bloccarono i
comandi italiani più elevati e fecero prigionieri i loro generali. Solo
una divisione ebbe il tempo di
sfuggire alla cattura, la “Pinerolo”,
la quale, con il suo comandante in
testa, generale Adolfo Infante, si
avviò verso la montagna, ove stipulò un patto di alleanza con le
due maggiori fazioni partigiane,
patto che venne sottoscritto anche
dalla missione militare inglese. Ma
l’accordo, malgrado il successo di
alcune ardite operazioni iniziali da
parte italiana, venne presto tradito
dai partigiani comunisti dell’ELAS, desiderosi non tanto dell’aiuto degli italiani quanto delle
loro armi, con cui ottenere il predominio sulle opposte fazioni. La
Resistenza degli italiani in Grecia
si frantumò, così, in episodi ad
opera di modesti e disseminati elementi italiani, i quali, armati o meno, vollero continuare a combattere o a mantenersi ostinatamente liberi, soffrendo fame ed inenarrabili stenti e trovando un precario
rifugio presso le famiglie di quei
greci disposti ad ospitarli, in cambio di pesanti lavori agricoli.
Vennero persino organizzati, dai
partigiani stessi dell’ELAS, tre veri
e propri campi di concentramento
per gli italiani, che essi avevano
proditoriamente disarmato; un
provvedimento, questo, forse necessario ma disumano, e che, se
non fosse stato per il soccorso della missione inglese, guidata da un
valoroso ufficiale, il maggiore Philip Worral, avrebbe provocato una
ecatombe, come in parte avvenne,
con la morte di alcune migliaia di
uomini, di stenti, di malattie e per
le spietate incursioni tedesche, nei
campi, che non risparmiarono
neppure coloro che, impossibilitati
a fuggire, giacevano nelle case, in
condizioni disperate.
Diverso fu il comportamento dei
presidi delle isole del Mar Ionio, i
quali, grazie al loro isolamento,
avevano mantenuto un morale discreto ed un maggiore spirito combattivo. Esempio sublime di questo atteggiamento fu la divisione
“Acqui”, di stanza a Cefalonia e
Corfù, la quale, a seguito di uno
straordinario, quanto insolito plebiscito, decise di combattere i tedeschi e, dopo aspri scontri, durati
due settimane, nel corso dei quali
la supremazia aerea germanica fu
assoluta e determinante, venne
completamente distrutta. Il generale Gandin comandante la divisione, venne fucilato per primo, alla
D’altronde, come è risultato al
processo di Norimberga, è stato
proprio il gen. Keitel, capo dell’OKW che finì impiccato, a convalidare il 12 settembre 1943,
l’ordine di Hitler di procedere,
dopo la cattura, alla fucilazione
sommaria degli ufficiali italiani che
avevano resistito, e all’avviamento
al lavoro forzato, nel territorio
dell’Est, dei sottufficiali e militari
di truppa dell’esercito regio.
Isole dell’Egeo
Quel mare era un brulicare di modesti presidi italiani, dispersi nelle
numerose isole dell’arcipelago, in
precario collegamento fra loro e
Primo incontro tra comandanti greci e italiani dopo la firma del patto di cooperazione tra la
Divisione “Pinerolo”, l’ELAS e l’EDES.
schiena, insieme a 135 suoi ufficiali. In totale, fra morti in combattimento, uccisi dopo la battaglia o
annegati e mitragliati in mare dagli
stessi tedeschi, durante il trasferimento in terraferma, le perdite
della divisione furono di 9.640
uomini; stessa sorte ebbero il col.
Lusignani, comandante dell’isola
di Corfù, e numerosi suoi ufficiali,
in spregio della loro eroica e leale
resistenza.
La spietata e disumana rappresaglia contro i militari italiani, colpevoli di aver combattuto con onore,
rappresenta ancora oggi una vergogna per l’orgogliosa Wehrmacht, l’esercito regolare tedesco,
che decise d’eseguire, fino in fondo, un eccidio infamante e del tutto contrario ad ogni etica militare.
con i comandi superiori. Fra la
truppa, da anni lontana dai rumori della guerra, incombeva un senso di abbandono, aggravato dalla
lunga assenza da casa. Ma fu proprio nel Dodecaneso, a Rodi, Samo, Lero, Coo e in molte altre
isole, che avvennero episodi
straordinari di valore, così come di
rassegnata acquiescenza alla sorte
della prigionia. Ad alcuni di quei
combattimenti presero parte anche unità regolari e “commando”
inglesi, ma inutilmente, perché si
trattò di operazioni scoordinate
nel tempo e prive delle necessarie
intese con i comandi italiani. Per
contro i tedeschi, usando la “tattica del carciofo” e sostenuti da una
incontrastata e massiccia superiorità aerea, ebbero ragione, uno per
patria indipendente l 11 aprile 2010 l 39
uno, di quei presidi e, al termine
degli scontri, non mostrarono alcuna pietà verso coloro che li avevano aspramente combattuti.
