APPUNTI DI FISICA
AMBIENTALE
PARTE IV
INQUINAMENTO ELETTROMAGNETICO
ENERGIA
SOLARE
E NUCLEARE
Prof. Ing.Riccardo Fanton
a.s. 2015-16
Istituto Tecnico “S.B.Boscardin”
Vicenza
1
VERSIONE 3-2014
2
MODULO N.3
3) INQUINAMENTO ELETTROMAGNETICO
Nel MODULO 2 abbiamo analizzato lo spettro elettromagnetico e visto la sua
suddivisione in base alla frequenza delle onde. Vedremo ora quali sono gli effetti
sull’uomo di queste onde.
3.1) EFFETTI DELLE RADIAZIONI SULL’UOMO
La frequenza di 1015 Hz (nel campo dell’ultravioletto) divide le radiazioni in ionizzanti
e non-ionizzanti.
- RADIAZIONI IONIZZANTI
Le radiazioni ionizzanti sono quelle che hanno frequenza superiore a 10 15 Hz, e
comprendono l’UV lontano, raggi X e raggi gamma.
Sono gravemente dannose per la salute umana: essendo onde ad altissima energia sono
in grado di generare ionizzazione, ovvero la rottura dei legami covalenti molecolari, e
quindi di danneggiare i DNA delle cellule.
- RADIAZIONI NON IONIZZANTI
La radiazioni non ionizzanti hanno frequenza inferiore a 1015 Hz, e comprendono i
campi delle basse frequenze, radiofrequenze, microonde e infrarosso. La quantità di
energia trasportata, e quindi trasferita ai tessuti umani quando questi vengono irradiati,
non è sufficiente a rompere i legami chimici delle molecole. Vi sono però dei dubbi
sulla loro innocuità, come vedremo in dettaglio nei prossimi paragrafi.
- EFFETTI TERMICI ED EFFETTI NON TERMICI
Gli effetti biologici dei campi elettromagnetici dipendono principalmente dalla
potenza trasportata dalla radiazione.
L’energia trasportata da un’onda elettromagnetica che attraversa un tessuto biologico
viene dissipata all’interno del tessuto stesso sotto forma di calore. Il campo magnetico
oscillante induce nel tessuto una corrente elettrica che dissipa potenza a causa delle
proprietà dielettriche del mezzo.
Figura 83
3
Campi elettromagnetici con densità di potenza superiore a 10 mW/cm2 possono
provocare danni biologici per effetto termico: gli effetti acuti del campo magnetico
sono dovuti all’induzione di corrente elettrica nei tessuti (fino a 10 A/m2 per campi
magnetici molto intensi) e vanno da interferenze nella percezione sensoriale (visiva e
tattile), alla fibrillazione ventricolare, fino al riscaldamento dei tessuti.
- EFFETTI ACUTI DEL CAMPO MAGNETICO
Effetto
Campo magnetico
Riscaldamento dei tessuti (0,4 W/kg)
1.600.000 T
Induzione di extrasistole (fibrillazione)
130.000 T
Percezione sensoriale, magnetofosfeni
16.000 T
Normativa italiana
100 T
Soglia di attenzione epidemiologica
0,2 T
Densità di corrente
10.000 mA/m2
800 mA/m2
100 mA/m2
0,6 mA/m2
-
Si considera che le radiofrequenze e i campi a basse frequenze, anche se emessi con
potenza inferiore a 10 mW/cm2, possano causare danni biologici con effetti non
termici. Sulla possibile dannosità dei campi elettromagnetici sono tuttora in corso
molti studi medici che cercano di individuare una correlazione tra l’esposizione
prolungata a campi, anche deboli, e l’insorgenza di malattie (tra cui tumori infantili),
e allo stesso tempo di scoprire il funzionamento biologico dell’interazione tra campi
elettromagnetici e sistemi biologici.
3.1.1) CAMPI A BASSE FREQUENZE
I campi elettromagnetici a bassa frequenza (50-60 Hz) sono generati da elettrodotti,
cabine di trasformazione o di distribuzione della corrente elettrica e da tutti i dispositivi
alimentati elettricamente, come gli elettrodomestici. Particolarmente importanti sono
quegli apparecchi che vengono utilizzati a breve distanza, come monitor di computer
e coperte elettriche. Persone particolarmente esposte sono quelle che abitano, lavorano
o comunque risiedono per lunghi periodi nelle vicinanze di elettrodotti ad alta tensione.
Studi epidemiologici, condotti a partire dalla fine degli anni ’70, suggeriscono che i
campi elettromagnetici a bassa frequenza possano essere considerati come “probabili
cancerogeni”, anche se l’associazione tra esposizione a tali campi e l’insorgenza di
tumori appare di modesta entità e non è sufficiente a stabilire con certezza una
correlazione tra esposizione ed effetto.
La prima ipotesi di cancerogenità dei campi elettromagnetici a bassa frequenza (ELF,
extremely low frequency) fu formulata per la prima volta da Nancy Wertheimer e Ed
Leeper nel 1979, con l’articolo “Electrical wiring configurations and childhood
cancer” pubblicato sull’American Journal of Epidemiology.
Numerose successive indagini su residenti in abitazioni vicine a installazioni elettriche
(esposti a campi magnetici di frequenza 50-60 Hz e intensità 0,2-0,4 T) hanno
evidenziato un possibile aumento del rischio di leucemie e tumori cerebrali nei
4
bambini; indagini su categorie di lavoratori professionalmente esposti hanno
evidenziato un aumento di rischio di leucemie e di tumori mammari nella donna.
Altri studi, altrettanto ben condotti, hanno dato risultati negativi o contraddittori: il
numero di tumori si sono dimostrati solo in alcuni casi leggermente superiore alla
media, e non attribuibili con certezza all’esposizione a radiazioni.
La correlazione tra l’esposizione cronica a campi elettromagnetici a bassa frequenza e
l’insorgere di certi tipi di tumori, in particolare leucemie infantili, è quindi ancora
incerta.
Inoltre non vi sono conferme sperimentali dell’azione dei campi a basse frequenze sul
materiale genetico cellulare, né è stata ancora formulata una convincente ipotesi di
meccanismo biologico che spieghi l’effetto di questi campi sulle cellule.
Si ipotizza invece un’azione non tanto diretta (l’energia trasportata dalle onde
elettromagnetiche è troppo bassa per rompere anche il più debole legame chimico),
quanto piuttosto di promozione dell’insorgenza dei tumori.
Infatti, perché si sviluppi un tumore, è necessaria per prima una mutazione genetica,
dovuta a diversi fattori, come l’esposizione ad agenti genotossici (ad esempio
l’esposizione a radiazioni ionizzanti) o un errore nella replicazione del DNA. Ma è
comunque necessario che vi sia anche un’azione “epigenetica”, ovvero capace di
favorire la trasformazione di una cellula precancerogena in cellula cancerogena.
Figura 84
Una linea di studio sul meccanismo biologico dell’effetto dei campi elettromagnetici
sta cercando di verificare se essi possano essere considerati agenti epigenetici, in grado
quindi di favorire lo sviluppo di un tumore, nato comunque per cause indipendenti
dall’esposizione ai campi stessi.
Altri studi, con esperimenti su animali, hanno rilevato, in soggetti esposti a radiazioni
ELF, una diminuzione della produzione di melatonina, un ormone prodotto dalla
ghiandola pineale che esercita un’azione protettiva nei confronti di alcuni tumori, tra
5
cui proprio le leucemie e i tumori al seno; non si ha però ancora una conferma dello
stesso effetto sull’uomo.
Risulta quindi evidente che il problema degli effetti di questo tipo di onde a bassa
frequenza non è ancora stato chiarito in modo soddisfacente.
3.1.2) RADIOFREQUENZE E MICROONDE
I campi elettromagnetici a maggiore frequenza, nel campo delle radiofrequenze e delle
microonde (10 kHz – 100 GHz), sono generati da sistemi per le telecomunicazioni:
antenne trasmittenti radiotelevisive, telefoni cellulari, antenne e ripetitori per la
telefonia mobile. La potenza tipica delle antenne è molto elevata (spesso superiore a
1000-2000 W) e nei pressi di queste installazioni si possono facilmente riscontrare
interferenze con altri apparecchi elettrici ed elettronici: distorsioni nelle immagini
televisive e sui monitor per computer, malfunzionamenti di apparecchi elettronici
come antifurti per auto, telefoni cellulari, ecc...
Sono sorti quindi dei dubbi sugli effetti dei campi ad alta frequenza sulla salute umana.
Dai pochi studi ed indagini condotte finora si ritiene che l’esposizione a campi ad alta
frequenza (radiofrequenze e microonde) possa rappresentare un possibile fattore
cancerogeno, sia pure di modesta entità, con azione simile alle radiazioni ELF.
Non sono però ancora disponibili analisi epidemiologiche complete sui possibili rischi
da radiofrequenze in quanto la diffusione di questi sistemi è ancora abbastanza recente.
Ricordiamo che la quarta equazione di Maxwell indica che in presenza di una corrente
elettrica variabile si induce un campo magnetico a sua volta variabile.
Questa relazione spiega come una corrente elettrica (o un campo elettrico variabile)
generi intorno a sé un campo magnetico e come un campo magnetico variabile possa
indurre delle correnti nei materiali conduttori posti nelle vicinanze.
Poiché la corrente elettrica fornita attraverso la rete di distribuzione è alternata (con
frequenza di 50 Hz in Europa e di 60 Hz negli Stati Uniti), tutte le apparecchiature
alimentate elettricamente sono sorgenti di campi elettromagnetici.
Le linee di conduzione dell’energia elettrica (ovvero le linee dell’alta tensione) e gli
apparecchi utilizzatori non sono le uniche sorgenti di campi elettromagnetici: esistono
anche dispositivi che sono stati progettati e realizzati esplicitamente con lo scopo di
emettere radiazioni elettromagnetiche: tutti i sistemi di telecomunicazione (che
comprendono antenne e ripetitori televisivi, radiofonici, radioamatoriali, per telefonia
mobile) sono importanti fonti di radiofrequenze e microonde.
Al fine di calcolare l’intensità di campo in funzione della distanza dalla sorgente
ricordiamo che i campi elettrici e magnetici sono campi centrali, ovvero l’intensità di
campo diminuisce con l’inverso del quadrato della distanza.
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3.1.3) ELETTRODOTTI
Un impianto elettrico per la produzione e la distribuzione dell’energia elettrica è
composto da diverse parti:
1. Centrali di produzione che trasformano una fonte naturale di energia in energia
elettrica.
I generatori producono una tensione che nelle stazioni di trasformazione annesse alla
centrale viene elevata al valore più adatto per il trasporto (130, 200 o 380 kV);
2. Linee di trasporto, che collegano le centrali ai centri di consumo più importanti
(grandi città e grandi centri industriali) trasportando la corrente alle tensioni di 130,
200 o 380 kV;
3. Stazioni riceventi primarie, collocate in prossimità dei centri di consumo, che
trasformano l’energia dalla tensione di trasporto a quella delle reti di distribuzione;
4. Reti di trasmissione a 60 o 130 kV, che alimentano le stazioni secondarie di
trasformazione a 10-30 kV.
5. Rete di distribuzione a media tensione (10-30 kV) che alimenta le cabine di
trasformazione dell’energia alla tensione di utilizzazione diretta (bassa tensione).
6. Rete di distribuzione a bassa tensione (220 o 380 V), che raggiunge ogni singolo
utilizzatore della zona.
La corrente viene distribuita alternata e non diretta per diversi motivi: innanzitutto si
può variare la tensione di una corrente alternata con un semplice trasformatore. Inoltre
la corrente alternata riduce le perdite a parità di tensione, perché queste sono
proporzionali al quadrato della corrente.
Una corrente alternata infatti dissipa meno potenza di una corrente continua in quanto
la corrente non è costante e varia sinusoidalmente.
La distribuzione dell’energia elettrica avviene principalmente attraverso due tipologie
di elettrodotti: linee in cavo e linee aeree.
Le linee in cavo sono costituite da conduttori avvolti in appositi materiali isolanti in
modo da permettere una maggiore vicinanza tra i conduttori senza il rischio di scariche.
Le linee aeree sono costituite da fili conduttori tesi in aria tra sostegni (pali, tralicci...)
e fissati ad essi attraverso elementi isolanti.
I sostegni normalmente usati per le linee di trasporto aeree ad alta tensione sono tralicci
di acciaio o cemento armato, mentre per la distribuzione della media e bassa tensione
si impiegano sostegni di cemento armato o legno. Come già visto introducendo le
sorgenti di campo, una corrente alternata genera un campo magnetico la cui intensità
è proporzionale all’intensità di corrente trasportata dal
conduttore.
7
Figura 85
Le linee di campo magnetico descrivono delle circonferenze concentriche su piani
perpendicolari al conduttore; l’intensità del campo diminuisce con la distanza e si
inverte di segno con la stessa frequenza della corrente (50 Hz).
Figura 86
L’intensità del campo magnetico sarà quindi maggiore per le linee ad alta tensione,
perché la corrente (i) è proporzionale alla tensione (V) secondo un coefficiente (la
conduttanza G) caratteristico del materiale di cui è costituito il conduttore. D’ora
innanzi considereremo l’intensità di campo magnetico in modulo, ricordando che la
direzione del vettore B si inverte 50 volte al secondo.
8
Figura 87
Analizziamo ora l’andamento del campo magnetico nello spazio: consideriamo ad
esempio un elettrodotto ad alta tensione da 380 kV.
La normativa italiana (DMLP 16/01/91) impone che per questo elettrodotto la distanza
da terra sia di almeno 11,34 m.
La massima intensità del campo magnetico a terra si ha lungo la proiezione della linea
di conduzione: per questo elettrodotto posto a 11,34 m di altezza la massima intensità
a terra è di 15,6 T.
Figura 88
9
Questo valore rientra nei limiti fissati dalla normativa, ma è superiore alla soglia
raccomandata dalle indagini epidemiologiche che hanno individuato un possibile
rischio per la salute per esposizioni prolungate a campi di intensità superiore a 0,2 T.
Per scendere sotto la soglia di attenzione epidemiologica bisogna allontanarsi dalla
linea di ben 81,6 m.
Vedremo più avanti diversi metodi per limitare l’esposizione al campo prodotto da una
linea di conduzione elettrica.
3.1.4) AMBIENTE DOMESTICO
Negli ambienti domestici, nelle scuole e negli uffici si trovano molti dispositivi
alimentati da corrente elettrica di rete, alternata a 50 Hz. I trasformatori di tensione e i
motori elettrici di questi apparecchi sono sorgenti di campi elettromagnetici e, data la
prolungata esposizione e l’uso ravvicinato, sono interessanti i fini dello studio
dell’inquinamento elettromagnetico.
Le tipiche sorgenti di campo nell’ambiente domestico sono isolate e di dimensioni
contenute, come elettrodomestici e
macchine per ufficio (computer,
fotocopiatrici...).
Questa
apparecchi
possono
emettere un campo magnetico che
supera abbondantemente la soglia
di attenzione epidemiologica e a
volte anche i limiti fissati dalla
normativa di sicurezza. Un esempio è dato da uno studio condotto
dall’Istituto Ricerca sulle Onde
Elettromagnetiche (IROE) del
CNR su un asciugacapelli elettrico, che per la sua stessa natura Figura 89
viene impiegato molto vicino alla
testa
dell’utilizzatore.
Dalle
misurazioni effettuate si ottiene
che ad una distanza inferiore a 60
cm il campo magnetico ha intensità
superiore alla soglia di attenzione
(0,2 T), mentre il limite della
normativa italiana (100 T) viene
superato misurando il campo a
meno di 10 cm dall’apparecchio.
Un altro dispositivo elettrico che
genera un forte campo magnetico e Figura 90
a cui l’utilizzatore è esposto per
lunghi periodi è il monitor per computer: si è osservato che la massima intensità di
10
campo si rileva nelle parti laterali e posteriori del monitor, dove occorre allontanarsi
di ben 122 cm per scendere a 1 T; nella parte anteriore si ha la stessa intensità alla
distanza di 71cm (questo vale per i vecchi monitor a tubo catodico).
Come mostrano questi esempi, è possibile che nelle immediate vicinanze degli
apparecchi si superi il limite di sicurezza di 100 T. L’intensità del campo decade
rapidamente con la distanza, ma per rientrare nei limiti suggeriti dalle indagini
epidemiologiche bisogna allontanarsi mediamente di 60-80 cm, che può essere una
distanza eccessiva per l’utilizzo di alcuni apparecchi.
Segue una tabella che riporta l’intensità di campo magnetico (in T) tipico di alcuni
diffusi elettrodomestici:
Elettrodomestico
fornello elettrico grande
fornello elettrico piccolo
forno
forno a microonde
lavastoviglie
frigorifero
lavatrice
macchina per il caffè
tostapane
ferro da stiro
mixer
aspirapolvere
asciugacapelli
rasoio
televisione
lampada fluorescente
a 3 cm
150
80
3
200
7
1,7
50
7
18
30
450
800
750
1500
50
200
a 30 cm
45
4
0,5
8
1
0,25
3
0,25
0,7
0,3
4
20
10
9
2
3
a1m
0,02
0,2
0,4
0,6
0,08
0,01
0,15
0,01
0,025
0,02
2
0,3
0,3
0,15
0,06
3.1.5) RADIAZIONE DI FONDO
I campi elettromagnetici in ambiente domestico non vengono generati soltanto dalle
apparecchiature elettriche, ma esiste anche un cosiddetto “fondo ambientale”, ovvero
costituito da un debole campo esistente nell’ambiente indipendentemente dalle singole
sorgenti.
Esso è dovuto ad un gran numero di piccole sorgenti più o meno permanenti come
elettrodotti esterni (anche interrati), sorgenti di campi in appartamenti adiacenti e
cablaggio nelle pareti. Naturalmente il contributo dato dal fondo ambientale è
estremamente variabile, dipendendo da un gran numero di fattori differenti. Studi ed
indagini del IROE hanno però portato alla definizione di alcune caratteristiche tipiche
del fondo ambientale: innanzitutto si osserva una grande variabilità nel tempo
soprattutto nel breve termine, e spesso si può riconoscere una ciclicità giorno/notte. Si
è inoltre osservato una maggiore intensità di campo di fondo in appartamenti
condominiali rispetto alle abitazioni singole, attribuibile al cablaggio comune e alle
11
sorgenti in appartamenti limitrofi. Generalmente i valori di fondo ambientale rientrano
nelle soglie di sicurezza sia delle raccomandazioni sia normative, a meno di
considerare appartamenti prossimi ad elettrodotti.
3.1.6) TELEFONIA MOBILE
I telefoni cellulari, per comunicare con la stazione base fissa, emettono onde
elettromagnetiche nel campo delle microonde, alla frequenza di 900 MHz (GSM) o
1,8 GHz (DCS 1800).
Un telefono mobile GSM emette una potenza massima di 2 W, con un fattore di uso
1/8 (attivo 1 sec. su 8), quindi la potenza emessa media 0,25 W. La potenza assorbita
dall’utente è circa la metà, 0,1 W con picchi di 1 W. Il valore massimo di assorbimento
raccomandato è di 1,6 W/kg.
La tecnologia analogica (TACS) modula un segnale a bassa frequenza su un’onda
portante ad alta frequenza, in modo simile alle trasmissioni radio a modulazione di
frequenza (FM), mentre la più recente tecnologia digitale (GSM e DCS 1800) codifica
digitalmente il segnale del parlato prima della modulazione.
Si ritiene che i nuovi telefoni digitali possano avere maggiori effetti dei vecchi telefoni
analogici.
Le stazioni base per la telefonia mobile emettono una potenza relativamente bassa e
producono una bassa densità di potenza al suolo. Nonostante i campi di radiofrequenza
prodotti dalle stazioni base rientrino nei limiti fissati dalle normative di sicurezza
nazionali ed internazionali, vi è una forte avversione da parte del pubblico verso queste
installazioni.
Possibili effetti per la salute
I dubbi riguardano sia gli effetti acuti, ovvero gli effetti termici a carico dei tessuti, sia
gli effetti a lungo termine derivanti dall’esposizione a queste frequenze. Va ricordato
che nell’uso dei telefoni mobili i tessuti più esposti sono quelli della testa dell’utente,
che assorbono dal 30% al 50% della potenza emessa dall’antenna.
Le conoscenze disponibili sugli effetti delle microonde spiegano come le onde
elettromagnetiche, inducendo una corrente elettrica nell’acqua contenuta nei tessuti,
dissipino l’energia trasportata sotto forma di calore, a causa delle proprietà dielettriche
del mezzo.
Il parametro più significativo, in termini di effetti biologici per l’esposizione umana a
campi elettromagnetici di radiofrequenze, è l’assorbimento specifico di energia
(SAR:specific energy absorption rate), espresso in W/kg.
Mentre gli effetti termici sono ben conosciuti e costituiscono il riferimento per i limiti
di esposizione, gli effetti non-termici non sono ancora sufficientemente chiari per
essere considerati nella definizione delle soglie di rischio.
La ricerca sugli effetti non termici si rivolge allo studio degli effetti di un’esposizione
cronica (ovvero prolungata nel tempo) a campi deboli, ovvero con SAR inferiore alla
soglia oltre la quale si innescano effetti termici.
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I campi su cui attualmente si stanno svolgendo ricerche sono:
1. possibile promozione di effetti cancerogeni;
2. effetti sul sistema immunitario;
3. effetti sul sistema nervoso.
Le ricerche finora condotte sono pochissime e dai dati finora disponibili non sono
emerse prove convincenti dell’esistenza di effetti non termici a lungo termine che
possano essere dannosi per la salute.
Antenne di stazioni base per telefonia mobile
Esistono diversi tipi di stazioni base: infatti ogni tecnologia (ETACS, GSM e
DCS1800) impiega antenne differenti e facilmente riconoscibili. Tutte le antenne per
telefonia mobile sono costituite da gruppi di pannelli rettangolari, generalmente
bianchi, montati in verticale, con disposizioni diverse secondo i casi. Questi pannelli
sono inclinati verso il basso di un angolo (chiamato angolo di tilt) compreso tra 1° e
10°.
Figura 92
La prima tecnologia impiegata è stata la ETACS, una tecnologia analogica operante
alla frequenza di 900 MHz, dove il segnale viene modulato in frequenza come per le
trasmissioni radio FM. Le stazioni base per ETACS prevedono 12 antenne disposte in
gruppi di quattro affiancate per ogni lato di un triangolo
equilatero.
La tecnologia GSM è digitale e occupa la frequenza di 900
MHz: ogni frequenza portante veicola fino a 8
comunicazioni contemporaneamente, pertanto le antenne
richiedono una minore potenza. Le antenne sono disposte a
gruppi di tre per ogni lato di un triangolo equilatero.
Infine la più recente tecnologia DCS 1800, analoga al GSM
Figura 93
ma funzionante a frequenza di 1800 MHz, impiega soltanto
tre antenne disposte una per lato del triangolo equilatero.
13
Ogni tecnologia impiega potenze di trasmissione diverse e pertanto risulta variabile la
distanza oltre la quale l’intensità di campo scende sotto il limite di legge (E<20 V/m).
Il campo emesso non è uniforme in ogni direzione, ma è massimo sul piano
perpendicolare all’antenna e diminuisce con l’angolo di inclinazione.
Tecnologia
ETACS
GSM
DCS 1800
frequenza
850-930 MHz
850-930 MHz
1770-1830 MHz
Potenza Distanza orizz.
450-750 W
50 m
60-240 W
30 m
60-240 W
40 m
Distanza 45°
10 m
1m
5m
I valori di potenza sono mediati nel tempo: sono quindi possibile valori istantanei
maggiori di quelli indicati in tabella, variabili secondo il numero di comunicazioni in
corso.
La potenza emessa dalle antenne di stazioni base per telefonia cellulare è sempre
inferiore alla soglia oltre la quale si verificano effetti termici. Sono quindi da escludere
danni acuti in seguito all’esposizione anche prolungata ai campi generati da antenne.
Il limite di densità di potenza permessa per una stazione base per telefonia cellulare,
fissato per gli USA nel 1992 dall’ANSI/IEEE1, è di 0,57 mW/cm2 mediato su un
periodo di tempo di 30 minuti. L’ICNIRP2 ha successivamente fissato in 0,40 mW/m2
il limite permesso per i cellulari analogici e 0,90 mW/cm2 per i digitali (GSM).
Questo limite si basa sugli effetti biologici (effetti termici) accertati per esposizione a
radiofrequenze fino a 10 GHz e di forte intensità (superiore a 4 W/kg). Il limite è molto
conservativo ed è stato posto ad una densità di potenza che è solo il 2% della densità
necessaria perché si verifichino effetti termici (l’assorbimento di potenza specifico
tipico presso una antenna è nell’ordine di 0,0005 W/kg).
Un’antenna montata a 18,6 m di altezza e operante alla massima potenza (1600 W)
produce una densità di potenza
massima al suolo di 0,02 mW/cm2.
Le pareti di un edificio schermano la
potenza della radiazione di un fattore
compreso tra 3 e 20 volte.
Nel caso invece di accesso al piano
dell’antenna (ad esempio se montata
sul tetto di un edificio), a una
distanza inferiore a 6 metri si può
superare il limite di 0,02 mW/m2.
Pertanto le antenne andrebbero
montate in modo da impedire un
Figura 94
accesso ravvicinato da parte del pubblico. Come
già accennato, l’emissione di radiofrequenza non avviene in modo uniforme in tutte le
direzioni: la densità di potenza emessa è massima sul piano orizzontale ortogonale al
dipolo e nulla lungo l’asse del dipolo stesso. Inoltre l’intensità decresce con il quadrato
della distanza.
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Come si può osservare dalla figura l’emissione è minima verso il basso, e quindi
l’abitazione dell’ultimo piano dell’edificio sul cui tetto sono montate le antenne riceve
una minima parte di radiazioni.
3.1.7) ANTENNE RADIOTELEVISIVE
Sebbene gran parte dell’attenzione dell’opinione pubblica si concentri sulle antenne
base per telefonia mobile, le maggiori fonti di radiazioni elettromagnetiche sono
attualmente costituite dalle antenne radiotelevisive. Le antenne televisive, spesso poste
all’interno del tessuto urbano, hanno potenze tipicamente comprese tra 1.000W e 5.000
W , con punte fino a 15.000 W, e operano con frequenze simili a quelle della telefonia
mobile, di 600-800 MHz.
Data l’altissima potenza emessa è molto facile che in prossimità di un’antenna
televisiva si superino ampiamente i limiti di legge. Per una emittente di solo 2.000 W
occorre allontanarsi di ben 180 m sul piano ortogonale e di 50 m sul piano inclinato di
45° per scendere sotto la soglia di emissione prevista.
Le antenne radiofoniche sono sorgenti persino più potenti delle televisive; a causa di
una scarsa regolamentazione in passato, le trasmittenti radiofoniche si sono dotate di
antenne potentissime, fino a 15.000 W, per superare le concorrenze, quando
basterebbero potenze inferiori a 1000 W per assicurare una ottima ricezione su tutto il
territorio. Data la conformazione delle antenne radiofoniche, operanti a frequenza
Figura 95
comprese tra 88 MHz e 107 MHz, una buona parte
della radiazione viene emessa anche verso il
basso, infatti la soglia di legge per una emittente
da 5000 W è di 100 m sull’orizzontale e di 80 m
per 45°. Si stima che in aree dotate di antenne base
per telefonia mobile e prive di emittenti
radiotelevisive, circa l’80% dell’ intensità di
campo misurate dipenda non dagli impianti
telefonici ma bensì da emittenti radiotelevisive
lontane.
3.2 )METODI DI CONTROLLO E PROTEZIONE
Nell’ipotesi che l’esposizione a campi elettromagnetici di debole intensità possa essere
dannosa alla salute, è opportuno ricercare dei metodi efficaci per limitare tale
esposizione.
Poiché le componenti elettrica e magnetica di un campo hanno comportamenti
caratteristici differenti, come stiamo per vedere, possono essere adottati diversi metodi
di protezione.
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- Campo elettrico
Il campo elettrico viene facilmente assorbito e schermato da qualunque materiale
conduttore con modalità analoghe alla gabbia di Faraday: sotto l’azione del campo
elettrico esterno le cariche del conduttore, libere di muoversi, si separano (le cariche
positive e negative si dispongono su lati opposti), creando un campo contrario a quello
esterno, che sommandosi ad esso lo attenua, fino ad annullarlo se la gabbia è costituita
da un conduttore ideale.
L’armatura in acciaio di un edificio in cemento armato è una tipica gabbia di Faraday,
e scherma quasi completamente l’interno dai campi elettrici che investono l’edificio.
Anche il corpo umano, essendo un buon conduttore, scherma il campo elettrico negli
strati più superficiali dei tessuti. Negli studi medici il campo elettrico non viene
considerato un fattore di rischio proprio per la sua scarsa azione sui tessuti.
- Campo magnetico
Diverso è il comportamento del campo magnetico, che non è schermabile. Come già
visto trattando gli effetti non-termici e le sorgenti di campo (legge di Maxwell), un
campo magnetico variabile induce nei materiali conduttori una corrente elettrica,
proporzionale alla potenza trasportata. Nel caso di esposizione umana a campi
magnetici variabili, la corrente elettrica indotta percorre tutti i tessuti e non solo i più
superficiali. Questo più provocare danni biologici nelle diverse modalità già viste,
ovvero per effetto termico e forse anche attraverso effetti non-termici a lungo termine.
Non essendovi modo di schermare il campo magnetico, l’unico metodo di protezione
attuabile è la definizione di distanze di sicurezza, limitando l’accesso alle aree più
prossime alla sorgente di campo, dove la sua intensità è superiore alle soglie
considerate di rischio.
Ricordiamo che si possono considerare due diverse soglie di rischio: la prima, più
bassa, fissa il confine oltre il quale si suppone possano nascere dei rischi a lungo
termine, ovvero per esposizioni prolungate, per effetti non-termici; la seconda soglia
invece definisce il limite di intensità oltre il quale si possono riportare dei danni
biologici per effetti termici.
16
3.2.1) CONTROLLO DEL CAMPO PRODOTTO DA ELETTRODOTTI
Molti studi sono stati condotti sull’andamento dei campi di elettrodotti, storicamente
la prima sorgente analizzata in relazione all’esposizione di residenti nei pressi delle
linee elettriche.
Il metodo più diretto per attenuare l’intensità dei campi elettrico e magnetico e di
conseguenza garantire alle abitazioni più vicine il rispetto dei limiti di esposizione, è
quello di aumentare la distanza dalle sorgenti: aumentare la fascia di rispetto intorno
alla linea elettrica, oppure aumentare l’altezza da terra delle linee. Entrambe le
soluzioni però non sono ottimali, perché difficilmente si potranno spostare abitazioni
già esistenti e innalzare le linee, oltre che aumentare il già non indifferente impatto
ambientale, contribuirebbe molto poco
Figura 96
ad abbassare l’intensità di campo.
Una alternativa è costituita dall’impiego di elettrodotti interrati, che producono un
campo la cui intensità massima, a parità di tensione, al livello del suolo è maggiore di
quella degli elettrodotti aerei, ma decresce più rapidamente con la distanza (si scende
sotto la soglia di attenzione a circa 24 m
di distanza dall’asse della linea).
Le linee interrate prevedono una guaina
isolante che avvolge i conduttori e sono
realizzate secondo due disposizioni: a
trincea e a trifoglio. La disposizione a
trifoglio consente di ridurre ulteriormente l’intensità di campo, perché i
campi prodotti, interagendo tra loro, si
attenuano a vicenda. Le linee interrate
Figura 97
17
presentano però alcuni svantaggi, primo fra tutti il maggiore costo di installazione e di
manutenzione (da 3 a 6 volte rispetto a linee aeree). Una tecnologia più recente è quella
delle linee compatte nelle quali, grazie all’impiego di mensole isolanti, i conduttori
sono molto vicini tra loro e, come nei cavi interrati disposti a trifoglio, interagendo tra
loro attenuano il campo prodotto. Anche in questo caso però i costi sono molto elevati;
inoltre sono richiesti sostegni più ravvicinati tra loro, non sempre realizzabili. Infine è
possibile usare cavi aerei, simili ai cavi tripolari interrati disposti a trifoglio, ma
montati su pali di sostegno. Anche in questo caso l’avvicinamento dei conduttori
attenua notevolmente l’intensità del campo: una linea da 20 kV genera un campo a
terra di 0,2 T se in cavo aereo e di 4,5 T se in linea aerea tradizionale. Anche questa
tipologia è poco impiegata a causa dei maggiori costi di realizzazione.
3.2.2) NORMATIVA ITALIANA
Le prime norme che limitano l’esposizione a campi elettromagnetici sono state
concepite per gli elettrodotti, che furono le prime sorgenti approfonditamente
investigate e sicuramente le più diffuse.
Solo di recente si è posto il problema di specificare delle regola anche per altre
sorgenti, quali le antenne per telecomunicazioni, ovvero antenne trasmittenti
radiotelevisive e ripetitori per telefonia mobile.
In linea generale le norme riprendono i suggerimenti dati dagli enti scientifici che
hanno studiato il problema e hanno definito dei limiti di esposizione accettabili e
compatibili con la salute umana.
Normativa per gli elettrodotti
Prima del 1992 gli elettrodotti italiani dovevano rispettare le norme tecniche del CEI
(Centro Elettrotecnico Italiano), che specificavano le distanze minime dei conduttori
dal terreno e dagli edifici in funzione della tensione nominale di esercizio; queste
norme erano basate esclusivamente sulla necessità di evitare il rischio di scarica tra il
conduttore e il terreno.
Nel 1991 il Ministero dei Lavori Pubblici ha introdotto il concetto di tutela della salute
in relazione ai possibili effetti dei campi elettromagnetici generati dalle linee elettriche.
Questa esigenza di regolamentazione venne soddisfatta dal Decreto del Presidente del
Consiglio dei Ministri del 23 aprile 1992, che fissa i “limiti massimi di esposizione ai
campi elettrico e magnetico generati alla frequenza industriale nominale di 50 Hz negli
ambienti abitativi e nell’ambiente esterno“.
Le massime intensità di campo elettrico e di induzione magnetica consentite in aree
destinate all’uso continuativo da parte della popolazione sono fissate in 5 kV/m per il
campo elettrico e in 0,1 mT per l’induzione magnetica; in aree destinate ad uso
occasionale i valori si innalzano rispettivamente a 10 kV/m e 1 mT. Vengono anche
18
definite le distanze minime tra i conduttori delle linee elettriche e i fabbricati adibiti a
permanenza prolungata:
380 kV
28 m
220 kV
18 m
132 kV
10 m
La successiva norma tecnica (DPCM 28/09/95 e 2003) privilegia il contenimento
dell’intensità dei campi, mentre non impone il rispetto delle distanze di sicurezza.
Normativa per le telecomunicazioni
Con la crescente diffusione di telefoni cellulari e la conseguente installazione di
numerosissime antenne base per la telefonia mobile, l’attenzione si è focalizzata sulle
sorgenti di radiofrequenze, come antenne base per telefonia mobile e antenne
trasmittenti radiotelevisive.
Solo molto di recente (1998) sono stati fissati dei limiti di intensità per queste sorgenti
con un decreto del ministero dell’ambiente.
Decreto 381/98 del Ministero dell’Ambiente
Con il decreto 381/98 del Ministero dell’Ambiente il 10/09/1998 vengono fissati i
“tetti di radiofrequenze compatibili con la salute umana”. Il ministero ritiene
necessario definire delle misure cautelative, nonostante le incertezze sull’effettiva
dannosità dei campi elettromagnetici, almeno nei casi di esposizione per periodi di
tempo prolungati. Il decreto fissa i limiti di intensità dei campi elettrici e magnetici,
nonché la massima densità di potenza emessa, per sistemi di telecomunicazioni e
radiotelevisivi che operano con frequenze comprese tra 100 kHz e 300 GHz;
ricordiamo che le antenne base per telefonia mobile emettono frequenze di 900 e 1800
MHz (si trovano quindi nella 2° fascia).
Frequenza (MHz) Intensità di
Intensità di
Densità di potenza
campo elettrico campo magnetico (W/m2)
E (V/m)
B (A/m)
0,1 - 3
>3- 3.000
60
20
0,2
0,05
1
>3.000 – 300.000
40
0.1
4
I valori di intensità di campo e di potenza vanno intesi mediati su un’area di 2 m2 e un
tempo di 6 minuti. Questo limita l’incidenza di punti singolari e di brevi picchi di
intensità.
Negli edifici adibiti a permanenze prolungate (almeno 4 ore al giorno) i limiti sono più
restrittivi e sono indipendenti dalla frequenza:
19
Intensità di campo elettrico E Intensità di campo magnetico B Densità di potenza
6 V/m
0,016 A/m
La legge attuale 22/2/2001 e D.P.C.M. 8/8/2003 prevede:
20
0,1 W/m2
INQUINAMENTO ELETTROMAGNETICO
La parte più complessa delle analisi è riferita al posizionamento degli elettrodotti
rispetto agli abitati. Le distanze dei cavi devono essere sufficientemente ampie da far
sì che il campo magnetico che arriva agli edifici sia minore di 3 T (esposizioni
continue). La formula che permette di calcolare il campo magnetico ad una data
distanza dai cavi dipende da come sono costruiti i tralicci (dispensa parte IV, fig.85).
Per determinare le formule necessarie a calcolare il valore del campo in un punto P si
esegue l’analisi di un traliccio di tipologia A1 il cui schema è indicato in figura:
L’analisi viene svolta per il cavo 2 ma, ruotando gli indici nella formula finale, si
trovano anche i risultati analoghi per i cavi 1 e 3.
21
Il raggio r2 è dato dalla formula
𝑟2 = √(𝑥 − 𝑥2 )2 + (𝑦2 − 𝑦)2
Dalla figura si ha che:
cos(𝛼) =
∆𝑦
𝑦2 − 𝑦
=
𝑟2
√(𝑥 − 𝑥2 )2 + (𝑦2 − 𝑦)2
𝑠𝑒𝑛(𝛼) =
∆𝑥
𝑥 − 𝑥2
=
𝑟2
√(𝑥 − 𝑥2 )2 + (𝑦2 − 𝑦)2
E
Ricordando che per un filo percorso da una corrente si ha:
𝐵=
𝜇𝑜 𝐼
2𝜋𝑟2
Le componenti cartesiane di tale vettore sono:
𝐵𝑥 =
𝐵𝑦 =
𝜇𝑜 𝐼
𝜇𝑜 𝐼
𝑦2 − 𝑦
cos(𝛼) =
∙
2𝜋𝑟2
2𝜋√(𝑥 − 𝑥2 )2 + (𝑦2 − 𝑦)2 √(𝑥 − 𝑥2 )2 + (𝑦2 − 𝑦)2
𝜇𝑜 𝐼
𝑦2 − 𝑦
=
∙
2𝜋 (𝑥 − 𝑥2 )2 + (𝑦2 − 𝑦)2
𝜇𝑜 𝐼
𝜇𝑜 𝐼
𝑥 − 𝑥2
sen(α) =
∙
2𝜋𝑟2
2𝜋√(𝑥 − 𝑥2 )2 + (𝑦2 − 𝑦)2 √(𝑥 − 𝑥2 )2 + (𝑦2 − 𝑦)2
𝜇𝑜 𝐼
𝑥 − 𝑥2
=
∙
2𝜋 (𝑥 − 𝑥2 )2 + (𝑦2 − 𝑦)2
Ripetendo i passaggi per i cavi 1 e 3 si ottengono formule analoghe per le componenti
x e y che sommate danno le seguenti componenti totali dove è stata inserita la corrente
efficace (I/√2) per tener conto del fatto che si tratta di corrente alternata:
𝐵𝑥 =
𝜇𝑜
𝐼𝑖
𝑦𝑖 − 𝑦
∑
[
]
2𝜋
√2 (𝑦 − 𝑦𝑖 )2 + (𝑥 − 𝑥𝑖 )2
𝐵𝑦 =
𝜇𝑜
𝐼𝑖
𝑥 − 𝑥𝑖
∑
[
]
2𝜋
√2 (𝑦 − 𝑦𝑖 )2 + (𝑥 − 𝑥𝑖 )2
22
𝐵 = √𝐵𝑥2 + 𝐵𝑦2
Dove :
Ii – intensità massima della corrente che scorre nel cavo i-esimo (pari a metà dell’I di
targa se non si hanno dati più precisi, oppure alla mediana dei valori giornalieri forniti
dal gestore della rete).
Yi – altezza rispetto al punto di calcolo del cavo i-esimo
Xi – distanza orizzontale rispetto all’asse del traliccio del cavo i-esimo
X – distanza orizzontale tra il centro del traliccio e il punto P in cui si vuole calcolare
il campo B
Y – altezza rispetto al suolo del punto in cui si vuol calcolare il campo B.
23
MODULO N.4
4) PROGETTAZIONE IMPIANTO A PANNELLI SOLARI TERMICI
Dopo aver studiato le onde E.M. possiamo ora vedere un loro utilizzo pratico.
Abbiamo visto a suo tempo che gli impianti a pannelli solari termici possono essere di
due tipi: a circolazione naturale o a circolazione forzata. Dato che i primi richiedono
l’istallazione del serbatoio di accumulo sul tetto, con evidenti problemi estetici e
strutturali derivanti dal peso dell’acqua nel serbatoio, è prevalente l’utilizzo di impianti
a circolazione forzata che permettono di scegliere il luogo in cui posizionare il
serbatoio di accumulo. Per questo motivo ci limiteremo ad analizzare le modalità di
progettazione di massima degli impianti solari a circolazione forzata per la produzione
di ACS.
4.1) POTENZA TERMICA DA IRRAGGIAMENTO SOLARE
Il sole trasmette la sua energia tramite onde elettromagnetiche di varie frequenze; come
sappiamo l’intensità di un’onda (potenza su unità di superficie) dipende dalla distanza
dalla sorgente e dalla direzione di impatto dell’onda con la superficie in esame. Per la
nostra latitudine l’intensità delle onde elettromagnetiche che producono effetti termici
è definita COSTANTE SOLARE e vale:
𝐼𝐶𝑆 =
𝑊
𝐴
= 1353
𝑊
𝑚2
Questo valore rappresenta la quantità di energia media al secondo (potenza W) che
incide ortogonalmente su una superficie A di 1 m2 posta ai limiti superiori
dell’atmosfera. Questa intensità si riduce per effetto dell’assorbimento dell’aria (che
così si scalda) a mano a mano che ci si avvicina alla superficie terrestre e in
condizioni di cielo sereno diventa a livello del mare e in assenza di nuvole:
𝐼𝐶𝑆𝑜 = 1000
Figura 98 - Costante solare Icso in funzione del clima
24
𝑊
𝑚2
Come è evidenziato in fig. 98, il valore dell’intensità cala considerevolmente con la
copertura nuvolosa.
Dato che l’irraggiamento solare è soggetto a forti variazioni, si utilizza come parametro
standard per gli impianti solari l’energia incidente sulla superficie dei pannelli
nell’arco di un anno. Tale valore è, in Italia, compreso tra i 1100 e i 1800 kWh/am2 e
varia in base a:
- Latitudine del luogo – l’energia aumenta progressivamente da Nord a Sud
lungo la penisola (figura 99).
Figura 99 - Irraggiamento solare in Italia
1100kW/m2a
Figura 100 – Irraggiamento in funzione della posizione del pannello
- Posizionamento del pannello definito da (figura 100):
a) Tilt  = inclinazione del pannello rispetto al piano orizzontale;
b) Azimut a = angolo di orientamento rispetto al Sud.
Per ogni località esistono un orientamento (a=0 , Sud) e un’inclinazione (dipendente
dal luogo) che danno la massima radiazione solare disponibile.
Non tutta la radiazione solare che arriva al pannello viene convertita in energia
utilizzabile. Per tener conto di ciò si definiscono le seguenti grandezze:
25
- Rendimento medio annuale del campo collettori (pannelli): rapporto tra il
calore in uscita dai pannelli in un anno e l’energia solare che nello stesso tempo
ha investito la superficie dei collettori.
- Rendimento annuale del sistema: rapporto tra il calore utile trasferito
all’impianto ( al netto delle perdite nei pannelli e nei vari componenti
dell’impianto) e l’energia solare che investe il campo collettori nello stesso
periodo.
- Copertura del fabbisogno energetico totale: rapporto tra il calore utile solare
e il fabbisogno energetico dell’intero sistema.
- Efficienza (o rendimento) cap del collettore solare: rappresentata in funzione
della differenza tra la temperatura media (Tm ) nel pannello e la temperatura
dell’ambiente esterno (Tamb) (figura 4).
Figura 101 - Efficienza dei pannelli solari
All’aumentare di questo differenziale ( al diminuire cioè della temperatura ambiente o
all’aumentare della temperatura nel pannello) l’efficienza diminuisce. Vi sono tre
tipologie di pannelli in funzione della loro destinazione d’uso:
 Pannelli per piscina – hanno alti rendimenti per bassi T (piscina scoperta ad
uso estivo)
 Pannelli piani – hanno alti rendimenti nelle applicazioni per la produzione di
ACS e per l’integrazione al riscaldamento.
 Pannelli sottovuoto – hanno rendimenti molto alti per elevati T (applicazioni
di tipo industriale)
26
4.2) COMPONENTI DELL’IMPIANTO A PANNELLI PIANI
Analizziamo i principali componenti di un impianto a pannelli solari piani a
circolazione forzata evidenziando le modalità di dimensionamento.
Figura 102 - schema impianto e principali componenti
4.2.1) VASO DI ESPANSIONE
Figura 103 - esempi di vaso di espansione
- FUNZIONI
Compensare le oscillazioni di volume
del fluido termovettore del circuito
solare, dovute all’espansione termica e
all’eventuale evaporazione del liquido
contenuto nei collettori.
Evitare che si verifichi fuoriuscita di
fluido termovettore attraverso le valvole
27
di sicurezza, agendo come accumulo, dal quale il liquido, una volta
raffreddatosi, può ritornare nel circuito.
- DIMENSIONAMENTO
Nel dimensionamento del vaso va tenuto conto che il liquido contenuto nei collettori
solari può evaporare. Questo porta a considerare un volume utile pari al volume di
dilatazione del fluido aumentato del volume di evaporazione del campo collettori.
𝑉𝑢 = 1.1(𝑉𝑐 + 𝑒 ∙ 𝑉𝐹𝑙 )
[ 1]
Dove:
1.1 = coefficiente di sicurezza
VFl = contenuto di fluido nell’intero circuito, in litri
Vc= contenuto di fluido nei collettori, in litri
e = coefficiente di dilatazione del fluido (e = 0,07 per acqua+glicole, 0.045 acqua)
Si calcola ora il volume di progetto del vaso di espansione, in funzione delle pressioni
in esercizio:
𝑉 = 𝑉𝑢
(𝑝𝐹 + 1)
(𝑝𝐹 − 𝑝𝑖 )
[ 2]
Dove:
pF = pressione finale in bar (105Pa). Valore consigliato: pressione di apertura della
valvola di sicurezza (solitamente 6 bar) meno 0.5 bar
pi = pressione iniziale di riempimento
consigliato:pressione statica (2 bar) più 0.5 bar.
dell’impianto,
in
bar.
Valore
Data la difficoltà di previsione del volume di fluido nell’intero circuito (VFL) in fase di
dimensionamento si possono utilizzare i seguenti valori di volume del vaso di
espansione:
Sup. collettore pi= 1.5 bar pi= 2.5 bar
m2
5.0
12 L
18 L
7.5
18 L
25 L
10
25 L
35 L
15
35 L
50 L
28
4.2.2) GRUPPO IDRAULICO DI MANDATA E RITORNO
Figura 104 - Gruppo idraulico di mandata e ritorno
Scelta del tipo
Negli impianti solari chiusi vengono utilizzate le pompe centrifughe comunemente
reperibili in commercio. Se nell'installazione considerata la pompa è protetta in modo
affidabile dall’eccesso di temperatura non devono essere previsti particolari requisiti
di termoresistenza. Il funzionamento con miscele acqua-glicole di regola non crea
problemi, ma in caso di dubbi è consigliabile consultare il costruttore della pompa.
Il dimensionamento della pompa richiede calcoli specifici di idraulica che non
rientrano nelle vostre competenze e che vengono eseguiti, di solito, da chi progetta la
parte relativa alle tubazioni.
4.2.3) BOLLITORE PER LA PRODUZIONE DI ACQUA CALDA SANITARIA IN IMPIANTI SOLARI
• Il fluido termovettore del circuito solare scorre all’interno del serpentino inferiore del
bollitore cedendo il calore all’acqua sanitaria contenuta al suo interno. Si lavora col
solare sul serpentino inferiore perché è la parte più fredda del bollitore e permette un
miglior scambio termico.
• La caldaia integra il riscaldamento dell’acqua sanitaria sul serpentino superiore.
29
Figura 105 - Bollitore solare
I bollitori di capacità fino ai 1000 litri sono trattati internamente con doppia mano di
vetrificazione, resistente fino a 90°C - 95°C. Per i bollitori di taglia superiore tale
trattamento diventa difficoltoso e la vetrificazione viene sostituita con la teflonatura,
resistente però solo fino a 70°C: questo può portare a dei problemi nelle applicazioni
col solare.
Mediamente nelle nostre zone i bollitori hanno un volume di accumulo di circa 100 L
al m2 di pannello.
IL RAPPORTO TRA LA SUPERFICIE DEL SERPENTINO DEDICATO AL SOLARE E LA
SUPERFICIE CAPTANTE DEVE ESSERE PARI A 1:5
Lo scambio termico tra collettore solare e serpentino è caratterizzato da bassi
differenziali di temperatura (ΔT medio logaritmico), se confrontati col tradizionale
scambio caldaia-bollitore. È necessario quindi l’utilizzo di superfici che non scendano
sotto il valore consigliato al fine di riuscire a scaricare tutta la potenza dei pannelli.
30
4.2.4) CENTRALINA SOLARE
Fig.106 – Collegamenti centralina
FUNZIONI PRINCIPALI
1) ACCENSIONE E SPEGNIMENTO DEL CIRCOLATORE SOLARE (R1)
POMPA ON S1-S2 > T1 (impostabile) e S1 > T2 (impostabile)
POMPA OFF S1-S2 < T3 (impostabile) e S1 < T4 (impostabile)
2) TEMPERATURA MASSIMA BOLLITORE
POMPA OFF S2 > Tmax bollitore
POMPA ON S2 < Tmax bollitore (impostabile) - 5K
3) TEMPERATURA MASSIMA COLLETTORE
POMPA OFF S1 > Tmax collettore (impostabile)
POMPA ON S1 < Tmax collettore (impostabile) - 10 K
31
4.3) PANNELLI SOLARI
4.3.1) CARATTERISTICHE DEI PANNELLI SOLARI
 TEMPERATURA DI INATTIVITÀ
Se al collettore non viene sottratto calore (la pompa si arresta, il fluido termovettore
non circola più) il collettore si riscalda fino alla cosiddetta temperatura di inattività. In
questa condizione le dispersioni termiche sono pari alla potenza irradiata assorbita,
mentre la resa del collettore è pari a zero. In Italia i collettori solari piani comunemente
reperibili in commercio raggiungono d’estate temperature di inattività superiori a 200
°C, mentre i collettori solari a tubi sottovuoto ca. 300 °C.

