Dahrendorf e l`internalità del conflitto nella - Revista Theomai

Dahrendorf e l’internalità del conflitto nella società
politica: dalla società classista alla società fragmentata
Giulio Adinolfi
1. Conflitto esterno conflitto interno: Con Marx e contro Marx
Negli ultimi anni si accresce la presenza di Dahrendorf, del suo pensiero e della sua attività,
nell’ambito politico e nell’ambito filosofico-sociologico: il presupposto è la sua elaborazione
di teoria del conflitto sociale nelle società industriali avanzate, ed è il risultato della sua
confutazione e rielaborazione su basi liberal-sociali della teoria della lotta di classe di Marx.
Egli individua, in premessa, i punti di crisi rilevanti della posizione marxiana. Si
tratterebbe, per un verso, di limiti di previsione e, per l'altro, di limiti di analisi.
i) per quanto concerne i limiti di previsione, egli fa osservare che il modello
euristico centrale dell'impianto marxiano è stato falsificato dallo sviluppo del
capitalismo: le società industriali avanzate, fa notare, non hanno assunto una
struttura classista dicotomizzata, ma, al contrario, sono andate declinando verso
forme di elevata mobilità sociale. In parole dello studioso, la mobilità sociale
sarebbe stata “istituzionalizzata nella struttura della società postcapitalistica, ed è
divenuta quindi un fattore che deve essere tenuto presente da ogni analisi in
tema di conflitto e di mutamento sociale”.
ii) Per quel che riguarda i limiti di analisi, egli sostiene che la base cognitiva della
rivoluzione, in Marx, risieda nella teoria dell'impossibilità da parte della società
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borghese-capitalistica di venire a capo del conflitto di classe; per cui, laddove la
struttura sociale data riesce ad istituzionalizzare il conflitto, viene meno il
presupposto teorico fondante della rivoluzione.
Dahrendorf rileva che l’impianto marxiano attuale è decontestualizzato. Il conflitto di classe
non puó produrre quella rottura progressista bramata da Marx, perché il conflitto di classe
è stato normalizzato, assunto e salfivicato dalla società attuale.
Secondo lo studioso tedesco, si dovrebbe procedere per offrire un panorama attuale del
conflitto, con Marx, ma contro Marx.
Le società industriali avanzate si modifica l’aspetto dualistico che contrassegnava le società
classiche: proletari contro capitalisti. Ció non implica che si elida ovvero riduca il conflitto
di classe. La natura di classe della società post-capitalista non viene meno. Anzi è
ulteriormente aggravata. Il carattere classista delle relazioni sociali e dei rapporti di potere
viene ora occultato dai processi della differenziazione sociale e dalla complessità. Si giunge
cosí a un desviazione dal binario classico. I gruppi classisti perdono la loro compattezza e si
frammentano in molteplici figure (vecchie e nuove). Eppure se la differenziazione e la
complessità offuscano la linearità del carattere classista della società attuale, i crescenti
fenomeni di emarginazione politica e sociale si incaricano di rimetterlo in scena. Sotto
molti aspetti, le "teorie della cittadinanza" rispondono a questo deficit e, nello stesso tempo,
ne appannano i processi causali.
Si tratta di assumere sistematicamente il ruolo della società attuale, egemonica, orientatrice,
controllante, tale come emerge dalla analisi bio-polítiche.
È, parimenti, rispondente al vero che, in Marx, il conflitto di classe, su base capitalistica,
non può ricevere soluzione definitiva. Si tratta di una lotta aperta. Ma ciò non nel senso che
la società borghese-capitalisitica non sarebbe capace di istituzionalizzare il conflitto sociale;
basterebbe, del resto, la semplice analisi marxiana dell'intervento dello Stato (contro i
singoli capitalisti) per la riduzione della giornata lavorativa a dimostrare il contrario.
Piuttosto, in quello ben diverso che è la rivoluzione, non già l'istituzionalizzazione del
conflitto, ad essere interdetta alla società capitalistica e alle sue strutture istituzionali,
essendosi esaurita la loro «missione civilizzatrice».
Cosí la nozione di conflitto in Dahrendorf perde il richiamo marxiano della necessità di
costruire un nuovo ordine. La teoria del conflitto, conseguentemente, è finalizzata non al
ricambio del «sistema» e della «struttura»; bensì al loro mutamento per linee interne,
mediante l'istituzionalizzazione dei conflitti sociali. Si presenza come una rinascità
interiore. Possiamo definire quella di Dahrendorf una teoria dell'internalità del conflitto. Da
qui la sua esigenza di richiamarsi e di recuperare gli asserti e i postulati della teoria politica
liberale e socialdemocratica sui diritti di eguaglianza e sulla giustizia redistributiva.
Non accetando Marx, nella sua elaborazione del conflitto, Dahrendorf, ne elabora una
revisione critica, per assumerne di questi non pochi aspetti: si tratta di incardinare i
processi di formazione e descrizione delle classi sul potere, anziché sui rapporti di
produzione e sulle corrispondenti forme di proprietà. Il richiamo a Weber è qui evidente.
