APPUNTI DI FISICA AMBIENTALE PARTE IV INQUINAMENTO ELETTROMAGNETICO ENERGIA SOLARE E NUCLEARE Prof. Ing.Riccardo Fanton a.s. 2015-16 Istituto Tecnico “S.B.Boscardin” Vicenza 1 VERSIONE 3-2014 2 MODULO N.3 3) INQUINAMENTO ELETTROMAGNETICO Nel MODULO 2 abbiamo analizzato lo spettro elettromagnetico e visto la sua suddivisione in base alla frequenza delle onde. Vedremo ora quali sono gli effetti sull’uomo di queste onde. 3.1) EFFETTI DELLE RADIAZIONI SULL’UOMO La frequenza di 1015 Hz (nel campo dell’ultravioletto) divide le radiazioni in ionizzanti e non-ionizzanti. - RADIAZIONI IONIZZANTI Le radiazioni ionizzanti sono quelle che hanno frequenza superiore a 10 15 Hz, e comprendono l’UV lontano, raggi X e raggi gamma. Sono gravemente dannose per la salute umana: essendo onde ad altissima energia sono in grado di generare ionizzazione, ovvero la rottura dei legami covalenti molecolari, e quindi di danneggiare i DNA delle cellule. - RADIAZIONI NON IONIZZANTI La radiazioni non ionizzanti hanno frequenza inferiore a 1015 Hz, e comprendono i campi delle basse frequenze, radiofrequenze, microonde e infrarosso. La quantità di energia trasportata, e quindi trasferita ai tessuti umani quando questi vengono irradiati, non è sufficiente a rompere i legami chimici delle molecole. Vi sono però dei dubbi sulla loro innocuità, come vedremo in dettaglio nei prossimi paragrafi. - EFFETTI TERMICI ED EFFETTI NON TERMICI Gli effetti biologici dei campi elettromagnetici dipendono principalmente dalla potenza trasportata dalla radiazione. L’energia trasportata da un’onda elettromagnetica che attraversa un tessuto biologico viene dissipata all’interno del tessuto stesso sotto forma di calore. Il campo magnetico oscillante induce nel tessuto una corrente elettrica che dissipa potenza a causa delle proprietà dielettriche del mezzo. Figura 83 3 Campi elettromagnetici con densità di potenza superiore a 10 mW/cm2 possono provocare danni biologici per effetto termico: gli effetti acuti del campo magnetico sono dovuti all’induzione di corrente elettrica nei tessuti (fino a 10 A/m2 per campi magnetici molto intensi) e vanno da interferenze nella percezione sensoriale (visiva e tattile), alla fibrillazione ventricolare, fino al riscaldamento dei tessuti. - EFFETTI ACUTI DEL CAMPO MAGNETICO Effetto Campo magnetico Riscaldamento dei tessuti (0,4 W/kg) 1.600.000 T Induzione di extrasistole (fibrillazione) 130.000 T Percezione sensoriale, magnetofosfeni 16.000 T Normativa italiana 100 T Soglia di attenzione epidemiologica 0,2 T Densità di corrente 10.000 mA/m2 800 mA/m2 100 mA/m2 0,6 mA/m2 - Si considera che le radiofrequenze e i campi a basse frequenze, anche se emessi con potenza inferiore a 10 mW/cm2, possano causare danni biologici con effetti non termici. Sulla possibile dannosità dei campi elettromagnetici sono tuttora in corso molti studi medici che cercano di individuare una correlazione tra l’esposizione prolungata a campi, anche deboli, e l’insorgenza di malattie (tra cui tumori infantili), e allo stesso tempo di scoprire il funzionamento biologico dell’interazione tra campi elettromagnetici e sistemi biologici. 3.1.1) CAMPI A BASSE FREQUENZE I campi elettromagnetici a bassa frequenza (50-60 Hz) sono generati da elettrodotti, cabine di trasformazione o di distribuzione della corrente elettrica e da tutti i dispositivi alimentati elettricamente, come gli elettrodomestici. Particolarmente importanti sono quegli apparecchi che vengono utilizzati a breve distanza, come monitor di computer e coperte elettriche. Persone particolarmente esposte sono quelle che abitano, lavorano o comunque risiedono per lunghi periodi nelle vicinanze di elettrodotti ad alta tensione. Studi epidemiologici, condotti a partire dalla fine degli anni ’70, suggeriscono che i campi elettromagnetici a bassa frequenza possano essere considerati come “probabili cancerogeni”, anche se l’associazione tra esposizione a tali