POTENZA UTILE DEL COLLETTORE
Potenza massima
La potenza massima di un collettore è definita come prodotto del rendimento ottico η0
e della radiazione massima assorbita di 1000 W/m2. Se si presuppone un rendimento
ottico dell’80 %, la potenza massima di una superficie collettore di un metro quadrato
è pari a 0,8 kW.
Nel normale esercizio questo valore viene però raggiunto raramente, la potenza
massima è rilevante soltanto per il dimensionamento dei dispositivi di sicurezza.
Potenza di progetto
Per la progettazione di un impianto solare viene stabilita una potenza di progetto,
necessaria per la progettazione dell’installazione e, in particolare, per il
dimensionamento dello scambiatore di calore. Come limite inferiore le norme
prevedono una potenza specifica del collettore di 500 W/m2; per una progettazione
sicura si consiglia un valore leggermente superiore di 600 W/m2 per applicazioni con
basse temperature, quindi per modalità di funzionamento con rendimenti del collettore
buoni.
Potenza installata
Nella letteratura specializzata si trova un’ulteriore potenza che viene utilizzata solo
a scopi statistici per comparare i generatori di energia. Per la rilevazione di tutti gli
impianti di collettori installati in una regione oltre all’indicazione in m2 viene indicata
anche la potenza installata. Quest’ultima è pari a 700 W/m2 di superficie di
assorbimento (potenza media con irradiazione massima) e non è rilevante per la
progettazione dell'impianto.
32

RESA DEL COLLETTORE
Per la progettazione di un impianto solare è importante il dimensionamento dei
componenti del sistema e meno rilevante è la potenza dei collettori rispetto alla resa
attesa dall'impianto. La resa di un collettore è data dal prodotto della potenza media
(kW) per una corrispondente unità di tempo (h). Il valore calcolato in kWh è riferito a
un metro quadrato di superficie di collettore o di apertura e viene indicato in kWh/m2.
Questo valore è importante in riferimento alla giornata per poter dimensionare
l'accumulo solare in quanto rappresenta l’energia utile prodotta dall’impianto.
La resa specifica del collettore osservata nell’arco di un intero anno viene indicata in
kWh/(m2・a) ed è una grandezza di valutazione essenziale per il dimensionamento e
l’efficienza dell'impianto. Quanto più alto è il valore, tanto maggiore è l'energia che
l’impianto collettori porta nel sistema. Nell’andamento annuo rientrano anche le
condizioni di esercizio in cui il collettore potrebbe fornire ancora energia, ma
l'accumulo, ad esempio, è già completamente carico. In questo caso non si ha alcun
contributo. La resa del collettore è la grandezza di valutazione essenziale per
l’efficienza di un impianto solare. E’ particolarmente alta se la superficie del collettore
è orientata in modo ottimale per l’utilizzo principale e non presenta ombreggiamenti.
L’irradiazione ottimale non deve necessariamente corrispondere alla resa ottimale.
Negli impianti per l’integrazione del riscaldamento ad energia solare per la resa e il
comportamento d’esercizio è necessario ad esempio un angolo d'inclinazione
maggiore, poiché la resa ottimale è fondamentale per il periodo di mezza stagione e
per l’inverno. D’estate, quando viene supportata dall’energia solare solo la produzione
d'acqua calda sanitaria, l’angolo d’inclinazione “peggiore” comporta una minore
eccedenza, mentre nel periodo di mezza stagione l’angolo “migliore” aumenta la resa
utile. La fornitura dell'energia, osservata nell'arco di un intero anno, viene analizzata e
la resa dell'impianto è tanto più elevata quanto più l'esposizione si avvicina a quella
con il massimo dell'irradiazione.
4.4) QUOTA DI COPERTURA DELL’ENERGIA SOLARE
Per la progettazione di un impianto solare, oltre alla resa, la quota di copertura solare
è la seconda grandezza di valutazione essenziale. La quota di copertura solare indica
la percentuale di energia necessaria per l’utilizzo previsto che può essere coperta
dall'impianto solare. Questo modo di considerare la situazione, che pone la resa solare
in rapporto con la quantità di calore utilizzata, tiene in considerazione le perdite
dell'accumulo ed è diventato un dato di consuetudine per la quota di copertura
solare. Sussiste però anche la possibilità di mettere in relazione la resa solare con la
quantità di energia impiegata per l’integrazione del riscaldamento. La quota di
copertura solare calcolata in questo modo è quindi superiore. Se si paragonano i sistemi
solari si deve sempre prestare attenzione a quale tipo di calcolo sta alla base della quota
di copertura solare data. Quanto più elevata è la quota di copertura solare, tanto
maggiore è il risparmio di energia convenzionale. Perciò è comprensibile che gli
33
interessati spesso desiderino un impianto con la quota di copertura solare maggiore
possibile.
Una progettazione corretta di un impianto solare comporta sempre un buon
compromesso tra la resa e la copertura solare.
La regola è: quanto più alta è la copertura solare, tanto più bassa è la resa specifica per
metro quadrato di superficie del collettore, a causa delle inevitabili eccedenze estive e
del basso rendimento del collettore.
Nota bene: il rendimento diminuisce all’aumentare della differenza di temperatura tra
il collettore e la temperatura ambiente.
Normalmente un buon compromesso tra la resa e la copertura solare è anche un buon
compromesso tra i costi degli investimenti per l’impianto solare e il risparmio dei costi
per l’energia convenzionale.
In Italia è consuetudine dimensionare le case monofamiliari al 65 – 75 % di copertura
solare per la produzione d'acqua calda sanitaria, mentre nei condomini al 50% –
60%.Per il supporto per il riscaldamento ad energia solare è difficilissimo indicare
valori standard poiché qui la copertura solare è estremamente dipendente dalla qualità
energetica dell’edificio (isolamento, tenuta d'aria ecc.).
4.4.1) CARATTERISTICHE DEI COLLETTORI PIANI
La struttura del collettore solare piano è costituita, in generale, da
un telaio a profilo continuo in alluminio piegato senza tagli obliqui
né spigoli appuntiti. Insieme con la guarnizione di tenuta (in un
unico pezzo resistente alle intemperie e ai raggi UV) e con parete
107 - collettore
posteriore resistente agli urti, garantisce lunga durata ed elevata Figura
piano
efficienza.
I collettori solari piani si possono installare in modo semplice e sicuro sui tetti delle
case, come soluzione integrata o sopra il tetto.
Sempre più di frequente i collettori vengono installati anche sulla facciata. I collettori
solari piani sono più economici dei collettori solari a tubi e vengono impiegati negli
impianti per la produzione di acqua calda sanitaria, per il riscaldamento delle piscine
e come integrazione al riscaldamento.
I collettori solari piani standard presentano di regola una superficie lorda del collettore
(misure esterne) di ca. 2–2,5 m2.
4.4.2) DENOMINAZIONE DELLE SUPERFICI
Per i collettori vengono utilizzati tre diversi parametri come grandezze di riferimento
per i dati di potenza o di resa. In letteratura però non è sempre indicato correttamente
a quale superficie si sta facendo riferimento.
34
Superficie lorda del collettore
La superficie lorda si ricava dal prodotto di lunghezza x larghezza, misurate lungo le
dimensioni esterne del collettore. La superficie lorda dei collettori non è significativa
per la potenza dei pannelli né per la loro valutazione, ma è importante per la
progettazione del montaggio e delle superfici del tetto necessarie. Anche per la
richiesta di bandi pubblici la superficie lorda del collettore e spesso determinante.
Assorbitore
Il nucleo del collettore è costituito dall'assorbitore o piastra assorbente. Qui la
radiazione solare viene trasformata in calore.
Dalla lamiera rivestita dell'assorbitore attraverso le tubazioni brasate, pressate o
saldate, il calore viene ceduto al fluido termovettore.
L'assorbitore è costituito sostanzialmente da rame o alluminio. Il rivestimento
applicato è altamente selettivo, ovvero garantisce che la radiazione venga trasformata
il più interamente possibile in calore (assorbimento elevato, α = alfa) e la dispersione
termica dovuta all'irraggiamento dell'assorbitore molto caldo sia minima (emissione
ridotta, ε= epsilon).
 Assorbitore nei collettori solari piani
Nei collettori solari piani l'assorbitore può essere costituito da strisce di lamiera o da
una superficie unica. L'assorbitore della prima tipologia è costituito da strisce
assorbenti sotto le quali è stato saldato un tubo diritto.
Il circuito idraulico dell'assorbitore a strisce è necessariamente ad arpa.
Figura 108 Assorbitore ad arpa (tubi paralleli)
Figura 109 - assorbitore a meandro
35
Nell'assorbitore a superficie piena, il tubo può essere saldato, oltre che ad arpa, anche
a forma di meandro sull’intera superficie di assorbimento.
In condizioni di funzionamento usuali i collettori con assorbitore ad arpa hanno una
perdita di carico ridotta, ma nascondono il rischio di un flusso irregolare. Gli
assorbitori a forma di meandro garantiscono un prelievo sicuro del calore prodotto
poiché il fluido scorre esclusivamente attraverso un unico tubo.
Negli impianti di piccole dimensioni questa differenza non è rilevante in fase di
progettazione mentre per campi di collettori più grandi e più complessi si deve fare
attenzione a queste differenze.
Superficie di assorbimento
La superficie di assorbimento si riferisce esclusivamente all'assorbitore. Negli
assorbitori a strisce piane non vengono calcolate le sovrapposizioni delle singole
strisce poiché i settori nascosti non fanno parte della superficie attiva. Negli assorbitori
cilindrici conta invece l’intera superficie, anche se qui determinati settori della piastra
assorbente non sono mai sottoposti alla luce diretta del sole. Perciò negli assorbitori
cilindrici la superficie di assorbimento può essere maggiore della superficie lorda del
collettore .
Superficie di apertura
Per superficie di apertura si intende la proiezione della superficie attraverso cui può
filtrare la radiazione solare.
Nel collettore solare piano la superficie di apertura è il settore visibile della lastra di
vetro, quindi il settore all’interno del telaio del collettore attraverso cui la luce può
giungere all'assorbitore.
4.5) SCELTA DEL TIPO DI COLLETTORE
Per la scelta del tipo di collettore, oltre alla disponibilità di spazio e alle condizioni
d’installazione, è decisivo il fattore differenza di temperatura ΔT tra la temperatura
media del collettore e l’aria esterna.
La temperatura media del collettore viene calcolata dalla media della temperatura di
mandata e ritorno e influenza essenzialmente il rendimento del collettore, quindi la sua
potenza. Per la scelta del collettore è decisivo il carico specifico dell’impianto solare;
per effettuare questa valutazione si deve pertanto rilevare – per la maggior parte delle
applicazioni di regola per un anno - il probabile ambito di esercizio del collettore per
l’intero periodo di esercizio. Il risultato fornisce la differenza di temperatura attesa.
36
Fluido termovettore
Il fluido termovettore trasporta il calore dal collettore all'accumulo: nelle tubazioni
dell'assorbitore viene riscaldato il fluido termovettore, che a sua volta nell'accumulo
restituisce l'energia all'acqua del serbatoio tramite lo scambiatore di calore.
La base per il fluido termovettore è costituita dall’acqua che, salvo poche eccezioni in
applicazioni con temperature elevate, è particolarmente adatta grazie alla sua capacità
termica elevata.
Per evitare che il fluido termovettore geli, causando danni nel collettore o nelle
tubazioni esterne, all’acqua viene aggiunto un antigelo (solitamente glicole
propilenico), nell’Europa centrale in una concentrazione di circa il 40% del volume
nelle nostre zone si scende al 30%.
Il glicole propilenico 1,2 è un liquido difficilmente infiammabile, atossico e
biodegradabile. Non necessita di contrassegni in base ai criteri EU e non è soggetto a
particolari normative di trasporto. Il punto di ebollizione è di 188 °C, mentre la densità
è di 1,04 g/cm3.
4.5.1) RENDIMENTO DEL COLLETTORE
Il rendimento di un collettore indica la percentuale di radiazione solare incidente sulla
superficie di apertura del collettore che può essere trasformata in energia termica utile.
Come superficie di apertura viene definita la superficie di un collettore interessata dal
sole. Il rendimento dipende, tra l’altro, dalla condizione d'esercizio del collettore; la
modalità di misura è uguale per tutti i tipi di collettori.
Una parte della radiazione solare che colpisce il collettore va perduta per via della
riflessione e dell'assorbimento sulla lastra di vetro e della riflessione sull'assorbitore.
Dal rapporto tra l’irradiazione sul collettore e la potenza di irradiazione, che viene
trasformata in calore sull'assorbitore, si può calcolare il rendimento ottico, esso viene
definito con η0. Un collettore riscaldato dalla radiazione solare cede una parte del
calore all'ambiente per conduzione attraverso il materiale del collettore,per radiazione
termica e convezione (movimento dell’aria). Queste perdite possono essere calcolate
mediante i coefficienti di dispersione termica k1 e k2 e la differenza di temperatura ΔT
tra l'assorbitore e l’ambiente. La differenza di temperatura viene indicata in K (=
Kelvin). I valori standard di tali dati sono riportati nella seguente tabella:
Figura 110 - tabella rendimento ottico, k1 e k2
Il rendimento ottico e i coefficienti di dispersione termica vengono rilevati con un
procedimento descritto nella norma europea EN 12975 e rappresentano i parametri
37
essenziali di un collettore; devono essere indicati nei fogli di dati tecnici dal
costruttore.
Questi tre valori, insieme al valore dell’irraggiamento G sono sufficienti a raffigurare
il rendimento del collettore e della sua curva caratteristica.
Il rendimento ( efficienza) del collettore si calcola con la seguente formula:
𝜼 = 𝜼𝟎 −
𝒌𝟏 𝚫𝑻 𝒌𝟐 (𝚫𝑻)𝟐
−
𝑮
𝑮
[𝑨]
Dove
 – rendimento del collettore
0 – rendimento ottico
k1 , k2 – coefficiente di dispersione termica del pannello
T – differenza di temperatura in kelvin tra la temperatura media della piastra e
quella esterna.
G – irraggiamento in W/m2.
Figura 111 - Rendimento (efficienza) del pannello
ESEMPIO DATI COLLETTORE
Dati che vengono forniti dal costruttore del pannello:
Marca .
XXXXXXXX
Serie :
yyy
Modello:
VKF 150 V
Dimensioni (LxPxH):
1233 x 2033 x 80 [mm]
Peso a vuoto:
38 kg
Tip. Pannello.
COLLETTORE PIANO
Sup. Complessiva
2,51 m2
38
Sup. Apertura
Superficie Captante
Contenuto di liquido
Efficienza η0
Coeff. K1
Coeff. K2
2,35 m2
2,33 m2
1,85 L
84 %
3,7 w/m2K2
0,01 w/m2K2
4.6) DIMENSIONAMENTO DI UN IMPIANTO A PANNELLI SOLARI
PIANI
PREMESSA
Ci soffermeremo solamente su impianti per la produzione di ACS nelle abitazioni. E’
molto importante dimensionare correttamente la superficie captante necessaria, per
sfruttare al massimo l’energia solare senza incorrere in costi proibitivi.
Anzitutto, non è consigliabile pretendere di soddisfare il fabbisogno delle utenze
al 100% tutto l’anno: se volessimo raggiungere l’autosufficienza anche a dicembre,
negli altri mesi avremo un’energia esuberante, che resterebbe inutilizzata, ed un
impianto costoso e di difficile ammortamento. Conviene invece coprire con
l’impianto solare la gran parte del fabbisogno, lasciando ad una fonte integrativa il
compito di coprire le punte di carico nei mesi invernali o nelle giornate di cattivo
tempo.
Una buona regola pratica negli usi residenziali, se non si hanno dati più precisi sui
fabbisogni di acqua calda, prevede una superficie captante pari a 0,7 ÷ 1 mq per
persona per tutto l’anno (0,5 ÷ 0,7 mq per persona per solo uso estivo) ed una
capacità del bollitore di circa 50-100 litri per ogni mq di pannelli.
Possiamo dire, quindi che:
- per una famiglia di 4 persone avremo bisogno di una superficie captante di
circa 3÷4 mq ed un bollitore di 200-400 litri. In questo modo avremo,
indicativamente, una copertura dei fabbisogni del 70-80 % mentre il
sistema integrativo provvederà al resto.
Per l’integrazione, la preferenza va data alla caldaia a metano, già presente spesso
per il riscaldamento degli ambienti. In questi casi basterà, verificata la capacità di
adattamento della caldaia esistente all’integrazione con il sistema solare, collegare
l’attacco di uscita dell’acqua calda dell’impianto solare all’ingresso dell’acqua fredda
della caldaia così che l’energia solare produrrà un preriscaldamento dell’acqua che
ridurrà drasticamente i consumi della caldaia, mentre l’impianto garantirà in ogni
situazione climatica una produzione sufficiente al fabbisogno.
4.6.1) CALCOLO DEL FABBISOGNO ACS
Nel metodo di calcolo collegato alla certificazione energetica dei fabbricati abbiamo
visto la procedura per determinare la quantità di ACS necessaria giornalmente (V W)
per i fabbisogni standard. Tale valore è poi servito per calcolare il valore dell’energia
39
annua (Qw) che è utilizzato per la classificazione. Nell’ipotesi che l’edificio in esame
venga dotato di impianto termico solare per la produzione dell’acqua calda, il valore
VW può essere utilizzato così come lo abbiamo calcolato per la certificazione. Se però
si intende fare una stima più precisa che tenga conto degli effettivi utilizzatori si può
calcolare con il metodo indicato successivamente il volume di ACS giornaliero e, se il
risultato differisce in modo significativo da quello visto con il metodo precedente, si
deve sostituire il nuovo valore ricalcolando anche il Q W inserito nella certificazione.
Questo permetterà, poi, di sottrarre l’apporto energetico dell’impianto solare
all’energia totale richiesta abbassando così il totale di energia richiesta e quindi la
classe dell’immobile. Quello che costituisce un errore di procedura è l’utilizzo di QW
calcolato con il sistema previsto dalla certificazione (generalmente dà valori più bassi
dei reali per il Vw) e calcolare il guadagno energetico del solare su un volume d’acqua
ricavato con il secondo metodo il che porta a un valore di risparmio falsato rispetto al
valore precedente.
Come calcolare il fabbisogno di ACS.
Da analisi statistiche approfondite sono risultati i valori raccolti nelle seguenti tabelle
e riferiti ai vari aspetti che influenzano il valore totale del volume, V W , di ACS.
Tabella A – n: numero di persone che vivono nell’abitazione.( 𝑓𝐴 )
𝑓𝐵
40
𝑓𝐶
𝑓𝐷
𝑓𝐸
Il valore del volume d’acqua giornaliero necessario, V W, risulta dalla:
𝑽𝑾 = 𝒇𝑨 ∙ 𝒇𝑩 ∙ 𝒇𝑪 ∙ 𝒇𝑫 ∙ 𝒇𝑬
[3]
ESEMPIO N.34
Un appartamento ha una superficie utile di Su=A=86.8 m2, è composto da 4 vani e
abitato da 4 persone con un tenore di vita buono. L’appartamento è di categoria media.
Determinare il volume d’acqua giornaliero, mensile e annuale e i corrispondenti valori
41
di energia necessari per portare l’A.C.S. da 15°C (temperatura d’acquedotto) a 40°C
(temperatura d’uso).
Dati: Su=A=86.8 m2, fA= 4 persone; fB= 70 l/d persona; fC= 1; fD=1.0; fE=1.1;
Tu=40°C; To=15°C=1000 kg/m3;c=1.162 Wh/kgK.
a) Calcolo del volume giornaliero con il metodo visto per la certificazione energetica.
Il volume giornaliero è ( Su=A=86.8 m2):
𝑙
𝑉𝑊 = 4,514𝑆𝑢0.7644 = 4.514 ∗ 86.80.7644 = 136.8 = 0.137 𝑚3 /𝑑
𝑑
b) calcolo del volume giornaliero con il metodo dei coefficienti :
𝑙
𝑉𝑊 = 𝑓𝐴 ∙ 𝑓𝐵 ∙ 𝑓𝐶 ∙ 𝑓𝐷 ∙ 𝑓𝐸 = 4 ∗ 70 ∗ 1 ∗ 1 ∗ 1.1 = 308 = 0.308𝑚3 /𝑑
𝑑
Come si vede il valore ottenuto in questo modo è di molto superiore a quello previsto
con il metodo semplificato della certificazione, ne consegue che il fabbisogno
energetico giornaliero, mensile e annuale per l’ACS è notevolmente più alto di quello
inserito nelle certificazioni usuali. Infatti:
c) energia richiesta per il riscaldamento giornaliero con il dato a):
𝑄𝑊𝑑 = 𝜌𝑐𝑉𝑊 (𝑇𝑢 − 𝑇𝑜) = 1000 ∗ 1.162 ∗ 0.137 ∗ (40 − 15) = 3980 𝑊ℎ
= 3.980 𝑘𝑊ℎ = 14.3 𝑀𝐽
Il valore mensile risulta:
𝑄𝑊𝑚 = 𝜌𝑐𝑉𝑊 (𝑇𝑢 − 𝑇𝑜)31 = 1000 ∗ 1.162 ∗ 0.137 ∗ (40 − 15) ∗ 31
= 123375 𝑊ℎ = 123.4 𝑘𝑊ℎ = 444.2 𝑀𝐽
Quello annuale vale (dato per la certificazione):
𝑄𝑊 = 𝜌𝑐𝑉𝑊 (𝑇𝑢 − 𝑇𝑜)𝐺 = 1000 ∗ 1.162 ∗ 0.137 ∗ (40 − 15) ∗ 365
= 1452645 𝑊ℎ = 1453 𝑘𝑊ℎ = 5230 𝑀𝐽
d) con il valore ottenuto in b) per il giornaliero si ha:
𝑄𝑊𝑑 = 𝜌𝑐𝑉𝑊 (𝑇𝑢 − 𝑇𝑜) = 1000 ∗ 1.162 ∗ 0.308 ∗ (40 − 15) = 8948 𝑊ℎ
= 8.948 𝑘𝑊ℎ = 32.2 𝑀𝐽
Il valore mensile risulta:
𝑄𝑊𝑚 = 𝜌𝑐𝑉𝑊 (𝑇𝑢 − 𝑇𝑜)31 = 1000 ∗ 1.162 ∗ 0.308 ∗ (40 − 15) ∗ 31
= 277368 𝑊ℎ = 277.4 𝑘𝑊ℎ = 998.6 𝑀𝐽
Quello annuale vale (dato per la certificazione):
𝑄𝑊 = 𝜌𝑐𝑉𝑊 (𝑇𝑢 − 𝑇𝑜)𝐺 = 1000 ∗ 1.162 ∗ 0.308 ∗ (40 − 15) ∗ 365
= 3265800 𝑊ℎ = 3266 𝑘𝑊ℎ = 11758 𝑀𝐽
Confrontando i risultati in percentuale si ha:
42
metodo Metodo Differenza
certific. Coeff. percentuale
VW [l/g]
137
308
+ 125%
QWd [kWh]
3.98
8.98
+125%
QWm [kWh] 123.4
277.4
+125%
QW [kWh] 1453
3266
+125%
L’incremento è del 125%. Questo significa che nella certificazione si fa un calcolo
estremamente prudenziale (per difetto) del QW che però non può essere preso come
valore di progetto in quanto poi gli utilizzatori dell’impianto si troverebbero con un
quantitativo di acqua disponibile di molto minore delle loro aspettative. Si nota inoltre
che se l’impianto non è in grado di produrre almeno (3266-1453)= 1813 kWh di
energia termica, l’energia termica totale aumenterebbe nonostante l’apporto
dell’impianto solare aumentando così l’indice di prestazione energetica globale
anziché ridurlo.
N.B. Il metodo completo di calcolo per coefficienti è illustrato nell’esempio di
progettazione dell’impianto e viene costruito considerando le temperature minime
mensili tabulate per ogni località nelle norme UNI 10349 per la temperatura
dell’acqua iniziale.
ESEMPIO N.35
Vogliamo vedere di quanto si scosta al massimo, in più o in meno, rispetto al valore
calcolato per la certificazione il Vw in base ai parametri relativi alle caratteristiche
statistiche introdotte con le nuove tabelle.
Il valore di certificazione è V w=136.8 l/d
fa
min
max
fb
4
4
fc
40
200
fd
1
1
fe
1
1
Vw l/d var%
0.8
128 93.6
1.2
960 701.8
Come si vede il valore di certificazione è compatibile con una famiglia standard di
tenore di vita bassa e abitante in case popolari.
43
4.6.2) CALCOLO DELL’ENERGIA MEDIA GIORNALIERA MENSILE
Per individuare ad un certo istante dell'anno la posizione del Sole nel cielo in una
determinata località è necessario definire alcuni angoli caratteristici. Questi angoli,
come già in parte visto, sono:
- la latitudine L: è l'angolo che
la retta passante per la località
considerata ed il centro della
Terra forma con il piano
dell'equatore;
è
positiva
nell'emisfero settentrionale e
negativa in quello meridionale;
- l'altezza o altitudine solare
y: è l'angolo formato tra la Figura 112 - Distribuzione della radiazione solare
direzione dei raggi solari ed il
piano orizzontale (complementare dell'angolo zenitale z);
- l'azimut solare a: è l'angolo formato tra la proiezione sul piano orizzontale dei raggi
solari e la direzione sud (è positivo prima del mezzogiorno solare);
- l'angolo orario h: è la distanza angolare tra il Sole e la sua posizione a mezzogiorno
lungo la sua traiettoria apparente sulla volta celeste; è anche pari all'angolo di cui deve
ruotare la Terra affinché il Sole si porti sopra il meridiano locale. Tale angolo è positivo
nelle ore antimeridiane. Esso risulta pari al numero di ore di distanza dal mezzogiorno
moltiplicato per 15 (poiché la Terra ruota di 15 gradi all'ora alla velocità nominale di
360 gradi al giorno);
Figura 113- Principali angoli
L'angolo orario relativo all'alba ha o al tramonto ht può essere calcolato per mezzo
dell'equazione:
ha = arcos(-tgL × tg𝛿) [5]
Una volta definito ha, il suo valore viene usato per calcolare n, la lunghezza espressa
in ore del giorno in esame e cioè l’intervallo di tempo che separa l’alba dal tramonto:
2ℎ𝑎
𝑛=
[6]
15
44
I dati più interessanti ai fini del progetto di un impianto a pannelli solari sono quelli
dell'energia incidente; i contributi della radiazione istantanea sono però difficilmente
integrabili e fortemente variabili nel tempo: bisogna quindi ricorrere ai dati statistici,
numerosi e ben distribuiti sul territorio dei paesi industrializzati.
Ci si può trovare in situazioni per cui è utile calcolare ha in due modi, con la formula
[5] e con la formula seguente:
ha = arcos(-tg(L-) × tg𝛿) [7a]
Il valore che va utilizzato nel calcolo del fattore ℎ𝑎′ definito più avanti (pag.44) sarà il
minimo tra i due ottenuti con le formule [5] e [7a].
- la declinazione solare : è l'angolo che la direzione dei raggi solari forma a
mezzogiorno, sul meridiano considerato, con il piano equatoriale; risulta anche pari
all'angolo che i raggi solari formano a mezzogiorno con la direzione dello zenit
sull'equatore e coincide inoltre con la latitudine geografica alla quale in un determinato
giorno dell'anno il Sole a mezzogiorno sta sullo zenit (il che può accadere solo fra i
tropici).  è positiva quando il Sole sta al di sopra del piano equatoriale ed è negativa
quando il Sole è al di sotto di esso.
La declinazione solare può essere calcolata per mezzo della formula approssimata
di Cooper:
𝛿 = 23.45𝑠𝑒𝑛 [360 (
284 + 𝑛
)]
365
[4]
Dove n è l'ennesimo giorno dell'anno e 284 il numero corrispondente all'11 ottobre e
non al 23 settembre ((t) non è una sinusoide perfetta per l'ellitticità dell'orbita). I
dati della declinazione per ogni mese sono riportati nella seguente tabella:
Tabella 1 - declinazione mensile
45
4.6.3) CALCOLO DELL’IRRAGGIAMENTO
L’irraggiamento sul piano del pannello viene calcolato sulla base dei dati di
irraggiamento riportati nelle tabelle della norma UNI 10394 sotto forma di
̅ 𝒃𝒉 ” e “radiazione diffusa sul piano
“radiazione diretta su un piano orizzontale, 𝑯
̅ 𝒅𝒉 ” giornaliera media mese per mese.
orizzontale, 𝑯
La N° 99 è Vicenza
Per determinare l’effettivo valore della radiazione giornaliera incidente su un piano
inclinato vi sono varie teorie che hanno prodotto formule sperimentali, noi vedremo
solamente il metodo proposto da Liu-Jordan che permette di calcolare l’energia
giornaliera media mensile tramite dei fattori di inclinazione (che dipendono
dall’inclinazione del pannello e dalle caratteristiche di riflettività dell’ambiente
circostante) in MJ / m2 giorno. Tali risultati valgono solo per pannelli con azimut
46
(angolo rispetto al sud) a = 0. Per azimut diversi si hanno valori più bassi valutabili
tramite coefficienti riduttivi esposti nella tabella G (pag.46).
I fattori di inclinazione dipendono da:
- : angolo di inclinazione del pannello rispetto al piano orizzontale (Tilt)
- L: la latitudine del luogo di installazione
- :declinazione
- ha: angolo orario relativo all’alba
- 𝒉′𝒂 : valore minimo tra ha0 = arcos(-tgL × tg𝜹) e ha90 = arcos(-tg(L)× tg𝜹)
- : albedo o coefficiente di riflessione (del terreno o comunque dell'ambiente)
i cui valori più ricorrenti sono riportati nella seguente tabella:
Tab.H
superficie
neve (caduta di fresco con un film di ghiaccio)
superfici d'acqua (ad elevati angoli di incidenza)
strade sterrate
superfici di bitume e ghiaia
calcestruzzo
Pareti di edifici scure (mattoni a vista, pitture scure)
Pareti di edifici chiare
Foresta in inverno
Foresta in autunno
Erba verde
Erba secca
 albedo
0.75
0.07
0.04
0.13
0.22
0.27
0.60
0.07
0.26
0.26
0.20
Fattore di inclinazione Rbh (raggi diretti)
Si calcola con la formula:
𝐜𝐨𝐬(𝑳 − 𝜷) 𝒄𝒐𝒔(𝜹)𝒔𝒆𝒏(𝒉′𝒂 ) + 𝒉′𝒂 𝒔𝒆𝒏(𝑳 − 𝜷)𝒔𝒆𝒏(𝜹)
𝐑 𝐛𝐡 =
𝐜𝐨𝐬(𝑳) 𝐜𝐨𝐬(𝜹) 𝒔𝒆𝒏(𝒉𝒂 ) + 𝒉𝒂 𝒔𝒆𝒏(𝑳)𝒔𝒆𝒏(𝜹)
[𝟕]
N.B. Tutti i valori vanno inseriti in radianti compresi gli h a e ha’al di fuori delle
funzioni trigonometriche.
Fattore di diffusione Rdh
Si calcola con la formula:
𝐑 𝐝𝐡 =
𝟏 + 𝐜𝐨𝐬(𝜷)
𝟐
[𝟖]
Fattore di riflessione Rrif
Si calcola con la formula:
𝐑 𝐫𝐢𝐟 = 𝝆
𝟏 − 𝐜𝐨𝐬(𝜷)
𝟐
[𝟗]
L’energia giornaliera media mensile H incidente sul pannello vale
47
̅ 𝐛𝐡 + 𝐑 𝐝𝐡 ∙ 𝐇
̅ 𝐝𝐡 + 𝐑 𝐫𝐢𝐟 ∙ (𝐇
̅ 𝐛𝐡 + 𝐇
̅ 𝐝𝐡 )
𝐇 = 𝐑 𝐛𝐡 ∙ 𝐇
[𝟏𝟎]
La potenza della radiazione media giornaliera mensile risulta:
𝑯
𝑮=
[𝟏𝟏]
𝒏
Dove n è il numero di ore di luce al giorno (vedi tabelle UNI10394) .
Il rendimento dei pannelli risulta:
𝒌𝟏 𝚫𝑻 𝒌𝟐 (𝚫𝑻)𝟐
𝜼 = 𝜼𝟎 −
−
[𝟏𝟐]
𝑮
𝑮
Dove
 – rendimento del collettore
0 – rendimento ottico
k1 , k2 – coefficiente di dispersione termica del pannello
T – differenza di temperatura in kelvin tra la temperatura media della piastra e
quella esterna
G – irraggiamento in W/m2.
4.6.4) CALCOLO DELLA SUPERFICIE DEI PANNELLI
Per ottenere un valore di predimensionamento per l’area totale dei pannelli solari
necessari noto il valore della quantità giornaliera media di acqua calda, in litri/giorno,
si può utilizzare la seguente tabella:
V1p
Per calcolare la superficie dei pannelli di progetto basta dividere il fabbisogno totale
giornaliero di acqua calda, VW, per la quantità prodotta da un metro quadrato di
pannello, dopo aver scelto l’efficienza, per ottenere la superficie necessaria si usa:
𝑨𝒑𝒕𝒐𝒕 =
𝑽𝑾
𝑽𝟏𝒑
[13]
Da un punto di vista del posizionamento del pannello teoricamente si ha:
UTILIZZO ANNUALE: i risultati migliori si ottengono con valori di circa 30°di
inclinazione rispetto al piano orizzontale.
48
UTILIZZO ESTIVO: conviene ridurre l’inclinazione a circa 20°.NOZIONI
UTILIZZO INVERNALE: meglio un’inclinazione di 60° circa sul piano orizzontale.
Inoltre:
• Per valori di inclinazione fino a 55°, l'irraggiamento massimo si ottiene con superfici
orientate a sud (azimut = 0°).
• Per superfici orientate da SE a SO (azimut compreso tra -45° a +45°) come la gran
parte di quelle interessate alle applicazioni solari, l'irraggiamento massimo si ottiene
con una inclinazione dei pannelli di 30°;
• Perdita di efficienza per orientamento non ottimale: si valuta che per azimut
compresi tra +/-50° sud le perdite sono inferiori al 4%.
L’utilizzo dei valori ottimali si scontra con la realtà in quanto la maggior parte degli
impianti che si costruiscono nelle nostre zone hanno i pannelli collocati sui tetti che,
per motivi architettonici, hanno le falde inclinate con angoli compresi tra i 15° e i 25°
e quindi che non permettono l’istallazione con angolo utile di 30°. D’altra parte è
assolutamente da evitare la disposizione di pannelli inclinati rispetto alla falda in modo
da raggiungere i 30° sia per motivi costruttivi che di sicurezza (effetto vela, peso della
neve…) Per tenerne conto si può utilizzare la seguente tabella di coefficienti di
correzione del rendimento del collettore:
Tabella G - Correzione per l'azimut a diverso da zero
Da una sua analisi si osserva che, per angoli compresi tra 15° e 30° di tilt (), non si
hanno grandi riduzioni di efficienza; quello che si nota invece è che tale valore diventa
tanto più rilevante, a parità di tilt, con lo spostamento rispetto al sud dell’orientamento
del pannello ( angolo a) e che non ha alcun senso esporre i pannelli orientati a nord.
Infine si può progettare l’impianto in modo che la copertura di ACS richiesta durante
l’anno sia completa oppure si sceglie di coprirne solo una parte (60%-70%) integrando
quella mancante con la caldaia dell’impianto termico. Il secondo modo è quello di
solito utilizzato in quanto per coprire i mesi invernali in modo completo sarebbe
necessario installare aree molto grandi di pannelli il cui costo risulterebbe tale da
rendere antieconomico l’impianto stesso.
49
ESEMPIO N.36
Nell’esempio n.1 abbiamo calcolato il volume di ACS richiesto per un appartamento
abitato da quattro persone ottenendo VW = 308 L/d. Vogliamo determinare la superficie
captante dei pannelli necessari per questo appartamento. Si ipotizza di utilizzare
pannelli con media efficienza.
Come di vede dalla tabella F i valori medi di acqua prodotti da un metro quadrato di
pannello (V1p) variano da un minimo di 39 L/g in dicembre ad un massimo di 110 in
luglio. Se si vuole avere il 100% di copertura si deve installare un’area di:
𝑉𝑊 308
𝐴𝑝𝑡𝑜𝑡 =
=
= 7.9 𝑚2
𝑉1𝑝
39
di pannelli, mentre se ci si limita ad una percentuale più bassa si può dimensionare con
𝑉
308
il valore di luglio quindi:
𝐴𝑝𝑡𝑜𝑡 = 𝑉𝑊 = 110 = 2.8 𝑚2
1𝑝
In conclusione si potrà scegliere una superficie compresa tra 3 m2 e 8 m2 , cosa che
però sarà decisa in base agli effettivi valori di irraggiamento nel modo che ora
vedremo.
Dimensionamento dei pannelli
Si raccolgono, per ogni mese, i valori di energia media giornaliera richiesta per
l’ACS (Qwd) , i valori di energia giornaliera media mensile (H) raccolta dai pannelli
per m2 e i valori di rendimento mensile  dei pannelli, calcolando l’area minima
richiesta per ogni mese:
𝑄𝑤𝑑
𝐴𝑝 =
[14]
𝜂𝐻
I dodici valori di Ap trovati avranno valori massimi per i mesi invernali e minimi per
quelli estivi. A questo punto si deve decidere quale percentuale di copertura si intende
avere da parte dell’impianto solare riferendosi al calcolo di massima precedentemente
svolto e scegliere un dato numero Np di pannelli il cui costruttore fornirà il valore
dell’area captante Acapt. Il valore di progetto risulterà quindi:
𝐴𝑇𝑜𝑡 = 𝑁𝑝 𝐴𝑐𝑎𝑝𝑡
[15]
L’energia giornaliera media mensile fornita dall’impianto risulta:
𝑄𝑤𝑠 = 𝜂𝐻𝐴𝑇𝑜𝑡
[16]
Calcolata per ogni mese. La differenza:
Δ𝑄 = 𝑄𝑊𝑑 − 𝑄𝑊𝑠 [17]
Indica il difetto (se negativa) o l’eccesso di energia solare rispetto a quella richiesta
per ogni mese. Il deficit di energia mensile si ottiene sommando tutti i DQ negativi
moltiplicati per il numero di giorni del mese che rappresenta:
𝑄𝑟𝑚 = 𝑁𝑔 Δ𝑄− [18]
50
Il deficit di energia totale annuale vale:
𝑄𝑟𝑒𝑠/𝑎 = ∑ 𝑄𝑟𝑚 [19]
La copertura del fabbisogno energetico fornita dall’impianto, in percentuale,
𝑄𝑟𝑒𝑠/𝑎
risulta:
𝐶% = (1 −
)100
[20]
𝑄𝑊
Se la percentuale non soddisfa le richieste si riparte dalla [15] modificando il numero
di pannelli fino ad ottenere la percentuale di copertura che si vuole. Trovato il valore
di Np che produce l’energia richiesta si controlla che generi anche il numero di L/g
minimo fissato. Quando ambedue le condizioni sono soddisfatte si conclude il
progetto. Riassumendo si esegue la seguente procedura:
Scelgo Np e
ApTot
Calcolo con
la [16]:
QWs
Calcolo
Q
[17]
Qrm
[18]
Qra
[19]
C% [20]
No
Controllo se
Vw<Vwp
C%
Accettabil
ee?
Si
Si
Fine
51
No
Tutto ciò è conveniente svolgerlo tramite fogli di calcolo come nel seguente esempio.
ESEMPIO N. 37
Progettare un impianto fotovoltaico per un’abitazione con le seguenti caratteristiche:
Un villino a Vicenza ha una superficie di Su=A=100 m2, è composto da 4 vani ed
abitato da 4 persone con un tenore di vita normale. Il villino è di categoria media.
Risoluzione.
La spiegazione dei valori rappresentati nelle tre tabelle successive si desumono dalle
relative legende.
LEGENDA TABELLA FABBISOGNO DI ACS
A) Nelle celle verdi sono inseriti i coefficienti che identificano le caratteristiche
dell’utenza che si trovano nelle tabelle da A ad E. Il valore Vw è calcolato con la :
𝑉𝑊 = 𝑓𝐴 ∙ 𝑓𝐵 ∙ 𝑓𝐶 ∙ 𝑓𝐷 ∙ 𝑓𝐸
[3]
A questo punto viene effettuato un calcolo medio mensile.
1) In questa riga si inserisce il valore di Vw precedentemente calcolato per ogni mese
dell’anno.
2) N è il numero di giorni per ogni mese.
3) Te è la temperatura esterna per Vicenza dedotta dalle tabelle UNI 10394 (vedi
formulario)
4) in questa riga viene calcolato il fabbisogno di energia giornaliera media mensile per
il riscaldamento dell’ACS con la:
𝑄𝑊𝑚 = 𝜌𝑐𝑉𝑊 (𝑇𝑓 − 𝑇𝑒 )𝑁
In questo calcolo se la temperatura esterna è minore di quella minima dell’acquedotto
(valore che si trova in letteratura per ogni acquedotto) si usa quest’ultima al posto di
Te. Nel nostro esempio Tmin = 10°C > Te per i mesi di gen, feb, mar, nov, dic.
5) Si calcola il valore dell’energia media mensile richiesta dall’ACS
Nell’ultima riga è indicato il valore <Q wd> che rappresenta la media delle medie
mensili e soprattutto Qw che è il totale annuo di energia richiesta per il riscaldamento
dell’ACS ed è il valore che si deve indicare in questo caso nella certificazione del
fabbricato.
(Le altre LEGENDE esplicative sono riportate dopo le tabelle di pag. 51 e 52)
52
53
54
CALCOLO NUMERO DI COLLETTORI
[1] [2]
[3] [4] [5]
[6]
Np=
n giorni
gen
feb
mar
apr
mag
giu
lug
ago
set
ott
nov
dic
Qw=
31
28
31
30
31
30
31
31
30
31
30
31
2 adottati
[7]
[8]
Acapt=
[9]
2.33 m^2
Qwd
Atot
Qws
richiesta
H
Q
Residuo
 Ap richiesta adottata fornita
kWh/d kWh/dm^2
m^2
m^2
kWh/d kWh/d kWh/mes
12.65
1.89 0.01
669.312
4.660 0.0881 -12.56
-389.4
12.65
2.75 0.217
21.198
4.660 2.7809
-9.87
-276.3
12.65
3.93 0.399
8.067
4.660 7.3072
-5.34
-165.6
11.6
4.6 0.467
5.400
4.660 10.0106
-1.59
-47.7
10.12
5.48 0.541
3.414
4.660 13.8154
3.70
0.0
8.57
5.88 0.595
2.450
4.660 16.3035
7.73
0.0
7.74
6.15 0.634
1.985
4.660 18.1698
10.43
0.0
7.95
5.75 0.632
2.188
4.660 16.9344
8.98
0.0
9.18
4.75 0.58
3.332
4.660 12.8383
3.66
0.0
11.24
3.37 0.446
7.478
4.660 7.0041
-4.24
-131.3
12.65
2.19 0.212
27.246
4.660 2.1635 -10.49
-314.6
12.65
1.95 0.105
61.783
4.660 0.9541 -11.70
-362.6
Qres/a= -1687.54
3939.38 kWh/a
Copertura=
57.2 %
LEGENDA TABELLA IRRAGGIAMENTO sull’impianto solare termico.
A) indicazioni geografiche e di posizione relative alla localizzazione dei pannelli
B) caratteristiche tecniche dei pannelli adottati
Anche in questo caso si esegue un calcolo mensile dell’insolazione ricevuta dai
pannelli:
1) declinazione d ricavata dalla tabella 1 e trasformazione dell’angolo in radianti.
2) angolo orario calcolato con le:
ha = arcos(-tgL × tg𝛿) [5]
ha = arcos(-tg(L-) × tg𝛿) [7a]
𝐡′𝐚 =(min tra i valori di [5] e[7a])
Il valore va trasformato in radianti.
3) valori di insolazione media giornaliera sul piano orizzontale ricavati dalle tabelle
UNI 10394 per Vicenza.
4) fattori di inclinazione sono calcolati per ogni mese con le:
- Fattore di inclinazione Rbh
cos(𝐿 − 𝛽)cos(𝛿) 𝑠𝑒𝑛(ℎ𝑎′ ) + ℎ𝑎′ 𝑠𝑒𝑛(𝐿 − 𝛽)𝑠𝑒𝑛(𝛿)
R bh =
cos(𝐿) cos(𝛿 ) 𝑠𝑒𝑛(ℎ𝑎 ) + ℎ𝑎 𝑠𝑒𝑛(𝐿)𝑠𝑒𝑛(𝛿)
- Fattore di diffusione Rdh
55
[7]
1 + cos(𝛽)
[8]
2
- Fattore di riflessione Rrif (  coef. di albedo, Tab. H)
1 − cos(𝛽)
R rif = 𝜌
[9]
2
5) energia giornaliera media mensile H incidente sul pannello che vale
R dh =
̅ bh + R dh ∙ H
̅ dh + R rif ∙ (H
̅ bh + H
̅ dh )
H = R bh ∙ H
[10]
6) numero di ore giornaliere di illuminazione dei pannelli si ottiene dalla:
2ℎ𝑎
𝑛=
[6]
15
7) radiazione media giornaliera su un m2 di pannello si ottiene :
𝐻
𝐺=
𝑛
8) Te è la temperatura esterna per Vicenza dedotta dalle tabelle UNI 10394 (vedi
formulario) N.B. si usa questa temperatura per il calcolo del rendimento.
9) rendimento mensile del pannello (efficienza) vale:
𝑘1 Δ𝑇 𝑘2 (Δ𝑇)2
𝜂 = 𝜂0 −
−
[12]
𝐺
𝐺
10),11) e 12) valori medi mensili delle grandezze sopra riportate.
LEGENDA CALCOLO NUMERO DI COLLETTORI
Anche in questo caso si procede per mese dopo aver inserito il numero ottenuto dal
predimensionamento di pannelli e l’area captante del prodotto che si intende
installare.
1) n numero di giorni del mese
2) si inseriscono in questa colonna i valori ottenuti nella riga 4) della tabella ACS
3) si inseriscono in questa colonna i valori ottenuti nella colonna 5) della tabella
precedente
4) si inseriscono i dati della colonna 9) della tabella precedente
5) viene calcolata l’area di pannello minima necessaria per soddisfare tutto il
fabbisogno giornaliero medio mensile con la:
𝑄𝑤𝑑
𝐴𝑝 =
[14]
𝜂𝐻
6) si DECIDE quale valore di area dei collettori utilizzare e la si inserisce PER TUTTI
I MESI in questa colona
7) Calcolo del valore effettivo di energia prodotta giornalmente dai pannelli con la:
𝑄𝑤𝑠 = 𝜂𝐻𝐴𝑇𝑜𝑡 [16]
8) Calcolata per ogni mese. La differenza:
Δ𝑄 = 𝑄𝑊𝑑 − 𝑄𝑊𝑠 [17]
56
9) Calcolo del deficit di energia mensile che si ottiene sommando tutti i Q negativi
moltiplicati per il numero di giorni del mese:
𝑄𝑟𝑚 = 𝑁𝑔 Δ𝑄− [18]
Il deficit di energia totale annuale vale:
𝑄𝑟𝑒𝑠/𝑎 = ∑ 𝑄𝑟𝑚 [19]
La copertura del fabbisogno energetico fornita dell’impianto, in percentuale,
risulta:
𝑄𝑟𝑒𝑠/𝑎
𝐶% = (1 − 𝑄 )100 =57%
[20]
𝑊
che è soddisfacente; si controlla, infine, di avere una produzione di ACS sufficiente .
20
18
16
14
12
10
Qwd
8
Qws
6
4
2
0
gen feb mar apr mag giu lug ago set ott nov dic
Confronto tra energia giornaliera richiesta e fornita
Come si vede nell’istogramma precedente i mesi per cui i pannelli devono
autonomamente fornire la quantità di 310.8 L/d vanno da maggio a settembre. Per
questi mesi il valore della quantità minima di ACS prodotta per m2 di pannello medio
risulta di 91 L/m2d (settembre, tab.F). Pertanto l’area adottata Atot= 4.66 m2 produce
giornalmente un volume :
𝐿
𝑉𝑊𝑝 = 91 ∙ 4.66 = 424 > 𝑉𝑤
𝑑
Quindi il progetto è accettabile.
Si procede infine con l’individuazione dei restanti elementi: Accumulatore, vaso di
espansione, gruppo idraulico di mandata, tubature e valvole di sicurezza, secondo lo
schema di figura 5.
ACCUMULATORE
Si adotta un bollitore a doppio serpentino per la produzione di ACS da collegare alla
caldaia per il riscaldamento. Il volume di accumulo deve essere di 400 L.
57
VASO DI ESPANSIONE
Si installerà un vaso di espansione da 15 L.
GRUPPO IDRAULICO DI MANDATA E RITORNO
Sarà del tipo indicato al punto 2.2 con valvola di sicurezza da 6 bar.
CENTRALINA SOLARE
Con regolazione delle temperature come indicato al punto 2.4.
TUBATURE
Lo schema delle tubature e le loro dimensioni sono parte del progetto idraulico
esecutivo.
58
MODULO N.5
5) ELEMENTI DI MECCANICA QUANTISTICA
La fisica studiata fino ad oggi1 è stata sviluppata prima dell’inizio del 1900 e
viene definita “fisica classica”. L’insieme di modelli che abbiamo studiato
sembrerebbe in grado di descrivere in modo completo e
preciso tutti i fenomeni esistenti in natura. Nella realtà, a
partire dai primi anni del XX secolo, è emersa una serie di
problemi che hanno rimesso in discussione tutto
l’impianto logico della fisica; questo ha portato ad una
serie di nuove teorie che prendono nel loro insieme il
nome di MECCANICA QUANTISTICA. Studiando il capitolo
Figura 105
delle onde abbiamo verificato che la luce2 è descrivibile
come un’onda e di conseguenza ne ha tutte le proprietà,
compresa quella di trasmettere energia in modo
continuo in tutto lo spazio che occupa. Abbiamo visto
come le radiazioni che vengono assorbite od emesse da
un oggetto dipendano dalla natura degli atomi che lo
compongono. In generale, parlando di spettroscopia si
è detto che i corpi possono emettere solo le radiazioni
luminose che assorbono. Nell’esperienza in cui avete
determinato la natura di un elemento con la tecnica
Figura 106
spettroscopica, si è visto che un gas emette luce se
stimolato dal passaggio di una corrente che lo porta ad alte temperature. Lo stesso
succede ai solidi, basta osservare il filamento di una comune lampadina quando è
attraversato dalla corrente. Un caso particolarmente importante per la comprensione
del fenomeno di emissione delle radiazioni ad alte temperature è quello che
corrisponde allo studio dell’emissione di un corpo nero.
5.1) RADIAZIONE DEL CORPO NERO.
Un corpo nero è un sistema ideale che assorbe tutta la radiazione che incide su
di esso; può essere approssimato da una cavità con una piccolissima apertura come
illustrato in fig.105.
Sperimentalmente sono stati misurati gli spettri di emissione di corpi di questo
tipo a varie temperature ottenendo i grafici indicati in fig.106 chiamati “curve di
1
2
Compreso la Termodinamica che vedremo più avanti.
Con il termine luce s’intende, da questo momento, qualsiasi radiazione elettromagnetica sia visibile che invisibile.
59
distribuzione spettrale” in cui in ascissa sono indicate le lunghezze d’onda mentre in
ordinata la radianza spettrale P, che è la potenza di emissione riferita all’unità di area
e all’unità di lunghezza d’onda. Essa è funzione sia della lunghezza d’onda che della
temperatura ed è chiamata anche funzione di distribuzione spettrale.
La funzione di distribuzione spettrale P(,T) può essere ricavata direttamente mediante
la termodinamica classica e il suo risultato messo a confronto con le curve sperimentali
indicate in fig.106 per verificarne l’attendibilità.
Il risultato di questo calcolo è noto come legge di Rayleigh-Jeans e vale:
P ( , T ) 
2ckT
[1]
4
dove k è la costante di Boltzmann determinata in termodinamica.
Questa formula dà valori perfettamente in accordo con i risultati sperimentali nelle
regioni delle grandi lunghezze d’onda (infrarosso) ma completamente errati per le
piccole lunghezze d’onda.
Quando  tende a zero la radianza sperimentale tende anch’essa a zero, mentre i
risultati della [1] prevedono che tenda all’infinito. Perciò, secondo il calcolo basato
sulla fisica classica, un corpo nero dovrebbe emettere una grande intensità
nell’ultravioletto cosa che sperimentalmente non si verifica e per questo, alla fine
dell’800 quando emerse questo problema, si parlò di “catastrofe ultravioletta”.
Infatti se i risultati di una teoria non corrispondono alle evidenze sperimentali
se ne deduce che la teoria, almeno per quel che riguarda quella zona di valori, è errata:
questo ha messo in crisi tutta la fisica classica che ha portato ai risultati appena
discussi.
Nel 1900 Max Planck annunciò che, effettuando una “strana” modifica nel calcolo
classico, era in grado di determinare una funzione per la radianza spettrale che era in
accordo con i dati sperimentali per tutte le lunghezze d’onda.
Egli determinò una funzione empirica facendo l’ipotesi che l’energia non fosse
emessa od assorbita continuamente dal corpo nero, ma che lo fosse in quantità discrete,
o quanti di energia.
Il valore di un quanto di energia doveva essere proporzionale alla frequenza
della radiazione:
E  h 
[2]
60
dove h è una costante di proporzionalità, chiamata quanto di azione o, più
comunemente, costante di Planck. Il valore di h risultò:
h  6,626  1034 Js  4,136  1015 eVs
Nella figura n. 107 la formula di
Planck è rappresentata in linea
continua, i circoli rappresentano i
valori sperimentali mentre la curva che
si ottiene con la formula di RayleighJeans appare in tratteggio. Come si
vede l’equazione ottenuta con
l’inserimento artificioso della costante
di Planck descrive perfettamente i
risultati sperimentali.
[3]
Figura 107
L’idea che l’energia radiante di un'onda elettromagnetica fosse prodotta o
assorbita per quantità discontinue contrasta con il concetto stesso di onda nel quale per
definizione l’energia viene trasportata in modo continuo. Planck considerò solo un
artificio matematico la sua costante e non le dette mai un significato fisico concreto;
passò il resto della sua vita a cercare di determinare il valore di h a partire dai concetti
della fisica classica e non accettò mai l’ipotesi di Einstein, che definiva un tipo con
delle idee stravaganti, il quale partendo dal quanto di azione di Planck introdusse il
concetto di fotone e di natura anche corpuscolare della luce.
5.2) L’EFFETTO FOTOELETTRICO – I FOTONI.
Sempre nello stesso periodo emerse un altro fenomeno che presentava degli
aspetti non spiegabili in termini di fisica classica: se della luce colpisce una superficie
metallica, in alcune situazioni, vengono emessi degli elettroni. In figura n. 108 è
rappresentato un dispositivo sperimentale adatto a produrre questo fenomeno. La luce,
che penetra dalla finestra trasparente di quarzo, colpisce la placca E. Le armature, E e
C, costituiscono un condensatore collegato alle batterie indicate nella parte inferiore
della figura; esse producono tra le armature una differenza di potenziale variabile
tramite il contatto mobile del potenziometro.
61
Fig.108
Nella campana c’è il vuoto quindi tra le placche del condensatore non dovrebbe passare
nessuna corrente. Invece si osserva che, se la luce è di
Fig.110
un’opportuna
frequenza,
l’amperometro
misura
un’intensità di corrente, il che significa che s’instaura un
passaggio di elettroni uscenti dall’armatura E ed assorbiti
dall’armatura C. Se si fa in modo di portare la placca C ad
un potenziale positivo di qualsiasi valore si vede che, per
una data frequenza della luce, si ottiene un valore fisso di intensità di corrente come
indicato in fig.110. Viceversa, se si inverte la polarità del condensatore, gli elettroni
che escono da E con una data energia cinetica vengono frenati dal campo del
condensatore e, per un certo valore,-Vo, si otterrà la cessazione del passaggio di
corrente. Si ha quindi:
L  Ec  eV ; dove V  (-V0 )  0 ed Ec i  0;
1
2
mevmax
 eV0
2
Fig.111
[4]
Il potenziale -Vo è chiamato potenziale di
arresto ed è una costante del materiale per
una data frequenza della luce incidente.
Questo fenomeno è chiamato fenomeno
fotoelettrico e gli elettroni che vengono
estratti in questo modo dal metallo sono
definiti fotoelettroni.
62
La cosa importante da notare è che -V0, e quindi la velocità massima con cui escono
gli elettroni, non dipende dall’intensità della luce incidente. Ciò è illustrato dalla
fig.110 in cui nella curva a è rappresentata l’intensità della corrente che si ottiene per
un valore basso di intensità della luce, cambiando l’intensità della luce si ottiene
un’intensità di corrente maggiore (curva b) quando il potenziale di C è positivo ma il
valore del potenziale di arresto rimane nei due casi lo stesso. In figura n.111 è indicato
il grafico del potenziale empirico Vo in funzione della frequenza  della luce incidente
sull’emettitore E. Si vede per estrapolazione che i è una precisa frequenza di soglia
o corrispondente ad un potenziale di arresto nullo. Se la luce che colpisce l’emettitore
ha una frequenza minore di o non compaiono mai fotoelettroni qualunque sia
l’intensità della luce stessa.
Da quanto detto deriva che tre delle più importanti caratteristiche dell’effetto
fotoelettrico contrastano in modo evidente con la teoria ondulatoria classica della luce:
1) La teoria ondulatoria prevede che se si aumenta l’intensità dell’onda luminosa,
visto che aumenta l’energia per unità di superficie che riceve il metallo, per il
principio di conservazione dell’energia, deve aumentare anche l’energia cinetica
dei fotoelettroni. Viceversa la [4] e la fig.110 dimostrano, in accordo con i dati
sperimentali che, qualsiasi sia l’intensità della luce, l’energia cinetica massima con
cui escono i fotoelettroni rimane costante.
2) La teoria ondulatoria prevede che l’effetto fotoelettrico debba verificarsi per
qualsiasi valore della frequenza di radiazione purché l’intensità della luce incidente
sia sufficientemente grande. Invece in fig.111 si vede che è sperimentalmente
provata l’esistenza di una frequenza di soglia al di sotto della quale, qualunque sia
l’intensità della luce utilizzata, non si ottengono fotoelettroni.
3) Secondo la teoria ondulatoria, un determinato elettrone nel metallo riceverebbe
energia dalla luce molto lentamente perché l’elettrone potrebbe intercettare solo
una piccolissima porzione dei fronti d’onda incidenti. Per questo motivo dovrebbe
trascorrere del tempo prima che l’elettrone esca dal metallo. Il tempo calcolato in
base alla teoria classica risulterebbe dell’ordine di diverse ore. Sperimentalmente
si vede che l’emissione degli elettroni da parte del metallo è pressoché istantanea.
Queste tre incongruenze portano ad un’ulteriore crisi della fisica classica che non
riesce a spiegare in modo corretto come avviene questo fenomeno.
63
5.2.1 TEORIA DEI FOTONI.
Per spiegare l’effetto fotoelettrico, nel 1905, Einstein propose un nuovo modo di
concepire la luce affermando che essa si può descrivere, almeno in certe circostanze,
come se l’energia che trasporta fosse concentrata in quantità finite e localizzate, dette
fotoni. L’energia del singolo fotone è data da:
E  h
[5]
dove  è la frequenza della luce. Questa idea che un fascio di luce si comporti come
un fascio di particelle è in netto contrasto con l’idea che la luce sia un’onda. Come si
vede la [5] non è altro che l’ipotesi di Planck [2] ma, mentre quest’ultimo l’applicò
solo agli oscillatori atomici che costituivano le pareti della cavità formante il corpo
nero, Einstein invece la considera una proprietà della luce anche nella sua forma di
radiazione e non solo all’atto della sua emissione. In questo caso il fotone viene a
prendere un ben preciso significato fisico e non appare come un artificio matematico
come nel caso studiato da Planck3.
Questa ipotesi applicata al fenomeno fotoelettrico porta al seguente risultato:
Se la luce si propaga per fotoni allora un elettrone verrà colpito da un solo fotone per
volta e di conseguenza se la sua energia di ionizzazione (o lavoro di estrazione) vale
Le si otterrà il seguente bilancio energetico:
1
2
h  Le  mevmax
2
[6]
L’equazione [6] afferma che se l’energia del fotone è maggiore di quella di legame
dell’elettrone questo, nel caso non perda energia per urti interni al materiale, dovrebbe
uscire con un’energia cinetica massima pari al valore che risulta dalla formula scritta
nella forma:
1
2
mevmax
 h  Le
2
[7]
Vediamo ora che l’ipotesi dei fotoni di Einstein risolve le tre obiezioni sollevate contro
l’interpretazione ondulatoria del fenomeno fotoelettrico. Per quanto riguarda
l’indipendenza dell’energia cinetica massima dall’intensità della luce si vede che
raddoppiando quest’ultima raddoppierà4 il numero di fotoni che compongono il fascio
3
In seguito Einstein dedusse la formula di Planck sulla base del concetto di fotone.
4
L’intensità della luce vale: I 
E
quindi se a parità di tempo e superficie di riferimento aumenta I deve aumentare
St
in modo direttamente proporzionale a E che per l’ipotesi di Einstein sarà E=nh quindi 2E=2nh.
64
luminoso, ma la quantità di energia che colpirà il singolo elettrone rimarrà invariata e
quindi non cambierà, per la [7], anche l’energia cinetica del fotoelettrone.
1) L’esistenza di una frequenza di soglia è giustificata dalla [7] poiché il valore
minimo che deve avere un fotone per staccare un fotoelettrone del metallo deve
essere almeno uguale al lavoro di estrazione il che significa energia cinetica nulla
quindi:
h o  Le
[8]
La quale implica che il fotoelettrone ha un’energia sufficiente per sganciarsi dal
metallo ma non per muoversi. Valori di energia del fotone minori di questo non sono
sufficienti ad estrarlo dal metallo e, di conseguenza, ad avviare il fenomeno
fotoelettrico.
2) La spiegazione dell’assenza del ritardo nell’emissione dei fotoelettroni è implicita
nella teoria fotonica perché l’energia richiesta è fornita secondo quantità finite
concentrate nei singoli fotoni e non è distribuita uniformemente sull’intera sezione
ortogonale del fascio, come prevede la teoria ondulatoria.
Combinando le equazioni [4] e [7] si ottiene il potenziale di arresto in funzione della
frequenza:
eVo  h  Le
[9]
L
h
Vo     e
e
e
[10]
la [10]5 descrive correttamente il grafico di fig.111 in completo accordo con i risultati
sperimentali.
Inoltre la pendenza della retta [10] rappresentata in fig.111 è il valore h/e quindi da
questo grafico è possibile ricavare il valore di h sperimentalmente. Il risultato è proprio
il valore [3] proposto da Plank.
E’ fondamentale capire che Einstein, con questa teoria, descrive la luce come
uno sciame di particelle e non come un’onda il che ovviamente contrasta con le
evidenze sperimentali sui fenomeni di diffrazione ed interferenza che abbiamo
discusso nel capitolo dell’ottica fisica.
Se da una parte si risolve il problema dell’effetto fotoelettrico, dall’altra ne fa
sorgere un altro cioè quello di un fenomeno naturale come la radiazione
5
È l’equazione di una retta di variabile indipendente , coefficiente angolare h/e e termine noto Le/e.
65
elettromagnetica, che la fisica classica ha inquadrato nella teoria ondulatoria, in alcune
situazioni si comporta in un modo del tutto inammissibile per questo modello.
L’importanza di questa scoperta è tale che Einstein fu insignito del premio Nobel per
la fisica per la teoria dei fotoni e non per quella della relatività come tutti credono.
5.2.2 ESPERIENZA DI YOUNG E FOTONI.
Nel capitolo dedicato all’ottica fisica abbiamo analizzato dettagliatamente
l’esperienza di Young con due fenditure della larghezza dell’ordine della lunghezza
d’onda della luce incidente. Si è visto che l’immagine che ne risultava era una figura
d’interferenza in cui erano presenti bande chiare e scure equispaziate che venivano
correttamente previste dalla teoria ondulatoria. Se effettivamente la luce è composta
di fotoni in qualche modo questo deve apparire anche nell’esperienza di Young.
Nell’analisi del fenomeno si è dato per scontato che l’intensità dell’onda
incidente sulle due fenditure fosse elevata in modo tale da illuminare la zona dello
schermo ottenendo la figura rappresentata nella foto 112a).
Fig.112
Rifacendo l’esperimento, diminuendo progressivamente l’intensità della luce e
utilizzando al posto di uno schermo una pellicola fotosensibile, si sono ottenute in
successione le immagini 112b), 112c) e 112d). Come si vede l’immagine ad energia
continua che si ha quando l’intensità è forte comincia a presentare delle discontinuità
nella foto 112.b) che si accentuano notevolmente nella foto 112c) in cui i puntini, che
rappresentano i punti d’impatto di singoli fotoni, continuano a disporsi in modo da
formare le frange di interferenza previste dal modello ondulatorio.
66
Nella foto 112d) dove l’intensità è bassissima, si notano chiaramente solo pochi
punti disposti in modo casuale che non rispettano minimamente la previsione delle
frange d’interferenza del modello ondulatorio ma che appaiono nello stesso modo in
cui si presenterebbe un bersaglio di un tiro a segno del luna-park dopo che uno studente
ha cercato con un fucile di centrarlo, sicuramente non nel modo ordinato previsto dal
modello ondulatorio.
5.3) QUANTITA’ DI MOTO DEI FOTONI.
Essendo i fotoni, per definizione, delle particelle senza massa si potrebbe