Assunto che “il criterio più generale della divisione in classi della società è quello
dell'autorità”, egli passa senz'altro ad un'argomentazione che, nelle sue intenzioni,
dovrebbe essere demolitoria del dettato marxiano: “Se pure si può dire che esistano ancora
nella società postcapitalistica borghesia e proletariato, non sono più blocchi uniformi di
individui che si trovano nella medesima situazione e hanno gli stessi orientamenti ... nella
società moderna i gruppi di conflitto sembrano dover assumere la configurazione di
aggregati non molto compatti, che si sono costituiti per scopi particolari e in associazioni
particolari”.
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Analizziamo con ordine gli argomenti di Dahrendorf
Secondo Dahrendorf, in Weber, il principio di autorità (Herrschaft) attiene alle probabilità
che un ordine riceva obbedienza, secondo i suoi propri contenuti immanenti, da parte di un
gruppo specifico di persone. Esso, pertanto, divide i gruppi sociali in due classificazioni
fondamentali: l'associazione titolare dell'autorità e l'associazione titolare dell'obbedienza. Il
gruppo che ha autorità su un tema, un argomento o una sfera di beni può non averla su un
altro tema, un altro argomento o un'altra sfera di beni; e viceversa. Sicché la mappa degli
aggregati associativi e delle transazioni di autorità è assai mutevole e mobile. Applicando
tale principio, Dahrendorf intende dare adeguatamente conto del problema della mobilità
sociale e, nello stesso tempo, dare soluzione alla questione della stratificazione sociale.
Nella società industriale avanzata le classi, formandosi e stratificandosi in maniera mobile
intorno alla risorsa del potere e alla gestione (attiva o passiva) dell'autorità, si
comporrebbero e scomporrebbero, assocerebbero e dividerebbero secondo gerarchie di
comando che non corrispondono alle forme della produzione e della proprietà.
Questo schema può risultare utile, per lumeggiare le lotte di potere che si consumano per il
possesso e la gestione dell'autorità; ma niente ci dice sulla posizione sociale complessiva di
una classe o di uno strato di classe e sui processi che l'hanno determinata.
Innanzitutto, le transazioni di autorità non si limitano al livello delle relazioni tra i gruppi.
Esse, in primo luogo, ineriscono alla posizione dei gruppi (e delle classi) rispetto al potere
pubblico e alle sue sfere di decisione e azione. La struttura del potere pubblico, nei suoi
meccanismi decisionali, è di natura inclusiva o escludente in rapporto alle classi e ai gruppi
che formano la decisione o che le debbono esclusivamente obbedienza. Tutte le transazioni
di autorità fra i gruppi sono in relazione di continuità o di scostamento nei confronti della
struttura pubblica fondamentale delle decisioni e delle azioni politiche. In quanto tali, sono
più o meno un supporto o un momento di disgregazione dei poteri pubblici, da cui sono,
conseguentemente, incoraggiate e attivate, oppure depotenziate e neutralizzate. Insomma,
intorno al potere e all'autorità le classi e i gruppi non si formano; bensì confliggono o
cooperano.
Inoltre, le transazioni di autorità non intervengono direttamente nel mercato, regolato dalle
logiche dello «scambio eguale», laddove in maniera formalmente ineccepibile, ma
sostanzialmente discriminatoria, il contraente forte (non per la sua autorità, ma per il suo
status economico) stipula contratti vantaggiosi, da cui ricava uno status economico più
florido, il quale si converte in un surplus di partecipazione al potere politico. Ovviamente, è
anche vero che (i) nelle transazioni di mercato non è indifferente lo status politico dei
soggetti contraenti e che (ii) l’esercizio (diretto o rappresentativo) di dosi più o meno forti
di potere politico è una variante che concorre a determinare le condizioni generali dello
scambio. Ma anche in questa circostanza, tuttavia, rimane il dato indubitabile che
l’«accumulazione originaria», le proiezioni implementate e la riverberazione del potere
politico nelle transazioni di mercato dipendono da una complessa interazione di fattori non
solo politici e che si ancorano nella struttura profonda dei fenomeni e dei fattori sociali,
economici, simbolici e culturali della società.
Lo scambio lavoro/capitale, in Marx, è la cellula elementare di questo tipo di transazione di
mercato: il possesso dei mezzi della produzione e il comando sul processo complessivo
della produzione fanno del capitalista un capitalista; il possesso della mera forza-lavoro e la
subordinazione nel ciclo produttivo fanno dell'operaio un salariato. Come ben dimostra
Marx, l'operaio vende la propria forza-lavoro, non perché ha e deve obbedienza al
capitalista, ma per il motivo che è l'unico modo che ha a disposizione per entrare nel
mercato e trarre i mezzi del proprio sostentamento. Si può discutere intorno alle rigidità di
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tipo classista e al riduzionismo che spesso accompagnano l'analisi marxiana delle classi; ma
ciò non inficia un punto fermo del discorso di Marx: le classi e i gruppi sociali si formano e
disfano nel caleidoscopio dei processi che scuotono la struttura profonda della società; non
già intorno alla mera distribuzione e assegnazione dell'autorità. Il più grande inconveniente
della revisione operata da Dahrendorf è proprio quello di postulare, di fatto, un legame di
coincidenza tra classe e potere, in cui le uniche partizioni possibili si risolvono nel
classificare e distinguere «chi comanda» e «chi obbedisce» lungo tutta quanta la trama delle
relazioni sociali. Solo una società altamente gerarchizzata e verticalizzata sarebbe conforme
a tale modello ermeneutico; peró ció non si manifesta nella società post-capitalistica
esistono tendenze verticali distribuite non uniformante sul territorio: ció che attualmente si
denifisce la tendenza imperiale o neo-imperialista del mercato.