campi e l’insorgenza di tumori appare di modesta entità e non è sufficiente a stabilire con certezza una correlazione tra esposizione ed effetto. La prima ipotesi di cancerogenità dei campi elettromagnetici a bassa frequenza (ELF, extremely low frequency) fu formulata per la prima volta da Nancy Wertheimer e Ed Leeper nel 1979, con l’articolo “Electrical wiring configurations and childhood cancer” pubblicato sull’American Journal of Epidemiology. Numerose successive indagini su residenti in abitazioni vicine a installazioni elettriche (esposti a campi magnetici di frequenza 50-60 Hz e intensità 0,2-0,4 T) hanno evidenziato un possibile aumento del rischio di leucemie e tumori cerebrali nei 4 bambini; indagini su categorie di lavoratori professionalmente esposti hanno evidenziato un aumento di rischio di leucemie e di tumori mammari nella donna. Altri studi, altrettanto ben condotti, hanno dato risultati negativi o contraddittori: il numero di tumori si sono dimostrati solo in alcuni casi leggermente superiore alla media, e non attribuibili con certezza all’esposizione a radiazioni. La correlazione tra l’esposizione cronica a campi elettromagnetici a bassa frequenza e l’insorgere di certi tipi di tumori, in particolare leucemie infantili, è quindi ancora incerta. Inoltre non vi sono conferme sperimentali dell’azione dei campi a basse frequenze sul materiale genetico cellulare, né è stata ancora formulata una convincente ipotesi di meccanismo biologico che spieghi l’effetto di questi campi sulle cellule. Si ipotizza invece un’azione non tanto diretta (l’energia trasportata dalle onde elettromagnetiche è troppo bassa per rompere anche il più debole legame chimico), quanto piuttosto di promozione dell’insorgenza dei tumori. Infatti, perché si sviluppi un tumore, è necessaria per prima una mutazione genetica, dovuta a diversi fattori, come l’esposizione ad agenti genotossici (ad esempio l’esposizione a radiazioni ionizzanti) o un errore nella replicazione del DNA. Ma è comunque necessario che vi sia anche un’azione “epigenetica”, ovvero capace di favorire la trasformazione di una cellula precancerogena in cellula cancerogena. Figura 84 Una linea di studio sul meccanismo biologico dell’effetto dei campi elettromagnetici sta cercando di verificare se essi possano essere considerati agenti epigenetici, in grado quindi di favorire lo sviluppo di un tumore, nato comunque per cause indipendenti dall’esposizione ai campi stessi. Altri studi, con esperimenti su animali, hanno rilevato, in soggetti esposti a radiazioni ELF, una diminuzione della produzione di melatonina, un ormone prodotto dalla ghiandola pineale che esercita un’azione protettiva nei confronti di alcuni tumori, tra 5 cui proprio le leucemie e i tumori al seno; non si ha però ancora una conferma dello stesso effetto sull’uomo. Risulta quindi evidente che il problema degli effetti di questo tipo di onde a bassa frequenza non è ancora stato chiarito in modo soddisfacente. 3.1.2) RADIOFREQUENZE E MICROONDE I campi elettromagnetici a maggiore frequenza, nel campo delle radiofrequenze e delle microonde (10 kHz – 100 GHz), sono generati da sistemi per le telecomunicazioni: antenne trasmittenti radiotelevisive, telefoni cellulari, antenne e ripetitori per la telefonia mobile. La potenza tipica delle antenne è molto elevata (spesso superiore a 1000-2000 W) e nei pressi di queste installazioni si possono facilmente riscontrare interferenze con altri apparecchi elettrici ed elettronici: distorsioni nelle immagini televisive e sui monitor per computer, malfunzionamenti di apparecchi elettronici come antifurti per auto, telefoni cellulari, ecc... Sono sorti quindi dei dubbi sugli effetti dei campi ad alta frequenza sulla salute umana. Dai pochi studi ed indagini condotte finora si ritiene che l’esposizione a campi ad alta frequenza (radiofrequenze e microonde) possa rappresentare un possibile fattore cancerogeno, sia pure