concludere che non possono avere quantità di moto ( p  mv ).
Sappiamo che la luce, e quindi anche i fotoni, si propaga nel vuoto a velocità
costante pari a c. Un’altra importante teoria di Einstein (la teoria della relatività
speciale), elaborata sempre nei primi anni del 900, impone di considerare particolari
collegamenti tra massa ed energia quando gli oggetti si spostano a velocità prossime a
quella della luce. Non entreremo nel merito di questo tipo di analisi dei fenomeni che
è alquanto complessa, ma per i nostri fini è sufficiente accettare per valida una delle
formule principali che la caratterizzano cioè:
E  mc 2
[11]
Questa formula, da cui risulta che l’energia e la massa, a meno di una costante, sono
la stessa cosa, ha avuto una serie di importanti verifiche sperimentali6 e permette di
considerare la massa come una forma “condensata” di energia che, tramite opportuni
procedimenti7, è possibile ricondurre nella sua forma diffusa. Si può allora combinare
la [11] con la [5] ottenendo:
mc 2  h
[12]
ne risulta che la massa equivalente8 all’energia trasportata da un fotone vale:
m
h
c2
[13]
ne segue che la quantità di moto risulta in modulo:
6
Una particolarmente evidente è stata la distruzione di Hiròshima con una esplosione atomica che è basata proprio su
questa formula.
7
Ad esempio si può liberare l’energia che forma la massa di un elettrone se lo si fa urtare da un positrone (elettrone
positivo), il risultato è la sparizione di ambedue le particelle atomiche e la liberazione, sotto forma di fotoni
dell’equivalente energia secondo la [11].
8
La massa che avrebbe il fotone se l’energia che trasporta si condensasse.
67
p  mc 
h
c
[14]
la lunghezza d’onda della radiazione associata ai fotoni di frequenza  è:

c

[15]
quindi la [14] può anche essere scritta nella forma:
p
h

[16]
Come si vede la luce, o meglio i fotoni che la compongono, sono portatori di
quantità di moto. Ricordiamo che quando un fotone viene assorbito da un oggetto, cioè
gli trasmette la sua energia, la sua quantità di moto si annulla visto che scompare e
poiché il processo occupa un intervallo di tempo, anche se molto piccolo, si avrà:
F
p
t
[17]
quindi la luce applica delle spinte agli oggetti che colpisce. I valori di tali forze
applicate alle superfici irraggiate, producono una pressione che viene chiamata
pressione della luce. Il suo valore è molto piccolo e ha degli effetti solo a livello di
particelle atomiche o subatomiche. Una dimostrazione evidente dell’esistenza di
questa pressione è data dalla disposizione della coda delle comete che orbitano attorno
al sole. La coda, che è costituita di particelle atomiche derivanti dalla sublimazione del
nucleo solido, risulta sempre puntata in modo da allontanarsi dal sole in direzione
radiale verso l’esterno. La causa è proprio la pressione che la luce solare applica alle
particelle atomiche che la compongono.
Un’altra prova sperimentale della validità della [16] e della correttezza della teoria dei
fotoni è data dalla diffusione (scattering) Compton.
Secondo la teoria classica, quando un’onda elettromagnetica di frequenza 1
incide su un materiale contenente cariche, queste ultime oscilleranno con questa
frequenza e emetteranno nuovamente onde elettromagnetiche della stessa frequenza.
Compton fece rilevare che nell’ipotesi fotonica
la collisione tra un fotone e un elettrone dovrebbe
essere simile ad un urto tra particelle, l’elettrone
assorbirebbe energia e il fotone diffuso avrebbe
68
Fig.113
meno energia e quindi frequenza minore del fotone incidente.
La trattazione teorica di questo esempio, data la velocità della luce con cui si
muove il fotone, deve tenere conto degli effetti relativistici del fenomeno. Il suo
risultato però è chiaramente rappresentato dalla figura n.113 in cui si vede il
caratteristico schema di un urto obliquo e si verifica che, essendo 2 diversa da 1, nelle
quantità di moto risultanti si ha un effettivo cambiamento di frequenza del fotone
diffuso (p2) rispetto a quello incidente (p1).
5.4) ONDE MATERIALI DI DE BROGLIE.
Nel 1924 Louis de Broglie nella sua tesi di laurea considerò i seguenti fatti:
a) la natura è spiccatamente simmetrica;
b) l’universo osservabile è costituito interamente di radiazioni e di materia;
c) se la radiazione ha una natura duale, ondulatoria e corpuscolare, può essere che ce
l’abbia anche la materia.
In altri termini propose di considerare che la materia, cioè le particelle con massa,
potesse essere descritta secondo il modello ondulatorio.
La radiazione, nella sua forma ondulatoria, è caratterizzata dalla sua frequenza e dalla
lunghezza d’onda, mentre per quel che riguarda la sua descrizione corpuscolare è
definita dalla quantità di moto e dall’energia dei fotoni. Per dare sostanza alle ipotesi
di de Broglie bisognava quindi identificare queste proprietà per la materia. L’energia
e la quantità di moto di una particella di massa m sono secondo la fisica classica:
p  mv
1 2
p2
E  mv 
2
2m
[18]
Mancavano la lunghezza d’onda e la frequenza dell’onda associata alla massa.
De Broglie propose che le equazioni fossero le stesse trovate per il fotone e
cioè:
e

E
h
[19]

h
p
[20]
E’ evidente che se queste formule non avessero un riscontro a livello sperimentale
sarebbero prive di senso. Per aver idea dei valori di queste grandezze si può considerare
il seguente esempio:
69
ESEMPIO N.38
Determinare la lunghezza d’onda di un elettrone in moto con un’energia cinetica di
100 eV.
me  9,1  1031 kg; E  100eV  1,6  1017 J ; h  6,6  1034 Js
Dalla seconda delle [18] si ha:
p  2mE
[21]
che sostituita nella [20] dà:

h

2mE
6,6  1034
 31
2  9,1  10
17
 1,6  10
 1,2  1010 m
[22]
L’ordine di grandezza di questa lunghezza d’onda è di un diametro atomico. Per
verificare l’esistenza del comportamento ondulatorio degli elettroni, si tratta di vedere
se essi seguono le leggi studiate per le onde e in particolare se fanno interferenza e
diffrazione.
In ottica fisica abbiamo studiato che l’effetto di interferenza-diffrazione si
Fig.114
verifica in modo molto marcato quando si fa passare un’onda attraverso una coppia di
fenditure con l’apertura dell’ordine della lunghezza dell’onda in esame.
Ora già con la luce, che aveva lunghezze d’onda dell’ordine dei m, avevamo
difficoltà a procurarci fenditure di quelle dimensioni; è evidente che adesso per un
70
fascio di elettroni è necessario usare delle fenditure con distanze dell’ordine di quelle
interatomiche. Si è quindi cercato di far diffrangere un fascio di elettroni sul reticolo
cristallino di alcuni corpi.
Dalla chimica ricordate che l’ordine di grandezza delle distanze tra i piani atomici
del reticolo cristallino di un solido è proprio quello trovato con la [22]. Il risultato di
uno di questi esperimenti è riportato nella fig.114 dove è messo a confronto con quanto
ottenuto dalla diffrazione di un raggio elettromagnetico X della stessa lunghezza
d’onda di quella ipotizzata per gli elettroni.
Come si vede le figure di diffrazione sono, entro i limiti sperimentali, identiche.
Ciò ha confermato il comportamento ondulatorio della materia e di conseguenza la
validità delle ipotesi di de Broglie. L’equazione [20] ha preso il nome di lunghezza
d’onda di de Broglie.
5.5) DUALISMO ONDA-PARTICELLA.
Abbiamo visto che la luce, di solito descritta come un’onda, mostra proprietà
corpuscolari quando interagisce con la materia, come nell’effetto fotoelettrico e nella
diffusione Compton. Al tempo stesso gli elettroni, che di solito descriviamo come
particelle, presentano proprietà ondulatorie d’interferenza e di diffrazione. Tutti i
portatori di quantità di moto e di energia (elettroni, atomi, luce, suono ecc.) hanno
entrambe le caratteristiche: corpuscolare e ondulatoria.
Si potrebbe dire che un elettrone è al tempo stesso un’onda e una particella, ma il
significato di quest’affermazione non ha senso: nella fisica classica, i concetti di onda
e particella si escludono a vicenda.
Una particella classica si comporta come un pallino di piombo: essa può venir
localizzata e diffusa; scambia energia per impulsi e negli urti obbedisce ai principi di
conservazione della quantità di moto e dell’energia. Essa non può presentare
interferenza o diffrazione.
Un’onda classica si comporta come un’onda sull’ondoscopio: essa presenta
diffrazione e interferenza e la sua energia si propaga continuamente nello spazio e nel
tempo. Per la fisica classica niente può essere al tempo stesso una particella e un’onda.
Si è visto nei paragrafi precedenti che i modelli di onda e di particella non
descrivono correttamente e completamente nessun fenomeno. Risulta che:
Ogni cosa si propaga come un’onda classica e scambia energia come
una particella classica.
71
Spesso i due modelli portano allo stesso risultato. Se la lunghezza d’onda è molto
piccola, non si riesce a distinguere la propagazione di un’onda classica da quella di
una particella classica. Per onde di lunghezza piccolissima, gli effetti di diffrazione
non sono evidenziabili e quindi le onde viaggiano su traiettorie rettilinee come se
fossero delle particelle. In modo analogo non si osserva interferenza per onde di
piccolissima lunghezza d’onda, perché le frange d’interferenza sono troppo vicine per
poter essere risolte. In questo caso non fa differenza quale dei due modelli usiamo.
Possiamo considerare la luce come un’onda che si propaga lungo raggi oppure come
un fascio di fotoni.
In modo analogo si può considerare un elettrone come un’onda di de Broglie che si
propaga per raggi o come una particella.
Se siamo interessati solo ai valori medi degli scambi d’energia e di quantità di moto
possiamo usare sia il concetto d’onda sia quello di particella. Per esempio abbiamo
bisogno del modello corpuscolare della luce per spiegare l’esistenza del fenomeno
fotoelettrico e la dipendenza dell’energia massima degli elettroni dalla frequenza della
luce; ma se siamo interessati solo alla corrente fotoelettrica totale (sopra la soglia) la
teoria ondulatoria della luce prevede correttamente che questa corrente sia
direttamente proporzionale all’intensità dell’onda.
In definitiva Niels Bohr ha enunciato il seguente principio di complementarità
che aiuta a orientarci in questo caos concettuale:
“La natura ondulatoria e quella corpuscolare, sia della materia che della
radiazione, sono complementari l’uno all’altra. Non è possibile, né per la materia
né per la radiazione, dimostrare che hanno natura solo ondulatoria o solo
corpuscolare. Entrambi questi modelli sono necessari.”
Il termine complementare ha in questo contesto un significato ben preciso: non si
possono mettere in evidenza contemporaneamente sia gli aspetti corpuscolari sia
ondulatori nell’osservazione di uno stesso fenomeno. Un esempio molto elementare,
ma utile per capire bene questo concetto è il seguente: se due persone osservano da lati
opposti una moneta da 1 euro uno vedrà la figura dell’uomo, il secondo vedrà l’Europa.
Ambedue osservano la stessa cosa ma da punti di vista diversi. Se poi lanciano in aria
la moneta alla fine ambedue vedranno o l’uomo o l’Europa: è impossibile
osservare simultaneamente le due facce della moneta.
72
5.6) PROBLEMI
DELL’ATOMO.
DI
STABILITA’
DEL
MODELLO
PLANETARIO
In chimica siete abituati ad usare gli orbitali nella
descrizione della struttura dell’atomo. Vi è stato detto che
gli elettroni occupano probabilmente delle zone di forma
particolare attorno al nucleo senza specificare le
motivazioni di una simile affermazione. Vedremo in questo
e nei successivi paragrafi qual è la causa per cui è corretto
usare questo tipo di descrizione dell’atomo.
Cominciamo con il ricercare ciò che impedisce di Fig.115
considerare valido il modello planetario dell’atomo che risulta sostituendo la forza
elettrica al posto di quella gravitazionale, come rappresentato nello schema di fig.115
in cui sono indicati un protone ed un elettrone che ruota su un’orbita circolare. La
fisica classica risolve il problema nei seguenti termini:
Tra le cariche di segno opposto è presente una forza di attrazione coulombiana che è
la causa dell’accelerazione centripeta applicata alla massa m e dell’elettrone,
accelerazione che permette l’esistenza di una rotazione a velocità costante su un’orbita
circolare di raggio r.
Dalla dinamica:
Dalla cinematica:

 e2
F  ur K 2
r
[23]


a   u r 2 r
[24]
Per la legge fondamentale della dinamica risulta:


F  me a
[25]
sostituendo le [24] e [23] nella [25] e semplificando si ottiene:
K
e2
 me 2 r [26]
2
r
1
da cui esplicitando r risulta:
 Ke 2  3
 [27]
r  
2 
m

 e 
73
ricordando che   2 dove  è la frequenza di rotazione dell’elettrone, la [27] si
1
può scrivere:
 Ke 2  3

r  
2 
m
(
2

)
 e

[28]
Questa formula porta ad un risultato che contrasta con la realtà per due motivi:
a) La teoria classica dell’elettromagnetismo prevede, come ricordate, che se una
carica elettrica è accelerata, come l’elettrone nel nostro caso, deve emettere con
continuità onde elettromagnetiche di frequenza pari a quella di rotazione. Ne segue
che, dato che un’onda trasporta energia, essa deve essere prelevata da quella
meccanica dell’elettrone e di conseguenza, perdendo energia sotto forma di
radiazione, l’elettrone percorre orbite a spirale con raggio locale sempre più piccolo
fino a precipitare nel nucleo.
b) Modificandosi il raggio con continuità deve cambiare anche la frequenza di
emissione dell’onda e quindi la luce emessa dall’atomo dovrebbe risultare con
spettro continuo. Nella realtà avete visto in spettroscopia che lo spettro
dell’idrogeno è a righe.
Per questi motivi il modello dell’atomo costruito in base alle teorie della fisica classica
non è accettabile in quanto non descrive la realtà sperimentale.
Come abbiamo studiato nei capitoli precedenti quando la fisica classica fallisce
è probabile che entri in gioco la meccanica quantistica. Vedremo nel prossimo
paragrafo che è questa la strada da seguire per arrivare ad una descrizione corretta della
struttura dell’atomo.
5.7) IL MODELLO ATOMICO DI BOHR CON L’IPOTESI DI DE BROGLIE.
Per risolvere le incongruenze emerse con il
modello classico sopra descritto, nel 1913 Bohr propose
un modello dell’atomo che prevedeva correttamente le
lunghezze d’onda spettrali determinate sperimentalmente. Per ottenere questo risultato propose due
postulati che modificavano le leggi dell’elettromagnetismo:
- 1°Postulato (degli stati stazionari) - L’atomo
d’idrogeno può esistere solo in un insieme discreto di
stati stazionari ciascuno con una precisa energia
totale E; egli ipotizzò che l’atomo non può emettere
energia sotto forma di onde (fotoni) finché si trova in
uno di questi stati
- 2° postulato (delle frequenze) - Si può avere
emissione di radiazione solo quando l’atomo compie
74
Fig.116
una transizione da uno stato di energia totale Ei ad un altro di energia totale minore
Ej. In forma di equazione si ha:
[29]
h  Ei  E j
Come si vede si tratta di due ipotesi che contrastano in modo netto con la fisica classica
che prevede emissione di energia in modo continuo da parte dell’elettrone.
Ipotesi di de Broglie - Queste ipotesi portano ad un primo modello dell’atomo che
però non costruiremo poiché, avendo già studiato le onde materiali di de Broglie,
possiamo sostituire il primo postulato9 con la considerazione che l’elettrone, nella
situazione in esame, si presenta nel suo aspetto ondulatorio.
Pertanto, visto che l’elettrone deve percorre un’orbita circolare chiusa, verrà a formare
un’onda stazionaria10. Detto in altre parole, la lunghezza d’onda dell’elettrone deve
essere contenuta un numero intero di volte nella circonferenza (fig.116), cioè:
n  2 r
n  1,2,3 [30]
utilizzando la lunghezza d’onda di de Broglie [20] si ha:
n
h
 2 r
p
[31]
da cui si ricava la quantità di moto:
p
nh
2r
[32]
Riprendiamo l’analisi del modello planetario introducendo queste nuove ipotesi.
5.7.1) DETERMINAZIONE DEL RAGGIO ATOMICO.
La forza elettrica con cui il nucleo attira l’elettrone vale:

 e2
F  ur K 2
r
[23]
si può scrivere la [26] nella forma:



v2
F  me a  ur me
r
che per la [23] diventa:
Il primo postulato di Bohr non era spiegabile in modo accettabile prima della dimostrazione dell’esistenza delle onde
materiali di de Broglie.
10
Rivedere come nascono le onde stazionarie sulle corde.
9
75
v2
e2
me
K 2
r
r
r
da cui
[33]
Ke 2
mev 2
moltiplicando sopra e sotto per me e usando p=mev, può essere scritta nella forma:
r
Ke 2 me
p2
[34]
sostituendo nella [34] la [32] si ha:
r
Ke 2 me
 nh 


 2r 
2
4 2 Ke 2 me r 2
h2n2

da cui risulta per il raggio la formula:


h2
r   2 2   n 2
 4 Ke me 
con n=1,2,3….
[35]
La [35] prevede che le “orbite” percorse dalle onde elettroniche siano quantizzate dal
numero quantico n. Questo significa che per l’elettrone non sono possibili tutte le
orbite come prevedeva la meccanica classica ma solamente quelle risultanti a partire
da un valore minimo per r, ottenuto con n=1, che corrisponde al risultato del termine
tra parentesi nella [35], tale termine dipende solo da delle costanti universali e vale:


2
h2
6,63  10 34
r1 

 0,53  1010 m
4 2 Ke 2 me 4 2 9,00  109 1,60  1019 2 9,11 10 31


A questo punto la [35] si può scrivere nel modo seguente:
rn  r1n2
[36]
dove con rn si intende il raggio dell’orbita corrispondente al numero quantico n
considerato. Come esempio calcoliamo i valori dei raggi corrispondenti ai numeri
quantici 2 e 3.
n2
r2  r1  22  2,1  1010 m
n3
r3  r1  33  4,8  1010 m

76
Ciò significa che le “onde elettroniche”, stando a questi calcoli, non possono
mai percorrere orbite con raggi
0,53  1010 m  r  2,1  1010 m
2,1  1010 m  r  4,8  1010 m
ecc.
Questa formula introduce nella descrizione degli atomi un primo elemento
quantistico, il numero quantico n, che dipende dall’ipotesi che l’elettrone si comporti
come un’onda e che di conseguenza, girando su un percorso limitato, tale onda sia
anche stazionaria.
Una delle proprietà delle onde stazionarie è quella di “congelare” l’energia nella
zona interessata dall’onda; questo spiega perché, contrariamente alle previsioni
dell’elettromagnetismo classico, l’elettrone non irraggia energia fintanto che si trova
in una di queste “orbite”.
Calcoliamo ora l’energia totale, o di legame11, posseduta dagli elettroni .
5.7.2) DETERMINAZIONE DELL’ENERGIA DI LEGAME.
L’energia meccanica dell’elettrone in termini di
fisica classica risulta:
E  EC  EP 