Sostiene Dahrendorf che seppur vero che il conflitto ammette solo e sempre due attori: la
classe che impartisce gli ordini, continua Dahrendorf, ha un preminente interesse alla
stabilità; al contrario, la classe che riceve gli ordini e deve eseguirli è animata da un
preminente interesse al cambiamento. Da qui discende, come è agevole intuire, una teoria
del mutamento che passa per il conflitto animato dalla classe in posizione esecutiva rispetto
all'autorità. Il conflitto si presenta come il ribaltamento della titolarità dell'autorità; tale
ribaltamento non significa altro che l'istituzionalizzazione di quei conflitti che in
precedenza non trovavano accesso nel circuito attivo dell'autorità. La teoria del conflitto di
Dahrendorf si specifica, dunque, non come un mutamento di società; bensì come un
mutamento di autorità.
Se consideriamo che il potere è risorsa scarsa per eccellenza (nel senso che il potere quanto
più è «prodotto» tanto più si consuma e scarseggia e tanto piú è necessario altro per
mantenerlo), comprendiamo ancora meglio come il discorso di Dahrendorf vada inclinando
verso un conflittualismo massimale nei presupposti e minimale negli esiti. Il conflitto, alla
fine, deve redistribuire una risorsa scarsa: il potere. Con ciò, esso si posiziona ed è
posizionato solo e sempre in funzione del potere.
L'accesso alle sfere dell'autorità degli attori prima esclusi è anche una forma di controllo dei
conflitti: qui il potere viene impiegato per il mantenimento delle istituzioni che, a loro volta,
integrano il conflitto per il mantenimento del potere. Da questo lato, la teoria del consenso
conflittuale di Dahrendorf presenta un'indubbia complessità. Il conflitto per il possesso
dell'autorità costituisce, in Dahrendorf, l'essenza delle società libere ed è, di per sé, garante
dell'alternanza dei soggetti al potere: “Una società libera incoraggia la diversificazione delle
sue istituzioni e dei suoi gruppi al punto da promuovere effettivamente una divergenza: il
conflitto è il soffio vitale della libertà. Una società totalitaria insiste invece sull'unità al
punto di realizzare una uniformità: il conflitto viene ad essere una minaccia alla sua
coesione e alla sua sopravvivenza”. Al di là dell'internalità degli esiti della sua posizione, la
critica di Dahrendorf colpisce nel segno e mette a nudo alcune delle carenze costitutive del
pensiero totalizzante e delle società totalitarie.
2. Conflitto latenti e aperti: le aporie di Dahrendorf
Dahrendorf inoltre per rispondere alla complessità sociale elabora due piani del conflitto:
conflitto latente e conflitto aperto.
1) Il conflitto latente designa la situazione del quasi-gruppo; è solo la mobilitazione aperta
che costituisce il gruppo di conflitto. La mobilitazione dei gruppi di conflitto delinea uno
scenario di contrasti politici e sociali in piena maturazione. Entro tale contesto, i gruppi
mobilitati per il conflitto cercano, invariabilmente, di stabilire un grado crescente di
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autorità gli uni sugli altri. I mezzi e le risorse del conflitto sono qui finalizzati al
conseguimento di questo obiettivo strategico. Dahrendorf è consapevole che la sua teoria, a
questo punto, va ad imbattersi nel problema della violenza. La mobilitazione conflittuale
per il possesso dell'autorità, difatti, non esclude il ricorso a mezzi violenti, per quanto la sua
strategia sia quella di istituzionalizzare il conflitto. La soluzione che Dahrendorf appronta
in merito alla questione della violenza consta nella distinzione tra il livello di violenza e il
livello di intensità dei conflitti. I conflitti violenti sono quelli che passano per «l'uso della
forza» e la, conseguente, distruzione fisica di uomini e cose; i conflitti intensi sono quelli
fortemente radicati nel tessuto sociale ed estesi nel tempo.
Secondo questa ermeneutica, un conflitto può essere intenso senza essere violento e
violento senza essere intenso. In una democrazia i conflitti sono necessariamente intensi.
Stabilita questa prima gerarchia qualitativa della democrazia, i conflitti nelle società
democratiche, precisa ancora Dahrendorf, si caratterizzano per la loro decrescente carica di
intensità.
2) A differenza dei conflitti latenti, i conflitti aperti sono meno violenti dei conflitti latenti,
in quanto prevedono una mobilitazione e organizzazione degli obiettivi calibrate nel
tempo. La mobilitazione e l'organizzazione dei gruppi sradica le ragioni della violenza, nel
mentre le rende visibili; visibilizzandole, le intensifica e, nel contempo, le rende dirimibili e
istituzionalizzabili. Sicché, secondo Dahrendorf, la violenza matura unicamente in
condizioni di latenza del conflitto e di corrispondente «deprivazione assoluta» delle risorse;
la situazione democratica, per effetto di una «deprivazione relativa» delle risorse,
scongiurerebbe alla radice l'esplosione di conflitti violenti. Gli argomenti di Dahrendorf, se
consentono, in un qualche modo, di approcciarsi alle rivoluzioni comuniste per
antonomasia del XX secolo (quella russa: 1917; quella cinese: 1911-1949), lasciano irrisolti
alcuni quesiti storici e politici:
a. perché i regimi autocratici, caratterizzati dalla «deprivazione assoluta» delle
risorse, non alimentano, per solito, conflitti violenti?;
b. perché i regimi democratici, caratterizzati dalla «deprivazione relativa» delle
risorse, non riescono a scongiurare la deflagrazione periodica di conflitti (o cicli
conflittuali) più o meno violenti?