di modesta entità, con azione simile alle radiazioni ELF. Non sono però ancora disponibili analisi epidemiologiche complete sui possibili rischi da radiofrequenze in quanto la diffusione di questi sistemi è ancora abbastanza recente. Ricordiamo che la quarta equazione di Maxwell indica che in presenza di una corrente elettrica variabile si induce un campo magnetico a sua volta variabile. Questa relazione spiega come una corrente elettrica (o un campo elettrico variabile) generi intorno a sé un campo magnetico e come un campo magnetico variabile possa indurre delle correnti nei materiali conduttori posti nelle vicinanze. Poiché la corrente elettrica fornita attraverso la rete di distribuzione è alternata (con frequenza di 50 Hz in Europa e di 60 Hz negli Stati Uniti), tutte le apparecchiature alimentate elettricamente sono sorgenti di campi elettromagnetici. Le linee di conduzione dell’energia elettrica (ovvero le linee dell’alta tensione) e gli apparecchi utilizzatori non sono le uniche sorgenti di campi elettromagnetici: esistono anche dispositivi che sono stati progettati e realizzati esplicitamente con lo scopo di emettere radiazioni elettromagnetiche: tutti i sistemi di telecomunicazione (che comprendono antenne e ripetitori televisivi, radiofonici, radioamatoriali, per telefonia mobile) sono importanti fonti di radiofrequenze e microonde. Al fine di calcolare l’intensità di campo in funzione della distanza dalla sorgente ricordiamo che i campi elettrici e magnetici sono campi centrali, ovvero l’intensità di campo diminuisce con l’inverso del quadrato della distanza. 6 3.1.3) ELETTRODOTTI Un impianto elettrico per la produzione e la distribuzione dell’energia elettrica è composto da diverse parti: 1. Centrali di produzione che trasformano una fonte naturale di energia in energia elettrica. I generatori producono una tensione che nelle stazioni di trasformazione annesse alla centrale viene elevata al valore più adatto per il trasporto (130, 200 o 380 kV); 2. Linee di trasporto, che collegano le centrali ai centri di consumo più importanti (grandi città e grandi centri industriali) trasportando la corrente alle tensioni di 130, 200 o 380 kV; 3. Stazioni riceventi primarie, collocate in prossimità dei centri di consumo, che trasformano l’energia dalla tensione di trasporto a quella delle reti di distribuzione; 4. Reti di trasmissione a 60 o 130 kV, che alimentano le stazioni secondarie di trasformazione a 10-30 kV. 5. Rete di distribuzione a media tensione (10-30 kV) che alimenta le cabine di trasformazione dell’energia alla tensione di utilizzazione diretta (bassa tensione). 6. Rete di distribuzione a bassa tensione (220 o 380 V), che raggiunge ogni singolo utilizzatore della zona. La corrente viene distribuita alternata e non diretta per diversi motivi: innanzitutto si può variare la tensione di una corrente alternata con un semplice trasformatore. Inoltre la corrente alternata riduce le perdite a parità di tensione, perché queste sono proporzionali al quadrato della corrente. Una corrente alternata infatti dissipa meno potenza di una corrente continua in quanto la corrente non è costante e varia sinusoidalmente. La distribuzione dell’energia elettrica avviene principalmente attraverso due tipologie di elettrodotti: linee in cavo e linee aeree. Le linee in cavo sono costituite da conduttori avvolti in appositi materiali isolanti in modo da permettere una maggiore vicinanza tra i conduttori senza il rischio di scariche. Le linee aeree sono costituite da fili conduttori tesi in aria tra sostegni (pali, tralicci...) e fissati ad essi attraverso elementi isolanti. I sostegni normalmente usati per le linee di trasporto aeree ad alta tensione sono tralicci di acciaio o cemento armato, mentre per la distribuzione della media e bassa tensione si impiegano sostegni di cemento armato o legno. Come già visto introducendo le sorgenti di campo, una corrente alternata genera un campo magnetico la cui intensità è proporzionale all’intensità di corrente trasportata dal conduttore. 