1
e2 
mev 2    K 
2
r 

[37]
la [33], semplificando r, può essere scritta nel
seguente modo:
mev 2  K
e2
r
[38]
dividendo ambo i membri per 2 si ottiene una
formula per l’energia cinetica che ha al suo interno
solo valori relativi alla struttura elettrica dell’atomo:
2
1
Ke
mev 2 
2
2r
[39]
Sostituendo la [39] nella [37] si ottiene:
11
Fig.117
Ricordiamo che l’energia di ionizzazione è il valore dell’energia di legame cambiato di segno.
77
Fig.118
Ke 2 Ke 2
Ke 2
E


2r
r
2r
[40]
Quindi l’energia di legame è negativa 12. Sostituendo il generico raggio con i valori
permessi dalla quantizzazione [36] si trovano i valori dell’energia di legame
corrispondenti ad ogni numero quantico n.
E
Ke2
2r1n 2
[41]
Questo dimostra che anche l’energia di legame è quantizzata da n. Vista l’importanza
dell’energia, di solito, il numero quantico n è chiamato numero quantico energetico o
principale.
Anche in questo caso si vede che il valore dell’energia corrispondente all’
orbita più interna n=1, dipende solamente dalle costanti universali e risulta per
l’atomo d’idrogeno:

Ke 2
9,00  109  1,60  1019
E1  

2r1
2  0,53  1010

2
 2,17  1018 J
 13,6eV
Per questo motivo la [41] viene di solito scritta nella forma:
En  E1
1
n2
[42]
Con significato analogo alla [36]. L’equazione [42] è rappresentata in fig.117 dove
sono indicati i collegamenti tra i valori dei raggi riportati in ascissa e i corrispondenti
valori di energia rappresentati in ordinata. Nella fig. 118 è rappresentato lo stesso
grafico come si usa in chimica.
Le energie corrispondenti ai numeri quantici 2 e 3 risultano:
n2
n3
1
 3,4eV
22
1
E3  E1 2  1,5eV
3
E2  E1

come si nota, a mano a mano che il numero quantico cresce il valore dell’energia
aumenta.
Questo significa che se si vuole togliere l’elettrone da una di queste orbite si deve fornire energia dall’esterno (positiva)
con un valore, in modulo, almeno pari a quello appena trovato. Questo valore è chiamato energia di ionizzazione.
12
78
Siamo ora in grado di dare una spiegazione all’esistenza dello spettro a righe trovato
per l’idrogeno in spettroscopia.
5.7.3) SPETTRO A RIGHE.
Una delle ipotesi di Bohr prevedeva che il legame esistente tra l’energia irradiata
tramite fotoni e quella propria dell’elettrone fosse dato dalla:
h  Ei  E j
[29]
Questa equazione ora può essere spiegata in questi termini: quando per cause esterne
un elettrone riceve energia tale da poter saltare da un’orbita interna ad un’altra più
esterna, tra quelle permesse, esso passa da un valore basso di energia EJ, che
possedeva al livello corrispondente al numero quantico n=j, al livello più alto di
energia Ei, che corrisponde al livello energetico con n=i , con i>j. L’elettrone non
potendo rimanere in questo stato eccitato13 deve ritornare al livello energetico più
basso e di conseguenza liberarsi dell’energia in eccesso emettendo un fotone come
previsto dalla [29] che, esplicitata rispetto alla frequenza, risulta:


Per la [42] la [43] diventa:
Ei  E j
E1
h
[43]
1
1
 E1 2
2
i
j
h
Ricordando che E1 è un numero negativo, si può riformulare l’equazione precedente
nel seguente modo:
 
E1  1 1 
  
h  j 2 i 2 
[44]
Confrontando la [44] con l’equazione trovata sperimentalmente in spettroscopia da
Balmer che è:

c

1 
1
 R 2  2 

m 
2
1
[45]
si vede che basta riscrivere la [44] nella forma:
Per capire il perché si può fare la seguente analogia: quando si lancia un sasso verso l’alto questo acquista energia
potenziale gravitazionale ma poi la deve restituire ricadendo verso il livello più basso di energia potenziale che può
raggiungere. La stessa cosa deve fare l’elettrone visto che il campo elettrico in cui si trova è del tutto analogo a quello
gravitazionale.
13
79

c

1


E1  1 1 
  
ch  j 2 i 2 
[46]14
La [44] coincide con la [46] se si considera come numero quantico più basso j=2 e
come livello corrispondente a m il numero quantico i. Inoltre la costante trovata
sperimentalmente da Rydberg, che vale R= 1,10  107 1 m , dovrebbe risultare dal seguente
calcolo:
R
E1
ch
[47]
sostituendo i valori si ha:
 13,6  1,60  1019
R
 1,10  107 1 m
 34
8
6,63  10 2,997  10
in perfetto accordo con i risultati sperimentali. Si può verificare che le altre serie di
righe spettroscopiche nell’U.V. (serie di Lyman) e nell’I.R. (serie di Paschen) sono
casi particolari della [46], nel primo caso con
j=1 e nel secondo con j=3. (vedi fig.119)
5.7.4) MOMENTO DELLA QUANTITA’ DI
MOTO.
Un altro parametro importante per la fisica
atomica è il momento della quantità di moto
dell’elettrone definito dalla:
  
L  r xp

Fig.119
[48]

i vettori r e p formano un angolo di 90°, quindi
il modulo del momento della quantità di moto risulta:
L  pr
[49]
per la [32] la quantità di moto si può scrivere:
 c  1    viene chiamata numero d’onda che però non va confuso con
K  2  che è l’effettivo numero d’onda per le equazioni da noi studiate. In generale il numero d’onda  viene
14
Nei testi di spettrometria la quantità
espresso in unità 1 cm per ragioni di comodità e tradizione.
80
p
nh
2r
che sostituita nella [49] dà:
L
h
n
2
[50]15

Dato che il vettore L è il risultato di un prodotto vettoriale esso ha una direzione
ortogonale al piano contenente i due vettori che lo generano, cioè al piano che contiene
l’orbita dell’elettrone.
Ricordiamo che un vettore ortogonale ad un piano può essere utilizzato per
definire l’orientazione del piano stesso nello spazio16 quindi conoscere il momento
della quantità di moto significa conoscere la giacitura dell’orbita dell’elettrone rispetto

ad un sistema di riferimento associato al nucleo. Il fatto che anche L sia quantizzato17
significa che le possibili giaciture per le orbite elettroniche sono a loro volta limitate
ad un numero discreto di possibilità dipendenti dal valore di n.
5.8) PRINCIPIO DI INDETERMINAZIONE DI HEISENBERG.
Pur ottenendo dei valori riscontrabili sperimentalmente per quanto concerne lo
spettro di energia dell’idrogeno e spiegando in modo sufficientemente chiaro la
mancanza di emissione di energia da parte degli elettroni visti come onde stazionarie,
il modello dell’atomo di Bohr – de Broglie si è dimostrato non valido per atomi più
complessi di quello dell’idrogeno.
La causa di questo insuccesso risiede nel fatto che, pur utilizzando aspetti
quantistici, il modello di Bohr continua ad operare anche con i concetti della fisica
classica descrivendo il moto degli elettroni, sia pure come onde, in base a traiettorie
precise in funzione del tempo.
In altri termini pretende di descrivere il moto degli elettroni come se fosse possibile
misurare, istante per istante, l’esatta posizione e velocità 18 dell’elettrone rispetto ad un
sistema di riferimento associato al nucleo dell’atomo.
h
  viene chiamata costante di Dirac.
2

16
Ricordarsi del versore u n che definisce la posizione della superficie attraverso la quale si determina il flusso di un
15
La quantità
campo vettoriale.
17
Nel modello originale di Bohr l’equazione [50] era la diretta conseguenza del primo postulato che noi abbiamo
sostituito con quello di de Broglie.
18
Il ché equivale a dire quantità di moto visto che p=mv.
81
Questa procedura, che è alla base della meccanica Newtoniana, è certamente
possibile con corpi macroscopici dove l’operazione di misura non interferisce in modo
significativo con l’evolversi del fenomeno studiato; nel caso di corpi microscopici,
però, il concetto di osservazione e di misura va riconsiderato. Per misurare la posizione
di un elettrone occorre “vederlo” quindi illuminarlo con un raggio di luce che si può
ridurre, come intensità, fino al minimo costituito da un fotone.
Abbiamo visto nel paragrafo 5.3) che il fotone, essendo dotato di quantità di moto,
quando “urta” un elettrone dà luogo all’effetto Compton o, in altri termini, devia dalla
sua “traiettoria” e cambia la quantità di moto dell’oggetto di cui volevamo studiare il
moto. Questo significa che pur avendo determinato la posizione dell’oggetto in
quell’istante non siamo in grado di dire assolutamente niente né della strada che
avrebbe seguito se non avessimo fatto la misura né della velocità e direzione con cui
si muove dopo l’osservazione. Questo significa che operare misure a livello
microscopico porta inevitabilmente a produrre delle incertezze sulla valutazione delle
grandezze che si vogliono identificare.
Se ne deduce che è impossibile conoscere esattamente simultaneamente posizione
e velocità di un oggetto microscopico, ne segue che tutta l’impostazione della
meccanica classica, che prevede di definire univocamente questi parametri istante per
istante, non è applicabile a livello atomico.
La conseguenza è che il modello di Bohr che determina traiettorie circolari di un
preciso raggio e valore energetico non può essere esatto.
Uno dei postulati fondamentali che ha portato alla costruzione della meccanica
ondulatoria (o meccanica quantistica) mette in evidenza proprio quanto appena
discusso, infatti IL PRINCIPIO DI INDETERMINAZIONE DI HEISENBERG
afferma quanto segue :
Siano p e x le indeterminazioni (le incertezze) della quantità di moto e della
posizione della particella in esame. Tra esse sussiste la seguente relazione:
px 
h

2
[51]
Questo principio è stato verificato sperimentalmente e costituisce il fondamento di
tutta la fisica moderna.
82
Vediamo come questo principio influisce
sul modello di Bohr, ad esempio nella
determinazione della prima orbita (n=1).
Nel capitolo precedente abbiamo ricavato:
r1  0,53  1010 m
E1  13,6eV
Applichiamo il principio di indeterminazione di Heisenberg a questi due
valori: E1 dipende da p e quindi fornisce
uno dei due elementi presenti nella [51],
infatti dalla [40] si ha:
Fig.120
E
Ke 2
1
p2
  mev 2  
2r
2
2me
[52]
Sperimentalmente si è riscontrato che E1 è un valore corrispondente a quello delle
previsioni teoriche, quindi determinabile con una incertezza su p tale che:
p  p
[53]
Altrimenti E non sarebbe accettabile, per questo motivo dalla [50] si ottiene:
r 



p p
[54]
ricaviamo ora p dalla [52]:
p  2me E1
[55]
che sostituita nella [54] ed eseguendo i calcoli dà:
r 

 0,53  1010 m
2me E1
cioè l’incertezza sulla posizione dell’orbita (fig.120) è dell’ordine di grandezza del
raggio!
83
Questo semplice calcolo demolisce la credibilità del modello di Bohr anche se, per i
risultati ottenuti, rimane un utile strumento per la descrizione dell’atomo di idrogeno
e dei sistemi idrogenoidi19.
5.9) CENNI DI MECCANICA ONDULATORIA.
Con questo capitolo entriamo, molto superficialmente, nella vera teoria
quantistica abbandonando tutti gli argomenti classici che fino a questo momento
abbiamo utilizzato per descrivere la struttura dell’atomo. Per cominciare dobbiamo
capire, in modo più approfondito, che cosa significa la frase “un elettrone si può
descrivere come un’onda di de Broglie”.
5.9.1) LA FUNZIONE D’ONDA.
Nel capitolo 5.4) abbiamo visto che si può considerare un fascio di elettroni come
un’onda, perché se ne può misurare la lunghezza d’onda. Non abbiamo però ancora
specificato qual è la grandezza fisica dell’elettrone la cui variazione nello spazio e nel
tempo costituisce l’onda.
Abbiamo già risolto questo problema per altri tipi di onde. In ogni caso l’onda è
descritta da un campo variabile nel tempo. Per le onde su una corda tesa la grandezza
fisica è costituita dal campo dei possibili spostamenti trasversali y che ha un’equazione
del tipo:
y  A senk x  vt 
[56]
per le onde sonore si tratta delle fluttuazioni di un campo di pressioni p:
p  A senk r  vt  [57]
per le onde elettromagnetiche è il campo elettrico E:
E  A senk r  ct  [58]
dove in ogni caso l’ampiezza, A, rappresenta il valore massimo della grandezza
variabile.
Per le onde materiali indichiamo l’onda con un campo  20, detto funzione
d’onda. Per descrivere un problema che riguarda la materia – per esempio il moto
dell’elettrone nell’atomo d’idrogeno – occorre procurarsi il valore di  per quel
problema, sia in funzione del tempo che dello spazio. Per tener presente questo fatto si


può scrivere r , t  , dove r rappresenta il vettore posizione che identifica qualsiasi
19
20
Per sistemi idrogenoidi s’intendono atomi ionizzati che abbiano perso tutti gli elettroni tranne uno.
Leggi Psi.
84
punto nello spazio rispetto al sistema di riferimento considerato e t l’istante in cui si
considera l’onda.

La funzione r , t  , che rappresenta la natura ondulatoria della materia, è
legata alla natura corpuscolare della materia nello stesso modo in cui si devono
pensare legate la natura ondulatoria della luce con la sua natura corpuscolare
costituita dai fotoni.
Sappiamo che la densità di energia in un’onda vale:
 D  bA2
[59]
cioè <D> risulta proporzionale al quadrato dell’ampiezza massima del campo in
esame.
Per un’onda elettromagnetica questo significa che A2 deve essere proporzionale al
numero di fotoni racchiusi in una determinata regione di spazio21.
Se si ha a che fare con un’onda di bassissima intensità, che contiene l’energia
ad esempio di un solo fotone, A2 deve essere interpretato come la probabilità per unità
di volume che il fotone sia presente.

Il campo r , t  in meccanica ondulatoria è analogo a E per le onde
elettromagnetiche, soltanto che il suo valore non può essere determinato
sperimentalmente.
Però la sua ampiezza al quadrato, che indicheremo con  2 (sempre psi ma
minuscolo) può essere misurata sperimentalmente ed ha la seguente interpretazione
fisica:
Quando sono presenti molte particelle  2 rappresenta in ciascun punto la
densità delle particelle in quel punto. Quando c’è una sola particella – come il
singolo elettrone nel problema dell’atomo -  2 rappresenta in ciascun punto la
probabilità per unità di volume che la particella si trovi in quel punto.
Nel 1926 Schrodinger sviluppò una teoria, a partire dalle onde di de Broglie, che
regola la variazione nel tempo e nello spazio della funzione  , presentando
21
La regione corrispondente al volume considerato nel calcolo della densità di energia che, come definizione, vale:
  E 
E
(ricordarsi che in questo caso E significa energia e non campo elettrico)
V
85
un’equazione fondamentale ora nota come equazione di Schrodinger22, che
determina per molti problemi la funzione  .
Con questo tipo di equazioni è possibile descrivere completamente qualsiasi
atomo senza incontrare le incongruenze viste con i
modelli semiclassici precedentemente proposti. D’altra
parte la fisica classica funziona benissimo per
descrivere i moti di oggetti, come virus, pallottole,
pianeti, con dimensioni maggiori di quelle di atomi o
molecole semplici.
5.9.2) L’ELETTRONE IN SCATOLA
Fig.121
Troveremo la soluzione dell’equazione di Schrodinger in un modo indiretto
utilizzando la discussione di un problema unidimensionale, quello dei possibili moti
di una particella di massa m – per esempio un elettrone – costretto a muoversi avanti
e indietro tra due pareti di distanza L, come in fig.121b).
Il formalismo della meccanica ondulatoria asserisce che ogni possibile
informazione riguardante questo moto è contenuta nella funzione d’onda  . La
soluzione del problema consiste nel trovare e interpretare una funzione d’onda che sia
coerente con l’equazione di Schrodinger e con le condizioni imposte dalle pareti rigide.
La funzione cercata deve essere simile a quella che descrive la fisica classica per
la corda tesa tra due pareti indicata in fig.121a).
Studiandole onde meccaniche abbiamo ottenuto che i vincoli agli estremi di una
corda in vibrazione determinano la formazione di onde stazionarie con nodi quantizzati
dalla formula:

2L
n
n  1,2,3 [60]
Se la corda non fosse fissata, ma illimitatamente lunga, vi si potrebbero
propagare onde di qualsiasi lunghezza d’onda. La quantizzazione deriva dall’aver
costretto l’onda entro la lunghezza L, tra i due punti tenuti fissi. Per la corda abbiamo
trovato come equazione d’onda stazionaria la formula:
yx, t   2 A senk x  L senkL  t  [61]
da cui si vede che tutti i punti della corda oscillano di moto armonico semplice con
un’ampiezza variabile definita dalla prima parte della formula che dipende solo da x:
22
Per pura curiosità vi riporto l’equazione di Schrodinger :
i

 2   2 

  V r 

t
2m  r 2 
si tratta di un’equazione differenziale alle derivate parziali. Per avere un’idea di cosa significa si può fare un’analogia
con le equazioni di secondo grado che conoscete dove il sistema di risoluzione vi permette di determinare i valori della
x che soddisfano la condizione Y =0. In questo caso, anziché essere dei singoli valori, le incognite sono delle funzioni
matematiche. Esistono delle tecniche matematiche complesse, che permettono di risolvere questi problemi.
86
yx   2 A senk x  L
[62]
La [62] rappresenta “l’ampiezza delle ampiezze” ed è un valore che indica la massima
ampiezza d’oscillazione che si può avere nei vari punti della corda.
Inserendo la [60]nella [62] si ottiene:
 n
 2


y x   2 A sen  x  L   2 A sen
x  n 



 L
[63]
La figura n.122 illustra i grafici dei primi tre e del
quindicesimo modo di vibrare della corda tesa.
Passiamo ora alla figura 121b), all’esempio della
particella costretta a muoversi tra due pareti rigide. In
questo caso la probabilità che la particella possa penetrare
oltre le pareti è zero. Quindi la funzione d’onda cercata
deve dare un nodo (uno zero) in corrispondenza a
ciascuna parete come studiato per la corda. Dunque per
analogia con la [63] si può scrivere:
 n

x  n 

 L
 ( x)  2 A sen
[64]
Fig.122
Ciò permette di affermare che la fig.122 rappresenta
anche l’andamento delle ampiezze   x  della funzione d’onda dell’elettrone.
La quantizzazione della lunghezza d’onda porta automaticamente, per la corda tesa, a
quella della frequenza:

v

n
v
2L
n=1,2,3….
[65]
Per la particella costretta a muoversi tra le pareti rigide, la quantizzazione della
lunghezza d’onda porta a quella della sua energia cinetica 23:
ECn 
1 2 p2
h2
[65]
mv 

2
2m 2m2
dove si è usata per p l’equazione [20] di de Broglie.
Inserendo nella [65] la condizione di quantizzazione [60] si ha:
ECn 
h2
h2 2
2
n

n  EC1n 2
2
2
8mL
2m  2 L 
[66]
Ricorda che nel paragrafo precedente abbiamo visto che il quadrato dell’ampiezza è proporzionale alla densità di
energia.
23
87
Ne segue che la particella non può avere una velocità qualsiasi come previsto dalla
fisica classica. Si nota in particolare che il valore E C=0 non è permesso, ciò significa
che l’elettrone non può stare fermo tra le due pareti.
Per avere un’idea della differenza di comportamento tra oggetti microscopici e
macroscopici visti secondo la meccanica ondulatoria consideriamo i seguenti esempi:
ESEMPIO N.39
Si consideri un elettrone costretto da forze elettriche a muoversi tra due pareti rigide
distanti 1,0 nm, che è dell’ordine di cinque diametri atomici. Si determini l’energia
minima di oscillazione.
(me=9,1 10-31kg)
E1 
6,6 10 
 34 2
 31
18
8  9,1  10 1,0  10
 6,0  10 20 J  0,38eV
che per un elettrone corrisponde ad una grande velocità (v=3,6 10 5 m/s)
ESEMPIO N.40
Si consideri un granello di polvere di massa m= 1 g, costretto a muoversi tra due
pareti rigide distanti 0,1 mm. La sua velocità è di 1.10-6 m/s, per cui occorrono 100 s
perché passi da una parete all’altra. Quale numero quantico descrive questo moto?
L’energia cinetica risulta:
En 
1 2 1
mv  1  1091  10 6  5  10 22 J
2
2
Risolvendo la [66] rispetto ad n si ha:
n  8mEn
L
1  104
 8  10 95  10 22
 3  1014
 34
h
6,6  10
Neppure in queste condizioni, quasi microscopiche, si può notare la natura quantizzata
del moto; sperimentalmente non si può distinguere tra n=3.1014 e n=3.1014+1. La fisica
classica, che per il problema dell’esempio 1 è del tutto inadeguata, funziona
perfettamente bene in questo caso in cui si approssima il moto ad una variazione
continua.
Se ne deduce (ovviamente non solo da questi due esempi) che quando i numeri
quantici per i fenomeni macroscopici diventano molto grandi, i fenomeni di
quantizzazione sono sperimentalmente inosservabili e la fisica quantistica si riduce
all’usuale fisica classica.
88
Questi esempi infatti illustrano un altro dei
fondamentali principi della meccanica ondulatoria
enunciato
da
Bohr,
chiamato
principio
di
corrispondenza, il quale afferma:
Nelle regioni dei numeri quantici molto grandi il
calcolo classico e quello quantistico devono portare agli
stessi risultati.
Fig.123
5.9.3) IL SIGNIFICATO
L’ORBITALE.
FISICO
DELLA
FUNZIONE
D’ONDA:
Torniamo alla relazione tra una funzione d’onda  e la sua interpretazione in
termini di possibili risultati sperimentali. Nel paragrafo 5.9.1) abbiamo visto che il
valore del quadrato della sua ampiezza  2 si può interpretare in ciascun punto come la
probabilità che la particella si trovi in quel punto.
Più precisamente, se si considera un elemento di volume V attorno a quel
punto, la probabilità che la particella si trovi in quell’elemento di volume è misurata
da  2 V . Questa interpretazione della funzione d’onda fornisce il collegamento
statistico tra la funzione d’onda e la particella ad essa associata. Non possiamo stabilire
dov’è la particella ma solo dov’è probabile che essa si trovi.
Il caso dell’elettrone vincolato a muoversi tra due pareti rigide è
unidimensionale, per cui l’elemento di “volume” V si riduce ad un tratto x della
lunghezza L. La probabilità che la particella si trovi tra due piani alle distanze x e x+x
da una parete è per la [63]:
2

 n

  x x  2 A sen
x  n  x
 L


2
n
[67]
La fig.123 rappresenta la  n2 x  , che ha il significato di probabilità per unità di
lunghezza, per i tre modi di muoversi corrispondenti a n=1,2 e 3 e per il quindicesimo
modo. Si noti che per n=1 è molto probabile che la particella si trovi più vicino al
centro che non alle pareti. Questa previsione è in netta contraddizione con quanto
sostiene la fisica classica, per la quale la particella ha la stessa probabilità di essere
localizzata in qualsiasi posizione tra le pareti, come illustrato dalle linee orizzontali
indicate in fig.123.
89
Sempre dalla fig.123 si vede che le previsioni della meccanica ondulatoria, al
crescere di n, si avvicinano a quelle della meccanica classica (le linee orizzontali),
proprio come previsto dal principio di corrispondenza.
Può apparire molto strano che, per qualsiasi valore di n, vi siano dei valori di x
per i quali la probabilità di trovarvi la particella è nulla, questo è un fatto che sembra
non aver senso classicamente. Abbiamo però visto che, a causa del principio di
indeterminazione di Heisenberg, vi è un limite alla precisione con cui si può misurare
la posizione di una particella. Quando lo si applica a questo problema esso implica che
le oscillazioni di  n2 x  in fig.123 non possono essere osservate sperimentalmente. E’
soltanto il valore medio locale di   n2  (il quale coincide con la previsione classica
per grandi numeri quantici) che ha un significato fisico.
Consideriamo ora il moto di un elettrone in un atomo d’idrogeno. Esamineremo
solo il moto dell’elettrone nel suo stato fondamentale, definito ponendo n=1
nell’equazione [42] del modello di Bohr. La soluzione24 dell’equazione di Schrodinger
per lo stato fondamentale risulta:

 1 r 
e
r
r1
[68]
r13
dove r1 è il risultato della [35] per n=1, r1 nel modello di Bohr rappresentava il raggio
della prima orbita possibile. Questa interpretazione non ha significato in meccanica
ondulatoria dato che la nozione di orbita non esiste in quanto tale; r1 è chiamato raggio
di Bohr e rappresenta solo una conveniente unità di misura di riferimento quando si
tratta di problemi atomici.
La probabilità per unità di volume che l’elettrone si trovi nell’elemento V, alla
distanza radiale r dal centro si ottiene dalla:

 12 r  
e
2r
r1
r13
[69]
che è illustrata in fig.124a); quanto più
densa è la distribuzione dei puntini25 in
ciascuna zona della figura, tanto più è
probabile che l’elettrone si trovi in quel
piccolo volume V. Nella meccanica
ondulatoria questa “nube di probabilità”,
detta orbitale, ha sostituito l’idea di orbita
nel modo di visualizzare il moto
dell’elettrone nello stato fondamentale dell’atomo d’idrogeno.
24
Fig.124
In questo caso non è possibile ricavarla senza ricorrere al calcolo differenziale.
N.B. non è che i puntini abbiano un significato reale di presenza dell’elettrone servono solo a far vedere qual è
l’addensamento di probabilità; in un modo del tutto equivalente si potrebbero disegnare delle zone con colori tanto più
marcati quanto maggiore è la probabilità di presenza dell’elettrone.
25
90
Un altro metodo di rappresentare la distribuzione dell’elettrone è quello di
determinare la funzione densità di probabilità radiale P(r). Questa è definita in modo
che Pr r rappresenta la probabilità che l’elettrone si trovi nell’intercapedine tra due
superfici sferiche di raggi r e r+r. Il volume V in questo caso è:
V  4r 2r [70]
Ora la probabilità si può scrivere in due modi:
a) come  12 r V , con il V dato dalla [70]
b) come P(r)r.
Queste due espressioni devono essere uguali, quindi:
P'  Pr r   12 V  4r 2 12 r
[71]
semplificando r e sostituendo la [69] nella [71] si ha:
Pr  
2
4r e
r13
2 r
r1
[72]
L’andamento di P(r) è rappresentato in fig.124b). Si osserva che la distanza radiale più
probabile per l’elettrone corrisponde al raggio di Bohr.
Vediamo di chiarire con un esempio il significato di quanto appena esposto.
ESEMPIO N.41
Quanto vale la probabilità P’ che l’elettrone nello stato fondamentale dell’atomo
d’idrogeno si trovi ad una distanza radiale compresa tra 10,00 nm e 10,20 nm?
Questi due raggi sono sufficientemente vicini tra loro da poter considerare costante
P(r) in questo intervallo: r= 0,20 nm. Applicando la [72] nella [71] si ha:
P'  P(r )r 

4r e
r13
4  10,00 e
5,33
2
2
2 r
r1
 210, 00
5, 3
r 
0,20  0,012  1,2%
Quindi l’elettrone si trova tra questi due limiti radiali per l’1,2% del tempo considerato.
5.10) MODELLO COMPLETO DELL’ATOMO D’IDROGENO.
Nel capitolo precedente abbiamo studiato l’equazione che descrive la “forma”
del primo orbitale per l’atomo d’idrogeno. Troveremo ora la funzione d’onda anche
per il numero quantico n=2. Il fatto che s’impieghi tanto tempo ad analizzare la
struttura dell’atomo d’idrogeno è spiegabile dall’importanza che riveste tale modello
per tutta la fisica atomica e la chimica. Infatti mentre il modello di Bohr descrive
adeguatamente solo l’atomo d’idrogeno ma fallisce poi quando lo si applica ad atomi
più complessi, il modello derivante dalla meccanica ondulatoria è applicabile
91
indistintamente a tutti gli atomi ed è alla base della costruzione della tabella periodica
degli elementi e della teoria dei legami chimici molecolari.
5.10.1) I NUMERI QUANTICI .
Sappiamo che l’energia potenziale di un elettrone in rotazione attorno al nucleo
dell’atomo d’idrogeno vale:
e2
Ep  K
r
[73]
Sebbene l’atomo sia una struttura tridimensionale, la sua energia potenziale dipende
da una sola variabile, la distanza radiale r dell’elettrone dal nucleo.
La meccanica ondulatoria deduce la funzione d’onda che descrive i vari stati
stazionari in cui l’atomo si può trovare proprio a partire dalla [73]. E’ al di là delle
vostre attuali conoscenze matematiche il procedimento che porta all’identificazione
delle equazioni corrispondenti agli stati permessi e delle loro funzioni d’onda. Basta
sapere che tramite questo procedimento si ottengono le energie E n corrispondenti a
questi stati. Esse valgono:
En  
Ke 2 1
1
 2  13,6 2 [eV]
2r1 n
n
n  1,2,3...
[74]
Come si vede queste energie sono le stesse ricavate con la [42] nel modello di Bohr, il
che spiega i successi da esso ottenuti; questo però è l’unico risultato che rimane valido
perché, oltre al numero quantico n, le soluzioni dell’equazione di Schrodinger
determinano altri due numeri quantici che sono associati a proprietà fisico-chimiche
dell’atomo che nel modello di Bohr non esistevano.
Nel problema unidimensionale dell’elettrone costretto a muoversi tra due pareti,
rigide, vi era effettivamente un solo numero quantico. Il moto dell’elettrone nell’atomo
però avviene in tre dimensioni e quindi vi sono tre numeri quantici per ogni stato
stazionario; in questo problema ciò corrisponde alla presenza dei tre gradi di libertà
(x,y,z) indipendenti accessibili per l’elettrone.
Oltre al numero quantico principale n vi sono anche il numero quantico
orbitale  e il numero quantico magnetico orbitale m.
Dall’equazione [74] si vede che solo n individua le energie degli stati permessi
all’atomo d’idrogeno. Il significato di  ed m verrà illustrato nel prossimo paragrafo.
Per ora vediamo quali correlazioni emergono tra questi numeri dalla soluzione
dell’equazione d’onda:
- Numero quantico principale n: parte da 1 e non ha limite superiore.
- Numero quantico orbitale  : per ogni valore di n i valori permessi per  sono tutti
gli interi positivi a partire da 0 fino a (n-1) quindi in totale sono n.
- Numero quantico magnetico orbitale m: per ogni  i valori permessi per m sono
tutti gli interi compresi tra –  e +  (quindi un totale di 2  +1).
92
Per motivi storici i vari numeri quantici  , che vedremo essere associati alla forma
geometrica degli orbitali, di solito sono indicati con delle lettere:
0
simbolo s

1
p
2
d
3
f
4
g
5
h
Ecc.
….
Nella tabella successiva sono indicati gli stati permessi per l’atomo d’idrogeno fino ad
n= 3.
5.10.2) LE FUNZIONI D’ONDA DELL’ATOMO D’IDROGENO.
Per lo stato corrispondente ad n=1 si ha  =0 m=0, cioè uno stato 1s. Nel paragrafo
5.9.3) abbiamo già visto che l’equazione d’onda vale:

 1 r 
e
r
r1
r13
[68]
La notazione  1 va ora completata con gli altri numeri quantici che contraddistinguono
questo stato diventando:  100 .
Le equazioni [69] e [72] definiscono rispettivamente la densità di probabilità  2 e la
densità di probabilità radiale Pr  .
Gli stati26 n=2. Le funzioni d’onda corrispondenti a n=2 sono quattro cioè:
Orbitali
2s
2p
26
Funzioni d’onda
 200
 21, 1, 210 , 211
Il termine stati è sostituito molto spesso da orbitale.
93
Tutti questi stati corrispondono ad un’energia data dalla [74] con n=2 e pari a:
E2  13,6
1
 3,40eV
22
- Orbitale 2s - La fig.125a) illustra il comportamento della densità di probabilità
2
r  per l’orbitale 2s. Si nota che esso ha simmetria sferica come l’1s. L’analisi
 200
matematica completa dimostra che tutti gli orbitali s hanno questa proprietà di
simmetria sferica.
Fig.125
Sempre in fig.125b) è illustrata la corrispondente funzione densità di probabilità
radiale, che risulta in questo caso:
2
r
 r 2 
r
P200 r    3  2   e r1
r1 
 8r1 
[75]
Osservando questa equazione si nota che essa è nulla per r = 2r1.
- Orbitali 2p – Le tre funzioni d’onda 2p non hanno simmetria sferica; lo illustra
chiaramente la fig.126a) in cui sono rappresentate le funzioni densità di probabilità per
questi orbitali. Si vede che  2 , in questo caso, non dipende soltanto da r, ma anche
dalla variabile angolare  mostrata in figura.
94
Tutte e tre le distribuzioni hanno simmetria cilindrica rispetto all’asse z. Si nota
Fig.126
inoltre che le rappresentazioni di  2 con m =-1 e con m=1 sono identiche anche se le
corrispondenti funzioni d’onda sono diverse.
Anche se  212 , 1 r , , 212 ,0 r , , 212 ,1 r ,  in fig.126a) non hanno simmetria sferica,
tuttavia quando si considera la loro somma, si ottiene una grandezza che è sfericamente
simmetrica; tutti i termini contenenti la variabile  nella somma si annullano e
rimangono solo quelli dipendenti dalla variabile r. Pertanto la funzione densità di
probabilità radiale dipende solo da r e vale:
r
 r 4   r1
e
P2 P r   
4 
24
r
 1 
[76]
che è rappresentata in fig.126b).
Per gli altri numeri quantici le formule si complicano notevolmente e si
ottengono le varie forme degli orbitali che avete visto nei testi di chimica. Quello che
è importante capire però è il significato fisico che assumono queste forme cioè che
rappresentano, in ogni caso, una distribuzione di probabilità relativa alla presenza
dell’elettrone in quel volume e non un’orbita e tantomeno una “spalmatura”
dell’elettrone in una zona come a volte viene detto.
5.10.3) MOMENTO DELLA QUANTITA’
ANGOLARE).
DI MOTO (MOMENTO
Nella teoria di Bohr dell’atomo d’idrogeno abbiamo trovato che è quantizzato anche il
momento della quantità di moto dell’elettrone (par.5.7.4). Questo fatto portava a dire
che la giacitura delle orbite era limitata ad un numero discreto di angoli d’inclinazione
nello spazio, infatti L risultava:
L  n
95
[50]
Dalla meccanica ondulatoria si deduce che il modulo del momento angolare orbitale
L, associato agli stati dell’atomo d’idrogeno, ha valori:
L     1
[77]
dove  è il numero quantico orbitale, del cui nome si capisce ora l’origine. Proprio
come il numero quantico n identifica l’energia
dell’atomo, così il numero quantico orbitale 
identifica il modulo del suo momento angolare, che
si collega strettamente con la forma della
distribuzione di probabilità dell’orbitale considerato.
Risulta evidente come la formula [50] prevista da
Bohr sia errata.
Il numero quantico magnetico m è legato, nelle
formule derivanti dalla soluzione delle equazioni di
Schrodinger, alla componente del momento della
quantità di moto in una certa direzione. Nello spazio Fig.127
tutte le direzioni sono equivalenti, ma si può
individuare una direzione particolare mettendo
l’atomo in un campo magnetico esterno. Se si associa
l’asse z con la direzione del campo magnetico, la componente z del momento della
quantità di moto è data dalla formula:
Lz  m
[78]
Come si vede dalla fig.127 le possibili orientazioni dei vari orbitali sono strettamente
legate al valore di m tramite la [78] che impone al vettore L di assumere solo alcune
delle possibili inclinazioni nello spazio. Per questo motivo si è soliti dire che il numero
quantico magnetico m definisce l’orientamento degli orbitali nello spazio (ad esempio
orbitale 2px, 2py ecc.).
5.10.4) IL NUMERO QUANTICO DI SPIN.
Nonostante il perfetto accordo tra i risultati della meccanica ondulatoria e le
evidenze sperimentali in quasi tutti i fenomeni analizzati rimane a questo punto da
spiegare un’ultima anomalia che si presenta ancora in spettroscopia. Se si utilizzano
strumenti ad altissima risoluzione si può vedere che le righe spettrali dell’atomo
d’idrogeno non sono singole, come avevamo precedentemente visto, ma sono
costituite da un certo numero di componenti molto vicine, definite come la struttura
fine dello spettro.
96
Per venire a capo di questa anomalia è stato necessario introdurre un quarto
numero quantico magnetico di spin che è indicato con ms. I valori che può assumere
sono solo + ½ e – ½ .
Per capire a cosa faccia riferimento questo nuovo elemento quantistico
Uhlembeck e Goudsmit hanno postulato che l’elettrone, oltre al moto attorno al nucleo,
compia anche rotazioni su se stesso e di conseguenza abbia anche un momento della
quantità di moto rispetto al suo centro.
Da questa ipotesi risulta che il valore della componente di tale momento rispetto alla
direzione z è :
S z  ms 
[79]27
e può assumere solo due valori.
L’equazione d’onda per un elettrone risulta ora completamente definita quando sono
noti tutti e quattro i suoi numeri quantici.
Questo ha portato all’enunciazione del principio di esclusine di Pauli che afferma:
nello stesso stato quantico di un atomo non possono esserci due elettroni; cioè due
elettroni non possono avere lo stesso insieme di valori per i numeri quantici n,  , m,
ms.
Una conseguenza immediata di quanto appena visto è che in un orbitale, dato che i
valori di n,  ed m lo identificano, non ci possono stare più di due elettroni.
L’applicazione di questo principio ha portato alla costruzione della tavola periodica
degli elementi nella sua forma attuale.
5.11) LE MOLECOLE.
In natura si incontrano raramente atomi singoli; normalmente gli atomi si legano tra
loro per formare molecole o solidi. I due tipi principali di legami sono il legame ionico
e quello covalente. Altri tipi di legame importanti sono quelli di Wan der Waals, i
legami a ponte d’idrogeno e quello metallico. In molti casi l’unione tra atomi e
molecole è una miscela tra questi tipi di legame. In chimica avete descritto in modo
approfondito tutti i modelli usando spesso la nozione di orbitale e quindi i risultati della
meccanica ondulatoria. Ciò che si vuol vedere ora è dove interviene l’effetto
quantistico nella formazione dei legami. Analizzeremo solo i due casi corrispondenti
ai legami ionico e covalente.
- Legame ionico – Quando un atomo perde il suo elettrone più esterno28 diventa uno
ione positivo. Se un atomo, di specie diversa, cattura questo elettrone a sua volta
diventa uno ione negativo; l’energia liberata mediante l’acquisto di un elettrone è
chiamata affinità elettronica. L’energia potenziale elettrostatica dei due ioni a distanza
27
Dato che il momento della quantità di moto è un vettore ne segue che la sua componente z può avere solo due versi
corrispondente al segno + e – del numero quantico ms per questo si parla molto spesso di spin parallelo o antiparallelo
all’asse z.
28
Con il termine più esterno s’intende quello corrispondente allo stato con numeri quantici massimi.
97
r vale E p   Ke 2 r . Se la distanza tra gli ioni è dell’ordine di 1 nm in generale l’energia
potenziale elettrostatica è sufficiente a portare alla creazione del legame stabile tra gli
atomi. Questo è quanto si vede sperimentalmente.
Poiché l’attrazione elettrostatica aumenta quando gli ioni si avvicinano, potrebbe
sembrare che non possa esistere equilibrio. Però quando la distanza tra gli ioni è molto
piccola, entra in campo una forte repulsione di natura quantistica, che è legata al
principio di esclusione del Pauli. Si può spiegare qualitativamente questa repulsione
come segue.
Quando gli ioni sono molto lontani, la funzione d’onda di un elettrone interno di uno
degli ioni non si sovrappone a quella di uno qualsiasi degli elettroni dell’altro ione: è
possibile distinguere gli elettroni in base allo ione a cui appartengono. Invece, quando
gli ioni sono vicini, le funzioni d’onda degli elettroni interni cominciano a sovrapporsi
Fig.128
e alcuni elettroni devono andare in stati quantici di energia più alta a causa del principio
di esclusione. Questo non è un processo improvviso, gli stati energetici degli elettroni
vengono cambiati gradualmente man mano che gli elettroni si avvicinano. Nella
fig.128 è mostrato il grafico dell’energia potenziale degli ioni Na+ e Cl- in funzione
della distanza che li separa; questa curva è ottenibile solo con calcoli derivanti dalla
meccanica ondulatoria. L’energia è minima in corrispondenza ad una distanza di
equilibrio di circa 0,24 nm. Per distanze minori l’energia cresce ripidamente come
risultato del principio di esclusione; l’energia necessaria in questo caso per separare
gli
ioni,
chiamata
energia
di
Fig.129
ionizzazione, vale 4,23 eV.
- Legame covalente – In questo caso non
si ha trasferimento di elettroni da un
atomo all’altro in termini classici non
esiste una posizione di equilibrio, ad
esempio considerando quattro cariche
uguali in modulo ma due positive e due
negative come sono quelle che formano
la molecola H2, si vede che il problema
non ammette soluzioni di equilibrio né
statico né dinamico.
Per questo l’attrazione tra due atomi
d’idrogeno è un effetto completamente
98
quantistico. La diminuzione d’energia che si ha quando due atomi d’idrogeno si
avvicinano l’uno all’altro è dovuta al fatto che entrambi gli atomi condividono due
elettroni, ed è strettamente legata alla proprietà di simmetria delle funzioni d’onda
elettroniche. Un requisito di simmetria in relazione al principio di esclusione del Pauli
impone che:
- se gli spin dei due elettroni in H2 sono antiparalleli, la funzione d’onda  deve
essere simmetrica nello spazio;
- se, viceversa, sono paralleli la funzione d’onda deve essere antisimmetrica.
In fig.129 a) e b) sono mostrate queste situazioni per due distanze di separazione tra
gli atomi d’idrogeno. In fig.129c) sono evidenziate le densità di probabilità nei casi
simmetrico e asimmetrico; aspetto importante di questi grafici è che la distribuzione
di probabilità  2 nella regione tra i protoni è grande nel caso simmetrico e piccola in
quello asimmetrico. Quindi, quando gli spin dei due elettroni sono antiparalleli, gli
elettroni si trovano spesso nella regione tra i nuclei e i protoni sono legati tra loro dagli
elettroni carichi negativamente posti tra essi. Viceversa se gli elettroni hanno spin
parallelo, essi trascorrono poco tempo tra i nuclei, così che gli atomi non si legano tra
loro per formare una molecola.
Da quanto appena visto emerge che anche le molecole hanno strutture caratterizzate
da orbitali molecolari che possono essere a loro volta descritti tramite i quattro numeri
quantici n,  , m, ms. Le equazioni d’onda risultano combinazioni lineari di quelle di
partenza e le energie dei vari livelli sono molto più complesse da determinare.
5.11.1) SPETTRI MOLECOLARI.
Così come succede con gli atomi, viene spesso emessa radiazione elettromagnetica
quando una molecola compie una transizione da uno stato eccitato a uno stato di
energia minore. Viceversa, una molecola può assorbire radiazioni e compiere una
transizione da uno stato più basso a uno più alto. Ne segue che lo studio dell’emissione
molecolare e degli spettri di assorbimento o emissione fornisce informazioni sugli stati
eccitati delle molecole.
L’energia di una molecola è suddivisa in tre parti:
- energia dovuta all’eccitazione dei suoi elettroni;
- energia dovuta alla vibrazione della molecola;
- energia dovuta alla rotazione della molecola.
I valori di queste energie sono tanto diversi quanto
basta perché esse possano essere distinte.
Le energie degli stati eccitati elettronici di una
molecola hanno ordine di grandezza di 1 eV, come per
gli stati eccitati degli atomi. Le energie di vibrazione e
di rotazione sono molto minori.
Per introdurre il metodo d’analisi di questi spettri Fig.130
considereremo solo molecole biatomiche.
99
- Energia di rotazione –
La fig.130 mostra un semplice modello schematico di una molecola biatomica
costituita dalle masse m1 e m2, separate dalla distanza r, che ruotano attorno al centro
di massa. Dalla meccanica classica l’energia cinetica di rotazione risulta:
E
1 2
I
2
[80]
dove I è il momento d’inerzia e  la velocità angolare. Il momento della quantità di
moto di un sistema di questo tipo risulta:
L  I
[81]
Combinando la [80] con la [81] si ha:
2