L'esperienza storica inclina verso direzioni contrarie agli asserti di Dahrendorf: da un lato,
l'alto tasso di oppressione sociale e politica ha smorzato i processi di formazione del
conflitto violento; dall'altro, proprio dove più avanzate sono risultate le condizioni delle
libertà civili e sociali, là i gruppi di conflitto si sono mobilitati in forma, più o meno,
violenta. Sotto quest'ultimo riguardo, basta porre mente ai cicli della mobilitazione
collettiva che negli anni '60 e nei '70 hanno attraversato e messo sottosopra tutte le
democrazie avanzate occidentali. La teoria del conflitto di Dahrendorf risulta, così,
spiazzata nell'analisi del rapporto conflitto/potere, con riferimento sia alle autocrazie
moderne che alle democrazie avanzate.
Concludendo questo primo percorso di analisi, in Dahrendorf, la critica della posizione
marxiana fa da premessa per una lettura enfatizzante della modernità e della democrazia,
spesso cumulate nel concetto popperiano di “società aperta”, a cui egli si dedica
particolarmente dalla seconda metà degli anni '70 in avanti; come vedremo più avanti. In
questo senso, non può propriamente parlarsi di una "«svolta» nella formulazione del suo
pensiero, ma di una necessaria evoluzione.
Però, l'enfatizzazione dahrendorfiana della coppia modernità/democrazia, pur con tutti i
suoi limiti, ha il duplice pregio di:
a. rimarcare l'esigenza di una lettura laica e adeguata della società industriale;
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b. sottolineare alcuni ritardi e inconclusioni culturali del discorso di Marx e dei
marxismi.
Indubbiamente, il problema del ripensamento della posizione marxiana e della
riformulazione dell'analisi sociologica, a fronte del dispiegarsi del capitalismo sviluppato,
si pone con urgenza e drammaticità. A Dahrendorf va riconosciuto il merito di aver colto
questa necessità.
Ciò che non convince nella riflessione dahrendorfiana:
a. è il criticismo non sempre rigorosamente orientato nei riguardi del dettato
marxiano, di cui sono spesso fraintese e/o perdute acquisizioni vitali;
b. è l'acriticismo con cui viene descritta e concettualizzata la situazione
democratica;
c. se, in Marx, è il comunismo a fungere quale intrascendibile del conflitto di
classe, in Dahrendorf è la democrazia conflittuale della società post-capitalistica
a costituire il nuovo intrascendibile politico-sociale.
I «problemi di democrazia» che proliferano nello specifico dello «sviluppo metropolitano»
e contrassegnano i rapporti tra gli Stati, soprattutto dopo la dissoluzione dell'ordine
imperiale sovietico, sono condannati a rimanere inindagati. In ragione di questi estremi
esiti, possiamo qualificare l'approccio di Dahrendorf come conflittualismo chiuso, rispetto cui
si lascia preferire il conflittualismo aperto di Simmel. Nel primo, il nodo consenso/conflitto è
chiuso dalle istituzioni della democrazia; nel secondo, le istituzioni democratiche si
qualificano proprio per mantenere aperto il nodo. In Simmel, nessun conflitto può chiudere
il consenso, precisamente perché nessun consenso può chiudere il conflitto.
3. L’evoluzione di Dahrendorf: la liberta nel conflitto
L’approccio teorico al conflitto da Dahrendorf definito nel suo lavoro “classico” del 1957
risulta confermato e arricchito nell’opera che al tema egli dedica 31 anni dopo:
nell’occasione, allarga il campo di analisi, connettendo il conflitto ai diritti di cittadinanza e
al post-Welfare. Per questa via, l’intreccio di teoria del conflitto e teorie dei diritti di
cittadinanza costituisce una sorta di propedeutica ad una nuova elaborazione del concetto
di libertà, in cui la transizione alla democrazia viene configurata come transizione alla società
aperta, il modello di società entro cui Dahrendorf, sulle orme del tracciato popperiano,
posiziona gli unici possibili livelli di libertà autentica.
Lo sconfinamento dalla situazione di conflitto alla società aperta è garantito, per
Dahrendorf, unicamente dalla politica della libertà. Uno degli elementi di maggiore novità è
dato dalla comparsa della diade entitlements/provisions.
La consensualizzazione e l’istituzionalizzazione dei conflitti vengono ora da Dahrendorf
poggiate su un articolato movimento triadico:
a. entitlements: il quadro circoscritto delle giustificazioni e delle legittimazioni eticogiuridiche che includono nella sfera dei diritti, abilitando al loro godimento;
b. provisions: il quadro circoscritto dei beni materiali, delle risorse economiche, dei
beni e i mezzi strumentali, dello “sviluppo economico”.
c. diritti di cittadinanza: vale a dire, la sintesi ritrovata tra entilements e provisions.