7 Figura 85 Le linee di campo magnetico descrivono delle circonferenze concentriche su piani perpendicolari al conduttore; l’intensità del campo diminuisce con la distanza e si inverte di segno con la stessa frequenza della corrente (50 Hz). Figura 86 L’intensità del campo magnetico sarà quindi maggiore per le linee ad alta tensione, perché la corrente (i) è proporzionale alla tensione (V) secondo un coefficiente (la conduttanza G) caratteristico del materiale di cui è costituito il conduttore. D’ora innanzi considereremo l’intensità di campo magnetico in modulo, ricordando che la direzione del vettore B si inverte 50 volte al secondo. 8 Figura 87 Analizziamo ora l’andamento del campo magnetico nello spazio: consideriamo ad esempio un elettrodotto ad alta tensione da 380 kV. La normativa italiana (DMLP 16/01/91) impone che per questo elettrodotto la distanza da terra sia di almeno 11,34 m. La massima intensità del campo magnetico a terra si ha lungo la proiezione della linea di conduzione: per questo elettrodotto posto a 11,34 m di altezza la massima intensità a terra è di 15,6 T. Figura 88 9 Questo valore rientra nei limiti fissati dalla normativa, ma è superiore alla soglia raccomandata dalle indagini epidemiologiche che hanno individuato un possibile rischio per la salute per esposizioni prolungate a campi di intensità superiore a 0,2 T. Per scendere sotto la soglia di attenzione epidemiologica bisogna allontanarsi dalla linea di ben 81,6 m. Vedremo più avanti diversi metodi per limitare l’esposizione al campo prodotto da una linea di conduzione elettrica. 3.1.4) AMBIENTE DOMESTICO Negli ambienti domestici, nelle scuole e negli uffici si trovano molti dispositivi alimentati da corrente elettrica di rete, alternata a 50 Hz. I trasformatori di tensione e i motori elettrici di questi apparecchi sono sorgenti di campi elettromagnetici e, data la prolungata esposizione e l’uso ravvicinato, sono interessanti i fini dello studio dell’inquinamento elettromagnetico. Le tipiche sorgenti di campo nell’ambiente domestico sono isolate e di dimensioni contenute, come elettrodomestici e macchine per ufficio (computer, fotocopiatrici...). Questa apparecchi possono emettere un campo magnetico che supera abbondantemente la soglia di attenzione epidemiologica e a volte anche i limiti fissati dalla normativa di sicurezza. Un esempio è dato da uno studio condotto dall’Istituto Ricerca sulle Onde Elettromagnetiche (IROE) del CNR su un asciugacapelli elettrico, che per la sua stessa natura Figura 89 viene impiegato molto vicino alla testa dell’utilizzatore. Dalle misurazioni effettuate si ottiene che ad una distanza inferiore a 60 cm il campo magnetico ha intensità superiore alla soglia di attenzione (0,2 T), mentre il limite della normativa italiana (100 T) viene superato misurando il campo a meno di 10 cm dall’apparecchio. Un altro dispositivo elettrico che genera un forte campo magnetico e Figura 90 a cui l’utilizzatore è esposto per lunghi periodi è il monitor per computer: si è osservato che la massima intensità di 10 campo si rileva nelle parti laterali e posteriori del monitor, dove occorre allontanarsi di ben 122 cm per scendere a 1 T; nella parte anteriore si ha la stessa intensità alla distanza di 71cm (questo vale per i vecchi monitor a tubo catodico). Come mostrano questi esempi, è possibile che nelle immediate vicinanze degli apparecchi si superi il limite di sicurezza di 100 T. L’intensità del campo decade rapidamente con la distanza, ma per rientrare nei limiti suggeriti dalle indagini epidemiologiche bisogna allontanarsi mediamente di 60-80 cm, che può essere una distanza eccessiva per l’utilizzo di alcuni apparecchi. Segue una tabella che riporta l’intensità di campo magnetico (in T) tipico di alcuni diffusi elettrodomestici: Elettrodomestico fornello