I 
E
2I

L2
2I
[82]
dalla meccanica ondulatoria sappiamo che, per un atomo, il momento della quantità di
moto è quantizzato dall’equazione:
L     1
[77]
l’equazione di Schrodinger applicata alla molecola dà esattamente lo stesso risultato
però, mentre per l’atomo L rappresenta il momento della quantità di moto
dell’elettrone, in questo caso L rappresenta il momento angolare dell’intera molecola
rispetto al suo centro di massa.
Sostituendo la [77] nella [82] si ottengono i valori dei livelli energetici di una molecola
rotante:
  1 2
E
2I
[83]
A causa degli “urti” tra le molecole, i gas emettono energia sotto forma di fotoni dovuti
a salti tra livelli rotazionali permessi che, dati i bassi valori energetici sono
difficilmente separabili; questa branca della spettrometria 29 è molto importante per lo
studio della stereometria delle molecole in quanto permette di determinare facilmente
le distanze interatomiche.
29
Si parla in questo caso di spettrometria e non di spettroscopia perché, non essendo le bande nel visibile, è necessario
usare degli strumenti registratori al posto di quelli ottici.
100
ESEMPIO N.43
La frequenza di rotazione che si ricava dallo spettro di emissione del primo ordine
(   1 ) di una molecola di O2, è   1,2  1011 Hz (I.R.). Determinare la distanza tra i centri
dei due atomi.
Dati: mo  2,67  1026 kg;   1,05 10-34 Js ;   1;  1,2 1011 Hz
L’energia corrispondente risulta:
E  h  6,6  10341,2  1011  7,9  1023 J
Il momento d’inerzia rispetto al centro di massa vale:
2
2
1
r
r
I  mo    mo    mo r 2
2
2
2
dalla [83] si può esplicitare I:
  1 2
I
2E
[84]
[85]
sostituendo la [84] nella [85] si ha:
1
  1 2
mo r 2 
2
2E
r

  1 2

mo E


2
2 1,05  10-34
 1,0  1010 m
 26
 23
2,67  10 7,9  10
che è proprio la distanza interatomica delle molecole di ossigeno.
N.B. L’energia di rotazione è in questo caso dell’ordine di 10 -4eV cioè quattro ordini
di grandezza più piccola di quelle corrispondenti alle energie elettroniche che sono
dell’ordine di 1 eV.
- Energia di vibrazione –
Le energie di vibrazione sono da 10 a 100 volte più grandi di quelle rotazionali, ma
sono ancora molto minori di quelle associate a transizioni elettroniche.
Una molecola può essere considerata come un sistema di oscillatori armonici. Infatti
ogni legame chimico può essere considerato come una molla che collega tra loro gli
atomi, come indicato in fig.131. Il problema della
quantizzazione dell’energia in un oscillatore armonico
semplice è stato uno dei primi risolti da Schrodinger . La
soluzione trovata è:
Fig.131
1

E   n  h
2

con
n=0,1,2,3… [86]
dove  è la frequenza dell’oscillatore. Si nota che essendo zero il primo numero
quantico vibrazionale l’energia dello stato fondamentale di vibrazione risulta:
101
E
1
h
2
[87]
ne segue che la molecola è sempre in vibrazione30. A temperatura ambiente gran parte
delle molecole si trovano nello stato fondamentale perché la loro energia termica è
insufficiente per eccitarle a livelli di energia più alta. Per questo motivo gli spettri di
assorbimento osservati sperimentalmente sono dovuti quasi esclusivamente al
passaggio dal numero quantico n=0 a n=1.
Una particolare condizione che risulta dalla meccanica ondulatoria, chiamata regola
di selezione31 , impone che n cambi solo di  1 , così che l’energia del fotone emesso
vale:
1
1


E  n  1   h   n  h  h
2
2


[88]32
La fig.132 è una rappresentazione schematica di alcuni livelli energetici elettronici,
vibrazionali e rotazionali di una molecola. I livelli sono indicati dai numeri quantici n
per la vibrazione e  per la rotazione. I livelli vibrazionali più in basso sono
Fig.132
equispaziati come previsto dalla [88].
Per livelli vibrazionali più alti non è più valida l’approssimazione dell’oscillatore
armonico e i livelli non sono più spaziati uniformemente. La distanza tra i livelli
rotazionali aumenta all’aumentare di  . Poiché le energie di vibrazione e di rotazione
sono molto più piccole di quelle di eccitazione di un elettrone, la vibrazione e la
rotazione molecolari si manifestano negli spettri ottici (quando ci sono) sotto forma di
una suddivisione fine di righe. Se non si risolve questa struttura, lo spettro appare
costituito da bande come mostrato dalla fig. 133a). Le componenti delle bande sono
dovute a transizioni tra livelli vibrazionali di due stati elettronici com’è indicato nel
diagramma. Un esame più accurato di queste bande, evidenziato dall’ingrandimento
30
Contrariamente a quanto previsto dalla termodinamica nei cristalli gli atomi mantengono una vibrazione anche allo
zero assoluto (0 K).
31
In pratica però il legame chimico si comporta come un oscillatore anarmonico e quindi si possono osservare anche
transizioni che in base a questa regola sarebbero proibite, questo fenomeno viene definito overtone e dà luogo a bande di
overtone di intensità nettamente più bassa della fondamentale. Vedi fig. 133.
32
Esiste una regola di selezione anche per  per transizioni tra stati rotazionali che può cambiare di  1 .
102
di fig.133b), rivela che le bande hanno una struttura fine dovuta a livelli energetici
rotazionali.
La fig.134 mostra lo spettro di assorbimento dell’acido cloridrico. Il momento
d’inerzia dell’HCl può essere calcolato in base alla distanza tra i picchi nella figura.
La frequenza al centro dell’intervallo grande tra i picchi è la frequenza di vibrazione
della molecola.
La struttura doppia dei picchi deriva dal fatto che in natura si trovano due isotopi del
cloro, 35Cl e 37Cl in diversa proporzione
Fig.133
Per molecole più complesse di
quelle biatomiche i modi di
vibrare sono più di uno come
evidenziato nell’esempio di fig.
135. Il numero di modi di
vibrare per ogni molecola è pari
a:
Fig.134
N  3m  (3  3) [89]
103
dove m è il numero di atomi che compongono la molecola. Si nota che è pari alla
differenza fra il numero totale di gradi di libertà (3 per ogni atomo) della molecola e i
gradi di libertà traslazionali e rotazionali. Nella fig.135 sono evidenziati i 6 modi33 di
vibrare del gruppo metilenico (-CH2-). Nel caso la molecola sia lineare la formula [89]
diventa:
N  3m  3  2 [90]
in quanto le molecole lineari hanno un grado di libertà rotazionale in meno rispetto a
quelle bi e tridimensionali. Infatti la molecola O2 ha un solo grado di libertà
vibrazionale quello nella direzione del collegamento tra i due atomi.
Fig.135
33
I modi risultano 6 perché, non essendo il gruppo metilenico una molecola isolata, non è possibile usare la formula [89]
senza tener conto dei vincoli posti dal resto degli atomi a cui è legato il gruppo.
104
MODULO N.6
6) IMPIANTI A PANNELLI FOTOVOLTAICI
Lo scorso anno abbiamo analizzato brevemente quali sono le motivazioni per cui gli
impianti fotovoltaici sono particolarmente adatti al territorio italiano. Dopo aver
studiato le onde elettromagnetiche e un po’ di meccanica quantistica siamo ora in grado
di capire le modalità di funzionamento di questi pannelli che convertono direttamente
l’energia elettromagnetica solare in energia elettrica utilizzabile nei nostri impianti.
6.1) PRINCIPI GENERALI
Un impianto fotovoltaico trasforma direttamente ed istantaneamente l’energia solare
in energia elettrica senza l’utilizzo di alcun combustibile. Questa nuova tecnologia
sfrutta infatti l’effetto fotovoltaico, per mezzo del quale alcuni semiconduttori
opportunamente “drogati” generano elettricità se esposti alla radiazione solare.
I principali vantaggi degli impianti fotovoltaici possono riassumersi in:
• generazione distribuita nel luogo dove serve;
• assenza di emissione di sostanze inquinanti;
• risparmio di combustibili fossili;
• affidabilità degli impianti poiché non vi sono parti in movimento (vita utile di norma
superiore ai 20 anni);
• ridotti costi di esercizio e manutenzione;
• modularità del sistema (per incrementare la potenza dell’impianto è sufficiente
aumentare il numero di moduli) secondo le reali esigenze dell’utente.
Tuttavia, il costo iniziale per la realizzazione di un impianto fotovoltaico è ancora
piuttosto elevato a causa di un mercato che non ha ancora raggiunto la piena maturità
tecnica ed economica. Inoltre la produzione è discontinua a causa della variabilità della
fonte energetica solare.
La produzione elettrica annua di un impianto fotovoltaico dipende da diversi fattori tra
cui:
• radiazione solare incidente sul sito di installazione;
• inclinazione ed orientamento dei moduli;
• presenza o meno di ombreggiamenti;
• prestazioni tecniche dei componenti dell’impianto (principalmente moduli ed
inverter).
Le principali applicazioni degli impianti fotovoltaici sono:
1. impianti (con sistemi di accumulo) per utenze isolate dalla rete (stand-alone);
2. impianti per utenze collegate alla rete di bassa tensione (grid-connected);
3. centrali di produzione di energia elettrica fotovoltaica, generalmente collegate alla
rete in media tensione.
105
Gli incentivi in “conto energia” sono concessi solo per le applicazioni di tipo 2 e 3, in
impianti con potenza nominale non inferiore ad 1 kW. Un impianto fotovoltaico è
essenzialmente costituito da un generatore (moduli fotovoltaici), da una struttura di
sostegno per installare i moduli sul terreno, su un edificio o una qualsiasi struttura
edilizia, da un sistema di controllo e condizionamento della potenza, da un eventuale
accumulatore di energia, da quadri elettrici contenenti le apparecchiature di manovraprotezione e dai cavi di collegamento.
6.2) PRINCIPALI COMPONENTI DI UN IMPIANTO FOTOVOLTAICO
6.2.1) GENERATORE FOTOVOLTAICO
Il componente elementare del generatore è la cella fotovoltaica in cui avviene la
conversione della radiazione solare in corrente elettrica.
La cella è costituita da una sottile fetta di materiale semiconduttore, generalmente
silicio opportunamente trattato, dello spessore di circa 0.3 mm e con una superficie
compresa tra i 100 e i 225 cm2.
Il silicio, che ha quattro elettroni di valenza (tetravalente), viene “drogato” mediante
l’inserimento su una “faccia” di atomi trivalenti (es. boro – drogaggio P) e sull’altra
faccia con piccole quantità di atomi pentavalenti (es. fosforo – drogaggio N).
La regione tipo P ha un eccesso di lacune, mentre la regione tipo N ha un eccesso di
elettroni (figura 136).
+
E
Figura 136 - CELLA FOTOVOLTAICA
Nella zona di contatto tra i due strati a diverso drogaggio (giunzione P-N), gli elettroni
tendono a diffondersi dalla regione ad alta densità di elettroni (N) alla regione a bassa
densità di elettroni (P) creando pertanto un accumulo di carica negativa nella regione
P. Un fenomeno analogo avviene per le lacune, con un accumulo di carica positiva
nella regione N (più avanti vedremo l’analisi quantitativa del fenomeno).
106
Figura 137 - funzionamento di una cella
fotovoltaica
Si viene quindi a creare un campo elettrico
interno alla giunzione che si oppone all’ulteriore
diffusione di cariche elettriche. Se si applica una
tensione dall’esterno, la giunzione permette il
passaggio di corrente in un solo senso
(funzionamento da diodo).
Quando la cella è esposta alla luce, per effetto
fotovoltaico, vengono a crearsi delle coppie
elettrone-lacuna sia nella zona N che nella zona
P. Il campo elettrico interno permette di dividere
gli
elettroni
in
eccesso
(ottenuti
dall’assorbimento dei fotoni da parte del
materiale) dalle lacune e li spinge in direzioni
opposte gli uni rispetto agli altri.
Gli elettroni, una volta oltrepassata la zona di
svuotamento, non possono quindi più tornare
indietro perché il campo impedisce loro di
invertire il “senso di marcia”.
Connettendo la giunzione con un conduttore
esterno, si otterrà un circuito chiuso nel quale la
corrente fluisce dallo strato P, a potenziale
maggiore, verso lo strato N, a potenziale minore
fintanto che la cella resta illuminata. (figura
137). In figura 138 e nella sua didascalia sono
evidenziati gli elementi che concorrono
all’utilizzo dell’energia solare incidente e alla
quantità finale di questa energia che può venire
utilizzata dai nostri impianti (Eg energia di gap).
Figura 138 - Effetto fotovoltaico e rendimento elettrico
107
Come si vede il risultato finale è che solo il 16% dell’energia solare è effettivamente
convertita in energia elettrica.
Nelle condizioni di funzionamento standard (irraggiamento di 1kW/m2 alla
temperatura di 25°C) una cella fotovoltaica fornisce una corrente di circa 3A con una
tensione di 0.5V ed una potenza di picco pari a 1.5-1.7 Wp34.
In commercio si trovano i moduli fotovoltaici che sono costituiti da un insieme di celle.
I più diffusi racchiudono 36 (fino a 50) celle disposte su 4 file parallele collegate in
serie con una superficie che varia da 0.5 a 1 m2.
Più moduli collegati tra loro meccanicamente ed elettricamente formano un pannello,
( a volte di un solo modulo) ossia una struttura comune ancorabile al suolo o ad un
edificio. Più pannelli collegati elettricamente in serie costituiscono una stringa e più
stringhe, collegate elettricamente in parallelo per fornire la potenza richiesta,
costituiscono il generatore o campo fotovoltaico (fig.139).
Nei moduli, le celle fotovoltaiche non
sono tutte identiche a causa delle
inevitabili
difformità
di
fabbricazione, pertanto due blocchi
di celle collegate tra loro in parallelo
possono non avere la stessa tensione.
Si viene a creare conseguentemente
una corrente di circolazione dal
blocco di celle a tensione maggiore
verso quello a tensione minore.
Quindi una parte della potenza
prodotta dal modulo viene persa
all’interno del modulo stesso (perdite
Figura 139 - Composizione di un campo fotovoltaico
di mismatch). La disuguaglianza tra
le celle può essere determinata anche
da un diverso irraggiamento solare, ad esempio una parte di celle sono ombreggiate,
oppure dal loro deterioramento.
Tali celle si comportano come un diodo che blocca la corrente prodotta dalle altre celle.
Il diodo è sottoposto alla tensione delle altre celle, la quale può provocare la
perforazione della giunzione con surriscaldamento locale e danni al modulo.
Pertanto i moduli sono dotati di diodi di by-pass che limitano tale fenomeno,
cortocircuitando la parte del modulo ombreggiata o danneggiata. Anche tra le stringhe
del campo fotovoltaico si può creare il fenomeno di mismatch, a seguito della
disuguaglianza dei moduli, diverso irraggiamento delle stringhe, ombreggiamenti e
guasti di una stringa.
34
Definizione di kWp : Un campo fotovoltaico di potenza pari ad 1 kWp corrisponde ad un insieme di moduli FV, disposti
in serie, in grado di generare energia elettrica di potenza pari ad 1 kW se sottoposti ad un irraggiamento solare di 1.000 W/m2,
alla temperatura di 25 °C ed Air Mass 1,5. L’energia prodotta dall’impianto varia nel corso dell’anno e soprattutto della
giornata, in funzione delle condizioni meteorologiche e dell’altezza del sole sull’orizzonte. Il campo unitario-tipo di cui prima
genererà una potenza via via crescente a partire dalle prime ore del mattino, sino ad 1 kW quando il sole si trova allo zenit,
per poi decrescere gradualmente sino a portarsi allo zero quando il sole sarà tramontato. 1 kWp, installato in una località con
insolazione pari a quella riscontrabile in una località dell’Italia centrale (media annuale = 4,7 kWh/m 2/giorno), è in grado di
produrre almeno 1.300 kWh di energia elettrica utile all’anno.
108
Per evitare la circolazione di corrente inversa tra le stringhe si possono inserire diodi.
Le celle che costituiscono il modulo sono incapsulate con un sistema di assemblaggio
che:
• isola elettricamente le celle verso l’esterno;
• protegge le celle dagli agenti atmosferici e dalle sollecitazioni meccaniche;
• resiste ai raggi ultravioletti, alle basse temperature, agli sbalzi di temperatura e
all’abrasione;
• smaltisce facilmente il calore, per evitare che l’aumento di temperatura riduca la
potenza fornita dal modulo.
Tali proprietà devono permanere per la vita attesa del modulo.
La figura 140 mostra la sezione di un modulo standard in silicio cristallino, composto
da:
• una lamina di protezione sul lato superiore
esposto alla luce, caratterizzata da elevata
trasparenza (il materiale più utilizzato è il
vetro temprato);
• un materiale di incapsulamento per evitare
il contatto diretto vetro-cella, per eliminare
gli interstizi dovuti alle imperfezioni
superficiali delle celle e per isolare
elettricamente la cella dal resto del modulo;
Figura 140 - Sezione modulo fotovoltaico
nei processi che utilizzano la fase di
laminazione si impiega spesso il Vinil
Acetato di Etilene (EVA);
• un substrato di supporto posteriore (vetro, metallo, plastica, tedlar);
• una cornice metallica (telaio), usualmente in alluminio.
Nei moduli in silicio cristallino, per il collegamento delle celle, si utilizzano contatti
metallici saldati successivamente alla realizzazione delle celle; nei moduli a film sottile
il collegamento elettrico anteriore rientra nel processo di produzione della cella ed è
garantito da uno strato di ossidi metallici trasparenti, come l’ossido di zinco o l’ossido
di stagno.
6.2.2) INVERTER
Il sistema di condizionamento e controllo della potenza è costituito da un inverter che
trasforma la corrente continua in alternata controllando la qualità della potenza in
uscita per l’immissione in rete anche attraverso un filtro L-C interno all’inverter stesso.
La figura 141 mostra lo schema di principio di un inverter.
I transistor, utilizzati come interruttori statici, sono pilotati da un segnale di aperturachiusura che, nella forma più semplice, fornirebbe un’onda quadra in uscita.
La potenza fornita da un generatore fotovoltaico dipende dal punto in cui esso si trova
ad operare.
109
Per ottimizzare l’energia prodotta dall’impianto si deve adeguare il generatore al
carico, in modo tale che il punto di funzionamento corrisponda sempre a quello di
massima potenza.
Figura 141 - schema di un inverter monofase e MPPT
A tal fine viene utilizzato nell’inverter un chopper controllato denominato inseguitore
del punto di massima potenza (MPPT: Maximum Power Point Tracking) che
individua istante per istante la coppia di valori di tensione e corrente del generatore per
la quale la potenza fornita e massima. Il punto di massimo trasferimento di potenza
corrisponde al punto di tangenza tra la curva I,V per un dato valore di radiazione solare
è l’iperbole di equazione V . I = cost.
6.2.3) MODULI IN SILICIO CRISTALLINO
I moduli in silicio cristallino sono attualmente i più utilizzati negli impianti installati e
si suddividono in tre categorie:
• monocristallino, omogeneo a cristallo singolo, sono prodotti da cristallo di silicio di
elevata purezza. Il lingotto di silicio monocristallino è di forma cilindrica del diametro
di 13-20 cm e 200 cm di lunghezza, ottenuto per accrescimento di un cristallo filiforme
in lenta rotazione. Successivamente, tale cilindro viene opportunamente suddiviso in
wafer dello spessore di 200-250 μm e la superficie superiore viene trattata producendo
dei microsolchi aventi lo scopo di minimizzare la perdite per riflessione.
Il vantaggio principale di queste celle è l'efficienza (16-16,5%, fino a 20-22% per i
moduli ad alte prestazioni), a cui si associa una durata elevata ed il mantenimento delle
caratteristiche nel tempo.
Il prezzo di tali moduli è intorno a 0.80 €/W (2014) ed i moduli realizzati con tale
tecnologia sono caratterizzati usualmente da un’omogenea colorazione blu scuro.
• policristallino, in cui i cristalli che compongono le celle si aggregano tra loro con
forma ed orientamenti diversi.
Le iridescenze tipiche delle celle in silicio policristallino sono infatti dovute al diverso
orientamento dei cristalli ed il conseguente diverso comportamento nei confronti della
luce. Il lingotto di silicio policristallino è ottenuto mediante un processo di fusione e
colato in un contenitore a forma di parallelepipedo.
I wafers che si ottengono presentano forma squadrata e caratteristiche striature con
spessore di 180-300 μm.
110
L’efficienza è inferiore al monocristallino (15-16%, fino a 18-20% per i moduli ad alte
prestazioni), ma anche il prezzo è più basso: 0.73 €/W.
La durata è comunque elevata (paragonabile al monocristallino) ed anche il
mantenimento della prestazioni nel tempo (85% del rendimento iniziale dopo 20 anni).
Le celle con tale tecnologia sono riconoscibili dall’aspetto superficiale in cui si
intravedono i grani cristallini.
• quasi-monocristallino, che presenta una struttura intermedia tra il mono e il
policristallino.
Il metodo per ottenere i lingotti è simile a quello di produzione del policristallino, in
particolare, sul fondo del crogiuolo viene posto un cristallo di silicio monocristallino
che funge da “nucleo di condensazione” da cui si formeranno cristalli di grandi
dimensioni. Il raffreddamento del lingotto deve essere lento in modo da permettere che
i cristalli crescano senza frammentarsi e deve avvenire nella direzione che va dal
nucleo di silicio verso l’alto. Esistono anche altre tipologie di pannelli ottenute con
materiali diversi dal silicio di cui però non ci occuperemo.
6.3) TIPOLOGIA DEGLI IMPIANTI FOTOVOLTAICI
6.3.1) IMPIANTI ISOLATI (stand-alone)
Sono impianti non collegati alla rete elettrica, sono costituiti da moduli fotovoltaici e
da un sistema di accumulo che garantisce l’erogazione di energia elettrica anche nei
momenti di scarsa illuminazione o nelle ore di buio.
Essendo la corrente erogata dal generatore fotovoltaico di tipo continuo, se l’impianto
utilizzatore richiede l’utilizzo di corrente alternata è necessaria l’interposizione
dell’inverter.
Tali impianti risultano tecnicamente ed economicamente vantaggiosi qualora la rete
elettrica sia assente o difficilmente raggiungibile, sostituendo spesso i gruppi
elettrogeni.
Inoltre, in una configurazione stand-alone, il campo fotovoltaico è sovra- dimensionato
al fine di consentire, durante le ore di insolazione, sia l’alimentazione del carico sia la
ricarica delle batterie di accumulo con un certo margine di sicurezza per tener conto
delle giornate di scarsa insolazione.
Attualmente le applicazioni più diffuse servono ad alimentare :
• apparecchiature per il pompaggio dell’acqua;
• ripetitori radio, stazioni di rilevamento e trasmissione dati (meteorologici o sismici);
• sistemi di illuminazione;
• segnaletica sulle strade, nei porti e negli aeroporti;
• alimentazione dei servizi nei camper;
• impianti pubblicitari;
• rifugi in alta quota.
6.3.2) IMPIANTI COLLEGATI ALLA RETE (grid-connected)
111
Gli impianti collegati permanentemente alla rete elettrica assorbono energia da essa
nelle ore in cui il generatore fotovoltaico non è in grado di produrre l’energia
necessaria a soddisfare il bisogno dell’impianto utilizzatore.
Viceversa, se il sistema fotovoltaico produce energia elettrica in eccesso rispetto al
fabbisogno dell’impianto utilizzatore, il surplus viene immesso in rete: sistemi
connessi alla rete non necessitano pertanto di batterie di accumulatori.
Tali impianti (figura 142) offrono il vantaggio della generazione distribuita, anzichè
centralizzata, difatti l’energia prodotta nei pressi dell’utilizzazione ha un valore
Figura 142 - Schema impianto grig-connected
maggiore di quella fornita dalle grosse centrali tradizionali, perché si limitano le
perdite di trasmissione e si riducono gli oneri economici dei grossi sistemi elettrici di
trasporto. Inoltre la produzione di energia nelle ore di sole consente di ridurre la
domanda alla rete durante il giorno, proprio quando si verifica la maggiore richiesta.
6.4) FUNZIONAMENTO DELLE CELLE FOTOVOLTAICHE
Come ricorderete dalla chimica il comportamento elettrico degli elementi suddivide la
tabella periodica in tre zone rispettivamente dei metalli, dei non metalli e dei
semiconduttori. In base a quanto visto in meccanica quantistica questa suddivisione è
strettamente collegata alla disposizione delle bande di energia di valenza e di
conduzione che contraddistinguono ogni categoria, bande che sono rappresentate in
figura 143 a temperatura ambiente.
112
Figura 143 - Bande di energia
Come si vede i metalli hanno la banda di conduzione che risulta parzialmente
sovrapposta a quella di valenza, quindi nei solidi sono presenti elettroni liberi (mare di
Fermi – legame metallico) che possono spostarsi formando correnti elettriche se
sollecitati da un campo esterno, pertanto vengono definiti materiali conduttori. Per i
non metalli le due bande sono nettamente separate presentando un gap di energia
dell’ordine di 4-7 eV; ciò comporta che gli elettroni di valenza sono vincolati a
rimanere negli atomi di pertinenza (legame ionico) e quindi non possono essere
prodotte correnti con i campi esterni che generalmente si usano per questi scopi, quindi
essi sono definiti materiali isolanti. Per i semiconduttori il gap energetico esiste ancora,
ma è limitato a piccoli valori di energia dell’ordine di 1 eV (ad esempio per il Silicio
vale 1.11 eV).
Come si vede i semiconduttori sono in una situazione intermedia tra gli isolanti e i
conduttori quindi anche a temperatura ambiente possono condurre corrente che diventa
tanto maggiore quanto più alta è la temperatura (n.b. esattamente il contrario dei
metalli). Il principale semiconduttore utilizzato per i pannelli fotovoltaici è il Silicio.
Risulta evidente come, per ottenere l’effetto fotoelettrico, siano indicati i
semiconduttori in quanto i fotoni della luce, le cui energie non sarebbero sufficienti a
produrlo negli isolanti, ne hanno abbastanza per i semiconduttori dato il piccolo gap
energetico che richiedono.
A temperatura ambiente il silicio è un solido cristallino con gli atomi che formano un
legame covalente. L’energia necessaria per la transizione tra la BV (banda di valenza)
e la BC (banda di conduzione) oltre che da fotoni può essere fornita anche da un
aumento di temperatura. La formula che descrive la concentrazione di elettroni nella
banda di conduzione di un semiconduttore intrinseco (termine che indica un
semiconduttore puro) in funzione della temperatura è:
𝐸
𝑔0
𝑛𝐼 = √𝐵𝑇 3 𝑒 − 𝐾𝑇
[1]
Dove nI è la concentrazione dei portatori di carica, B una costante di temperatura, E go
è l’energia di gap tra le bande di valenza e di conduzione allo zero assoluto, K la
costante di Boltzman. Per il silicio a temperatura di 300 K il numero di elettroni per
unità di volume vale 1,1.1016 elettroni/m3 valore apparentemente molto grande ma che
113
risulta non significativo rispetto al numero di atomi presenti nello stesso volume che è
di 5.1028 atomi/m3. ( Silicio Eg=1.16 eV, GaAs Eg=1.52 eV, B=1.90.1043 1/K3)
ESEMPIO N.43
La luce che permette di far crescere la conducibilità di un semiconduttore ha una
lunghezza d’onda tale che il suo valore sia minore di 350 𝜇𝑚. Calcolare il valore della
larghezza della banda proibita EG (energia di gap).
Dati: l< 350 mm;
Tale energia deve essere pari al valore di un fotone che ha la frequenza di questa luce
e pertanto vale:
𝐸𝐺 = ℎ𝜈 = ℎ
𝑐
= 3.5 𝑒𝑉
𝜆
6.4.1) DROGAGGIO p ED n
Per aumentare la concentrazione di elettroni mobili in un semiconduttore si inseriscono
in un semiconduttore intrinseco delle impurità costituite o da elementi del V gruppo o
da elementi del III gruppo; tale
operazione si definisce drogaggio.
Consideriamo il drogaggio del Silicio
tramite il Fosforo (V gruppo). In tal
caso l’elettrone del Fosforo non
utilizzato per formare i quattro legami
covalenti con il Silicio (fig.136) è
Figura 144 - Drogaggio p ed n
libero di muoversi nella banda di
conduzione che è cambiata diventando come in figura 144b; per questo motivo i
semiconduttori che hanno un drogaggio con elementi del V gruppo vengono definiti
di tipo n (negativi). All’opposto se si usa il Boro (III gruppo) si formano i tre legami
covalenti e rimane una lacuna in corrispondenza della posizione in cui dovrebbe
formarsi il quarto legame (fig.136). Una lacuna è vista, oltre che come mancanza di un
elettrone, anche come un portatore di carica positiva. Se un semiconduttore è drogato
con un elemento del III gruppo esso presenta un elevato numero di lacune positive e
pertanto è indicato come drogaggio di tipo p (fig.114c). L’ordine di grandezza degli
atomi dopanti è di 1021 atomi/m3. L’inserimento di queste impurità nel Silicio aumenta
in modo enorme la concentrazione di portatori di carica e rende il semiconduttore più
sensibile alla radiazione elettromagnetica. Infatti i fotoni incidenti su un
semiconduttore hanno una certa probabilità di far passare un elettrone dalla banda di
valenza a quella di conduzione; questa probabilità è definita efficienza quantica (QE)
e questo valore aumenta in modo significativo per i semiconduttori drogati.
114
6.4.2) CELLA FOTOVOLTAICA
Ponendo a contatto un semiconduttore drogato di tipo n con lo stesso semiconduttore
drogato di tipo p si genera una giunzione e , a cavallo di questa, si forma una zona di
piccolo spessore all’interno della quale le lacune tendono ad essere colmate dagli
elettroni in eccesso. Si ottiene in questo modo una zona di svuotamento cioè priva di
cariche libere di muoversi. Il sistema appena descritto è definito giunzione p-n.
E
Figura 145 - Cella fotovoltaica
La figura 145 evidenzia come le cariche fisse all’interno della regione di svuotamento
generano un campo elettrico E orientato dal semiconduttore tipo n verso quello tipo p.
Questa giunzione è l’elemento fondamentale della cella fotovoltaica in quanto, quando
un fotone con un’energia sufficiente arriva agli atomi nella zona corrispondente alla
giunzione, esiste una notevole probabilità che riesca a far raggiungere ad un elettrone
nella banda di valenza la banda di conduzione. Si crea quindi una coppia elettronelacuna e, a causa del campo, le due cariche vengono separate e spinte in direzioni
opposte generando così una corrente nel semiconduttore che, se è collegato ad un
circuito come in fig.137, può essere utilizzata per far funzionare degli apparecchi
elettrici. In altri termini la cella funziona come una pila. Ricordiamo che il verso
convenzionale della corrente elettrica è opposto a quello del moto degli elettroni.
Vediamo un primo utilizzo di una giunzione p-n in una situazione nella quale non c’è
illuminazione della cella, ma le si applica dall’esterno una differenza di potenziale
come in figura 146. Questa è la configurazione di un diodo. (Ricordare che attualmente
sono molto pubblicizzate le lampadine a diodo, i LED, per il risparmio energetico che
permettono rispetto a quelle tradizionali.)
115
V
Id
Figura 147 - Funzionamento di un DIODO
Applicando una differenza di potenziale V ai capi di un diodo si produce un
restringimento della zona di svuotamento e quindi si facilita il passaggio di elettroni
dalla regione n a quella p. Si induce così una corrente Id che dipende dal potenziale V
secondo la formula:
𝑄𝑉
𝐼𝑑 = 𝐼𝐷 (𝑒 𝐴𝐾𝑇 − 1)
[2]
Dove Q è il modulo della carica dell’elettrone, K la costante di Boltzman, T la
temperatura assoluta di funzionamento, A la costante del materiale (per il Silicio vale
2) e ID (ID=1.10A germanio) la corrente di saturazione inversa che dipende dal tipo
di semiconduttore e dalla concentrazione di atomi di drogaggio. In questa situazione
l’energia ottenuta dalla ricombinazione viene emessa sotto forma di fotoni luminosi.
Circuito equivalente della cella
Una cella fotovoltaica può essere considerata come un generatore di corrente e può
essere rappresentata dal circuito equivalente della figura 148.
La corrente ai terminali d’uscita I è pari alla corrente generata per effetto fotovoltaico
Ig dal generatore ideale di corrente, diminuita della corrente di diodo Id e della corrente
di dispersione Il.
La resistenza in serie Rs rappresenta la resistenza interna al flusso di corrente generata
e dipende dallo spessore della giunzione p-n, dalle impurità presenti e dalle resistenze
di contatto. La conduttanza35 di dispersione Gl tiene conto della corrente verso terra
nel normale funzionamento.
In una cella ideale si avrebbe Rs=0 e Gl=0. In una cella al silicio di alta qualità si hanno
invece una Rs=0.05 ÷ 0.10Ω ed una Gl=3.5mS.
L’efficienza di conversione della cella fotovoltaica risente molto anche di una piccola
variazione di Rs, mentre è molto meno influenzata da una variazione di Gl.
35
Ricordiamo che la definizione di conduttanza :
G=1/R con unità di misura [S] siemens
116
Figura 148 - Circuito equivalente di una cella fotovoltaica
La tensione a vuoto Voc si presenta quando il carico non assorbe corrente (I=0) ed è
data dalla relazione:
𝐼𝑙
𝑉𝑜𝑐 =
[3]
𝐺𝑙
La corrente di diodo è fornita dalla classica espressione della corrente diretta [2] scritta
nella forma:
𝑄𝑉𝑜𝑐
𝐼𝑑 = 𝐼𝐷 (𝑒 2𝐾𝑇 − 1)
[4]
dove:
• ID è la corrente di saturazione del diodo;
• Q è la carica dell’elettrone (1.6 . 10-19 C)
• 2 è il fattore di identità del diodo del Silicio A=2
• K è la costante di Boltzmann
• T è la temperatura assoluta in K
La corrente utile risulta quindi:
𝑄𝑉𝑜𝑐
𝐼 = 𝐼𝑔 − 𝐼𝑑 − 𝐼𝑙 = 𝐼𝑔 − 𝐼𝐷 (𝑒 2𝐾𝑇 − 1) − 𝐺𝐼 𝑉𝑜𝑐 [5]
L’ultimo termine, la corrente di dispersione verso terra Il, nelle usuali celle è
trascurabile rispetto alle altre due correnti.
La corrente di saturazione del diodo può pertanto essere determinata
sperimentalmente applicando la tensione a vuoto Voc in una cella non illuminata e
misurando la corrente fluente all’interno della cella.
Caratteristica tensione-corrente di un modulo
La caratteristica tensione-corrente di un modulo fotovoltaico è rappresentata in figura
149. In condizioni di corto circuito la corrente generata è massima (Isc), mentre in
condizioni di circuito aperto è massima la tensione (Voc). Nelle due condizioni
precedenti la potenza elettrica prodotta dal modulo è nulla, mentre in tutte le altre
condizioni, all’aumentare della tensione aumenta la potenza prodotta, raggiungendo
117
dapprima il punto di massima potenza (Pm) e poi diminuendo repentinamente in
prossimità della tensione a vuoto.
Figura 149 - Diagramma tensione corrente di una cella fotovoltaica
Pertanto i dati caratteristici di un modulo fotovoltaico si riassumono in:
• Isc corrente di corto circuito;
• Voc tensione a vuoto;
• Pm (Wm) potenza massima prodotta in condizioni standard (STC);
• Im corrente prodotta nel punto di massima potenza;
• Vm tensione nel punto di massima potenza;
• FF fattore di riempimento: è un parametro che determina la forma della curva
caratteristica V,I ed è il rapporto tra la potenza massima ed il prodotto (Voc . Isc ) della
tensione a vuoto per la corrente di corto circuito
Schema circuitale di connessione alla rete
Un impianto fotovoltaico connesso alla rete ed alimentante un impianto utilizzatore
può essere rappresentato in modo semplificato attraverso lo schema di figura 150.
La rete di alimentazione (supposta a potenza di corto circuito infinita) è schematizzata
mediante un generatore ideale di tensione il cui valore è indipendente dalle condizioni
di carico dell’impianto utilizzatore.
Il generatore fotovoltaico è al contrario rappresentato da un generatore ideale di
corrente (corrente costante a parità di irraggiamento solare), mentre l’impianto
utilizzatore da una resistenza Ru.
Figura 150 - Schema di circuito di impianto fotovoltaico connesso alla rete
118
Nel nodo N di figura 150 convergono le correnti Ig ed Ir, provenienti rispettivamente
dal generatore fotovoltaico e dalla rete, ed esce la corrente Iu assorbita dall’impianto
utilizzatore:
𝐼𝑈 = 𝐼𝑔 + 𝐼𝑟
[6]
Poichè la corrente sul carico è anche il rapporto tra la tensione di rete U e la resistenza
del carico stesso Ru:
𝑈
𝐼𝑈 =
[7]
𝑅𝑈
la relazione sulle correnti diventa:
𝑈
𝐼𝑟 =
− 𝐼𝑔
[8]
𝑅𝑈
Se nella [8] si pone Ig = 0, come ad esempio si può verificare durante le ore notturne,
la corrente che il carico assorbe dalla rete risulta:
𝑈
𝐼𝑟 =
[9]
𝑅𝑈
Viceversa, se tutta la corrente generata dall’impianto fotovoltaico è assorbita
dall’impianto utilizzatore, si annulla la corrente fornita dalla rete e pertanto la [8]
diventa:
𝑈
𝐼𝑔 =
[10]
𝑅𝑈
Se al crescere dell'irraggiamento solare la corrente generata Ig diventa superiore a
quella richiesta dal carico Iu, la corrente Ir diventa negativa, ossia non e più prelevata
bensì immessa in rete.
Moltiplicando i termini della [6] per la tensione di rete U si possono fare le
considerazioni precedenti anche in termini di potenze, assumendo come:
• Wu= Pu = U . Iu = U2/Ru la potenza assorbita dall’impianto utilizzatore;
• Wg= Pg = U . Ig la potenza generata dall’impianto fotovoltaico;
• Wr= Pr = U . Ir la potenza fornita dalla rete.
Potenza nominale di picco
La potenza nominale di picco (kWp) è la potenza elettrica che un impianto fotovoltaico
è in grado di erogare in condizioni di prova standard (STC):
• 1 kW/m2 di irraggiamento perpendicolarmente ai moduli;
• 25°C di temperatura delle celle;
• massa d’aria (AM) pari a 1.5.
La massa d’aria influenza la produzione energetica fotovoltaica in quanto è un indice
dell’andamento della densità spettrale di potenza della radiazione solare. Difatti
quest’ultima ha uno spettro con una caratteristica W/m2-lunghezza d’onda che varia
anche in funzione della densità dell’aria.
L’indice di massa d’aria AM si determina nel modo seguente:
119
𝐴𝑀 =
𝑝
𝑝𝑜 𝑠𝑒𝑛(𝑧)
[11]
dove:
p è la pressione atmosferica rilevata nel punto e nell’istante considerati [Pa];
po è la pressione atmosferica di riferimento a livello del mare [1.013 . 105 Pa];
z è l’angolo di zenit, ossia l’angolo di elevazione del Sole sull’orizzonte locale
nell’istante considerato (vedi modulo 4 par.4.3.2).
6.5) PRODUZIONE ENERGETICA ANNUALE ATTESA
Dal punto di vista energetico, il principio progettuale utilizzato usualmente per un
generatore fotovoltaico è quello di massimizzare la captazione della radiazione solare
annua disponibile. In alcuni casi (es. impianti fotovoltaici stand-alone) il criterio di
progettazione potrebbe essere quello di ottimizzare la produzione energetica in
determinati periodi dell’anno.
L’energia elettrica che un impianto fotovoltaico può produrre nell’arco di un anno
dipende soprattutto da:
• disponibilità della radiazione solare;
• orientamento ed inclinazione dei moduli;
• rendimento dell’impianto fotovoltaico.
Poichè l’irraggiamento solare è variabile nel tempo, per determinare l’energia elettrica
che l’impianto può produrre in un fissato intervallo di tempo si prende in
considerazione la radiazione solare relativa a quell'intervallo di tempo, assumendo che
le prestazioni dei moduli siano proporzionali all’irraggiamento.
I valori della radiazione solare media in Italia si possono desumere da:
• norma UNI 10349: riscaldamento e raffreddamento degli edifici.
Dati climatici;
• atlante solare europeo che si basa sui dati registrati dal CNR-IFA (Istituto di Fisica
dell’Atmosfera) nel decennio 1966-1975. Riporta mappe isoradiative del territorio
italiano ed europeo su superficie orizzontale o inclinata;
• banca dati ENEA: dal 1994 l’ENEA raccoglie i dati della radiazione solare sull’Italia,
tramite le immagini del satellite Meteosat. Le mappe finora ottenute sono state
riportate in due pubblicazioni: una relativa all’anno 1994 ed un’altra relativa al periodo
1995-1999.
Per tutta l’analisi relativa alla fornitura di energia solare si rimanda al Modulo 4
relativo ai pannelli solari termici che, per quanto riguarda la procedura di calcolo per
l’irraggiamento, utilizza la stessa procedura che si applica anche ai pannelli
fotovoltaici. Riportiamo di seguito alcune tabelle delle norme UNI 10349 di cui
disponete in forma completa nel formulario.
120
Figura 151 - tabella UNI 10349 per la radiazione solare annuale
Figura 152 - alcuni valori dell'irraggiamento mensile della banca dati ENEA
Tali tabelle rappresentano rispettivamente, per diverse località italiane, i valori della
radiazione solare media annuale su piano orizzontale [kWh/m2] e valori medi
giornalieri mese per mese [kWh/m2/giorno] da fonte ENEA.
La radiazione solare annua per una data località può variare da una fonte all’altra anche
del 10%, poiché, come ricordate, deriva da elaborazioni statistiche di dati relativi a
periodi di rilevazione diversi; inoltre tali dati sono soggetti alla variazione delle
condizioni meteorologiche da un anno all’altro. Pertanto i valori di radiazione hanno
un significato probabilistico, cioè un valore atteso e non certo.
Partendo dalla radiazione media annuale Ema per ottenere l’energia attesa prodotta
all’anno Ep per ogni kWp si procede attraverso la seguente formula:
𝐸𝑃 = 𝐸𝑚𝑎 𝜂𝐵𝑂𝑆
[12]
Dove:
- BOS (Balance Of System) è il rendimento complessivo di tutti i componenti
dell’impianto fotovoltaico a valle dei moduli (inverter, connessioni, perdite
dovute all’effetto della temperatura, perdite dovute a dissimmetrie nelle
prestazioni, perdite per ombreggiamento e bassa radiazione, perdite per
riflessione…).
Tale rendimento, in un impianto correttamente progettato ed installato, può essere
compreso tra 0.75 e 0.85.
Prendendo invece in considerazione la radiazione media giornaliera Emg, per ottenere
l’energia attesa prodotta all’anno per ogni kWp si ottiene:
121
𝐸𝑃 = 365𝐸𝑚𝑔 𝜂𝐵𝑂𝑆
[13]
ESEMPIO N. 44
Si vuole determinare l’energia media annua prodotta da un impianto fotovoltaico,
posto su piano orizzontale, di 3 kWp installato in Italia a Bergamo. Si suppone che il
rendimento dei componenti d’impianto sia pari a 0.75.
Dalla tabella della norma UNI 10349 si ricava una radiazione media annuale di 1276
kWh/m2. Assumendo di essere nelle condizioni standard pari a 1 kW/m2, si avrà una
produzione media annuale attesa pari a:
Ep = 3. 1276 . 0.75 = 3062 kWh
La procedura di calcolo completa che tiene conto dell’orientamento azimutale e di tilt
dei pannelli è però la stessa vista per i pannelli solari termici a cui si rimanda (modulo
4).
Ricordiamo solamente che un modulo non orizzontale riceve, oltre alla radiazione
diretta e diffusa, anche la radiazione riflessa dalla superficie circostante in cui si trova
(componente di albedo).
Solitamente si assume un fattore di albedo 0.2. Per una prima valutazione della
producibilità annua di energia elettrica di un impianto fotovoltaico è in genere
sufficiente applicare alla radiazione media annuale sul piano orizzontale i coefficienti
correttivi delle tabelle seguenti (riferiti al contesto italiano):
Figura 153 - Nord Italia latitudine 44°
ESEMPIO N.45
Si vuole determinare l’energia media annua prodotta dall’impianto fotovoltaico
dell’esempio precedente, disposto ora con un orientamento di +15° ed un’inclinazione
di 30°.
Dalla tabella 2.3 si ricava un coefficiente maggiorativo pari a 1,12. Moltiplicando tale
coefficiente per l’energia attesa su piano orizzontale ottenuta nell’esempio precedente
la producibilità attesa diventa:
E = 1,12 . Ep = 1,12 . 3062 ≈ 3430 kWh
122
6.5.1) TENSIONI E CORRENTI IN UN IMPIANTO FV
I moduli fotovoltaici generano una corrente di 4-10A ad una tensione di 30-40V.
Per ottenere la potenza elettrica progettuale di picco, i moduli vengono collegati
elettricamente in serie formando le stringhe, le quali a loro volta vengono poste in
parallelo.
La tendenza è di creare stringhe costituite dal maggior numero di moduli possibile,
data la complessità ed il costo di cablaggio, specie dei quadri di parallelo fra le stringhe
stesse.
Il numero massimo di moduli che possono essere collegati in serie (e quindi la tensione
massima raggiungibile) per costituire una stringa è determinato dal range di operatività
dell’inverter (vedi più avanti) e dalla disponibilità di apparecchi di sezionamento e
protezione idonei all’utilizzo alla tensione raggiunta. In particolare, la tensione
dell’inverter è legata, per ragioni di efficienza, alla sua potenza: usualmente
utilizzando inverter con potenza inferiore a 10 kW, il range di tensione più
comunemente impiegato è tra 250V e 750V, mentre con potenza dell’inverter
superiore a 10 kW, il range di tensione usuale è tra 500V e 900V.
Variazione dell'energia prodotta
I principali fattori che influenzano l’energia elettrica prodotta da un impianto
fotovoltaico sono:
• irraggiamento
• temperatura dei moduli
• ombreggiamenti
- Irraggiamento
In funzione dell’irraggiamento incidente sulle celle fotovoltaiche, la caratteristica V,I
delle stesse si modifica come indicato in figura 154.
Figura 154- andamento della tensione in funzione dell'irraggiamento
123
Al diminuire dell’irraggiamento diminuisce proporzionalmente la corrente
fotovoltaica generata, mentre la variazione della tensione a vuoto è minima.
L’efficienza di conversione non è, di fatto, influenzata dalla variazione
dell’irraggiamento entro il range di normale funzionamento delle celle, il che significa
che l’efficienza di conversione è la stessa sia in una giornata serena che nuvolosa.
La minor potenza prodotta con cielo nuvoloso è riconducibile pertanto, non ad una
diminuzione dell’efficienza, ma ad una ridotta produzione di corrente per minor
irraggiamento.
- Temperatura dei moduli
Contrariamente al caso precedente all’aumentare della temperatura dei moduli
fotovoltaici, la corrente prodotta resta praticamente invariata, mentre decresce la
tensione e con essa si ha una riduzione delle prestazioni dei moduli in termini di
potenza elettrica prodotta (figura 155).
La variazione della tensione a vuoto Voc di un
modulo fotovoltaico, rispetto alle condizioni
standard36 Voc,stc, in funzione della temperatura di
lavoro delle celle Tcel, è espressa dalla formula
seguente (guida CEI 82-25 II ed.):
𝑉𝑜𝑐 = 𝑉𝑜𝑐𝑠𝑡𝑐 − 𝑁𝑆 𝛽(25 − 𝑇𝑐𝑒𝑙 )
[14]
dove:
Figura 155 - Variazione di tensione in funzione
della temperatura delle celle
- β e il coefficiente di variazione della tensione
con la temperatura e dipende dalla tipologia del
modulo fotovoltaico (in genere -2.2 mV/°C/cella per moduli in Silicio cristallino e
circa -1.5 . -1.8 mV/°C/cella per moduli in film sottile);
- Ns (~50)e il numero di celle in serie nel modulo. (generalmente NS=-0.107 V/°C)
Al fine di evitare quindi un’eccessiva riduzione delle prestazioni è opportuno tenere
sotto controllo la temperatura in esercizio cercando di dare ai moduli una buona
ventilazione che limiti la variazione di temperatura stessa su di essi. Così facendo si
può ridurre la perdita di energia per effetto della temperatura (rispetto ai 25°C delle
condizioni standard) ad un valore intorno al 7%.
36
STC condizioni standard di temperatura e irraggiamento 25°C e 1 k W/m2
124
- Ombreggiamenti
Considerata l’area occupata dai moduli di un impianto fotovoltaico, può accadere che
una parte di essi (una o più celle) venga ombreggiata da alberi, foglie che si depositano,
camini, nuvole o da moduli fotovoltaici installati nelle vicinanze.
In caso di ombreggiamento una cella fotovoltaica costituita da una giunzione P-N
smette di produrre energia e diventa un carico passivo.
Tale cella si comporta come un diodo che blocca la corrente prodotta dalle altre celle
collegate in serie con la conseguente compromissione di tutta la produzione del
modulo. Inoltre il diodo è soggetto alla tensione delle altre celle che può provocare la
perforazione della giunzione con surriscaldamento localizzato (hot spot) e danni al
modulo. Per evitare che una o più celle ombreggiate vanifichino la produzione di
un’intera stringa, a livello dei moduli vengono inseriti dei diodi di by-pass che
cortocircuitano la parte di modulo in ombra o danneggiata. Così facendo si garantisce
il funzionamento del modulo pur con un’efficienza ridotta. Teoricamente occorrerebbe
inserire un diodo di by-pass in parallelo ad ogni singola cella, ma ciò sarebbe troppo
oneroso nel rapporto costi/benefici. Pertanto solitamente vengono installati tra 2 a 4
diodi di bypass per modulo (figura156).
Figura 156 - Collegamento dei diodi di bypass
6.5.2) CONFIGURAZIONE DEL CAMPO SOLARE
Il collegamento delle stringhe costituenti il campo solare dell’impianto fotovoltaico
può avvenire principalmente prevedendo:
• un unico inverter per tutto l’impianto (impianto mono-inverter o ad inverter
centralizzato) (figura 157);
• un inverter per ogni stringa;
• un inverter per più stringhe (impianto multi-inverter).
125
- Impianto mono-inverter37
Noi ci occuperemo solo di questa tipologia in quanto tale configurazione è utilizzata
nei piccoli impianti con moduli dello stesso tipo e aventi la stessa esposizione, cioè la
situazione che incontrerete nella maggior parte dei casi che vi si presenteranno.
Si hanno vantaggi economici derivanti dalla presenza di un unico inverter, in termini
di riduzione dell’investimento iniziale e degli oneri di manutenzione. Tuttavia l’avaria
del singolo inverter comporta l’arresto della produzione dell’intero impianto. Inoltre
tale soluzione è poco adatta all’aumentare dell’estensione (e con essa della potenza di
picco) dell’impianto FV, poichè si incrementano i problemi di protezione dalle
sovracorrenti ed i problemi derivanti da un diverso ombreggiamento, ossia quando
l’esposizione dei moduli non è identica su tutto l’impianto.
L’inverter regola il suo funzionamento attraverso il MPPT38, tenendo conto dei
parametri medi delle stringhe collegate all’inverter stesso: quindi, se tutte le stringhe
sono collegate ad un unico inverter, l’ombreggiamento od il guasto di una o parte di
esse comporta una maggior riduzione delle prestazioni elettriche d’impianto rispetto
alle altre configurazioni.
Figura 157 - Impianto mono-inverter
- Scelta ed interfacciamento inverter
La scelta dell’inverter e della sua taglia, va effettuata in base alla potenza nominale
fotovoltaica che esso deve gestire. Si può stimare la taglia dell’inverter, scegliendo tra
0.8 e 0.9 il rapporto tra la potenza attiva immessa in rete e la potenza nominale del
generatore fotovoltaico.
Tale rapporto tiene conto della diminuzione di potenza dei moduli fotovoltaici nelle
reali condizioni operative (temperatura di lavoro, cadute di tensione sulle connessioni
elettriche...) e del rendimento dell’inverter stesso. Tale rapporto dipende anche dalle
condizioni d’installazione dei moduli (latitudine, inclinazione, temperatura
37
38
Questa parte dell’impianto è di competenza specifica di un elettrotecnico.
Vedi fig.141 e successive spiegazioni
126
ambiente…) che possono far variare la potenza generata. Per questo motivo, l’inverter
è provvisto di una limitazione automatica della potenza erogata per ovviare a situazioni
in cui la potenza generata sia maggiore di quella normalmente prevista.
Gli inverter disponibili sul mercato hanno una potenza nominale fino a circa 10 kW in
monofase ed a circa 100 kW in trifase.
Tra le caratteristiche di dimensionamento dell’inverter dovrebbero comparire:
• lato c.c.:
- potenza nominale e massima;
- tensione nominale e massima tensione ammessa;
- campo di variazione della tensione di MPPT in funzionamento normale;
• lato c.a.:
- potenza nominale e massima erogabile in modo continuativo dal gruppo di
conversione, nonché il campo di temperatura ambiente alla quale tale potenza può
essere fornita;
- corrente nominale erogata;
- corrente massima erogata che consente di determinare il contributo dell’impianto
fotovoltaico alla corrente di corto circuito;
- distorsione massima della tensione e fattore di potenza;
- massima efficienza di conversione;
- efficienza a carico parziale ed al 100% della potenza nominale (attraverso il
“rendimento europeo”39) attraverso il diagramma di efficienza (figura 157a)
Figura 157a - Efficienza a carico parziale
Occorre inoltre valutare i valori nominali di tensione e frequenza in uscita e di tensione
in ingresso all’inverter.
I valori di tensione e frequenza in uscita, per impianti connessi alla rete di distribuzione
pubblica, sono imposti dalla rete stessa con tolleranze definite.
39
Il rendimento europeo si determina tenendo in considerazione le efficienze a carico parziale dell’inverter secondo la formula:
euro = 0.03.5% + 0.06.10% + 0.13.20% + 0.10.30% + 0.48.50% + 0.20.100%
127
Per quanto riguarda la tensione in ingresso vanno valutate le condizioni estreme di
funzionamento del generatore fotovoltaico, al fine di avere un funzionamento sicuro e
produttivo dell’inverter.
Si deve anzitutto verificare che la tensione a vuoto Voc in uscita dalle stringhe alla
minima temperatura ipotizzabile (-10°C) sia inferiore a quella massima sopportabile
dall’inverter, ossia:
Voc max ≤ U
[14b]
MAX
Ogni inverter è caratterizzato da un range di tensioni in ingresso di normale
funzionamento. Poichè la tensione in uscita dai moduli fotovoltaici è funzione della
temperatura, occorre verificare che nelle condizioni di esercizio prevedibili (da -10°C
a +70°C), l’inverter si trovi a funzionare nell’intervallo di tensione dichiarato dal
costruttore.
Devono essere quindi verificate contemporaneamente le due disuguaglianze [15] e
[16]:
Vocmin ≥ UMPPT min
[15]
ossia, la tensione minima (a 70°C),
considerata alla corrispondente massima
potenza in uscita dalla stringa con
irraggiamento standard, deve essere
superiore alla tensione minima di
funzionamento del MPPT dell’inverter
che mantiene accesa la logica di controllo
e permette la corretta erogazione di
potenza nelle rete dell’ente distributore.
Inoltre:
Vocmax ≤ UMPPT max
[16]
ossia, la tensione massima (a -10°C),
considerata alla corrispondente massima
potenza in uscita dalla stringa con
irraggiamento standard, deve essere
inferiore o uguale alla tensione massima
di
funzionamento
del
MPPT
dell’inverter.
In figura 157b vi è una rappresentazione
grafica di accoppiamento tra campo
fotovoltaico ed inverter che tiene conto
delle tre disuguaglianze precedenti
[14b],[15],[16].
Oltre al rispetto delle tre condizioni
precedenti sulle tensioni, occorre
verificare che la massima corrente del
128
generatore fotovoltaico nel funzionamento al MPP sia inferiore alla massima corrente
in ingresso ammissibile dall’inverter.
- Scelta dei cavi
I cavi utilizzati in un impianto fotovoltaico devono essere in grado di sopportare, per
la durata di vita dell’impianto stesso (20-25 anni), severe condizioni ambientali in
termini di elevata temperatura, precipitazioni atmosferiche e radiazioni ultraviolette.
Anzitutto i cavi devono avere una tensione nominale adeguata a quella dell’impianto.
In corrente continua, la tensione d’impianto non deve superare del 50% la tensione
nominale dei cavi (tabella 158) che si riferisce al loro impiego in c.a. (in c.a. la tensione
d’impianto non deve superare la tensione nominale dei cavi).
Figura 158- tensione nominale dei cavi
- Protezione dell’impianto
Oltre a quanto visto è necessario predisporre anche una serie di dispositivi di
protezione ( per i cavi, per l’inverter, contro i fulmini ecc.) che qui non tratteremo
essendo di competenza dell’elettrotecnico che progetterà questa parte dell’impianto.
6.5.3 CARATTERISTICHE DEL MODULO FOTOVOLTAICO
Concludiamo questa parte indicando nella tabella sottostante le caratteristiche del
pannello (modulo) fotovoltaico che devono essere fornite dal costruttore:
TIPO DI CELLE
DENOMINAZIONE
SIMBOLO
POTENZA NOMINALE
WMPP=PMPP
EFFICIENZA