Così che, anche all’estremo arcipelago del Dodecaneso, punto terminale, ideale e geografico, dell’ampio arco territoriale della Resistenza degli italiani all’estero, iniziato dalla Corsica, comparvero i
tumuli di centinaia di sfortunati
militari, spesso rimasti ignoti, i
quali avevano deciso di compiere il
loro dovere fino in fondo, in condizioni di estremo abbandono e di
inferiorità numerica.
Un esempio per tutti è rappresentato dal capo cannoniere della Marina a Rodi, Pietro Carboni, un
sardo, il quale con le sole sue forze, sfuggito alla cattura, sognò di
attuare grandi imprese sull’isola,
come la cattura dell’intero stato
maggiore tedesco. Egli operò,
quasi da solo, per più di un anno,
conducendo una vita da lupi, finché, denunciato da una spia, alla
quale era stata promessa una somma favolosa per quel tempo, venne
sorpreso in una grotta ed ucciso
dopo un’aspra colluttazione. Alla
sua memoria è stata conferita la
Medaglia d’oro al V.M.
Anche due ammiragli, Inigo Campioni e Luigi Mascherpa, il primo
comandante in capo delle truppe
dell’Egeo, e il secondo animatore
della difesa di Lero, pagarono con
la vita la scelta della Resistenza ai tedeschi. Catturati e trasferiti a Verona vennero processati da un tribunale fascista e fucilati;
entrambi Medaglie d’oro al
V.M.
Jugoslavia
In questo vasto territorio,
occupato in parte dai tedeschi (Serbia e Croazia) e in
parte dagli italiani (Slovenia, Dalmazia, Erzegovina,
Montenegro, Bosnia, fino
al Kosovo) le vicende delle
divisioni, alle dipendenze
della 2ª Armata, furono le
più varie. Dalle disperate
marce verso i confini, conclusesi con gigantesche retate di prigionieri, ai valichi
di Fiume e di Trieste, fino
ai duri scontri con gli ex
40 l patria indipendente l 11 aprile 2010
alleati, fu proprio in Jugoslavia che
avvennero le più lunghe, complesse e sanguinose azioni della Resistenza italiana all’estero.
A Spalato, la divisione “Bergamo”
fece parte comune con i partigiani
di Tito, consegnando ad essi una
enorme quantità di armi e di materiale. La città resisté per due settimane, mentre il presidio veniva
sottoposto a massicci bombardamenti aerei, che provocarono centinaia di vittime fra gli italiani. Occupata la città, il Comando della
divisione SS “Prinz Eugen” istituì
un tribunale di guerra che condannò e fece fucilare tre generali e
quarantasette ufficiali della “Bergamo”, rei di aver patteggiato con
i partigiani.
A Ragusa, ora Dubrovnik, il presidio della divisione “Marche” si
oppose decisamente all’ingresso
dei tedeschi. Scontri furiosi si svolsero sulle colline e fra i bastioni
dell’antica fortezza veneziana. Il
comandante della divisione, generale Amico, prima catturato e in
seguito liberato da una sollevazione dei suoi soldati, che egli aveva
incitato a resistere, nuovamente
fatto prigioniero, venne ucciso con
un colpo alla nuca da un sicario al
soldo dei tedeschi; numerosi furono i morti in combattimento.
In Dalmazia e Bosnia, nei giorni
immediatamente seguenti l’8 settembre, si costituirono pronta-
Il Battaglione “Garibaldi” in Istria nel 1943.
mente interi battaglioni di militari
italiani, come il “Garibaldi”, il
“Matteotti”, lo “Zara”, il “Fontanot” ed altri di cui si è ormai perduto il nome.
Molti di questi scomparvero presto nel crogiolo della spietata repressione dei tedeschi, che non
sopportavano di vedere insidiate le
loro vie di comunicazione.
Ma numerose unità italiane rimasero in piedi fino alla fine della
guerra, come la “Brigata Italia”
comandata dal S.Ten. dei bersaglieri Giuseppe Maras, Medaglia
d’Oro al V.M., e la divisione partigiana “Garibaldi”, costituita con
i reparti delle divisioni “Venezia”
e “Taurinense”, unica grande unità italiana all’estero che seppe
conservare i suoi caratteri nazionali, i suoi gradi e regolamenti vigenti, superando eroicamente le
reiterate offensive tedesche e rientrando, con tutti gli onori, in Patria nel febbraio del 1945. Di essi,
vanno ricordati i due primi comandanti, che scelsero di resistere, rispettivamente i generali Oxilia e Vivalda.