La relazione tra le prime due dimensioni è di carattere oppposizionale/escludente, nel
senso che ognuna di essa, per essere, tende a negare l’altra. Da qui la necessità di una
sintesi (di tipo hegeliano e marxiano) che le rimetta in comunicazione, attraverso la
stipulazione di un accordo politico-normativo. I diritti di cittadinanza fungerebbero come
un metapatto che raccorderebbe:
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a. le sfere materiali con quelle immateriali;
b. le sfere motivazionali con quelle strumentali;
c. le sfere di legittimazione con quelle di normazione;
d. le sfere del significato con quelle dell’agire;
e. le sfere di produzione con quelle della comunicazione;
f. le sfere del conflitto con quelle del consenso;
g. le sfere dei differenti oggetti/soggetti del conflitto.
Da una cosiffatta impostazione nasce anche una ermeneutica storica delle rivoluzioni. Per
Dahrendorf, mentre la rivoluzione industriale sarebbe stata una rivoluzione di provisions,
quella francese, al contrario, sarebbe stata una rivoluzione di entitlements. Nel far questo,
Dharendorf rielabora la categoria di chances di vita, da egli impiegata originariamente in
lavori degli anni ‘70 e ripresa nel suo testo degli anni ‘80 sul “ripensamento” del
liberalismo, contestualizzandola con una significativa apertura ai diritti di cittadinanza.
Il conflitto consensuale chiuso del Dahrendorf degli anni Cinquanta e Sessanta diventa ora
un metaspazio socio-normativo in cui trovano riconoscimento simbolico-esistenziale
esclusivamente i diritti di cittadinanza già ritenuti legittimi. La società aperta popperiana,
con l’innesto dei diritti di cittadinanza coniugati da Marshall ed implementati dal Welfare,
diviene la nuova monade chiusa, entro il seno della quale i criteri di verificabilità e
fallibilità empiristi (e neoempiristi) e i princípi della giustizia distributiva, secondo quel mix
di teorie liberali e democratiche tipico del paradigma su cui si è retto il consenso
socialdemocratico.
Il conflitto consensuale chiuso viene «aperto» per trovare, attraverso la recezione dei diritti
di cittadinanza, una più articolata, flessibile e funzionale “chiusura” nella società aperta.
Col che la monade conflitto trascorre nella monade società aperta; cioè: la monade si
allarga, per essere più pervasiva, allargando il campo delle sue chiusure.
Con il trionfo delle politiche di Welfare, negli anni ‘60, si ha, secondo Dahrendorf, la piena
affermazione della socialdemocrazia nel mondo industrializzato: il Welfare State non è che
l’espressione formale e normativa di questo dato politico. Nel sistema delle società
avanzate, gli assi di regolazione del funzionamento del governo e/o della politica, per
Dahrendorf, sono tre:
a. l’ordine e/o la burocrazia o la legge;
b. la partecipazione democratica;
c. la leadership: vale a dire, le capacità di innovazione.
Nel 1968, in tutte le società occidentali avanzate, sostiene Dahrendorf, giunge a completa
maturazione la deflagrazione tra la partecipazione democratica e l’organizzazione
burocratica del sistema politico-nomativo del Welfare: l’espansione della spesa pubblica
non si traduce più in aumento dei benefici dei cittadini e la classe politica si rivela sempre
meno capace di produrre innovazione.
Negli anni ‘70, per Dahrendorf, il quadro peggiora ulteriormente: gli entitlements si
disgiungono dalle provisions, in un contesto economico dominato dall’intreccio di
stagnazione e inflazione, vieppiù destrutturato dagli effetti dirompenti delle due crisi
petrolifere del 1971 e del 1973. È, questa, la fase in cui gli economisti, i sociologi e i
politologi occidentali discutono catastroficamente dei «limiti dello sviluppo». Eppure, come
osserva A. de Gennaro: “La catastrofe però non avviene. Al contrario, agli anni ‘70
succedono il rinnovato sviluppo o la crescita degli anni ‘80, in alcuni dei quali la crescita
sfiora addirittura tassi da anni ‘60. Ma si tratta di una crescita che non ha più nulla a che
fare con quella del Welfare State o dell’«era socialdemocratica». Se gli anni ‘70 avevano
infatti conosciuto l’anomalia della «stagflazione», quelli ‘80 conoscono la non meno grave
anomalia di una crescita a spese dell’occupazione”. Il contesto storico generale è qui quello
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reaganiano-thatcheriano della «politica dell’offerta»che rimpiazza la keynesiana «politica
della domanda», antica precondizione in virtù della quale lo Stato fungeva quale «volano»
dello sviluppo.
Ma lo sviluppo senza occupazione, rendendo strutturale e di massa la disoccupazione, importa
la compressione degli entitlements a tutto vantaggio delle provisions che, a loro volta, si
vanno oltremodo accentrando nelle mani di ristrettissime élites. Ciò, conclude Dahrendorf,
fa crollare i diritti sociali di cittadinanza incarnati dal Welfare State.