TENSIONE
VMPP
CORRENTE
IMPP
TENSIONE A VUOTO
VOC
CORRENTE DI CORTOCIRCUITO
ISC
TENSIONE MASSIMA
VMAX
COEFFICIENTE DI TEMPERATURA
Ns
TEMPERATURA MASSIMA
TMAX
TEMPERATURA MINIMA
TMIN
DIMENSIONI
129
UNITA’
DI MISURA
W
%
V
A
V
A
V
V/°C
°C
°C
mm
SUPERFICIE
PESO
ISOLAMENTO
S
m2
kg
Classe II
Nell’immagine successiva sono riportati due esempi di specifiche tecniche di pannelli
reali. Come si vede le specifiche sono più estese di quanto sopra riportato, ma, per quel
che compete ai dati strettamente necessari coincidono.
Figura 159a - Specifiche di un pannello solare
130
Figura 159b -Specifiche di un pannello solare
Dove l’acronimo NOCT indica la Temperatura Nominale di Operatività della Cella.
6.6) PROGETTAZIONE DI UN IMPIANTO FOTOVOLTAICO
In questo capitolo opereremo una sintesi di quanto precedentemente visto applicando
le varie parti studiate alla realizzazione pratica di un progetto di impianto FV.
Viene proposto un esempio di dimensionamento di un impianto fotovoltaico gridconnected in parallelo ad un impianto utilizzatore preesistente. Il progetto fa
riferimento ad un impianto FV di piccole dimensioni tipico di un’utenza familiare.
L’impianto utilizzatore è allacciato alla rete BT di distribuzione pubblica con sistemi
di messa a terra; all’impianto di terra già esistente verranno connesse le masse
dell’impianto FV che rimarrà invece isolato nelle sue parti attive.
Si ipotizza infine che la corrente presunta di corto circuito fornita dalla rete di
distribuzione sia di 6kA fase-neutro.
IMPIANTO FOTOVOLTAICO DA 3.0 kWp
Si vuole dimensionare un impianto fotovoltaico allacciato alla rete pubblica di BT in
regime di scambio sul posto per una villetta monofamiliare situata in provincia di
Bergamo. Tale villetta e già allacciata alla rete con potenza contrattuale di 3.0 kW, con
un consumo medio annuale di circa 4000 kWh.
La falda del tetto (tetto a due falde) su cui verranno installati i moduli con integrazione
parziale ha una superficie di 60 m2, e inclinata di un angolo di tilt β pari a 30° ed ha un
orientamento (angolo di Azimut ) di 0° rispetto a sud.
Si decide di dimensionare un impianto da 3.0 kWp, al fine di soddisfare il più
possibile la richiesta di potenza dell’utente.
131
Si utilizzano pannelli fotovoltaici aventi le seguenti caratteristiche tecniche:
TIPO DI CELLE
Silicio policristallino
Denominazione
simbolo Valore e u.m.
Potenza nominale MPP
WMPP= 175 W
Efficienza
12.8%
=
Tensione MPP
VMPP= 23.30 V
Corrente MPP
IMPP=
7.54 A
Tensione a vuoto
Vocstc= 29.40 V
Corrente di corto circuito
ISC=
8.02 A
Tensione massima
Vmax=
1000 V
Coefficiente di temperatura NS=
-0.107 V/°C
Dimensioni
(a*b*h) 2000*680*50 mm
Superficie
S=
1.36 m2
Temperatura max
Tmax=
+70 °C
Temperatura min
Tmin=
-10 °C
Peso
m=
18 kg
isolamento
classe
II
Si considera il rendimento dell’impianto BOS=0.90
a) CALCOLO DELL’IRRAGGIAMENTO 40
La valutazione della fonte solare per la località di BERGAMO è stata effettuata in base
alla Norma UNI 10349. La norma UNI 10349 fornisce una serie di dati climatici tra
cui l’irraggiamento globale giornaliero medio mensile su piano orizzontale con le sue
componenti diretto e diffuso. Per la località in esame i valori di irraggiamento
giornaliero medio mensile sono inserite nella tabella riportata nella pagina successiva
con i valori specificati nella seguente legenda :
LEGENDA TABELLA IRRAGGIAMENTO - IMPIANTO FOTOVOLTAICO.
A) indicazioni geografiche e di posizione relative alla localizzazione dei pannelli,
B) caratteristiche tecniche dei pannelli adottati e potenza nominale dell’impianto.
Il foglio elettronico esegue un calcolo mensile dell’insolazione ricevuta dai pannelli
utilizzando le seguenti formule:
1) declinazione d ricavata dalla tabella 1 (modulo 4) e trasformazione dell’angolo in
radianti.
2) angolo orario calcolato con le:
ha = arcos(-tgL × tg𝛿) [15]
ha = arcos(-tg(L-) × tg𝛿) [16]
′
𝐡𝐚 =(min tra i valori di [15] e[16])
Il valore va trasformato in radianti.
3) valori di insolazione media giornaliera sul piano orizzontale, ricavati dalle tabelle
UNI 10394 per BERGAMO.
40
Si utilizza il metodo di Liu – Jordan già visto nel modulo 4 per il calcolo dell’irraggiamento sui pannelli solari termici.
132
4) fattori di inclinazione calcolati per ogni mese con:
- Fattore di inclinazione Rbh
cos(𝐿 − 𝛽)cos(𝛿) 𝑠𝑒𝑛(ℎ𝑎′ ) + ℎ𝑎′ 𝑠𝑒𝑛(𝐿 − 𝛽)𝑠𝑒𝑛(𝛿)
R bh =
[17]
cos(𝐿) cos(𝛿 ) 𝑠𝑒𝑛(ℎ𝑎 ) + ℎ𝑎 𝑠𝑒𝑛(𝐿)𝑠𝑒𝑛(𝛿)
- Fattore di diffusione Rdh
1 + cos(𝛽)
R dh =
[18]
2
- Fattore di riflessione Rrif (  coef. di albedo, Tab. H)
1 − cos(𝛽)
R rif = 𝜌
[19]
2
5) energia giornaliera media mensile H incidente sul pannello, che vale:
̅ bh + R dh ∙ H
̅ dh + R rif ∙ (H
̅ bh + H
̅ dh )
H = R bh ∙ H
[20]
6) numero di giorni per mese
7) radiazione media giornaliera su un m2 di pannello si ottiene :
𝐸𝑠𝑚 = 𝑛𝐻
8) energia media fornita da 1 m di pannello:
2
12
𝐸𝑡 = ∑ 𝐸𝑠𝑚
1
9) energia media annua prodotta dal impianto tenendo conto dell’efficienza:
𝐸𝑃 = 𝜂 ∙ 𝜂𝐵𝑂𝑆 𝑁𝐴𝑝𝑎𝑛 𝐸𝑡
[13]
10) Numero di pannelli necessari:
𝑁=
𝑊𝑝
𝑊𝑀𝑃𝑃
[23]
La superficie totale ricoperta dai moduli è pari a:
𝑆𝑇𝑜𝑡 = 𝑁𝐴𝑝𝑎𝑛 = 18 ∗ 1.36 = 24.48 𝑚2
Che è inferiore ai 60 m2 di falda disponibile.
133
134
Per un singolo modulo, utilizzando la [14]:
𝑉𝑜𝑐 = 𝑉𝑜𝑐𝑠𝑡𝑐 − 𝑁𝑆 𝛽(25 − 𝑇𝑐𝑒𝑙 )
si ha:
- Tensione a vuoto massima : 𝑉𝑜𝑐𝑚𝑎𝑥 = 29.40 + 0.107(25 + 10) = 33.13𝑉
- Tensione MPP minima:
𝑉𝑀𝑃𝑃𝑚𝑖𝑛 = 23.30 + 0.107(25 − 70) = 18.50𝑉
- Tensione MPP massima:
𝑉𝑀𝑃𝑃𝑚𝑎𝑥 = 23.30 + 0.107(25 + 10) = 27.03𝑉
Ai fini della sicurezza ed in modo cautelativo, si assume per la scelta dei componenti
dell’impianto il valore maggiore tra la tensione a vuoto massima (Vocmax=33.13V) ed
il 120% della tensione a vuoto dei moduli (V ocstc quindi 1.2*29.40=35.28V):
In questo caso si usa:
Tensione a vuoto massima del modulo Vocmax= 35.28V.
VALORI DELLA STRINGA DI MODULI FOTOVOLTAICI
I 18 moduli saranno collegati in un'unica stringa le cui caratteristiche saranno:
- Tensione MPP di stringa 𝑉𝑀𝑃𝑃𝑠 = 𝑛𝑉𝑀𝑃𝑃 = 18 ∗ 23.30 = 419𝑉
- Corrente MPP
IMPP=7.54 A
- Tensione a vuoto massima 𝑉𝑜𝑐𝑚𝑎𝑥𝑠 = 𝑛𝑉𝑜𝑐𝑚𝑎𝑥 = 18 ∗ 35.28 = 635𝑉
- Tensione MPP min stringa 𝑉𝑀𝑃𝑃𝑚𝑖𝑛𝑠 = 𝑛𝑉𝑀𝑃𝑃𝑚𝑖𝑛 = 18 ∗ 18.50 = 333𝑉
- Tensione MPP max stringa 𝑉𝑀𝑃𝑃𝑚𝑎𝑥𝑠 = 𝑛𝑉𝑀𝑃𝑃𝑚𝑎𝑥 = 18 ∗ 27.03 = 480𝑉
INVERTER
Data la piccola potenza dell’impianto fotovoltaico e per effettuare la connessione
diretta alla rete in BT monofase, si sceglie un inverter monofase, il quale effettuerà la
conversione c.c./c.a.
Tale inverter sarà dotato di una protezione interna per evitare l’immissione in rete di
correnti con componenti continue. Avrà filtri in ingresso ed uscita per la soppressione
di disturbi emessi sia condotti che irradiati, ed un sensore di isolamento verso terra dei
moduli fotovoltaici.
Sarà munito del dispositivo di inseguimento del punto di massima potenza MPPT e del
dispositivo di interfaccia (DDI) con relativo sistema di protezione (SPI).
Caratteristiche tecniche DELL’INVERTER fornite dal costruttore:
• Potenza nominale in ingresso 3150 W
• Tensione di funzionamento lato c.c. MPPT UMPPTmin/max= 203-600 V
• Tensione massima lato c.c. UMAX= 680 V
• Corrente massima in ingresso lato c.c. 11.5 A
• Potenza nominale in uscita lato c.a. 3000 W
• Tensione nominale lato c.a. 230 V
• Frequenza nominale 50 Hz
• Fattore di potenza 1
• Rendimento massimo 95.5%
• Rendimento europeo 94.8%
135
Per la verifica del corretto accoppiamento stringa-inverter (vedi cap.6.5.2) occorre
anzitutto verificare che la massima tensione a vuoto ai capi della stringa sia inferiore
alla massima tensione in ingresso sopportata dall’inverter [14b]:
635 V < 680 V (OK)
Inoltre la tensione MPP minima della stringa (𝑉𝑀𝑃𝑃𝑚𝑖𝑛𝑠 )non deve essere inferiore alla
minima tensione dell’MPPT dell’inverter [15]:
333 V > 203 V (OK)
Mentre la tensione MPP massima della stringa (𝑉𝑀𝑃𝑃𝑚𝑎𝑥𝑠 ) non deve essere superiore
alla massima tensione dell’MPPT dell’inverter:
486 V < 600 V (OK)
Infine la corrente di corto circuito massima della stringa non deve essere superiore a
quella massima sopportabile in ingresso dall’inverter:
8.02 A < 11.5 A (OK)
Il cablaggio, gli interruttori, il quadro elettrico e i contatori sono di competenza
dell’elettrotecnico.
COPERTURA DEL FABBISOGNO PRODOTTA DALL’IMPIANTO FV
Sappiamo che il consumo medio annuo per l’abitazione risultava di 4000 kWh.
L’impianto fotovoltaico è in grado di generare 4038 kWh all’anno ne consegue che la
percentuale di copertura risulta:
𝐶% =
4038
100 = 100%
4000
136
MODULO N.7
7) ENERGIA NUCLEARE
Come ultimo argomento del corso analizzeremo l’energia nucleare evidenziando i
metodi di produzione, i vantaggi e gli svantaggi che presenta il suo utilizzo.
Per comprendere veramente la natura di questa forma di energia è necessario fare un
passo in avanti nella conoscenza della struttura atomica rispetto a quella vista fino a
questo momento in chimica e in meccanica quantistica. Finora ci si è preoccupati di
descrivere il comportamento degli elettroni, indicando il nucleo come qualcosa di
invariabile che entrava nei fenomeni studiati solamente come generatore del campo
elettrico positivo prodotto dai protoni che, con i neutroni, lo compongono. In realtà la
struttura del nucleo e delle particelle presenti a suo interno è estremamente più
complessa di quella appena descritta. Per comprendere i fenomeni della radioattività e
della produzione di energia nucleare è quindi necessario fare una breve incursione
nella fisica nucleare.
7.1) CENNI DI FISICA NUCLEARE
Per prima cosa è necessario superare l’idea che i protoni e i neutroni siano le particelle
fondamentali che, con l’elettrone, formano tutto ciò che esiste alla base della struttura
della materia. Attualmente il numero di particelle fondamentali che si conoscono è
dell’ordine delle decine. Per poter procedere in questa branca della fisica è necessario
soffermarsi sulle definizioni di alcuni termini in modo da arrivare a comprendere
l’insieme delle idee che stanno alla base della fisica nucleare. Vediamo quindi il
seguente glossario che costituirà anche un primo percorso all’interno della struttura
moderna dell’atomo.
INTERAZIONI definizione generale per i modi attraverso cui la materia agisce sulla
materia. Nel mondo macroscopico agiscono le due che già conoscete l’interazione
gravitazionale e quella elettromagnetica. A livello subatomico si devono aggiungere
alle due precedenti le interazioni debole (spiega il decadimento  su cui non ci
soffermeremo molto) e forte di cui parleremo in modo più esteso più avanti.
SPIN ( o più correttamente spin intrinseco) Lo spin è una quantità vettoriale e
quantizzata quindi, oltre ad avere una grandezza una direzione e un verso, assume
valori che non possono variare in modo continuo. Per la grandezza, gli elementi di
questa serie sono dati da
𝑛(𝑛 + 1)ℏ
[1]
Dove ℏ è la costante di Dirac41 e il numero quantico n è o un multiplo pari di ½ (quindi
un intero) o un multiplo dispari di ½ (sarà allora definito semi-intero). Queste
41
ℎ
ℏ = 2𝜋
𝑐𝑜𝑛 ℎ = 𝑐𝑜𝑠𝑡𝑎𝑛𝑡𝑒 𝑑𝑖 𝑃𝑙𝑎𝑛𝑐𝑘
137
denominazioni sono trasferite allo spin stesso, che sarà chiamato intero o semi-intero,
in dipendenza dai valori di n. Riguardo alla quantizzazione della direzione e del verso,
una particella con numero quantico di spin ½ (ricordare l’elettrone) può avere solo una
direzione con i due possibili versi up (↑) e down (↓). In genere, uno spin associato con
il numero quantico n può avere solo (2n+1) orientazioni permesse, in modo tale che le
proiezioni42 di questo spin su di un asse siano date da –n, -(n-1), -(n-1)….+(n+1), n
moltiplicate per ℏ.
FERMIONE: particella con spin semi-intero. Il numero quantico n è un multiplo
dispari di ½ (ad esempio l’elettrone).
BOSONE: particella con spin intero. Il numero quantico n è un multiplo pari di ½ (ad
esempio il fotone).
LEPTONI (dal greco, piccolo): fermioni non sensibili all’interrazione forte. A questo
gruppo appartengono: l’elettrone (e), il muone ), il tauone () e i tre neutrini
rispettivamente associati (e, m,t).
NUCLEONI: il protone e il neutrone, i principali costituenti dei nuclei atomici;
entrambi sono fermioni e sono soggetti sia all’interazione forte sia all’interazione
debole.
IPERONI (dal greco, attivo): che comprendono particelle a cascata cioè fermioni
instabili che hanno masse maggiori dei nucleoni e decadono in uno di questi ultimi.
Sono soggetti ad entrambe le interazioni nucleari. A questo gruppo, tra gli altri,
appartengono: la particella sigma (), il lambda (), il xi () e la omega ().
BARIONI (dal greco, pesante): designazione generale per l’insieme di tutti gli iperoni
e nucleoni.
MESONI (dal greco, medio): le particelle di questa famiglia di bosoni hanno masse
comprese tra quelle dei nucleoni e dell’elettrone. Sono soggetti ad entrambe le
interazioni sia forte sia debole e decadono, ad esempio, in muoni. Alcuni membri di
rilievo di questo gruppo sono: i kaoni (K), i pioni (), il jay/psi (J/) e l’ipsilon (Y).
ADRONI ( dal greco, voluminosi): la serie di tutti i barioni e mesoni come mostrato
nello schema seguente:
𝐴𝐷𝑅𝑂𝑁𝐼 {
𝑁𝑈𝐶𝐿𝐸𝑂𝑁𝐼
𝐼𝑃𝐸𝑅𝑂𝑁𝐼
𝑀𝐸𝑆𝑂𝑁𝐼 (𝑐ℎ𝑒 𝑠𝑜𝑛𝑜 𝑏𝑜𝑠𝑜𝑛𝑖)
𝐵𝐴𝑅𝐼𝑂𝑁𝐼(𝑐ℎ𝑒 𝑠𝑜𝑛𝑜𝑓𝑒𝑟𝑚𝑖𝑜𝑛𝑖) {
ISOSPIN: numero quantico intero o semi-intero assegnato agli adroni per spiegare le
loro proprietà di apparire in gruppo ( di barioni o mesoni), in modo che le masse delle
42
Rivedi in meccanica quantistica paragrafo 5.10.3 e successivo.
138
particelle entro ciascun gruppo siano praticamente le stesse, mentre le cariche
elettriche, se misurate in unità di carica elementare, formano una serie di numeri interi
consecutivi, una cosiddetta carica multipletto (doppietto, tripletto, quadrupletto e, per
estensione, singoletto, per due, tre, quattro e uno adroni nel gruppo,
rispettivamente).Questo comportamento può essere spiegato in un modo simile alla
forma con cui è descritto lo spin: tutte le particelle entro un gruppo hanno lo stesso
isospin I, ma differenti valori per la “terza componente” I3 di I, che varia nell’intervallo
–I, -(I-1), -(I-2)….,(I-1), I. Per esempio i nucleoni hanno I= ½ con I3 = - ½ per il
neutrone e I3 =+ ½ per il protone; questo significa che i nucleoni sono un doppietto. I
pioni, a loro volta, hanno I=1, quindi formano un tripletto: I3=-1, per -, I3=0 per °,
e I3= +1 per +.
QUARKS: fermioni che sono i costituenti degli adroni. Vi sono sei tipi di quarks,
chiamati sapori: down (d), up (u), strange (s), charm (c), bottom (b), top (t).
ANTIPARTICELLE: il prefisso anti ed una barra sul simbolo sono utilizzati per
identificare le antiparticelle dei leptoni, adroni e quarks. Alcune proprietà di una
particella e della sua antiparticella hanno lo stesso valore in entrambe (massa, spin),
mentre altre manifestano il valore opposto ( carica elettrica, carica colore43, numero di
famiglia barionico o leptonico quando applicabile). Una coppia particellaantiparticella può annichilarsi in fotoni in una collisione, ma può anche costituire
sistemi che mostrano un ampio spettro di durata di vita. Un esempio di quest’ultimo
caso è l’atomo positronio, una struttura simile all’idrogeno con un positrone (cioè un
antielettrone) al posto del nucleo.
CARICA COLORE o COLORE: questa è una proprietà che ha, nell’interazione
forte, un ruolo simile a quello della carica elettrica nell’interazione elettromagnetica,
essa è associata ad ogni tipo di quark. A differenza della carica elettrica però vi sono
tre44 tipi di carica colore, a ciascuno dei quali corrisponde una diversa carica di
anticolore. Addizionando insieme o i tre diversi colori o i tre diversi anticolori, o
addizionando ognuno dei tre colori al suo corrispondente anticolore si ottiene tutte le
volte un valore pari a zero45.
TEORIA GAUGE: teoria di cui la formulazione e sviluppo sono stati elaborati in
modo tale da racchiudere in sé certe simmetrie esistenti o auspicabili nell’area di
conoscenza a cui si fa riferimento. Per raggiungere questo scopo la teoria richiede
l’introduzione di una interazione e di un portatore, un cosiddetto gauge boson, per
questa interazione.
43
Vedi voce successiva
Anzichè 2: + e 45
La cosa funziona in questo modo anche sommando i colori della luce primari e complementari ottenendo in ogni caso
il bianco. In base a questa analogia si è usato il nome di carica colore.
44
139
FOTONE: gauge boson di massa = 0 e spin = 1; è un portatore dell’interazione
elettromagnetica. I fotoni non hanno carica elettrica, proprietà essenziale associata
all’interazione che trasportano.
GLUONE: gauge boson di massa = 0 e spin = 1; portatore dell’interazione forte. A
differenza del fotone, i gluoni hanno una carica colore proprietà essenziale associata
all’interazione forte.
W+,W- e Z°: gauge bosons con spin 1 e massa non nulla, sono i portatori
dell’interazione debole che presiede al decadimento .
GRAVITONE: gauge boson con spin 2 e massa zero, che dovrebbe essere il portatore
dell’interazione gravitazionale.
PARTON: termine generale che indica i quarks e i gluoni.
7.1.1) LA STRUTTURA DELLA MATERIA
Come detto all’inizio, nella chimica che avete studiato ci si è preoccupati dell’atomo
e dei suoi costituenti limitatamente a protoni elettroni e neutroni. Questo era tutto ciò
che si sapeva all’inizio del novecento sui costituenti ultimi della materia. A cavallo
della seconda guerra mondiale sono state effettuate una serie di nuove scoperte relative
a particelle simili ai nucleoni, ma di massa maggiore ( gli iperoni). In aggiunta a queste
si individuarono anche molti mesoni, che erano già stati previsti teoricamente come
portatori dell’interazione forte. Fino ai giorni nostri il numero di particelle elementari
rinvenute sperimentalmente ha superato abbondantemente il centinaio. Come risultato
delle scoperte degli ultimi cinquant’anni si può far riferimento al seguente quadro:
I) nucleoni (protoni e neutroni) ed iperoni sono costituiti da combinazioni di quarks;
II) mesoni sono costituiti da quarks;
III) elettroni NON sono composti da sub particelle, appartengono alla famiglia dei
leptoni.
Mentre i quarks sono soggetti agli effetti di tutti i quattro tipi di interazione, i leptoni
non sono sensibili a quella forte. Inoltre le cariche elettriche dei quarks sono frazionarie
mentre quelle dei leptoni sono intere. I quarks e i leptoni appaiono in generazioni e,
per ognuno dei valori di carica elettrica, la massa cresce con l’avanzare del numero di
generazione. Il tutto è riassunto nella seguente tabella:
LEPTONI QUARKS GENERAZIONE
Carica elettrica
-1 0
-1/3 +2/3
PARTICELLE
d
u
I
e
e
FONDAMENTALI  m
s
c
II
b
t
III
 t
140
Allo stato attuale delle conoscenze si ritiene che i sei quark e i sei leptoni, con le loro
rispettive antiparticelle, siano le particelle elementari fondamentali costituenti la
materia. Come già detto i nucleoni (che nella vecchia logica erano ritenute particelle
fondamentali) si è dimostrato che hanno la seguente composizione in quark:
protone
p+ = u+u+d
carica = +2/3+2/3-1/3=+1
neutrone
n = d+d+u
carica = -1/3-1/3+2/3= 0
Tutti gli adroni hanno composizioni interne e di conseguenza possono “trasformarsi”,
in termine tecnico decadere. Nella seguente tabella sono riportate alcune particelle
adroniche con i possibili decadimenti.
7.1.2) PRINCIPI DI CONSERVAZIONE
Una delle caratteristiche della natura è che “tutto ciò che può accadere, accade”.
Se una reazione concepibile non si verifica deve esserci un motivo. Questo motivo in
fisica è espresso sotto forma di principio di conservazione. La conservazione
dell’energia esclude ogni decadimento in cui la massa di riposo totale dei prodotti sia
maggiore della massa iniziale a riposo della particella prima di decadere. La
conservazione della quantità di moto impone che, se un elettrone e un positrone fermi
si annichilano, devono essere emessi due fotoni. La conservazione della carica limita
i possibili decadimenti e le possibili reazioni a quelle per cui la carica elettrica totale
prima e dopo il decadimento deve essere uguale.
141
Come notate questi principi sono gli stessi che abbiamo utilizzato nella fisica classica.
Nella fisica nucleare sono stati introdotti altri due principi di conservazione: principio
di conservazione del numero barionico e principio di conservazione del numero
leptonico. Si consideri il possibile decadimento del protone:
𝑝+ → 𝜋 0 + 𝑒 +
[2]
Questo decadimento conserva la carica, l’energia, il momento angolare e la quantità di
moto ma non si verifica perché non conserva né i leptoni né i barioni. La
conservazione dei leptoni e dei barioni implica che, ogni qual volta si crea un leptone
o un barione, si deve creare anche un’antiparticella dello stesso tipo. Questa regola
viene descritta assegnando a tutti i leptoni il numero leptonico L=+1, a tutti gli antileptoni L=-1 e a tutte le particelle che non sono leptoni L=0. Analogamente si assegna
un numero barionico B=+1 a tutti i barioni, B= -1 a tutti gli antibarioni e B=0 alle
particelle che non sono barioni. Come si vede nella relazione [2] il numero barionico
prima e dopo il decadimento vale 1 ma quello leptonico vale zero prima del
decadimento mentre vale -1 dopo il decadimento (dovuto all’antiparticella
dell’elettrone). La conservazione del numero leptonico impone che il possibile
decadimento del neutrone, che quindi non è stabile, avvenga con l’emissione di un
antineutrino. Questo decadimento, definito decadimento , si esprime con la relazione:
𝑛 → 𝑝+ + 𝑒 − + 𝜈̅𝑒
[3]
Questa relazione rispetta tutti i principi di conservazione ed infatti si verifica in natura.
Quindi come si vede i neutroni possono decadere generando tra l’altro protoni. Vi
sono anche altri principi che valgono solamente per alcuni tipi di particelle e di
decadimenti e coinvolgono una grandezza definita stranezza che li descrive ma che
non rientrano nelle cose che possono interessarci nel seguito del corso e che quindi
tralasciamo.
7.1.3) INTERAZIONE NUCLEARE FORTE E STRUTTURA DEL NUCLEO
Per mantenere legati i nuclei che sono composti da protoni, con carica elettrica
positiva, e neutroni, elettricamente neutri, risulta evidente che necessita la presenza di
una nuova forza in quanto la presenza solamente di quella elettrica respingerebbe i
protoni impedendo la formazione del nucleo stesso. Questa forza deve essere
sufficientemente intensa per poter annullare la repulsione elettrostatica e per poter
mantenere entro i confini del volume del nucleo i protoni e i neutroni. Abbiamo visto
precedentemente che i due nucleoni sono composti da quark a ciascuno dei quali è
associata quella che abbiamo definito la carica colore. L’interazione che cerchiamo è
il risultato degli effetti di queste cariche colore che determinano quella che viene
chiamata “interazione forte”. Non scendiamo nei particolari (dipende dalle cariche
colore dei quark) del calcolo di tale forza; quello che serve sapere è che essa ha un
piccolo raggio di azione (dell’ordine delle dimensioni di un nucleone) ma ha un
modulo maggiore della forza repulsiva elettrica che si scambiano due protoni. Questo
implica che la forza di attrazione fra due nucleoni tende rapidamente a zero con la
142
distanza e sicuramente non se ne risente al di fuori del nucleo. Significa, inoltre, che
in generale un dato nucleone può interagire solamente con i nucleoni vicini e non con
tutti i nucleoni del nucleo di cui fa parte. Ricordiamo che, invece, la forza di Coulomb
è una forza a lungo raggio e che quindi tutti i protoni del nucleo interagiscono tra di
loro respingendosi.
Sistematica del nucleo
Come ricorderete dalla chimica il numero di protoni presente in un nucleo è chiamato
numero atomico ed è indicato con Z. Il numero di neutroni è chiamato numero
neutronico ed è indicato con N. Il numero totale di nucleoni è chiamato numero di
massa ed è indicato con A.
A=Z+N
[4]
Si usa A, numero totale dei nucleoni, come indice scritto in alto a sinistra del simbolo
per identificare i nuclidi. 197Au indica che l’oro ha nel suo nucleo 197 nucleoni.
Sappiamo che per l’oro il numero atomico è Z=79 quindi che il numero di neutroni
risulta N=197-79=118. La figura n.160 mostra una carta dei nuclidi, dove Z e N sono
le coordinate di ciascun nuclide rappresentate da un piccolo cerchio.
Figura 260
143
I cerchi neri individuano nuclei stabili, i cerchi colorati i nuclidi radioattivi
(radionuclidi) che sono relativamente stabili avendo un tempo di dimezzamento
maggiore di 100 anni; i cerchi bianchi rappresentano radionuclidi con tempo di
dimezzamento inferiore ai 100 anni.
Si vede che i nuclidi più stabili (neri o colorati) sono disposti lungo una fascia rettilinea
mentre quelli instabili sono a cavallo di essa. E’ evidente, inoltre, che i nuclei più
leggeri tendono ad avvicinarsi alla linea Z=N, mentre quelli più pesanti si trovano sotto
questa linea e quindi hanno più neutroni che protoni. La tendenza ad avere un eccesso
di neutroni per grandi numeri di massa è un effetto della forza elettrostatica. Poiché un
nucleone interagisce con la forza nucleare forte solo con i nucleoni più vicini, l’energia
del legame nucleare cresce proporzionalmente ad A. L’energia coulombiana cresce più
rapidamente perché ciascun protone interagisce con tutti gli altri e quindi diviene più
grande con il crescere del solo numero atomico, ne segue che a parità di forza elettrica
144
(protoni) la forza nucleare aumenta per lo stesso nucleo se si aumenta N e non Z fino
a raggiungere il bilanciamento cercato.
Raggio del nucleo – per definire il raggio del nucleo si utilizza come unità di misura
il fermi (fm) definito nel seguente modo:
1 fm = 10-15 m
[5]
Sperimentalmente si è trovato che il raggio medio caratteristico (in realtà il nucleo non
è perfettamente sferico) risulta:
𝑅=
Con
1
𝑅0 𝐴3
R0= 1.1 fm
[6]
[7]
ESEMPIO N. 46
Confrontare il raggio medio del nucleo del rame con quello del suo ione in un reticolo
cristallino dove la distanza tra ioni misura d= 0.96 10-10m.
Dati: massa atomica del rame A=63
Applicando la [6] si ha:
1
1
𝑅 = 𝑅0 𝐴3 = 1.1 ∙ 633 = 4.4 𝑓𝑚 = 4.4 ∙ 10−15 𝑚
R è dell’ordine di 104 volte più piccolo di d.
ESEMPIO N. 47
Calcolare la densità del nucleo dell’idrogeno (quindi di un protone).
=1.67 10-27kg)
Il raggio medio del protone risulta:
1
1
𝑅 = 𝑅0 𝐴3 = 1.1 ∙ 13 = 1.1 𝑓𝑚 = 1.1 ∙ 10−15 𝑚
La densità , considerandolo sferico, risulta:
3 ∙ 1.67 ∙ 10−27
𝜌=
=
= 3.0 ∙ 1017 𝑘𝑔/𝑚3
4 3 4𝜋 ∙ (1.1 ∙ 10−15 )3
3 𝜋𝑅
𝑚
Come si vede è 1014 volte più grande di quella dell’acqua.
Massa dei nuclei ed energia di legame
Ricordiamo la definizione di unità di massa atomica u:
1 u = 1.6605 10-27 kg
145
(m
In fisica nucleare le variazioni di energia sono di solito così grandi che la formula di
Einstein che collega massa ed energia:
𝐸 = 𝑚𝑐 2
[8]
diventa un indispensabile strumento di lavoro. In pratica si usa l’energia equivalente
ad una massa atomica cioè, considerando una massa pari ad 1 u:
𝐸 = 𝑚𝑐 2 = 1.6605 ∙ 10−27 ∙ (2.9979 ∙ 108 )2 = 1.4924 ∙ 10−10 𝐽
Ricordando la definizione di elettronvolt:
1 eV= 1.602 10-19J
E=9.315 108eV= 931.5 MeV
Si ha:
Questo comporta che :
𝑐2 =
𝐸
𝑀𝑒𝑉
= 931.5
𝑚
𝑢
[9]
Quindi utilizzando questo valore si può immediatamente calcolare l’energia di una
quantità qualsiasi di masse nucleoniche A o DA moltiplicando il valore in u per il
valore della [9].
ESEMPIO N.48
Il nucleo del Deuterio consiste di un protone e di un neutrone legati dalla forza nucleare
forte. Se si vuole rompere questo legame ed ottenere quindi un atomo di idrogeno,
occorre fornire un quantitativo di energia EB, detta energia di legame.
Dalla conservazione della massa e dell’energia si ha:
mDc2+ EB=mnc2+mHc2
dove:
massa del Deuterio: mD = 2.01410 u
massa di un neutrone: mn= 1.00867 u
massa dell’Idrogeno: mH= 1.00783 u
ricavando l’energia di legame si ha:
EB=( mn+mH- mD)c2=∆𝑚𝑐 2 =
=(1.00867+1.00783-2.01410)932=2.24Mev
Ricordiamo che l’energia di legame dell’elettrone dell’idrogeno (esempio n.2) vale
13.6 eV quindi quella di legame nucleare è dell’ordine di 105volte più grande.
146
Figura 161- Energia di legame in funzione del numero di nucleoni A
ESEMPIO N. 49
Calcolare l’energia di legame per nucleone necessaria a scindere i nucleoni del nucleo
di Iodio.
Dati: Z = 53, N= 74, A= 127; mI= 126.90448 u; mp= 1.00783u; mn=1.00867u; c2=932
MeV/u.
La massa totale dei componenti del nucleo separati risulta:
m=Zmp+Nmn= 128.05657 u
Il difetto di massa del nucleo vale quindi:
Dm=m-mI=1.15209 u
L’energia totale di legame è:
E= Dmc2= 1073.7 MeV
L’energia di legame per nucleone vale:
𝐸
EB=𝐴 = 8.45
𝑀𝑒𝑉
𝑛𝑢𝑐𝑙𝑒𝑜𝑛𝑒
In figura 161 è rappresentato l’andamento dell’energia di legame media per nucleone
– energia di legame totale di un nucleo divisa per il numero totale di nucleoni A – in
funzione del numero di massa A.
Osservando la curva si nota che, a partire dagli elementi più leggeri, l’energia di
legame cresce con l’aumentare del numero di massa, raggiungendo un valore massimo
147
di circa 8,8 MeV, in corrispondenza dell’isotopo 62Ni (EBNi = 8,7946 ± 0,0003
MeV/nucleone), e poi diminuisce gradualmente fino a 7,6 MeV per A = 238, valore –
come vedremo tra poco – insufficiente per mantenere unito il nucleo. Questo
andamento è di importanza fondamentale per i decadimenti nucleari e per la
produzione di energia da processi nucleari.
Come abbiamo detto precedentemente, la forza attrattiva su un singolo nucleone è
dovuta a tutti gli altri nucleoni del nucleo che si trovano a distanza minore del raggio
di azione della forza nucleare: quanto maggiore è questo numero tanto maggiore è la
forza attrattiva e quindi l’energia necessaria per strappare un particolare nucleone.
Questo spiega il valore più basso dell’energia di legame dei nuclei leggeri.
Poiché il raggio di azione della forza nucleare è corto e i nucleoni sono incompressibili,
al crescere del numero di nucleoni si arriva ad una situazione (caso dei nuclei pesanti)
in cui i nucleoni sono per la maggior parte troppo distanti per esercitare un’attrazione
reciproca notevole. Per contro, poiché la forza elettrica non diminuisce così
rapidamente con la distanza quanto la forza nucleare, nei nuclei più grandi la
repulsione elettrica tra i protoni ha un’influenza tutt’altro che trascurabile.
Un altro aspetto importante della curva della figura 161 è il picco per il nucleo 4He,
che risulta particolarmente stabile rispetto ai nuclei vicini (EB4He = 7 MeV).
Ciò comporta che nei nuclei pesanti esiste una situazione favorevole, dal punto di vista
energetico, all’emissione spontanea di nuclei di elio (chiamati particelle alfa nei
decadimenti nucleari).
E’ facile rendersi conto di questo fatto: per esempio, in un nucleo in cui EB = 8 MeV
(A =180 in figura 160), l’energia di legame totale di due protoni e due neutroni è più
grande di quella complessiva di un nucleo 4He (EB4He = 7 MeV): precisamente 4∙8MeV
= 32 MeV contro 4∙7 = 28 MeV. Pertanto per liberare una particella a da quel nucleo
sono richiesti soltanto 4 MeV (32 – 28 = 4 MeV) contro gli 8 MeV richiesti per liberare
un singolo nucleone.
Poiché per i nuclei con A > 185 l’energia media di legame per nucleone è minore di 8
MeV e decresce al crescere di A, l’energia richiesta per l’emissione di una particella a
può ridursi a zero e il nucleo può emettere spontaneamente (ossia senza necessità di
energia aggiuntiva) particelle  . E’ chiaro che per due protoni e due neutroni è
energeticamente conveniente essere legati in un nucleo 4He anziché in un nucleo molto
più pesante dove i due protoni sarebbero respinti dai molti altri protoni presenti. Questo
è il motivo per cui i nuclei con massa A maggiore di quella del nucleo 209Bi sono
instabili ed emettono particelle .
La curva di figura 161 mostra anche che la fusione (cioè l’unione di due nuclei leggeri
in uno più pesante) è energeticamente favorevole per i nuclidi più leggeri e la fissione
(cioè la scissione di un nucleo pesante in due nuclei di massa circa metà) lo è per quelli
più pesanti. Un nucleo è, infatti, dinamicamente instabile quando la sua energia di
legame per nucleone è inferiore a quella nei frammenti in cui può dividersi. Un
esame della figura 161 mostra che questo fatto si verifica per tutti i nuclei di numero
A >100, che pertanto sono instabili rispetto al processo di fissione.
148
ESEMPIO N.50
Calcolare l’energia di legame totale del più abbondante isotopo del ferro, il nucleo
56
Fe.
Soluzione
L’energia di legame totale si ottiene sottraendo la massa del nucleo56Fe dalla somma
delle masse dei 26 protoni e 30 neutroni che lo costituiscono.
Utilizzando i valori tabulati (quando si usano i valori delle masse atomiche per
determinare il difetto di massa di un nucleo occorre tenere conto della massa degli
elettroni. Per questo useremo la massa degli atomi di idrogeno invece di quella
del protone) si ha:
Δm(56Fe) = 26m (1H) + 30mn – mFe =
= 26(1,007825) + 30(1,008665) – (55,934939)= 0,52846 u.
L’energia di legame del nucleo 56Fe è quindi:
Δm∙c 2 = (0,52846 u)c 2(932 (MeV/c 2)/u) = 492 MeV.
L’energia media di legame per nucleone in un nucleo di ferro-56, che ha 56 nucleoni,
è:
(492 MeV)/(56 nucleoni) = 8,8 MeV.
ESEMPIO N.51
Calcolare il difetto di massa e l’energia di legame del più abbondante isotopo dell’elio,
il nucleo 4He, la cui massa è mHe = 6,6447∙10‑27 kg.
Soluzione
Per ottenere il difetto di massa Δm, si deve sottrarre la massa del nucleo 4He dalla
somma delle masse dei due protoni e due neutroni che lo costituiscono:
Δm è pari a circa il 7 ‰ della massa mHe [infatti: (0,0504∙10−27)/( 6,6447∙10−27) =
0,0076 ].
L’energia di legame del nucleo 4He è quindi (usando il valore approssimato c ≈ 3∙108
m/s per la velocità della luce nel vuoto):
∆𝑚𝑐 2 = 0.0504 ∙ 10−27 ∙ (3.00 ∙ 108 )2 = 4.53 ∙ 10−12 𝐽 = 28.3 𝑀𝑒𝑉
Questo valore è più di 2 milioni di volte l’energia necessaria per rimuovere un elettrone
da un atomo di idrogeno, che vale 13,6 eV.
L’energia media di legame per nucleone in un nucleo di elio-4, che ha 4 nucleoni, è
(28,3 MeV)/(4 nucleoni) = 7,07 MeV.
ESEMPIO N.52
Valutare se il nucleo 226Ra (massa = 226,025403 u) può subire un decadimento a
spontaneo trasformandosi in 222Rn (massa = 222,017570 u).
Soluzione
La massa del nucleo 226Ra è maggiore della somma delle masse dei nuclei 222Rn e 4He:
149
mRa – (mRn + mHe) = 226,025403 – (222,017570+ 4,002603) = 0,005230 u
Pertanto la disintegrazione spontanea è possibile. Un simile processo si dice
“energeticamente possibile”.
ESEMPIO N.54
Per nuclei con numero di massa A = 180 e A = 200 l’energia di legame media per
nucleone è rispettivamente di 8,0 MeV e 7,85 MeV. Calcolare l’energia di legame
media EB dei 20 nucleoni in più nel secondo nucleo.
Soluzione
Utilizzando i dati forniti, risulta il seguente bilancio energetico:
180∙8,0 + 20EB = 200∙7,85
da cui segue:
EB = 6,5 MeV
Se due protoni e due neutroni di questi 20 nucleoni formassero un nucleo 4He, essi
sarebbero legati tra di loro con 7 MeV ciascuno. Pertanto l’emissione di un nucleo 4He
(particella a) porterebbe a una riduzione dell’energia di 4(7 – 6,5) = 2 MeV ed è,
quindi, favorita dal punto di vista energetico.
ESEMPIO N.55
Calcolare quanta energia si libera nella reazione:
2
H + 3H → 4He + n
in cui un nucleo di deuterio e uno di trizio si fondono, formando un nucleo di elio e un
neutrone libero.
Soluzione
L’energia liberata si ottiene sottraendo la massa totale del sistema finale (nucleo 4He e
un neutrone) dalla somma delle masse del sistema iniziale (deuterio e trizio):
m(2H) + m(3H) – [m(4He) + m(n)] =
=2,014102 + 3,016029 – 4,002603 – 1,008665 = 0,188630 u.
Pertanto l’energia liberata è (0,18863 u)(931,5 MeV/u) = 17,57 MeV.
Alla reazione di fusione partecipano cinque nucleoni e, quindi, l’energia di legame
liberata per nucleone è:
17.57
∆𝐸 = 5 = 3.51 𝑀𝑒𝑉
Questa energia è circa 4 volte maggiore di quella liberata in un processo di fissione,
pari a circa 0,9 MeV/nucleone. A parità di massa di combustibile, una reazione di
fusione fornisce più energia di una reazione di fissione.
150
7.2) LE REAZIONI NUCLEARI
Così come avvengono reazioni chimiche che modificano la distribuzione degli
elettroni esterni degli atomi, dando origine alla formazione di molecole, reazioni tra
due nuclei che possono dare luogo a formazioni di nuclei diversi da quelli iniziali.
Nel caso delle reazioni nucleari, le energie in gioco nelle trasformazioni sono molto
maggiori (circa un milione di volte) di quelle che intervengono nelle reazioni chimiche.