In particolare, le vicende della divisione hanno dell’inverosimile, se
non fossero le testimonianze dei
reduci a dichiararne l’autenticità:
dalle prime salve di artiglieria del
gruppo alpino “Aosta”, comandato dal maggiore Ravnich, contro le
avanguardie tedesche che voleva-
no entrare nella zona
operativa della “Taurinense”, fino all’ultima, grande offensiva
germanica dell’estate
del ’44, bloccata sul
monte Durmitor, la
montagna della salvezza, sacra ai partigiani del Montenegro,
in cui la perizia ed il
valore di ufficiali coraggiosi riuscirono a
portare in salvo tutte
le brigate, è tutto un
susseguirsi di marce,
di combattimenti, di
ritirate lungo itinerari
e guadi di fiumi impossibili, di atti di disperata resistenza, per
sottrarsi alla cattura.
Un’intera brigata itaLa brigata italiana “Fontanot” appena formata in Slovenia si dirige verso le posizioni.
liana, spedita in Bosnia con una discutibile decisione del comando dell’e- Aeronautica Militare
unità superstiti, riformando i servisercito popolare di liberazione ju- La Regia aeronautica era giunta zi tecnici e recuperando il materiagoslavo, allo scopo di migliorarne esausta all’8 settembre. L’armisti- le abbandonato dopo la perdita
le condizioni di vita, venne com- zio la trovò impegnata, allo sbara- dell’Africa Settentrionale, con un
pletamente falcidiata dal tifo peglio, contro lo sbarco anglo ameri- paziente lavoro di ricostituzione.
tecchiale. Ma, malgrado le reiteraCinque gruppi, insieme con i dieci
cano in Sicilia.
te assicurazioni del comando gergià esistenti ed armati con materiamanico, che la divisione era stata Benché piloti e specialisti fossero le italiano, formarono l’Unità Aefinalmente annientata, la grande rimasti, fino all’ultimo, ignari delle rea Italiana, su tre Raggruppaunità riuscì a rientrare in Italia, nel trattative di armistizio, essi nella
marzo del ’45, e fu l’unica, fra stragrande maggioranza, reagiro- menti (Caccia, Bombardamento e
quelle partigiane dei Balcani, a no alle ingiunzioni tedesche, ri- Trasporto Idro), che venne inquanon essere sciolta dagli alleati, ma uscendo a raggiungere con circa drata nella “Balkan Air Force”,
a venire ricostituita e moderna- 246 velivoli di tutti i tipi, dei qua- operante quasi esclusivamente nei
mente riarmata, per raggiungere li però solo un centinaio efficienti, cieli dei Balcani.
nuovamente il fronte, questa volta i campi di volo dell’Italia libera, in L’attività di guerra del Raggruppamento Caccia si concretizzò in
per la liberazione della madrepa- Puglia, Sardegna e Sicilia.
l’Aeronautica azioni di scorta, ricognizione, mitria. Solo la fine del conflitto ri- Successivamente,
sparmiò alla “Garibaldi” nuove provvide a riordinare le proprie tragliamento e bombardamento,
perdite e sacrifici.
Le motivazioni ideali che spinsero
quelle unità alla Resistenza all’estero furono principalmente: il rifiuto di cedere le armi, malgrado
gli ordini superiori, la fedeltà al
giuramento prestato, lo sconcerto
e la rabbia per essere state abbandonate dai loro più elevati comandanti, anche se, alcuni di essi, fino
a livello di divisione, scelsero di rimanere, sino all’ultimo, vicini ai
loro soldati e di condividerne le
sorti, pagando con la vita. I morti
in combattimento, di stenti e per il
micidiale tifo petecchiale, che distrusse intere brigate italiane, furoNell’improvvisato campo d’aviazione dei partigiani in Jugoslavia è atterrato un aereo italiano.
no oltre diecimila.
patria indipendente l 11 aprile 2010 l 41
Eccezionale documento fotografico del settembre ’43: i superstiti della Divisione “Bergamo”
a bordo del barcone “Diocleziano” lasciano le coste dalmate.
in appoggio alla divisione italiana
partigiana “Garibaldi” e alle forze
partigiane jugoslave e albanesi.
A questo contributo va aggiunto
quello dei 3.988 militari dell’Aeronautica che operarono come
partigiani nei fronti clandestini
della Resistenza e nelle formazioni
combattenti.
Ne fanno fede gli otto aviatori
(sette dei quali caduti) decorati di
Medaglia d’Oro al Valor Militare.
Le perdite complessive dell’Aeronautica militare furono di 2.669
caduti.
Marina Militare
Nel settembre 1943, la Marina
militare italiana disponeva di un
buon numero di basi oltremare,
dislocate in Corsica, Francia, Jugoslavia, Albania e Grecia, oltre
che nel lontano Giappone.