Le conseguenze politiche legate a questi nuovi assetti sociali, a queste nuove configurazioni
normative e agli inediti immaginari collettivi collegati, per Dahrendorf, sono dense di
pericoli estremi. Non solo e non tanto per la esilissima linea di confine che va ora
separando le soggettualità inserite nel mondo della produzione dalle soggettualità da esso
emarginate, quanto perché la negazione dei diritti sociali di cittadinanza crea delle vere e
proprie sottoclassi sociali, aprendo il terreno alla formazione di fenomeni massificati e
inquietanti di disidentificazione e anomia (disoccuppati, donne, giovani, anziani,
minoranze etniche, ecc.), entro i quali possono agevolmente attecchire e prosperare nuove
forme di tirannidi.
La soluzione del problema, secondo Dahrendorf, starebbe nella riunificazione degli
entitlements con le provisions, allargando i diritti sociali di cittadinanza, dal campo Ocse,
alla stragrande maggioranza dell’umanità. Si tratterebbe, in definitiva, di estendere a scala
mondiale i diritti civili e sociali di matrice occidentale, in modo che il mondo possa
rinascere a una epoca di libertà mai sperimentata prima.
Il quadro storico-teorico entro cui si muove la ricerca di Dahrendorf è il seguente:
a. il Welfare è la forma Stato che, imperniata sulla domanda, privilegia gli
entitlements a danno delle provisions;
b. al contrario, lo Stato post-welfaristico, esaltando l’offerta, valorizza le
provisions a detrimento degli entitlements;
c. il nuovo Stato deve, invece, garantire la libertà di tutti, a tutti riconoscendo
diritti civili e diritti sociali.
La modernità e il conflitto della modernità qui si coronano come trasferimento all’intero
pianeta delle forme politiche e statuali dell’Occidente. La nuova sintesi tra entitlements e
provisions sarebbe ora garantita dalla fuoriuscita dal “mondo Ocse”, per applicare in tutto
il pianeta i princípi di libertà, giustizia civile e distributiva e i diritti di cittadinanza sociale
predicati dalla filosofia politica occidentale, nel percorso che va dalla teoria liberale a quella
democratica. In altri termini, con la caduta del consenso socialdemocratico, per la scissione
operata tra entitlements e provisions, si tratterebbe di inverare nuove, più inclusive e
globali, forme di consenso, incardinate sulla diffusione generalizzata ai cittadini e ai popoli
dell’ intero pianeta dei diritti sociali e civili di cittadinanza.
Che i diritti di cittadinanza e le relative teorie, con i sottostanti codici e paradigmi
scientifici, siano anche forme estreme, complesse e sofisticate di controllo repressivo, di
socializzazione dell’esclusione, di esclusione politica, di emarginazione culturale e
simbolica non viene qui, coerentemente, preso in considerazione.
Che proprio la realizzazione, più o meno compiuta, organica e conseguente, di siffatti
princípi e diritti sia tra le concause della discriminazione sociale tra classi e ceti forti e classi
e ceti deboli, tra Nord e Sud del mondo non viene nemmeno lontanamente sospettato.
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4. Conflitto chiuso, società aperta e política della libertà
La politica della libertà che sconfina nella società aperta sarebbe, per definizione, il regno
della libertà di tutti. In realtà, essa somiglia più ad un universo flessibile di microsistemi
chiusi, in cui la gamma dei mezzi e dei fini dell’azione umana viene destrutturata e
mutilata, nel tentativo dispotico di ricondurla e ingabbiarla entro i codici della razionalità,
delle metodiche e delle strategie della fallibilità che, al di fuori di se stesse, non riconoscono
alcunché.
L’applicazione su scala planetaria dei diritti civili e sociali di cittadinanza, così come sono
stati elaborati, rappresentati e modellati dal pensiero politico e dai sistemi politici
occidentali sarebbe il passaggio alla società aperta mondiale libera. In realtà, non faremmo
altro che assistere all’estendersi e al perpetuarsi di quei processi di occidentalizzazione e
colonizzazione simbolica del pianeta principiati nel 1492 con la “scoperta” dell’America.
Dopo aver assistito alla pretesa fondamentalista dell’Occidente di imporre al mondo i
propri interessi politici ed economici, le sue visioni del mondo e i suoi stili di vita,
dovremmo ora essere spettatori della sfrenata hybris con cui l’Occidente intende assimilare
il mondo intero ai suoi codici culturali e, perfino, alle sue teorie descrittive della libertà e
alle sue teorie normative della giustizia.
Negli schemi euristici di Dahrendorf, in realtà, v’è ben poco spazio per il conflitto inteso in
maniera problematica e aperta.
L’esistente e le esistenze non riconducibili alla/e non spiegabili dalla razionalità fallibilista
non hanno alcuna legittimità esistenziale e scientifica; meglio, non esistono. Altrettanto
deve dirsi per i diritti di cittadinanza, i quali esistono solo nelle “forme teoriche” e nelle
“costruzioni reali” elaborate e dislocate dall’Occidente. La libertà sarebbe ora niente altro
che l’estensione illimitata delle dislocazioni occidentali dei diritti di cittadinanza. Vale a
dire: una delle cause del problema dell’ingiustizia e della discriminazione a livello
planetario viene assunta e agita come risoluzione del problema.