Occorrono quindi situazioni particolari perchè le reazioni nucleari possano avvenire.
Tali condizioni si verificano, per esempio, nella regione centrale delle stelle dove, per
effetto della grande pressione esercitata dalla massa dell’astro, i nuclei di idrogeno
(elemento di cui è costituita la stella) sono portati a stretto contatto fra loro e possono
fondere, dando luogo a una serie di reazioni che portano alla produzione di nuclei di
elio, liberando, sotto forma di radiazione e rilascio di neutrini, un’energia pari a circa
28 MeV (vedi Esempio 51).
Quando la zona centrale della stella si è arricchita di elio, sempre con un meccanismo
di fusione, le stelle fabbricano carbonio, azoto e ossigeno. Successivamente partendo
da questi elementi vengono prodotti elementi ancora più pesanti, come ferro e silicio.
In una delle fasi finali una stella può esplodere, scaraventando fuori i prodotti della sua
attività. Nella fase dell’esplosione vengono prodotti tutti i nuclei più pesanti del ferro
e molti nuclei di massa intermedia.
L’origine degli elementi di cui è costituita la Terra risale quindi a remote esplosioni
stellari che liberarono nello spazio circostante tutti gli elementi. In quel processo
vennero liberati nuclei stabili e nuclei instabili.
7.2.1) NUCLEI INSTABILI E RADIOATTIVITÀ
Un nucleo è instabile se può trasformarsi spontaneamente in un nucleo diverso o può
riordinare la propria struttura interna con liberazione di energia. Questa instabilità è
detta radioattività. Un nucleo instabile, o radionuclide, emette particelle o pacchetti
di energia. Queste emissioni sono determinate, valutate e misurate con estrema
precisione; esse sono tipiche di ciascun nucleo emettitore.
–– Si ha un’emissione  (alfa) quando il nucleo di un atomo espelle un nucleo di elio4, 4He, consistente in due protoni e due neutroni legati.
Schematicamente:
𝐴
𝐴−4
4
𝑍𝑋 → 𝑍−2𝑌 + 2𝐻𝑒
Ad esempio:
238
𝑈 → 234𝑇ℎ + 4𝐻𝑒
151
Figura 162 - Decadimento alfa
–– Si ha un’emissione  - (beta meno) quando un neutrone interno ad un nucleo si
trasforma in un protone emettendo un elettrone e una particella neutra detta
antineutrino.
𝐴
𝐴
−
Schematicamente:
𝑍𝑋 → 𝑍+1𝑌 + 𝑒 + 𝜈̅𝑒
A livello di nucleoni:
𝑛 → 𝑝 + 𝑒 − +𝜈̅𝑒
–– Si ha un’emissione + (beta più) quando un protone interno ad un nucleo si
trasforma in un neutrone emettendo un positrone (ossia un “elettrone positivo”, vedi
glossario) e una particella neutra detta neutrino.
Schematicamente:
A livello di nucleoni:
𝐴
𝑍𝑋
→ 𝑍−1𝐴𝑌 + 𝑒 + + 𝜈𝑒
𝑝 → 𝑛 + 𝑒 + + 𝜈𝑒
Figura 163 - Decadimenti beta
–– Si ha un’emissione  (gamma) quando, fermo restando il numero di nucleoni
costituenti il nucleo dell’atomo, variano i livelli energetici da essi occupati e l’energia
risultante viene emessa come un'onda elettromagnetica, non accompagnata da materia.
I raggi  sono anche descritti come pacchetti di energia, chiamati fotoni.
Schematicamente:
𝐴
𝑍𝑋′
→ 𝐴𝑍𝑋 + 𝛾
Il nucleo non cambia ma lo stato finale ha perso energia rispetto a quello di partenza e
quindi è più stabile.
152
Poichè le emissioni  e  comportano una variazione del numero delle cariche
elettriche dell’atomo (l’emissione  produce una diminuzione di due cariche positive,
mentre le emissioni  - e  + producono rispettivamente l’aumento e la diminuzione di
una carica positiva), l’atomo emettitore si trasmuta da un elemento a un altro. Le
emissioni sono elettricamente neutre e non provocano trasmutazioni.
Questi processi si indicano usualmente con il termine decadimento e si parla di un
nucleo che decade .
Esistono molti isotopi instabili in natura e la radioattività che essi emanano è detta
radioattività naturale. In laboratorio si possono produrre molti altri isotopi instabili
per mezzo di reazioni nucleari; si dice quindi che questi isotopi sono prodotti
“artificialmente” e si parla in questi casi di radioattività artificiale. E’ bene evidenziare
che dal punto di vista fisico le radiazioni naturali e quelle artificiali sono perfettamente
uguali.
Ogni nuclide instabile emette sempre lo stesso tipo di radiazioni e con la stessa energia
totale unitaria; ad esempio, un emettitore  emette sempre fotoni  di uguale energia.
Figura 164 - Decadimento dell'uranio-238
In alcuni casi il nucleo che si è formato dopo l’emissione di radiazione è a sua volta
instabile. Il processo di decadimento si ripete quindi fino al raggiungimento di una
configurazione stabile. E’ il caso, per esempio, dell’uranio-238 che si trasforma in
piombo con una successione di quattordici decadimenti (fig.164).
Il decadimento  riguarda principalmente gli isotopi degli elementi più pesanti (Z >
78), mentre il decadimento  avviene negli isotopi di tutti gli elementi: precisamente
gli isotopi che si trovano sopra la curva di stabilità di figura 160 decadono  + quelli
che si trovano sotto la curva decadono  -. Il decadimento si accompagna spesso al
decadimento  o . Infatti, quando un nucleo radioattivo decade, il nucleo figlio non
viene necessariamente prodotto nella configurazione di più bassa energia (stato
153
fondamentale): in tal caso decade rapidamente nello stato fondamentale mediante
emissione di .
7.2.2) TEMPO DI DIMEZZAMENTO, VITA MEDIA, ATTIVITÀ
Oltre che dal tipo di particelle emesse e dalla loro energia, un radionuclide viene
caratterizzato anche dalla rapidità con cui avviene il decadimento. E’ questa una
proprietà intrinseca del nucleo stesso, che non dipende dalle condizioni esterne in cui
esso si trova, quali temperatura, pressione, presenza di altri elementi che ne diluiscano
la concentrazione, ecc.
Ogni nucleo radioattivo ha una probabilità ben definita di decadere in un dato periodo
di tempo; pertanto il numero di decadimenti ΔN che avviene in un breve intervallo di
tempo Δt è proporzionale a Δt e al numero totale N di nuclei radioattivi presenti, ossia
ΔN = – NΔt
[10]
dove il segno meno al secondo membro tiene conto del fatto che il numero N di nuclei
radioattivi va diminuendo con il passare del tempo e  è una costante che prende il
nome di costante di decadimento. Quanto maggiore è , tanto più elevata è la
frequenza dei decadimenti.
La costante di decadimento è fissa per ciascun radionuclide, ma varia molto tra i diversi
radionuclidi.
Per la misura della velocità di un decadimento si usa l’emivita o tempo di
dimezzamento (che si denota con 1/2), che è il tempo trascorso il quale la metà dei
radionuclidi presenti in un materiale radioattivo si è disintegrata.
L’equazione [10] può essere risolta rispetto a N (mediante qualche passaggio di analisi
matematica) ottenendo il risultato:
N(t) = N0 e-t
[11]
dove N0 è il numero di nuclei presenti al tempo zero e N(t) rappresenta il loro numero
dopo un tempo t. L’equazione (11) indica che il numero di nuclei radioattivi presenti
in un campione diminuisce nel tempo con l’andamento esponenziale riportato in figura
163: dopo ciascun periodo di tempo t1/2 resta metà della quantità di radionuclide che
esisteva all’inizio di quel periodo di tempo. Pertanto, dopo n tempi di dimezzamento
la quantità di isotopo radioattivo si è ridotta a 1/2n della quantità iniziale.
In base alla sua definizione, dall’equazione (11) segue che il tempo di dimezzamento
o emivita è:
ln 2
0.693
𝜏1/2 = 𝜆 = 𝜆
[12]
Spesso si usa anche la vita media di un isotopo definita come  = 1/,così la
precedente relazione diventa:
1/2 = 0,693 
[13]
E’ opportuno evidenziare che le due grandezze, vita media e emivita, sono diverse
numericamente e quindi confonderle può provocare gravi errori.
154
I tempi di dimezzamento dei diversi nuclei radioattivi variano entro limiti assai ampi,
passando da oltre centomila miliardi di anni dell’indio-115, agli otto giorni dello iodio131, fino a un milionesimo di miliardesimo di secondo per certi nuclei. L’uranio-238
ha un tempo di dimezzamento circa uguale all’età media della Terra (che e stimata in
4,5 miliardi di anni). Questo significa che circa la metà dell’uranio-238 esistente al
momento della formazione della Terra è ancora presente oggi.
La quantità di radiazioni emesse da una sostanza contenente isotopi radioattivi dipende
da due fattori: il numero di nuclei instabili presenti e il loro tempo di dimezzamento.
Ai fini pratici, tuttavia, è importante poter individuare l’attività (velocità di
decadimento), ΔN/Δt, di una sostanza radioattiva, definita come il numero di
decadimenti che avvengono nell’unità di tempo.
Figura 165 - Andamento del decadimento nel tempo
Usando l’equazione (10) si ha:
Δ𝑁
| = 𝜆𝑁 [14]
Δ𝑡
L’unità di misura dell’attività è il becquerel (Bq), così chiamato in onore del grande
fisico francese che, per primo, scopri i fenomeni radioattivi. Si parla di 1 becquerel
quando nella sorgente radioattiva avviene una trasformazione al secondo, con
conseguente emissione di una particella  o .
𝑅=|
ESEMPIO N.56
Un isotopo radioattivo 124Sb (antimonio) con attività iniziale R0 =7,4∙107 Bq ha una
emivita di 60 d. Calcolare la sua attività residua R dopo un anno.
Soluzione
la costante di decadimento del campione di antimonio in esame è
 = 0,693/60 = 0,01155 d−1 .
155
Usando le equazioni (11) e (14) e chiamando N0 e N il numero di nuclei di Sb all’istante
iniziale e dopo un anno, si ottiene:
Δ𝑁
𝑅𝑜 = | | = 𝜆𝑁0
Δ𝑡 0
Δ𝑁
𝑅 = | | = 𝜆𝑁 = 𝜆𝑁𝑜 𝑒 −𝜆𝑡 = 𝑅0 𝑒 −𝜆𝑡 = 7.4 ∙ 107 ∙ 𝑒 −0.01155∙365 = 1.09 ∙ 106 𝐵𝑞
Δ𝑡
ESEMPIO N.57
In t=3,5 ore l’attività di un isotopo radioattivo passa da R0= 350 a R= 275
disintegrazioni al minuto. Calcolare la sua emivita e la sua costante di decadimento.
Soluzione
Dall’esempio precedente risulta che R/R0 = e-t . Eseguendo il logaritmo naturale del
primo e secondo membro di questa relazione si ha:
𝑙𝑛
𝑅
= −𝜆𝑡
𝑅0
da cui segue
𝜆=−
𝑅
𝑙𝑛 𝑅
𝑜
𝑡
=
𝑅𝑜
𝑅 = 1.91 ∙ 10−5 1/𝑠
𝑡
𝑙𝑛
osservando che t=3,5 ore = 12600 s.
Il tempo di dimezzamento è quindi:
𝜏1/2 =
0.693
= 3.62 ∙ 104 𝑠 = 10 ℎ
𝜆
7.2.3) RADIOATTIVITÀ NATURALE E ARTIFICIALE
L’uomo è sempre stato esposto alle radiazioni naturali. Siamo colpiti dalle radiazioni
del Sole e a quelle cosmiche provenienti da altri corpi celesti; materiali naturalmente
radioattivi sono presenti ovunque: nel terreno e negli edifici in cui abitiamo, nel cibo
e nell’acqua che consumiamo. Gas radioattivi sono nell’aria che respiriamo e persino
il nostro corpo è reso debolmente radioattivo dalla presenza di sostanze radioattive
naturali.
I livelli di queste radiazioni naturali, usualmente chiamate radiazioni di fondo, non
sono costanti in ogni luogo e dipendono in parte anche dalle abitudini di vita.
L’uomo non è esposto solo a radiazioni naturali dato che, nel corso di tutta la vita,
viene a contatto con sorgenti di radiazioni che egli stesso ha creato. I raggi X e altri
tipi di radiazioni usate in medicina, le ricadute radioattive causate dagli esperimenti
con esplosivi nucleari o ancora i materiali radioattivi generati nel corso della
156
produzione di energia nucleare sono solo alcuni esempi di queste sorgenti di radiazioni.
I danni che le radiazioni possono provocare agli organismi biologici sono
principalmente dovuti alla ionizzazione, cioè alla rimozione di un elettrone dalla
nuvola elettronica di un atomo. Nel tessuto biologico la componente fondamentale èla
cellula composta per l’80% di acqua (H2O) e per il restante 20% da sistemi biologici
complessi. Il processo di ionizzazione produce radicali OH• liberi che sono
chimicamente molto attivi e possono alterare altre importanti molecole nella cellula.
Queste variazioni chimiche possono causare dannosi effetti biologici e il danno
dipende dalla parte di cellula colpita: se la ionizzazione ha luogo nelle parti critiche
della cellula, quali il DNA che presiede al funzionamento e alla riproduzione della
cellula stessa, queste funzioni possono essere alterate con gravi danni biologici, fino
alla formazione di tumori o modificazioni genetiche.
Per quanto riguarda la pericolosità dei radionuclidi è importante osservare che, a parità
di numero di radionuclidi, un tempo di dimezzamento più breve significa che l’attività
è più elevata e quindi la sostanza è più radioattiva e potenzialmente più pericolosa.
D’altra parte un tempo di dimezzamento più breve significa che il materiale in
questione decadrà più presto a un livello inferiore e quindi richiede una protezione per
un periodo di tempo più breve. Per esempio, in un campione di un materiale radioattivo
con emivita 30 anni, metà dei nuclei si disintegra in quel periodo. Un materiale con lo
stesso numero di radionuclidi con emivita 300 anni avrà perso, dopo lo stesso periodo,
meno di 1/10 della radioattività iniziale (1 – e–(0,1×0,693)) = 0,067; ma la manterrà 10
volte più a lungo. Per un’emivita di 3000 anni il numero di decadimenti sarà circa
1/100 (1 – e–0,00693 =0,007). Pertanto i materiali più pericolosi sono spesso quelli con
emivita né lunga né corta, ma intermedia. Questo perchè, quando è esposto, il nostro
corpo riceve solo i decadimenti che hanno luogo nel corso della nostra vita e i
radionuclidi con emivita breve scompaiono rapidamente, mentre quelli con emivita
lunga impiegano talmente tanto tempo a esaurirsi perchè hanno pochissimi
decadimenti al secondo e quindi per generare dosi significative richiedono tempi
enormi.
7.2.4) EFFETTI BIOLOGICI DELLE RADIAZIONI. DOSIMETRIA
L'informazione sull'attività di una sorgente non è sufficiente per conoscere del tutto gli
effetti prodotti dalle radiazioni emesse. Ciò deriva dal fatto che le interazioni di
particelle  e di neutroni con la materia sono diverse e dipendono inoltre
dall’energia delle radiazioni.
La radiazione può essere fermata da un foglio di carta, quella può attraversare 1–
2 cm di tessuto umano, i raggi  e i neutroni sono assai più penetranti (vedi figura 166).
Un comportamento così diverso dipende dal differente modo di interazione con la
materia delle varie radiazioni. I raggi  e , che sono particelle cariche,
nell’attraversamento di un qualsiasi materiale, strappano elettroni agli atomi che
incontrano per via (ossia li ionizzano) e trasferiscono loro una frazione della loro
energia. Cosi alla fine del percorso, quando si arrestano, la loro energia iniziale è stata
interamente trasferita al mezzo attraversato. Le particelle , che hanno massa assai
157
maggiore (circa ottomila volte) delle particelle , perdono energia assai più
rapidamente e quindi vengono arrestate da piccoli spessori di materiale.
Figura 166 - penetrazione delle radiazioni nucleari
L’interazione dei raggi  con la materia è invece più complessa: un  può attraversare
notevoli spessori di materiale conservando per intero la sua energia, finché,
nell’interazione con un atomo, strappa via un elettrone, cedendo ad esso buona parte
della propria energia. L’elettrone estratto, a sua volta, cede l’energia ricevuta al
materiale, con lo stesso meccanismo dei raggi .
I neutroni, che sono elettricamente neutri, interagiscono debolmente con la materia e
sono quindi molto penetranti e non si rallentano facilmente. Essi perdono velocità negli
“urti” con i nuclei atomici del materiale attraversato. Per fermarli si usano spessi strati
di cemento o di materiali che contengono idrogeno (ad es. acqua o oli), che assorbono
più efficacemente la loro energia. I processi di interazione consistono, quindi, nel
trasferimento di energia dalle radiazioni alla materia attraversata. La quantità di
energia che la radiazione cede all'unità di massa della materia attraversata si chiama
dose assorbita e si misura in gray (simbolo Gy). Il gray è la dose corrispondente
all'energia di 1 joule depositata nella massa di 1 chilogrammo, 1 Gy = 1J/kg.
Per valutare gli effetti delle radiazioni nei tessuti biologici non è sufficiente conoscere
la dose assorbita; occorre anche tenere in conto la qualità della radiazione e il fatto che
alcuni tessuti sono più sensibili di altri. Ad esempio, a parità di dose assorbita, la
radiazione  è potenzialmente circa 20 volte più pericolosa di quelle  e  perché
rilascia l’energia in regioni più piccole; quindi il danno cellulare risultante può essere
più difficilmente riparabile. Così pure, a parità di dose e di tipo di radiazione che la
induce, il danno prodotto ai polmoni è maggiore di quello prodotto alle ossa.
La pericolosità delle radiazioni dipende anche dalle modalità di introduzione nel corpo;
per esempio le radiazioni  sono molto pericolose se il radionuclide che le emette è
inalato. Per irradiazione esterna, la pericolosità è invece molto minore perchè esse sono
facilmente schermabili; per esempio è sufficiente lo spessore della pelle per arrestarle.
Per tener conto della diversa efficacia biologica relativa correlata anche alla capacità
ionizzante delle diverse radiazioni sui tessuti viventi, si usa la dose equivalente che si
158
ottiene moltiplicando la dose assorbita per un fattore di ponderazione
adimensionale, wR, della radiazione considerata. La dose equivalente è misurata in
sievert (simbolo Sv), definito come la dose assorbita di qualsiasi radiazione che
produce lo stesso effetto (danno) biologico di 1 Gy di raggi X. Pertanto, un sievert,
a differenza di un gray, produce gli stessi effetti biologici indipendentemente dal tipo
di radiazione considerata. Nella Tabella 167 sono riportati i fattori di ponderazione dei
diversi tipi di radiazioni.
Tabella 167
Per tenere conto della diversa radiosensibilità dei tessuti, si usa la dose efficace, che si
ottiene moltiplicando la dose equivalente per un fattore di ponderazione
adimensionale, wT, del tessuto considerato. Anche la dose efficace si misura in sievert.
Nella Tabella 168 sono riportati i fattori di ponderazione di alcuni tessuti e organi.
Tabella 168
In pratica ciò che importa conoscere è la dose efficace media annua che ciascuno di
noi riceve dalle più disparate sorgenti di radiazione.
Il maggior contributo alla dose efficace assorbita dagli esseri viventi è dovuta alla
radiazione emessa da sorgenti naturali (radon, raggi cosmici, radionuclidi sulla crosta
terrestre e nei cibi), la cui distribuzione non è tuttavia la stessa per tutte le zone
159
geografiche. Mentre mediamente la dose di esposizione del pubblico alle radiazioni
sulla Terra è valutabile in circa 3 mSv annui, in alcune zone del Brasile (Guarapari) e
dell’India (Kerala) essa arriva a 50 mSv all’anno. Il record mondiale è probabilmente
detenuto dalla zona di Ramsar, in Iran, dove, a causa di acque termali contenenti radio,
si toccano i 260 mSv all’anno (Fonte UNSCEAR 2000 Report).
Studi recenti hanno rilevato l’importanza del radon (Rn), un gas radioattivo (che emana
dal terreno) che decade emettendo raggi a e che, insieme ai propri discendenti,
contribuisce alla maggior parte della dose naturale.
Un altro contributo importante alla dose equivalente deriva dalla radiazione cosmica
(“raggi cosmici”), costituita da radiazione elettromagnetica (prevalentemente raggi g),
protoni e nuclei più pesanti di altissima energia che piovono sulla Terra dall’esterno,
originati in processi stellari. I raggi cosmici bersagliano costantemente l’atmosfera
creando un flusso continuo sulla superficie terrestre dell’ordine di 180 particelle al
secondo per metro quadrato.
7.3 INQUINAMENTO DA RADON
Il radon (Rn) è un gas nobile caratterizzato dal numero atomico Z=86 e massa atomica
A=222.
Esistono 26 isotopi del radon compresi tra 199Rn e 226Rn. Solamente tre di questi sono
naturali:
- Il radon: 222Rn che deriva dal decadimento del 238U (1/2= 3.825 gg).
- L’attinon: 219Rn che deriva dal decadimento del 235U (1/2= 3.96 s).
- Il toron: 220Rn che deriva dal decadimento del torio 232Th (1/2= 55.61 s).
Dei tre isotopi il 222Rn ha emivita più lunga per questo diffonde più ampiamente degli
altri in atmosfera anche in presenza di concentrazioni minori nel terreno.
Il radon è un gas:
- Radioattivo: emette radiazioni ;
- Inodoro, incolore, insapore quindi di difficile individuazione se non con l’uso di
strumentazioni sofisticate,
- Inerte (è un gas nobile)
- Solubile in acqua, quindi è spesso presente nelle falde acquifere.
Per quanto riguarda la sua presenza nell’ambito del territorio italiano si ha una
situazione diversificata da regione a regione come indicato in figura 169.
160
Esso si trova nelle rocce, nel suolo e negli ambienti in cui si vive a causa della sua
presenza in molti dei materiali da
costruzione e nell’acqua.
Figura 169 - Concentrazioni di Radon nel territorio
Figura 170 - fonti di inquinamento da radon negli ambienti
7.3.1) DIFFUSIONE DEL RADON
La diffusione del radon avviene nel terreno in base alle seguenti caratteristiche del
suolo:
- Permeabilità e porosità: più è permeabile e poroso maggiore è la diffusione del
gas di radon attraverso i suoi strati.
- Consistenza: in terreni sabbiosi o argillosi si ha la massima diffusione di gas.
- Il suo stato: un terreno gelato, impregnato di acqua o coperto di neve libera una
quantità di radon molto più bassa di quella che esce dallo stesso terreno secco.
- Condizioni meteorologiche: si ha una maggiore diffusione in presenza di alte
temperature del suolo e dell’aria, lo stesso vale per la pressione barometrica e
per il vento.
- Falde acquifere: più elevata è la profondità, maggiore è la concentrazione di
radon nell’acqua che vi si attinge.
La diffusione nei materiali da costruzione è significativa nei seguenti casi:
- Tufi e pozzolane: questi materiali, di origine vulcanica, possono presentare
contenuti di radio e torio di alcune centinaia di Bq/kg.
- Graniti e porfidi: presentano elevati livelli di uranio e torio.
Per un quadro d’insieme si rimanda alla seguente tabella 171:
161
Figura 171
Il radon è solubile in acqua, pertanto può essere presente nelle acque che scorrono
tra le rocce e le sabbie.
�� L’acqua costituisce un veicolo efficace per il trasporto del radon dagli strati più
profondi alla superficie e a grandi distanze dal luogo di formazione;
�� l’acqua per uso domestico se proviene da terreni vulcanici può contenere radon;
�� la solubilità del radon in acqua decresce all’aumentare della temperatura.
IL FLUSSO DI GAS RADON CHE ENTRA NEGLI EDIFICI DIPENDE DA:
�� permeabilità del suolo
�� tipologia dell’edificio (forma, dimensioni, ad uno o più piani, ecc)
�� tipo fondamenta dell’edificio
�� modalità di impiego dei locali (collegamento seminterrato-piani abitati, ecc)
�� integrità strutturale edificio
�� ventilazione edificio
�� stato e manutenzione edificio (impianti di riscaldamento, ecc.).
7.3.2) EFFETTI SULLA SALUTE
Dal 1988 il RADON è classificato nel Gruppo 1 degli agenti cancerogeni per l’uomo.
Il principale effetto sulla salute è un aumento di rischio di tumore polmonare
attraverso il seguente meccanismo:
- essendo radioattivo decade e si trasforma in altri elementi, chiamati "figli”del
radon;
162
- I figli del radon sono metalli pesanti, che vengono prodotti in forma di ioni e
hanno un’altissima probabilità di legarsi al pulviscolo atmosferico generando
quindi un aerosol radioattivo che penetra e può depositarsi nel parenchima
polmonare;
- il contributo maggiore di dose all’apparato respiratorio deriva proprio
dall’inalazione dell’aerosol;
- gli atomi così depositati e radioattivi emettono radiazioni alfa che possono
danneggiare il DNA;
- nei polmoni le particelle alfa delle radiazioni che si liberano in seguito al
decadimento possono danneggiare DNA e RNA delle cellule portando alla
formazione di tumori;
- i fumatori sono i soggetti più a rischio in quanto esiste un effetto sinergico tra il
fumo di sigaretta e la presenza del radon.
Per prevenire il rischio di contrarre malattie sono state fissati livelli di riferimento per
le abitazioni e per l'ambiente di lavoro, al di sotto dei quali il rischio si ritiene
accettabile, anche se per le sostanze radioattive il rischio non potrà mai essere ridotto
a zero.
7.3.3) NORMATIVA
Attualmente in Italia esistono obblighi solo per i luoghi di lavoro introdotti dal decreto
legislativo 241/2000 che ha modificato il Dlgs 230/95.
Per gli ambienti residenziali e le acque destinate ad uso potabile esistono
raccomandazioni della Unione Europea: rispettivamente la 143/90 e la 928/2001.
Attività lavorative a rischio sono considerate:
a) quelle svolte in tunnel, metropolitane, sotto-vie, catacombe, grotte e comunque tutti
i luoghi sotterranei in cui si svolgano attività, come ad esempio impianti sportivi,
attività artigianali ecc.
b) quelle svolte in tutti i luoghi di lavoro in superficie che si trovano in un'area in cui
è alta la probabilità di riscontrare elevate concentrazioni di radon indoor,
indipendentemente dal tipo di attività svolta, come ad esempio, scuole, esercizi
commerciali, studi professionali ecc.
c) quelle in cui si utilizzano materiali non considerati radioattivi, ma che possono
raggiungere una considerevole quantità di radionuclidi naturali es. attività lavorative
nelle cave
d) quelle in cui si producono rifiuti di lavorazione non considerati radioattivi, ma che
possono contenere una considerevole quantità di radionuclidi naturali es. edilizia,
industria estrattiva
e) stabilimenti termali
f) le miniere non uranifere.
163
7.3.4) ADEMPIMENTI PER LA ESPOSIZIONE AL RADON NEI LUOGHI DI
LAVORO
L’ art. 10 bis, 1°, lett. a) e b) e 10 Ter, Capo III bis del Dlgs 241/2000 impone che
entro 24 mesi dall'inizio attività si esegue una campagna di misure (da parte di un
organismo riconosciuto) con relazione finale.
Posto il Livello di azione a 500 Bq/m3:
A) Se la misura è inferiore all' 80% del livello di azione (i.e. 400 Bq/m3) l'obbligo è
risolto e bisognerà ripetere la misura solo se variano le condizioni di lavoro.
B) Se la misura è tra l'80% ed il 100% del livello di azione (i.e. 400 – 500 Bq/mc)
l'obbligo si risolve con la ripetizione della misura annualmente.
C) Se la misura supera il livello di azione (i.e. > 500 Bq/m3) si dovrà:
1) Spedire agli Organi di controllo la relazione di misura.
2) Incaricare un Esperto Qualificato per la valutazione della dose efficace
assorbita dai singoli lavoratori.
3) Verifica della dose efficace.
D) Se la dose efficace è inferiore a 3 mSv/anno l'obbligo si risolve con la ripetizione
della misura annualmente.
E) Se la dose efficace è superiore o uguale a 3mSv/anno:
1) L'esperto qualificato fa la valutazione del rischio.
2) L'esercente predispone le azioni di rimedio e al termine ripete la misura.
Se anche la nuova misura fornisce valori superiori a 3 mSv/anno l'esercente incarica:
1) Esperto Qualificato per la sorveglianza fisica,
2) Medico per la sorveglianza medica dei lavoratori,
e predispone ulteriori azioni di rimedio e ripete la misura.
Se la dose efficace è inferiore a 3mSv/anno l'obbligo si risolve con la ripetizione della
misura annualmente.
7.3.5) MISURAZIONE DEL RADON
La concentrazione del radon indoor può essere misurato attraverso:
-
STRUMENTI CHE EFFETTUANO MISURAZIONI ATTIVE
STRUMENTI CHE EFFETTUANO MISURAZIONI PASSIVE
164
I RIVELATORI PASSIVI
-
NON SONO ALIMENTATI ELETTRICAMENTE
Le tecniche di tipo passivo maggiormente impiegate nella misura della concentrazione
di radon indoor sono:
- 1) Adsorbimento su canestri a carboni attivi.
- 2) Rivelazione di carica elettrica mediante elettrete.
- 3) Rivelazione delle tracce alfa con dosimetri.
Figura 172 - Vari tipi di canestri a carbone attivo
Canestri di carbone attivo: i carboni
vengono quindi analizzati in spettrometria gamma con rivelatore a scintillazione
(cristalli NaI), ottenendo un risultato di concentrazione, anche per valori < 20 Bq/mc;
i campionatori sono spesso influenzati dalle condizioni ambientali (Temperatura e
umidità).
Elettreti: sono basati su una resina di derivazione
ottica denominata Columbia Resins 39, dotati di un
codice di identificazione e sono trattati in modo
antistatico dal produttore. La camera di diffusione e
Figura 173 - Elettreti
filtro è un contenitore di plastica di dimensioni 4.5 cm
x 2.5 cm. Il contenitore ha forma cilindrica e possiede
un tappo di chiusura; la fessura esistente tra tappo e
contenitore (20-30 micrometri) è tale per cui è possibile
l’ingresso, al suo interno, del solo gas radon.
Dosimetri radon: sono misuratori di tracce alfa che
registrano il contenuto di radioattività alfa presente in
Figura 174 - Dosimetri
locali, stanze, ambienti, pozzi e costruzioni di ogni
genere.
TEMPI DI MISURAZIONE NECESSARI PER AVERE UN VALORE EFFICACE CON
DOSIMETRI DI TIPO PASSIVO:
�� DOSIMETRI: il tempo va da 3 mesi ad 1 anno.
�� ELETTRETI: alcuni giorni fino ad alcuni mesi.
�� CANESTRI: non superiore ad una settimana.
I rilevatori passivi hanno un basso costo e dunque sono molto indicati per campagne
di rilevazioni di lunga durata.
165
RILEVATORI ATTIVI
Sono costituiti da strumenti dotati di un particolare
sensore Geiger sensibile prevalentemente alla radiazione
alfa.
I risultati sono più attendibili ma il costo per l'analisi è
più elevato. Vanno usati per determinazioni accurate in
genere laddove i rivelatori passivi hanno determinato
Figura 175 - Contatore Geiger
concentrazioni preoccupanti di Radon.
Esistono analizzatori che individuano, sulla base delle energie rilasciate durate il
processo di decadimento, la presenza dei prodotti figli.
PREVENZIONE TECNICA
Si deve favorire il ricambio d’aria nei locali aumentando la ventilazione naturale
attraverso porte e finestre o con l’ausilio di ventilatori appositi. Isolare l’edificio dal
suolo al fine d’impedire l’ingresso del Radon nell’abitazione (sigillatura di crepe,
fessure, tubazioni, rivestimento in cemento del pavimento in cantina…).
TECNICHE CONSIGLIATE NEL CASO
DI
CONCENTRAZIONE
MOLTO
ELEVATA DERIVANTE DAL SUOLO.
Figura 176 - Pozzetto con ventilazione forzata e vespaio ventilato
Pozzetto con ventilazione forzata.
Consiste nel realizzare sotto la
superficie dell'edificio un pozzetto
per la raccolta del gas radon, che
viene collegato a un piccolo
ventilatore (fig.176).
In tal modo all'interno del pozzetto
si realizza una depressione che
raccoglie il radon e lo espelle in aria
impedendo che entri all'interno
dell'edificio.
Ventilazione del vespaio.
Questo metodo viene utilizzato quando è presente un vespaio al di sotto dell'edificio.
Aumentando la ventilazione del vespaio si diluisce il radon presente e di conseguenza
meno radon si trasferisce nell'edificio.
L'incremento della ventilazione può essere realizzato aumentando il numero delle
bocchette di aerazione ed eventualmente applicando un ventilatore.
In alcuni casi la semplice pulizia delle bocchette di aerazione porta a un abbassamento
della concentrazione di radon.
166
Pressurizzazione dell'edificio
Si cerca di incrementare la pressione interna dell'edificio, in modo da contrastare la
risalita del radon dal suolo. In pratica l’aria interna spinge il radon fuori dall'edificio.
E’ necessario l'ausilio di un ventilatore. In sintesi tali interventi sono riassunti in figura
177.
Figura 177 - Interventi di prevenzione
7.3.6) IL RADON NEL VENETO
L’ARPAV ha eseguito un’indagine estesa al territorio veneto dalla quale è emerso che
il livello medio nella zona settentrionale della regione è di 94 Bq/m 3 il che contrasta
con la classificazione della regione Veneto indicata nella figura 169. I valori misurati
nelle case hanno permesso anche di costruire una mappa del territorio regionale nella
quale sono indicate le percentuali di abitazioni in cui il livello di radon supera il valore
di riferimento fissato dalla Regione Veneto pari a 200 Bq/m3. Nelle case che superano
questo limite è consigliato l’intervento di risanamento. Sono considerate aree ad alto
potenziale quelle in cui il livello di riferimento è superato in almeno il 10% delle
abitazioni. Le aree con queste caratteristiche occupano circa un decimo del territorio
regionale ( vedi figura 178).
La maggior concentrazione di zone interessate si trova nelle aree settentrionali delle
province di Belluno e Vicenza che presentano alti valori di concentrazione di radon.
167
Nel bellunese l’area critica comprende la zona del Cadore in particolare la valle di
Ampezzo e l’alta valle del Piave fino oltre Longarone, i dintorni di Agordo e il
Figura 178 - Mappa della distribuzione del radon nel Veneto (ARPAV)
Comelico. In provincia di Vicenza risultano a maggior rischio la parte occidentale
dell’altopiano di Asiago, le zone pedemontane sottostanti a questa, le zone a ridosso
dei monti Lessini orientali. Esistono alcune zone isolate in cui la concentrazione è
risultata particolarmente elevata, tanto da rientrare tra le aree di alto potenziale di
rischio. Si tratta di alcune maglie della rete in cui è suddiviso il territorio nella zona di
Asolo e del Cansiglio in provincia di Treviso.
7.4) FISSIONE, FUSIONE E CENTRALI NUCLEARI.
Nel paragrafo 7.1.3) abbiamo analizzato la struttura del nucleo e le sue possibili
trasformazioni accennando alla fissione e alla fusione e al relativo rilascio di grandi
quantità di energia. Riprenderemo ora queste due trasformazioni nucleari in modo da
comprendere come si possa ottenere energia utilizzabile nelle centrali di produzione di
energia elettrica con alimentazione a combustibile nucleare.
7.4.1) LA FISSIONE NUCLEARE
I nuclei radioattivi come l’uranio hanno tempi di decadimento naturali molto lunghi e,
quindi, se si vuol ottenere l’energia che un decadimento libera è necessario indurre la
168
fissione artificialmente. I nuclei pesanti (Z>92), se bombardati ad esempio con
neutroni, tendono a decadere spezzandosi in due nuclei di massa circa metà di quella
di partenza, emettendo inoltre altri neutroni, che possono provocare una reazione a
catena.
Figura 179 - Fissione nucleare
Per esempio la fissione dell’ uranio è descritta da Bohr e Wheeler secondo il seguente
schema:
Figura 180 - Fissione dell'uranio-235
La fissione dell'uranio 235 indotta da un neutrone è tra le più conosciute, si scrive
n + 235U -> 236U ->X + Y + kn
169
dove X e Y sono dei nuclei mediamente pesanti e radioattivi chiamati prodotti di
fissione e k è il numero di neutroni emessi.
I numeri di massa di X e Y sono tipicamente distribuiti come segue:
Figura 181 - % dei numeri di massa A nel decadimento dell’uranio-235
Il calcolo approssimativo basato sulla variazione dell'energia di legame ci dà l'energia
liberata nella fusione dell'235U con i seguenti dati estrapolati dalla figura 161; un
nucleone con A =240 -> EB= 7.6 MeV si dissocia in due nucleoni con A = 120 ->
EB= 8,5 MeV da cui l'energia liberata risulta:
2 (8, 5*120) – 7,6*240=216 MeV
che come vedremo nei seguenti esempi è proprio l’ordine di grandezza delle reazioni
di fissione dell’uranio-235.
Ecco alcune possibili reazioni di fissione nucleare:
n + 235U -> 95Sr + 139Xe + 2n +  + 184 MeV
n + 235U -> 93Rb + 141Cs + 2n +  + 180 MeV
n + 235U -> 93Kr + 140Xe + 3n +  + 162 MeV
n + 235U -> 94Zr + 140Cs + n +  + 208 MeV
Se i neutroni prodotti da una reazione possono venire assorbiti da nuclei fissili vicini
provocano una nuova reazione.
Tipicamente per l'uranio 235 sono liberati in media 1,33 neutroni.
170
Se il numero di neutroni che danno luogo a nuove fissioni è maggiore di 1 si ha una
reazione a catena per cui il numero di fissioni aumentano esponenzialmente, se tale
numero è uguale a 1 si ha una reazione stabile, se è inferiore a 1 la reazione si arresta.
7.4.2) NOCCIOLO DI UN REATTORE NUCLEARE
Le componenti principali del nocciolo di un reattore a fissione sono:
- il combustibile (barre fisse di materiale radioattivo);
- il moderatore;
- le barre di controllo (mobili).
Oltre al nocciolo vi sono dei circuiti di raffreddamento.
L'uranio in natura si trova sotto forma di ossido o sale complesso ed è composto da
una miscela dei tre isotopi:
234
U: < 0;01%, 1/2 = 2.5 105 a;
235
U: = 0,70%, 1/2 = 7.0 108 a;
238
U: = 99,3%, 1/2 = 4,5 109 a.
Per generare la fissione dell'235U i neutroni devono essere lenti (detti neutroni termici,
di energia cinetica molto ridotta dell'ordine di 0.04 eV) così da aumentare il tasso di
reazione. Questi neutroni non permettono la fissione dell'238U (che diventa 239U e
decade via  poichè fissiona solo con neutroni veloci).
Per un reattore a fissione di 235U è quindi necessario aumentare la concentrazione
dell'isotopo 235U rispetto al più comune 238U; il processo di arricchimento dell'uranio
per passare dallo 0.70% a circa il 3.4% di 235U, che serve per una centrale nucleare a
fissione è estremamente complesso e costoso.