Il Capo di Stato Maggiore della
Marina venne informato dell’imminente resa dell’Italia soltanto il
6 settembre, con un promemoria
che, in ottemperanza alle clausole
armistiziali, disponeva che la flotta, al momento dell’armistizio,
raggiungesse i porti controllati dagli alleati.
Così, l’8 settembre, mentre il fior
fiore della gerarchia navale prendeva il largo dalla base di La Spezia, nei porti dei Balcani, in contemporaneità con la partenza verso porti sicuri, si verificarono anche alcuni tentativi di resistenza ai
tedeschi ed ardite sortite di unità
navali, sia per sottrarsi alla cattura
che per salvare almeno una parte
dei militari, che erano in angosciosa attesa di imbarco lungo le coste.
Da Spalato, poterono così salpare,
fino al 23 settembre, circa 5.000
uomini. Alle Bocche di Cattaro,
42 l patria indipendente l 11 aprile 2010
unità della marina e di artiglieria
navale combatterono, insieme ai
fanti della divisione “Emilia”. Violenti scontri si ebbero anche a Durazzo. Ma fu a Lero, dove la Marina costituiva la maggiore forza militare dell’isola, che marinai, artiglieri navali e unità della divisione
“Regina”, in cooperazione con robusti contingenti inglesi, dettero
filo da torcere ai tedeschi.
L’assedio dell’isola durò ben cinquanta giorni, fino al 16 novembre del 1943. Come prezzo di
quella ostinata resistenza, 12 ufficiali dell’Esercito e 4 della Marina
vennero fucilati. Per il resto, dopo
l’armistizio, la Marina operò nell’Atlantico, nell’Oceano indiano,
nel Mar Rosso e nello stesso Mediterraneo, con 9 incrociatori, 10
cacciatorpediniere, 23 torpediniere, 19 corvette, 36 sommergibili,
16 mas, 14 motosiluranti e circa
400 unità minori, in missioni di
scorta a convogli e dragaggio di
mine, oltre che nelle rischiose
“missioni speciali”, effettuate con
unità speciali, e che consistevano
nel sorvegliare e insidiare le coste
dell’Italia occupata e della Balcania, nello sbarco o recupero di informatori e arditi incursori, nel rifornimento alle formazioni partigiane, riconducendo in patria persone ricercate dai nazisti.
Le perdite della Marina, a bordo,
nelle basi e nella lotta partigiana
furono di 10.984 caduti. Numeroso il naviglio affondato, specie nel
Mar Egeo, a seguito di azioni tedesche. Da ricordare la torpediniera “Sirtori”, colpita e affondata all’isola di Corfù, dove era accorsa
nel generoso aiuto alla divisione
“Acqui”.
Corpi Speciali
Una menzione particolare meritano i medici ed i cappellani, inquadrati nelle unità italiane all’estero,
poi passate alla Resistenza.
I primi hanno fornito un elevato
esempio del dovere, militare e professionale, continuando nella loro
missione umanitaria a favore degli
italiani, dei partigiani locali e dei
civili, in condizioni di assoluta assenza di luoghi di ricovero, di medicine e, spesso, di qualsiasi attrezzatura chirurgica. Molti di loro
non hanno esitato a prendere le
armi, ovunque il momento lo richiedeva. A loro volta, i cappellani
hanno condiviso i rischi ed i sacrifici dei soldati ad essi spiritualmente affidati, in un ambiente particolarmente difficile, per le accese
credenze politiche ed un diffuso
sentimento antireligioso delle unità partigiane locali.
Anche fra quei sacerdoti con le
stellette numerosi sono stati i casi
di sublime eroismo.
Conclusione
A commento di questa sintesi storica, è bene riflettere sulla opportunità di un approfondimento critico dei reali significati che sottendono le vicende sin qui descritte,
per evitare il rischio di una cultura
puramente retorica ed agiografica,
sia del periodo che dei modi in cui
la Resistenza degli italiani all’estero è sorta e si è espressa. Occorre
parimenti evitare la concezione
astratta di un impossibile continuismo fra vecchi e nuovi modi di intendere diritti e doveri in seno all’Istituzione militare, senza tuttavia che vengano meno le regole
immutabili del dovere, dell’onore
e del sacrificio, in difesa del proprio Paese e delle sue libere Istituzioni.
Per contro, si dovranno cogliere le
novità profonde che la Resistenza,
sia in Italia che all’estero, ha introdotto nella storia della nazione italiana e, in particolare, di quegli
elementi di rottura e di svolta originati da quei soggetti i quali, da
una posizione spesso subalterna,
ne sono divenuti sovente i principali protagonisti, guidando la rivolta della coscienza collettiva,
contro l’abbandono dei capi ed il
loro tradimento.
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