L’approccio metodologico apparentemente “minimalista” (la fallibilità) funge da
precondizione per pilotare un processo dal profilo apertamente “massimalista”, tendente
alla sintesi politica tra entitlements e provisions che, a sua volta, è l’essenziale punto di
passaggio per la realizzazione della società aperta. Ma, ora, questa intersezione politicoepocale dell’organizzazione socio-umana appare, piuttosto, come la nuova monade chiusa.
La premessa minimale sconfinante nella società aperta sventaglia effetti destrutturanti
massimali, a misura in cui le differenze e i differenti, a cui i diritti dovrebbero sempre
essere ricondotti, vengono azzerati dai selettori della razionalità strumentale
verificazionista e dalle ventose spoliatrici dei diritti di cittadinanza, la cui costante storica è
stata quella di tradursi non in più, ma in meno libertà e meno democrazia, soprattutto a
carico delle fasce sociali e delle etnie deboli. Ciò appare particolarmente vero oggi, a fronte
dell’ordine/disordine localmente e globalmente guerreggiato in cui versano le relazioni
internazionali, all’interno delle quali le identità più deboli sono oppresse e schiacciate con
tutti i mezzi simbolici e fisici di intimidazione e coercizione.
Se insistiamo con maggiore attenzione sui concetti di “libertà” e di “politica della libertà”
coniugati da Dahrendorf, apparirà più palesemente in luce l’hybris progettuale che
abbiamo dianzi individuato. L’implementazione dell’ hybris progettuale occidentale funge,
all’altezza dello snodo storico del presente e delle sue finestre aperte sul futuro, come
dilatazione “esplosiva” dei processi di secolarizzazione e complessificazione e, nel
contempo, come nuovo punto forte di (ri)avvio della rioccidentalizzazione del pianeta.
In un testo significativo compreso in un libro del 1979, molti anni dopo tradotto in italiano,
sulle orme delle analisi di Popper che abbiamo già esaminato, Dahrendorf collega il
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concetto di libertà a quello di società aperta e tutte e due alle condizioni dell’umano. Il
legame appare ancora più intenso in quanto egli, poi, riconnette il concetto di libertà a
quello di chances di vita.
Nel discorso di Dahrendorf, è proprio il collegamento con le “chances di vita” che fa della
libertà un concetto attivo. Nel senso che l’accrescimento delle chances di vita, modellando
contenutisticamente e direzionando teleologicamente il conflitto sociale, si costituisce come
percorso specifico dell’ampliamento della libertà nella società post-industriale. Se
originariamente — come abbiamo visto — la teoria del conflitto, in Dahrendorf, si
incardinava sul potere in quanto asse cruciale di ogni formazione sociale, ora il conflitto per
il potere appare, piuttosto, finalizzato alla gestione e al miglioramento delle chances di vita.
Quel conflitto sociale che muove e trasforma il potere in direzione dell’arricchimento dei
contenuti delle chances di vita, sembra dire ora Dahrendorf, realizza la politica della libertà.
Per Dahrendorf, se è chiaro che chances di vita e libertà non sono la stessa cosa, rimane
altrettanto indubbio che il rapporto di implicazione che esiste tra di loro può “contribuire a
chiarire il concetto di libertà”. Ma seguiamo da più vicino l’argomentazione di Dahrendorf.
La libertà è un concetto normativo; chances di vita, invece, una categoria analitica . Da questa
differenza costitutiva discendono non minori differenziazioni. Vediamole:
a. non per tutti l’esistenza di maggiori chanches di vita è un fatto positivo;
b. la libertà ammette necessariamente un ampliamento delle chances di vita;
c. al contrario, l’ampliamento delle chances di vita non significa necessariamente
ampliamento della libertà.
Non poteva essere diversamente, vista la divaricazione costitutiva tra entitlements e
provisions. Un aumento delle possibilità di vita materiali non è automaticamente aumento
di quelle immateriali; il miglioramento delle condizioni economiche in senso stretto non è,
di per sé, indicativo di una maggiore libertà.
Il concetto prescrittivo di libertà, a sua volta, ammette una rilevante distinzione tra:
a. le libertà (liberty): vale a dire, le “condizioni necessarie” della libertà, le quali
“definiscono lo stato in cui determinate chances di vita devono trovarsi”;
b. la libertà (freedom): vale a dire, le “condizioni sufficienti” della libertà, che
“denotano un comportamento che può essere definito come tentativo incessante
di ampliare le chances di vita; tentativo che però non contiene nessun elenco di
chances di vita necessarie” .
Più avanti Dahrendorf, commentando positivamente un’affermazione di von Hayek,
precisa: “Le condizioni necessarie della libertà sono, nella realtà, le condizioni di una
società aperta (...) Il che significa intangibilità della persona, libertà di parola e di opinione,
un minimo di partecipazione politica ... Dove le chances di vita che abbiamo così indicato
non esistono, non c’è libertà, per quanto alto sia il livello materiale di vita degli uomini. Le
condizioni necessarie della libertà sono letteralmente irrinunciabili”.
Le libertà perimetrano, quindi, un campo minimale ed elementare, il quale presuppone il
contratto sociale e/o lo Stato minimale, il cui compito è proprio quello di porre un limite alla
coercizione e, con essa, alle “potenzialità teoricamente illimitate dell’agire”.