La fissione produce neutroni veloci di energia cinetica dell'ordine di 2 MeV, ma a
questo livello di energia il tasso di reazione è molto basso ed è necessario rallentare i
neutroni.
Per questo tra le barre di combustibile si mette una sostanza, chiamata moderatore,
che:
- rallenta i neutroni (in collisioni elastiche);
- non sottrae i neutroni al processo assorbendoli.
Solitamente si usa acqua (H2O) o acqua pesante (D2O).
Per un reattore nucleare si definisce il fattore di moltiplicazione :
K = neutroni all'inizio di una generazione/neutroni all'inizio della generazione
precedente
Se K < 1: regime subcritico, il reattore tende a fermarsi;
se K = 1: regime critico;
se K > 1: regime supercritico. Il reattore tende ad esplodere.
Nei reattori nucleari a fissione è importante regolare la reazione in modo tale che essa
sia stabile, ossia che K non superi per troppo tempo il valore limite di K = 1.05.
Le barre di controllo :
171
- sono fatte di un materiale (ad esempio cadmio) in grado di assorbire facilmente
i neutroni;
- servono a controllare il regime del reattore (il fattore di moltiplicazione che deve
essere mantenuto al valore K = 1) sottraendo neutroni:
- il reattore è infatti progettato in modo da avere fissioni supercritiche;
- a causa dell'accumularsi dei prodotti di fissione, che assorbono neutroni, la
tendenza del reattore è di diventare subcritico e le barre di controllo possono
essere gradualmente estratte per mantenere K = 1;
- le barre garantiscono la possibilità di interrompere il processo di fissione.
Figura 182- Nocciolo di un reattore con le barre sollevate e abbassate.
Figura 184 - ciclo di un reattore a fissione
Analizziamo un ciclo (o generazione),c.f.r.fig.184, con 1000 neutroni termici iniziali:
- fissione dell'235U, si generano 1330 neutroni veloci;
- fissione dell'238U, si generano altri 40 neutroni quindi in totale 1330 + 40 = 1370
neutroni veloci;
172
- si ha una fuga dal nocciolo di 70 neutroni; restano 1300 neutroni veloci;
- il moderatore rallenta i neutroni (da 2 MeV a 0,04 eV)
- 130 neutroni lenti (tra i 1 eV 100 eV) vengono catturati per risonanza, ne restano
1170 neutroni termici
n + 238U ->238U + 
- altri 20 neutroni si perdono per cattura termica (non fissile), restano 1050
neutroni termici;
- fuga dal nocciolo di 50 neutroni, restano 1000 neutroni termici.
In un ciclo si guadagnano circa 200 MeV di energia termica rilasciati dai 370 neutroni
aggiunti dagli effetti della fissione iniziale.
Il sistema di raffreddamento ha lo scopo di prelevare l'energia prodotta dalle reazioni
di fissione e trasferirla all'esterno producendo energia elettrica come negli altri tipi di
centrale elettrica.
L'energia cinetica dei prodotti della reazione va convertita.
Tipicamente i prodotti di reazione cedono la loro energia cinetica ad un liquido (acqua)
che aumenta quindi la sua energia termica.
Nei reattori ad acqua pressurizzata (PWR) l'acqua è utilizzata sia come moderatore
sia come veicolo per il trasferimento dell'energia termica.
Vi sono, oltre al nocciolo i seguenti circuiti:
-
circuito primario: l'acqua pressurizzata, cioè il refrigerante, circolando nel
contenitore del reattore trasporta energia e grandissima pressione (fino a 600K
e 150 bar) dal nocciolo del reattore al generatore di vapore;
-
circuito secondario in questa parte l’acqua vaporizzata del primario scalda
attraverso una serpentina l’acqua di questa parte del circuito producendo il
vapore surriscaldato che viene inviato alle turbine. Quest’acqua non è a diretto
contatto con il nocciolo.
Per completare il circuito, il vapore a bassa pressione viene scaricato dalla turbina,
condensato per raffreddamento sotto vuoto e forzato nuovamente da pompe ad alta
pressione nel generatore di vapore.
Come si vede in figura 185 la turbina fa ruotare il sistema elettromagnetico
dell’alternatore producendo così un flusso variabile che genera corrente alternata.
173
Figura 185 - Schema di una centrale nucleare a fissione.
7.4.3) FUSIONE NUCLEARE
La fusione è il processo nucleare consistente nell'unione di due nuclei leggeri in uno
più pesante. In questo tipo di reazione il nuovo nucleo costituito ha massa totale minore
della somma delle masse reagenti, con conseguente liberazione di energia (cinetica dei
prodotti).
Affinchè avvenga una fusione tra due nuclei, questi devono essere sufficientemente
vicini in modo da lasciare che la forza nucleare forte predomini sulla repulsione
coulombiana (i due nuclei hanno carica elettrica
positiva quindi si respingono): ciò avviene a
distanze molto piccole, dell'ordine di qualche
fermi (10-15 m). L'energia necessaria per
superare la repulsione coulombiana può essere
fornita alle particelle portandole in condizioni di
altissima pressione (altissima temperatura e/o
altissima densità).
Per ottenere la fusione i nuclei in gioco devono
vincere la barriera di energia potenziale
coulombiana, repulsiva, per cadere nella buca di
potenziale nucleare, attrattiva: questo è
possibile anche grazie ad un effetto quantistico
Figura 186 - Effetto tunnel : energie
chiamato effetto tunnel.
174
Una situazione in cui si verifica la fusione naturale è all’interno di una stella, ad
esempio il sole, dove avvengono le seguenti reazioni (figura 187):
p + p → D + e+ +e + 0,93 MeV
p + D →3He +  + 5,49 MeV
3
He + 3He →4He + 2p + 12,86 MeV
il bilancio complessivo di reazione è quindi:
4p →4He + 2e+ + 2 + 2 + 25 MeV :
Condizioni in cui avviene la fusione:
- temperature dell'ordine di 107 K, il gas si trova nello stato di plasma (gas
ionizzato);
- la densità è dell'ordine di 1032 m-3;
- il combustibile è confinato dalla sua stessa forza di gravità.
Figura 187 - Fusione nucleare e metodi di confinamento
Come risulta evidente dai dati sopra riportati è estremamente complesso confinare in
un luogo ristretto una fusione nucleare in modo da poter utilizzare l’energia che se ne
ricava nelle centrali elettriche.
Le conoscenze attuali hanno permesso di ideare solamente due sistemi di
confinamento:
- confinamento magnetico (grazie alla forza di Lorentz);
- confinamento inerziale (grazie a potenti laser).
La condizione necessaria per ottenere la fusione nei reattori a fusione è la seguente:
175
Triplo prodotto (criterio di Lawson):
T > 5 1021 s/m3 keV
dove: = densità, = tempo di confinamento, T = temperatura.
Il criterio di Lawson indica che:
- le particelle devono essere molte (= alta densità);
- stare assieme per un tempo sufficiente (= alto tempo di confinamento);
- molto energetiche (= alta temperatura).
La relazione energia-temperatura è data come ricordiamo dalla teoria cinetica:
3
Ecin =2 kT
Ecco alcune possibili reazioni di fusione nucleare che vengono considerate negli studi
dei reattori a fusione:
D + T →4He + n + 17.6 MeV
D + D →3He + n + 3.27 MeV (50%)
D + D→T + p + 4,03 MeV (50%)
D + 3He →4He + p + 18,4 MeV
Il tasso di reazione (o sezione efficace) è una misura della probabilità di una reazione
di fusione in funzione della velocità dei nuclei reagenti (che dipende dall'energia
cinetica e quindi della temperatura).( 1 KeV= 107K)
Figura 188 - velocità di fusione
Per la reazione deuterio-trizio (D-T) come si possono ottenere i reagenti?
176
- il deuterio lo si trova in abbondanza nel mare (30 L → 1 g);
- il trizio lo si produce grazie alla reazione innescata da un neutrone:
6
Li + n →T + 4He + 4,8 MeV ;
il litio lo si trova nelle rocce e negli oceani.
Vediamo ora alcuni dati energetici a confronto:
Combustione: 1 kg di carbone → 8,14 kWh;
Fissione: 1 kg di uranio → 2.3 107 kWh;
Fusione: 400 g di D + 600 g di T → 108 kWh;
Risulta evidente che questo tipo di energia è la più conveniente, peccato che non sia
ancora tecnicamente realizzabile. Gli studi finora sono solamente a livello
sperimentale. Il metodo più seguito prevede:
- Riscaldamento: grazie a onde elettromagnetiche (onde radio e microonde) ad
alta potenza;
- Confinamento: grazie ad una camera toroidale con campo magnetico (Tokamak)
Figura 189 - Campo di confinamento del Tokamak
Le previsioni sulla sua realizzazione, da più di 30 anni, affermano che “ci si arriverà
praticamente nei prossimi 10 anni”…….
177
7.4.4) VANTAGGI E SVANTAGGI DELLE DUE FORME DI ENERGIA
NUCLEARE.
Per concludere facciamo un bilancio relativo al possibile uso dell’energia nucleare.
FUSIONE
Vantaggi
- Ottima alternativa di fronte all'esaurimento e all'insostenibilità ambientale delle
fonti fossili (petrolio, carbone, gas, …).
- I reagenti che intervengono nelle reazioni di fusione abbondano in natura e sono
equidistribuiti sul pianeta, fatto questo che potrebbe almeno in parte contrastare
l'aumento di conflitti globali per l'accaparramento di fonti energetiche naturali.
- Elimina i problemi legati alla fissione nucleare in materia di sicurezza
dell'impianto, sicurezza militare nazionale ed internazionale: un reattore a
fusione non controllato si spegne.
- Nessun rischio di esplosione o intossicazione radioattiva in caso di fallimento
del controllo del processo di fusione.
- Nessuna emissione di gas serra.
- Nessun trasporto di materiale contaminante: deuterio e litio (da cui si ricava il
trizio) abbondano in natura.
- Bassa radioattività dei materiali sottoposti a flusso neutronico che decade con
tempi dell'ordine dei decenni consentendone un agevole trattamento.
- In caso di incidente il peggiore isotopo che potrebbe essere messo in
circolazione è il trizio, che decade in 12.3 anni.
- Esperimenti di rilascio controllato di trizio nell'atmosfera hanno mostrato che
l'attivazione del suolo nell'area contaminata scende in circa un anno al livello
del background.
Svantaggi
- Difficoltà tecnologiche legate al confinamento. In pratica non è ancora
realizzabile.
FISSIONE
Vantaggi
- Alternativa di fronte all'esaurimento e all'insostenibilità ambientale delle fonti
fossili (petrolio, carbone, gas, …).
- Nessuna emissione di gas serra.
178
Svantaggi
- Se non controllato, con reazione a catena non stabile si ha il rischio di esplosione nucleare (fig.190).
- Produzione di scorie radioattive (plutonio, americio,
. . . ) con tempi di dimezzamento grandissimi tali da
richiedere depositi geologici.
In Italia attualmente non ci sono centrali nucleari attive, ma
la situazione ai nostri confini è evidenziata dalla seguente
cartina:
Figura 190 - Esplosione nucleare
Come si può
vedere le centrali straniere attive sono molto
più vicine al Veneto che non le regioni
meridionali italiane. Tenendo conto che gli
effetti di Chernobyl sono arrivati dalla
Russia fino alla Spagna…
179
MODULO N.8
8) CELLE AD IDROGENO
Dalle comuni pile elettriche, le celle a combustibile si differenziano in quanto sono
basate su una reazione di combustione controllata, in cui il combustibile è idrogeno
(H2) e il comburente è ossigeno (O 2): il prodotto finale è acqua (H2O). Gli elettrodi,
l’anodo e il catodo, sono immersi in un elettrolita che può essere di vario tipo (acido
fosforico, da carbonati fusi, da ossidi solidi ceramici, ecc.). L’erogazione di energia
elettrica prosegue finché la cella a combustibile viene alimentata con il combustibile
all’anodo e con un comburente al catodo. I due reagenti non entrano in contatto
direttamente fra loro, ma attraverso la mediazione dell’elettrolita. Gli impianti
completi sono formati, oltre che dalla cella, da un sistema (reformer) per produrre
idrogeno che si ricava a partire dai vari tipi di combustibili a disposizione (gas naturale,
biogas, ecc.). Accanto al vantaggio di sfruttare praticamente tutti i combustibili in
modo pulito, le celle a combustibile ne offrono altri, quali l’estrema varietà di potenza
installabile (da qualche kW fino a 100 MW, la minima rumorosità e l’eccellente
efficienza energetica. Occorrono comunque ancora alcuni miglioramenti tecnologici
per rendere le celle a combustibile economicamente competitive con le tradizionali
fonti di energia.
Figura 491
180
8.1) CENNI STORICI
Già nell'anno 1839 vennero posate le fondamenta dell'odierna tecnologia delle celle a
combustibile. Fu l'avvocato e fisico gallese Sir William Robert Grove (1811-1896) a
costruire il primo prototipo funzionante composto da due elettrodi di platino, ciascuno
racchiuso in un cilindro di vetro. In uno dei cilindri c'era idrogeno, nell'altro ossigeno.
Ambedue gli elettrodi erano immersi in acido solforico diluito che fungeva da
elettrolito e originava un contatto elettrico. La tensione poteva essere prelevata dagli
elettrodi, ma poiché era esigua, Grove combinava una serie di celle per ottenere una
maggiore tensione. I contemporanei di Grove non riconobbero la sua scoperta e il tema
"Cella a combustibile" venne dimenticato. Solo negli anni cinquanta, nel segno della
guerra fredda, l'idea venne ripresa, poiché la tecnica spaziale e militare necessitava di
fonti energetiche compatte ed efficienti.
8.2) FUNZIONAMENTO DELLE CELLE AD IDROGENO
La struttura di una cella a combustibile è molto semplice: essa è composta di tre strati
sovrapposti. Il primo strato è l’anodo, il secondo è l’elettrolita e, il terzo, il catodo.
L’anodo e il catodo servono da catalizzatori, mentre lo strato intermedio consiste in
una struttura di supporto che assorbe l’elettrolita. Nei vari tipi di celle a combustibile
vengono usati differenti elettroliti; alcuni di questi sono liquidi, altri solidi e altri
ancora hanno struttura membranosa. Poiché una singola cella genera una tensione
Schema di una singola cella a combustibile molto bassa, per ottenere tensioni
maggiori, diverse celle vengono impilate. Una pila di questo genere è chiamata
“stack”. Il processo che si svolge in una cella a combustibile è inverso di quello
dell’elettrolisi: nel processo dell’elettrolisi l’acqua, con l’impiego di energia elettrica,
viene decomposta nei suoi componenti. Una cella a combustibile inverte questo
processo e unisce i due componenti producendo acqua. In questo processo viene
liberata la stessa quantità di energia elettrica che è stata impiegata per la
decomposizione, almeno teoricamente, perché in realtà un po’ di energia va dispersa a
causa di altri processi fisico-chimici. Nell’idrogeno è quindi immagazzinata energia
elettrica o, in altre parole, l’idrogeno è un gas che consente l’accumulo di energia
elettrica che può essere liberata con l’uso di una cella a combustibile. Nel processo di
ricomposizione dell’acqua si usa normalmente l’aria e non l’ossigeno puro che,
pertanto, non deve essere immagazzinato. Funzionamento dell’elettrolisi Esistono
differenti tipi di celle che si distinguono per la loro struttura e il loro funzionamento.
Descriviamo, come esempio, il funzionamento di una cella a combustibile PEM. PEM
sta per Polymer-Electrolyte-Membrane.
181
Figura 192 - CIRCUITO CELLA AD H
Quando l’anodo è immerso nell’idrogeno (H2) e il catodo nell’ossigeno (O2), si svolge
il
seguente funzionamento della cella a combustibile: una molecola d’idrogeno si
decompone in due atomi d’idrogeno con la liberazione di elettroni (e).
2H2 → 4H+ + 4eGli ioni di idrogeno formati migrano attraverso l’elettrolito al catodo, ossidano con
l’ossigeno e formano acqua.
4H+ + 4e- + O2 → 2H2O
Per formare l’acqua occorrono gli elettroni che prima sono stati ceduti all’anodo.
L’elettrolita è però un isolante che non consente agli elettroni di attraversarlo.
Collegando i due elettrodi (catodo e anodo) con un conduttore elettrico, gli elettroni lo
attraversano e partendo dall’anodo raggiungono il catodo: quindi si genera una
corrente elettrica sfruttabile. Questo processo si svolge senza interruzione fino a che
permane una sufficiente quantità di idrogeno e di ossigeno.
8.3) CELLA DI COMBUSTIBILE ALCALINA (AFC)
La cella a combustibile alcalina è – escludendo i prototipi di
Grove – il tipo più antico e trova ancora oggi impiego nella
tecnologia spaziale e nei motori di sottomarini. Esso è l’unico
193 - CELLA AFC
tipo che richiede idrogeno e ossigeno puri per la Figura
dello space shuttle
trasformazione energetica, perché già minime impurità
distruggono la cella. L’elettrolita è una soluzione (base) alcalina (idrossido di potassio
182
KOH). Per l’uso normale, la cella AFC è poco appropriata, perché la necessaria
purezza dei gas rende il sistema molto costoso e anche la durata di vita della cella è
molta limitata a causa della perdita di tensione di 15 … 50 mV ogni 1000 ore di
funzionamento.
Funzionamento
Fase 1 - I due gas ossigeno ed idrogeno, tenuti separati in due circuiti, migrano dal
serbatoio al catalizzatore .
Fase 2 - Il catalizzatore decompone le molecole d’idrogeno (H 2) in due atomi H
(protoni); ogni atomo di idrogeno cede il proprio elettrone.
Fase 3 - Gli elettroni defluiscono dall’anodo al catodo e generano una corrente elettrica
che alimenta una utenza (fig.192).
Fase 4 - A contatto con il catodo, sempre quattro elettroni si ricombinano con una
molecola di ossigeno.
Fase 5 - Gli ioni di ossigeno che si sono formati reagiscono con l’acqua formando ioni
OH.
Fase 6 - Gli ioni OH attraversano l’elettrolita (idrossido di potassio) e migrano
all’anodo.
Fase 7 - A contatto con l’anodo, gli ioni OH reagiscono con i protoni H formando
acqua. Una parte dell’acqua ritorna al catodo dove è disponibile per la successiva
reazione.
Applicazioni
Senza le celle a combustibile alcaline, i viaggi spaziali con equipaggio umano non
sarebbero stati possibili. Sia nella missione Apollo e nel programma Apollo-Soyuz, sia
nello Skylab e negli Space shuttle sono stati, e sono ancora in uso, celle a combustibile
alcaline. Attualmente sono in fase di sviluppo delle AFC per applicazioni in
automobili, ma in questo caso hanno lo svantaggio di dover essere alimentate con
ossigeno puro e non con l’aria. Volendo usare l’aria si deve prima eliminare il biossido
di carbonio (CO2) che “avvelena” l’elettrolita e questa eliminazione richiede Cella a
combustibile dispositivi tecnici supplementari.
183
8.4) LE CELLE A COMBUSTIBILE PEM (POLYMER
ELECTROLYTE MEMBRANE)
Questa cella a combustibile è di più facile applicazione. Il
suo peso è modesto, le sue prestazioni sono buone e il suo
funzionamento richiede, come comburente, solo l’ossigeno
dell’aria. L’idrogeno può essere prodotto in un processo di
reforming. Le celle PEM non sopportano però il monossido
di carbonio (CO) che può bloccare la catalizzazione
sull’anodo e conseguentemente ridurre le prestazioni.
L’elettrolita usato consiste in una membrana solida di polimero solforato in grado di
condurre protoni. Le prestazioni di una cella a combustibile PEM possono essere
regolate molto rapidamente e queste celle si prestano Figura 194 - CELLA PEM
pertanto molto bene per applicazioni mobili e per Stack di
una cella PEM l’approvvigionamento energetico decentralizzato. Nell’ambito della
ricerca tecnologica di questo settore, le celle a combustibile PEM godono attualmente
il maggiore interesse, perché sono quelle che si prestano meglio alla produzione in
massa. I costi di un gruppo sono stimati a circa 100 Euro/kW.
Funzionamento
Fase 1 - I due gas ossigeno ed idrogeno, tenuti separati in due circuiti, migrano dal
serbatoio al catalizzatore.
Fase 2 - Le molecole d’idrogeno (H2) vengono decomposti, dal catalizzatore, in due
atomi H+ (protoni) e, in questo processo, ciascuno degli atomi d’idrogeno cede il suo
elettrone.
Fase 3 - I protoni attraversano l’elettrolita (membrana) e raggiungono la parte del
catodo.
Fase 4 - Gli elettroni entrano nella parte dell’anodo e generano una corrente elettrica
che alimenta una utenza.
Fase 5 - A contatto con il catodo, sempre quattro elettroni si ricombinano con una
molecola di ossigeno.
Fase 6 - Gli ioni che si sono formati hanno una carica negativa e migrano verso i
protoni con carica positiva.
Fase 7 - Gli ioni di ossigeno cedono le loro due cariche negative a due protoni e
reagendo con questi si forma acqua.
184
Applicazioni
Le celle a combustibile PEM consentono molte applicazioni che vanno dalla telefonia
mobile e la cogenerazione fino ai motori per veicoli. Queste celle vengono oggi
sperimentate con successo in molti veicoli speciali: automobili, minibus e bus.
Sicuramente in futuro saranno impiegate anche in furgoni e in altri veicoli da piccolo
trasporto. Solo i pesanti camion non potranno essere attrezzati, nel prossimo futuro,
con questi motori, perché questi veicoli devono avere un’elevata autonomia che
richiederebbe un enorme serbatoio per l’idrogeno; i comuni motori diesel sono inoltre
molto efficienti. Le celle a combustile PEM si prestano anche per veicoli su rotaie, per
esempio tram e treni regionali che, in questo caso, non necessitano delle linee elettriche
aeree. Le celle PEM si prestano soprattutto per l’impiego in impianti di cogenerazione.
Sono in fase di sviluppo dei modelli per piccoli edifici residenziali e grandi edifici
come, per esempio, ospedali. La commercializzazione di queste celle dovrebbe iniziare
nei prossimi anni. In questi sistemi l’idrogeno è prodotto, tramite reforming, con l’uso
di gas naturale o GPL. Un altro campo di applicazione delle celle PEM sono gli
apparecchi portatili elettrici, per esempio gli elettrodomestici usati in campeggio e
utensili elettrici come trapani e tosaerba. Sono stati sviluppati anche i primi sistemi per
cellulari e laptop.
8.5) CELLE A COMBUSTIBILE PAFC
La cella a combustibile ad acido fosforico (PAFC) è il tipo che ha raggiunto la
maggiore maturità tecnologica ed economica.
Grazie alla sua alta temperatura d’esercizio, essa è
ideale per l’applicazione in centrali di
cogenerazione. Il catalizzatore della cella è l’acido
fosforico, altamente concentrato incorporato in una
matrice di gel. I gas reattivi sono l’ossigeno
dell’aria e l’idrogeno. Uno svantaggio è che, a Figura 195 -impianto con celle PAFC
temperature sotto i 42 °C, l’acido fosforico
cristallizza e questo processo irreversibile rende la cella inutilizzabile.
Funzionamento
Fase 1 - I due gas ossigeno ed idrogeno, tenuti separati in due circuiti, migrano dal
serbatoio al catalizzatore.
Fase 2 - Le molecole d’idrogeno (H2) vengono decomposti, dal catalizzatore, in due
atomi H+ (protoni) e, in questo processo, ciascuno degli atomi d’idrogeno cede il suo
elettrone.
185
Fase 3 - I protoni attraversano l’elettrolita (acido fosforico ad alta concentrazione) e
raggiungono la parte del catodo.
Fase 4 - Gli elettroni migrano dall’anodo al catodo e generano una corrente elettrica
che alimenta una utenza.
Fase 5 - A contatto con il catodo, si ricombinano sempre quattro elettroni con una
molecola di ossigeno.
Fase 6 - Gli ioni che si sono formati hanno una carica negativa e migrano verso i
protoni con carica positiva.
Fase 7 - Gli ioni di ossigeno cedono le loro due cariche negative a due protoni e
reagendo con questi si forma acqua.
Applicazioni
La cella PAFC, la prima ad essere stata commercialmente disponibile, viene usata
esclusivamente in impianti di cogenerazione. È prodotta dalla società americana ONSI
in gruppi con una potenza elettrica di 200 kW e una potenza termica di 220 kW. Finora,
in tutto il mondo, sono stati installati circa 200 impianti PAFC (situazione maggio
2000).
8.6) CELLE A COMBUSTIBILE MCFC
Le celle a combustibile da carbonati fusi lavorano ad alte temperature, tra 580 e 660
°C. Queste celle hanno il vantaggio di non richiedere la produzione di gas, inoltre sono
insensibili al monossido di carbonio. Sono direttamente utilizzabili, senza reforming,
gas naturale, gas di città, biogas e GPL. Come elettrolita è usato una fusione di
carbonati alcalini (Li2CO3 / K2CO3).
Fig.196 produzione di stack MCFC
Fig.197 Centrale da2.5 MW a MCFC
186
Funzionamento
Fase 1 - I due gas tenuti separati in due circuiti – ossigeno e biossido di carbonio da
parte del catodo e idrogeno da parte dell’anodo - migrano dal serbatoio al catalizzatore.
Fase 2 - Le molecole di idrogeno (H2) vengono decomposte dal catalizzatore in due
atomi H+ (protoni) e, in questo processo, ciascuno degli atomi di idrogeno cede il suo
elettrone.
Fase 3 - Gli elettroni migrano dall’anodo al catodo e generano una corrente elettrica
che alimenta una utenza.
Fase 4 - A contatto con il catodo, sempre quattro elettroni si ricombinano con una
molecola di ossigeno.
Fase 5 - Gli ioni di ossigeno che si sono formati hanno una carica negativa e reagiscono
con il biossido di carbonio formando ioni di carbonato.
Fase 6 - Gli ioni di carbonato con carica negativa attraversano l’elettrolita (carbonati
fusi) e raggiungono i protoni con carica positiva sul lato dell’anodo.
Fase 7 - Gli ioni di carbonato cedono le loro due cariche negative a due protoni e
reagendo con questi si forma acqua. Con la scissione degli ioni di ossigeno si forma
nuovamente biossido di carbonio.
Applicazioni
Le celle a carbonati fusi vengono sviluppate per applicazioni fisse e, poiché la loro
temperatura d’esercizio è circa di 650 °C, si prestano soprattutto per impianti di
cogenerazione in stabilimenti industriali dove i processi richiedono alte temperature. I
normali impianti sviluppati hanno una potenza di 300 kW, ma sono possibili anche
potenze di alcuni Megawatt. Oltre a queste applicazioni fisse, sono in sviluppo anche
celle MCFS per motori navali.
8.7) CELLE A COMBUSTIBILE DA OSSIDI SOLIDI CERAMICI - SOFC
Le celle a combustibile da ossidi solidi ceramici (SOFC) lavorano con l’ossigeno
dell’aria e idrogeno. La temperatura d’esercizio è compresa tra 800 e 1000 °C. L’alta
temperatura consente, all’interno della cella, un parziale reforming di gas naturale in
idrogeno. Così si riduce notevolmente il dispendio della produzione di idrogeno. La
SOFC viene prodotta non solo in piastre, ma anche in forma tubolare. Il SOFC
tubolare catodo, l’elettrolita e l’anodo sono disposti sulla superficie interna del tubo di
187
ceramica. Il gas comburente attraversa l’interno
del tubo, mentre l’ossigeno dell’aria passa
all’esterno. L’ambito di applicazione è la
produzione di energia decentralizzata con
potenze a partire da 100kW.
Funzionamento
Fase 1 - I due gas ossigeno ed idrogeno, tenuti in
due circuiti separati, migrano dal serbatoio al
catalizzatore.
Figura 198 - cella tubolare SOFC
Fase 2 - Le molecole d’idrogeno (H2) vengono decomposte dal catalizzatore in due
atomi H+ (protoni) e, in questo processo, ciascuno degli atomi d’idrogeno cede il suo
elettrone.
Fase 3 - Gli elettroni migrano dall’anodo al catodo e generano una corrente elettrica
che alimenta un’utenza.
Fase 4 - A contatto con il catodo, sempre quattro elettroni si ricombinano con una
molecola di ossigeno.
Fase 5 - Gli ioni di ossigeno appena formati attraversano l’elettrolita (biossido di
zirconio dotato di ittrio) e raggiungono il lato dell’anodo.
Fase 6 - Gli ioni di ossigeno cedono le loro due cariche negative a due protoni e
reagendo con questi si forma acqua.
Applicazioni
Le celle a combustibile da ossidi solidi si prestano sia ad applicazioni fisse che mobili.
Impianti fissi vengono sviluppati sia per il settore residenziale che per applicazioni
industriali. È possibile prelevare il calore ad alta temperatura e usarlo in processi
industriali. Sono in via di sviluppo anche SOFC per grandi centrali in cui il calore
viene usato per produrre energia elettrica mediante turbine a gas. Si prevede che queste
centrali possano raggiungere un rendimento del 70 %. Le SOFC destinate ad
applicazioni mobili non riguardano la costruzione di motori, bensì la sostituzione delle
convenzionali batterie di automobili. Il motivo è il crescente numero di apparecchi
elettrici nelle automobili, ma anche quello di avere a disposizione, per tempi
prolungati, corrente elettrica anche quando il motore è spento. Il carburante è in questo
caso la benzina che, prima dell’introduzione nella cella a combustibile, deve subire un
reforming e una desolforazione.
188
8.8) DIRECT METHANOL FUEL CELL – DMFC
Questa cella a combustibile è l’unica che non usa l’idrogeno, bensì
il metanolo. Non ha bisogno di un reformer perché la cella stessa
trasforma il metanolo in protoni di idrogeno, elettroni liberi e CO 2.
L’assenza di un reformer rende questa cella molto adatta per
applicazioni in veicoli anche perché si avvicina all’obiettivo di avere
a disposizione la più semplice sorgente energetica. Come elettrolita
viene usata una membrana polimerica in grado di condurre i protoni.
Figura 199- cella
DMFC
Funzionamento
Fase 1 - I due gas ossigeno e metanolo, tenuti in due circuiti separati – l’ossigeno dalla
parte del catodo, il metanolo dalla parte dell’anodo - migrano dal serbatoio al
catalizzatore.
Fase 2 - Il metanolo (CH3OH) reagisce con l’acqua formando biossido di carbonio e
idrogeno. Dal catalizzatore, l’idrogeno viene decomposto in due atomi H + (protoni) e,
in questo processo ogni atomo di idrogeno cede un suo elettrone.
Fase 3 - I protoni attraversano l’elettrolita (membrana polimerica in grado di condurre
i protoni) e si spostano al catodo.
Fase 4 - Gli elettroni migrano dall’anodo al catodo e generano una corrente elettrica
che alimenta una utenza.
Fase 5 - A contatto con il catodo, sempre quattro elettroni si ricombinano con una
molecola di ossigeno.
Fase 6 - Gli ioni di ossigeno appena formati hanno cariche negative e reagendo con i
protoni si forma acqua.
Applicazioni
Le celle a combustibile DMFC vengono attualmente sviluppate per l’uso in piccole
applicazioni portatili e in veicoli, anche perché il metanolo liquido è più facilmente
immagazzinabile rispetto all’idrogeno. Problemi si pongono però a causa della
tossicità del metanolo e della sua solubilità in acqua. Se il metanolo dovesse essere
usato come carburante nei veicoli, la DMFC semplificherebbe il sistema propulsivo
rispetto a un sistema con reformer e cella PEM.
189
Riassumendo si hanno le seguenti tipologie:
PRINCIPALI AREE DI APPLICAZIONE:
190
APPLICAZIONE DELLE CELLE AD IDROGENO NEI VEICOLI A MOTORE
191
Bibliografia
- Michael H. Orn, Handbook of engineering control methods for occupational
radiation protection; Prentice Hall, Englewood Cliffs, New Jersey, 1992
- M. Alonso, J. Finn, Elementi di fisica per l’Università, Volume II: campi e onde;
Masson – Addison- Wesley, Milano, 1993
- N. Faletti, Trasmissione e distribuzione dell’energia elettrica; Patron, Bologna, 1963
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- Feynman , La fisica di Feynman
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Fonti da internet
- Roberto Cirio, Onde elettromagnetiche
- Roberto Capone, lezioni di fisica: elettromagnetismo
- M.Martinelli, Fisica generale: onde elettromagnetiche
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300 GHz, Bruxelles, 1998
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College of Wisconsin, 1999
- John E. Moulder, Power lines and cancer; Medical College of Wisconsin, 1999
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Wisconsin, 1999
- L. Verschaeve, Can non ionizing radiation induce cancer?; The cancer journal vol.8
no.5, 1997
- Daniele Andreuccetti, Campi magnetici a bassissima frequenza: studi relativi alla
valutazione della pericolosità; CNR – IROE, Firenze, 1997
- Daniele Andreuccetti, Livelli di campo magnetico a 50 Hz nell’ambiente e nelle
abitazioni; CNR –IROE, Firenze, 1997.
- Elementi di progettazione sul solare termico . Thermital
- Solare termico. Ing. Tony Iachini
- Manuale di progettazione solare termico. Viesmann s.r.l.
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- Guida per progettisti e per installatori , solare termico
- Sistemi solari termici. Luca Rubini , Mario Di Veroli e Alfonso Calabria
- Impianti solari termici. Battisti Ricardo , Annalisa Corrado ed Andrea Micangeli
- Liu B.Y.H. and Jordan R.C., The Long Term Average performance of Flat-Plate
Solar Energy Collettors, Solar Energy 7,53,1963
- Norme UNI 10349
- Dott. Ing. R. Battisti, Dott. M. Calderoni, Dott. A. Siciliano, Dott. R. Pasinetti Solare termico.
- G.Demurtas - Impianto solare termico e fotovoltaico.
- ABB.SACE – Quaderni di applicazione tecnica N.10 : Impianti fotovoltaici.
- M. Sgherri- Sharp Italia – Introduzione al mondo fotovoltaico.
- Ferri C. – Fisica nucleare, radioattività, fusione e fissione
- Scribano A. – Fisica nucleare per Fisica medica
- Ministero della Salute - piano nazionale radon
- Fiaschetti M. e altri – Rischio radon e prevenzione
- N.N. - Fisica del nucleo
-ARPAV – Il radon in Veneto.
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INDICE
MODULO N. 3
3) INQUINAMENTO ELETTROMAGNETICO
3.1) EFFETTI DELLE RADIAZIONI IONIZZANTI SULL’UOMO
3.1.1) CAMPI A BASSE FREQUENZE
3.1.2) RADIOFREQUENZE E MICROONDE
3.1.3) ELETTRODOTTI
3.1.4) AMBIENTE DOMESTICO
3.1.5) RADIAZIONE DI FONDO
3.1.6) TELEFONIA MOBILE
3.1.7) ANTENNE RADIOTELEVISIVE
3.2) METODI DI CONTROLLO E PROTEZIONE
3.2.1) CONTROLLO DEL CAMPO PRODOTTO DA ELETTRODOTTI
3.2.2) LA NORMATIVA ITALIANA
MODULO N. 4
4) PROGETTAZIONE IMPIANTO A PANNELLI SOLARI TERMICI
4.1) POTENZA TERMICA DA IRRAGGIAMENTO SOLARE
4.2) COMPONENTI DELL’IMPIANTO A PANNELLI PIANI
4.2.1) VASO DI ESPANSIONE
4.2.2) GRUPPO IDRAULICO DI MANDATA E RITORNO
4.2.3) BOLLITORE PER LA PRODUZIONE DI ACS
4.2.4) CENTRALINA SOLARE
4.3) PANNELLI SOLARI
4.3.1) CARATTERISTICHE DEI PANNELLI SOLARI
4.4) QUOTA DI COPERTURA DELL’ENERGIA SOLARE
4.4.1) CARATTERISTICHE DEI COLLETTORI PIANI
4.4.2) DENOMINAZIONE DELLE SUPERFICI
4.5) SCELTA DEL TIPO DI COLLETTORE
4.5.1) RENDIMENTO DEL COLLETTORE
4.6) DIMENSIONAMENTO DI UN IMPIANTO A PANNELLI PIANI
4.6.1) CALCOLO DEL FABBISOGNO DI ACS
4.6.2) CALCOLO DELL’ENERGIA MEDIA MENSILE
4.6.3) CALCOLO DELL’IRRAGGIAMENTO
4.6.4) CALCOLO DELLA SUPERFICIE DEI PANNELLI
MODULO N.5
5) ELEMENTI DI MECCANICA QUANTISTICA
5.1) RADIAZIONE DEL CORPO NERO
5.2) L’EFFETTO FOTOELETTRICO - FOTONI
5.2.1) TEORIA DEI FOTONI
5.2.2) ESPERIENZA DI YOUNG E FOTONI
5.3) QUANTITA’ DI MOTO DEI FOTONI
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5.4) ONDE MATERIALI DI DE BROGLIE
5.5) DUALISMO ONDE-PARTICELLE
5.6) PROBLEMI DI STABILITA’ DEL MODELLO PLANETARIO
DELL’ATOMO D’IDROGENO
5.7) IL MODELLO ATOMICO DI BOHR CON L’IPOTESI DI
DE BROGLIE
5.7.1) DETERMINAZIONE DEL RAGGIO ATOMICO
5.7.2) DETERMINAZIONE DELL’ENERGIA DI LEGAME
5.7.3) SPETTRO A RIGHE
5.7.4) MOMENTO DELLA QUANTITA’ DI MOTO
5.8) PRINCIPIO DI INDETERMINAZIONE DI HEISENBERG
5.9) CENNI DI MECCANICA ONDULATORIA
5.9.1) LA FUNZIONE D’ONDA
5.9.2) L’ELETTRONE IN SCATOLA
5.9.3) IL SIGNIFICATO FISICO DELLA FUNZIONE D’ONDA:
L’ORBITALE
5.10) MODELLO COMPLETO DELL’ATOMO D’IDROGENO
5.10.1) I NUMERI QUANTICI
5.10.2) LE FUNZIONI D’ONDA DELL’ATOMO D’IDROGENO
5.10.3) MOMENTO DELLA QUANTITA’ DI MOTO
5.10.4) IL NUMERO QUANTICO DI SPIN
5.11) LE MOLECOLE
5.11.1) SPETTRI MOLECOLARI
MODULO N. 6
6) IMPIANTO A PANNELLI FOTOVOLTAICI
6.1) PRINCIPI GENERALI
6.2)
PRINCIPALI
COMPONENTI
DI
UN
IMPIANTO
FOTOVOLTAICO
6.2.1) GENERATORE FOTOVOLTAICO
6.2.2) INVERTER
6.2.3) MODULI IN SILICIO CRISTALLINO
6.3) TIPOLOGIE DEGLI IMPIANTI FOTOVOLTAICI
6.3.1) IMPIANTI ISOLATI ( STAND-ALONE)
6.3.2) IMPIANTI COLLEGATI ALLA RETE (GRID-CONNECTED)
6.4) FUNZIONAMENTO DELLA CELLA FOTOVOLTAICA
6.4.1) DROGAGGIO p ED n
6.4.2) CELLA FOTOVOLTAICA
6.5) PRODUZIONE ENERGETICA ANNUALE ATTESA
6.5.1) TENSIONI E CORRENTI IN UN IMPIANTO FV
6.5.2) CONFIGURAZIONE DEL CAMPO SOLARE
6.5.3) CARATTERISTICHE DEL MODULO FOTOVOLTAICO
6.6) PROGETTAZIONE DI UN IMPIANTO FOTOVOLTAICO
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MODULO N.7
7) ENERGIA NUCLEARE
7.1) CENNI DI FISICA NUCLEARE
7.1.1) LA STRUTTURA DELLA MATERIA
7.1.2) PRINCIPI DI CONSERVAZIONE
7.1.3) INTERAZIONE NUCLEARE FORTE E STRUTTURA DEL
NUCLEO
7.2) LE REAZIONI NUCLEARI
7.2.1) NUCLEI INSTABILI E RADIOATTIVITA’
7.2.2) TEMPO DI DIMEZZAMENTO, VITA MEDIA, ATTIVITA’
7.2.3) RADIOATTIVITA’ NATURALE E ARTIFICIALE
7.2.4) EFFETTI BIOLOGICI DELLE RADIAZIONI. DOSIMETRIA
7.3) INQUINAMENTO DA RADON
7.3.1) DIFFUSIONE DEL RADON
7.3.2) EFFETTI SULLA SALUTE
7.3.4) ADEMPIMENTI PER L’ESPOSIZIONE AL RADON NEI LUOGHI
DI LAVORO
7.3.5) MISURAZIONE DEL RADON
7.3.6) IL RADON NEL VENETO
7.4) FISSIONE, FUSIONE E CENTRALI NUCLEARI
7.4.1) LA FISSIONE NUCLEARE
7.4.2) NOCCIOLO DI UN REATTORE NUCLEARE
7.4.3) FUSIONE NUCLEARE
7.4.4) VANTAGGI E SVANTAGGI DELLE DUE FORME DI ENERGIA
NUCLEARE
MODULO N.8
8.0) CELLE AD IDROGENO
BIBLIOGRAFIA
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