5. La libertà può mutare la società fragmentata?
Se ritorniamo all’inizio possiamo trovare il filo su cui Dahrendorf ha sviluppato e
proceduto oltre l’ostatolo. Nella versione originaria della teoria del conflitto di Dahrendorf,
il potere era la variante indipendente, in funzione di cui si disponeva e agiva il conflitto.
Nella versione autocorretta, il conflitto per il potere viene, in un certo senso, subordinato
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all’accrescimento delle chances di vita e, per questa via, alla libertà. Ora, la libertà diviene il
contenuto del conflitto e l’indirizzo del mutamento. I presupposti teorici di fondo e le categorie
analitiche rimangono intatti; si allarga il campo descrittivo e si specifica meglio l’orizzonte
di senso.
La categoria chances di vita diviene il punto cruciale dell’autocorrezione teorica, in quanto
essa, per Dahrendorf, nella sua dinamica storica e sociale, racchiude come movimento
complessivo tanto gli entitlements che le provisions. Il “nuovo liberalismo”, si specifica,
appunto, per cercare ininterrottamente nuove opportunità, tese all’allargamento delle
chances di vita per un numero progressivamente crescente di persone. Per Dahrendorf,
siffatto liberalismo è nuovo anche perché si propone programmaticamente di capovolgere
quella tendenza storica che ha bloccato l’ampliamento delle chances di vita alla classe di
maggioranza, escludendone, a livello di “mondo sviluppato” e, ancora più, di “mondo
sottosviluppato”, tutte le sottoclassi a cui i diritti di cittadinanza sono (soltanto)
formalmente riconosciuti.
Il passo avanti compiuto è innegabile. Purtroppo, dobbiamo registrare quattro limiti:
a. il primo: l’approfondimento del campo teorico descrittivo e la precisazione di
quello denotativo restano soffocati nello spazio prescrittivo chiuso della “società
aperta”;
b. il secondo: la categoria analitica di chances di vita resta troppo schiacciata sui
campi normativi dei diritti di cittadinanza;
c. il terzo: anche nelle società avanzate, la massa non inclusa materialmente
nell’arena dei diritti civico-politici tende costantemente a crescere, per cui non
può rigorosamente parlarsi, in proposito, di una “sottoclasse”; ne discende che il
concetto medesimo di “classe di maggioranza” vada profondamente rivisto;
d. il quarto: l’automatismo associativo tra la “sottoclasse” e la figura
dell’outsiders,assunta ideologicamente come ribelle, violenta e dispersiva; in
quanto tale, “nemica della democrazia e della libertà.
Le condizioni necessarie delle libertà, così come definite da Dahrendorf, ammettono un
menu di chances di vita che finisce col coincidere con il paniere già esistente dei diritti civili e
sociali. Con la conseguenza che tutte le incongruenze, le discriminazioni e le disfunzioni
normative collegate alla teoria e prassi dei diritti di cittadinanza rimangono pienamente
operanti.
Quello che qui fa difetto a Dahrendorf è una radicale svolta teorica e, insieme, una puntuale
considerazione storica delle forme di conflittualità affermate dai nuovi movimenti sociali
degli anni ‘60 e ‘70, i quali introducono nel paniere di chances di vita necessarie nuove
possibilità, quali il senso, l’identità, la pace, la qualità della vita, ecc.. Proprio la lettura dei cicli
conflittuali innescati dai “nuovi movimenti” consente di comprendere che il rapporto tra
liberty e freedom è meno meccanico di quanto postulato teoreticamente, mostrando, del pari,
quanto l’automatismo associativo esclusione sociale = ribellismo violento e antidemocratico
sia inconcludente e fuorviante.
I “nuovi movimenti”, pur manifestando enormi e significativi limiti, hanno definitivamente
chiarito che:
a. il paniere delle condizioni necessarie della libertà è suscettibile di
ampliamento quantitativo e mutamento qualitativo;
b. il dispiegamento e l’arricchimento delle condizioni sufficienti della libertà, a
sua volta, non è senza effetti sulle condizioni necessarie.
È in questo senso più proprio, allora, che quello di libertà è un concetto attivo e in
movimento continuo, definitivamente sottratto alle pastoie del vadecum prescrittivo liberale
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entro cui la libertà, in Dahrendorf come nei grandi pensatori liberali del Novecento, rimane
schiacciata e depotenziata. È vero che il concetto classico di libertà dei liberali è un concetto
negativo, in quanto non si accontenta delle condizioni esistenti; ma è altrettanto vero che
tenta continuamente di adattare ai suoi contenuti prescrittivi l’esistente, anziché aprirsi ad
esso. L’insoddisfazione per l’esistente si torce nel tentativo di addomesticarlo e dominarlo;
quando, invece, è proprio nelle fenditure dell’esistente che occorre ricercare la materia
prima con cui ampliare ed arricchire continuamente il vocabolario minimo delle libertà. Per
essere ancora più precisi: le opzioni e le chances di vita nuove non debbono limitarsi a
conservare la semantica delle condizioni necessarie; all’opposto, debbono mutarla e
arricchirla. Infine, quanto fin qui argomentato significa che l’orizzonte aperto dalle nuove
libertà non è misurabile da quello delle libertà esistenti, poiché tutte le “misure” e i
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può essere attivamente in continuo movimento.
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