elettrico grande fornello elettrico piccolo forno forno a microonde lavastoviglie frigorifero lavatrice macchina per il caffè tostapane ferro da stiro mixer aspirapolvere asciugacapelli rasoio televisione lampada fluorescente a 3 cm 150 80 3 200 7 1,7 50 7 18 30 450 800 750 1500 50 200 a 30 cm 45 4 0,5 8 1 0,25 3 0,25 0,7 0,3 4 20 10 9 2 3 a1m 0,02 0,2 0,4 0,6 0,08 0,01 0,15 0,01 0,025 0,02 2 0,3 0,3 0,15 0,06 3.1.5) RADIAZIONE DI FONDO I campi elettromagnetici in ambiente domestico non vengono generati soltanto dalle apparecchiature elettriche, ma esiste anche un cosiddetto “fondo ambientale”, ovvero costituito da un debole campo esistente nell’ambiente indipendentemente dalle singole sorgenti. Esso è dovuto ad un gran numero di piccole sorgenti più o meno permanenti come elettrodotti esterni (anche interrati), sorgenti di campi in appartamenti adiacenti e cablaggio nelle pareti. Naturalmente il contributo dato dal fondo ambientale è estremamente variabile, dipendendo da un gran numero di fattori differenti. Studi ed indagini del IROE hanno però portato alla definizione di alcune caratteristiche tipiche del fondo ambientale: innanzitutto si osserva una grande variabilità nel tempo soprattutto nel breve termine, e spesso si può riconoscere una ciclicità giorno/notte. Si è inoltre osservato una maggiore intensità di campo di fondo in appartamenti condominiali rispetto alle abitazioni singole, attribuibile al cablaggio comune e alle 11 sorgenti in appartamenti limitrofi. Generalmente i valori di fondo ambientale rientrano nelle soglie di sicurezza sia delle raccomandazioni sia normative, a meno di considerare appartamenti prossimi ad elettrodotti. 3.1.6) TELEFONIA MOBILE I telefoni cellulari, per comunicare con la stazione base fissa, emettono onde elettromagnetiche nel campo delle microonde, alla frequenza di 900 MHz (GSM) o 1,8 GHz (DCS 1800). Un telefono mobile GSM emette una potenza massima di 2 W, con un fattore di uso 1/8 (attivo 1 sec. su 8), quindi la potenza emessa media 0,25 W. La potenza assorbita dall’utente è circa la metà, 0,1 W con picchi di 1 W. Il valore massimo di assorbimento raccomandato è di 1,6 W/kg. La tecnologia analogica (TACS) modula un segnale a bassa frequenza su un’onda portante ad alta frequenza, in modo simile alle trasmissioni radio a modulazione di frequenza (FM), mentre la più recente tecnologia digitale (GSM e DCS 1800) codifica digitalmente il segnale del parlato prima della modulazione. Si ritiene che i nuovi telefoni digitali possano avere maggiori effetti dei vecchi telefoni analogici. Le stazioni base per la telefonia mobile emettono una potenza relativamente bassa e producono una bassa densità di potenza al suolo. Nonostante i campi di radiofrequenza prodotti dalle stazioni base rientrino nei limiti fissati dalle normative di sicurezza nazionali ed internazionali, vi è una forte avversione da parte del pubblico verso queste installazioni. Possibili effetti per la salute I dubbi riguardano sia gli effetti acuti, ovvero gli effetti termici a carico dei tessuti, sia gli effetti a lungo termine derivanti dall’esposizione a queste frequenze. Va ricordato che nell’uso dei telefoni mobili i tessuti più esposti sono quelli della testa dell’utente, che assorbono dal 30% al 50% della potenza emessa dall’antenna. Le conoscenze disponibili sugli effetti delle microonde spiegano come le onde elettromagnetiche, inducendo una corrente elettrica nell’acqua contenuta nei tessuti, dissipino l’energia trasportata sotto forma di calore, a causa delle proprietà dielettriche del mezzo. Il parametro più significativo, in termini di effetti biologici per l’esposizione umana a campi elettromagnetici di radiofrequenze, è l’assorbimento specifico di energia (SAR:specific energy absorption rate), espresso in W/kg. Mentre gli effetti termici sono ben conosciuti e costituiscono il riferimento per i limiti di esposizione, gli effetti non-termici non sono ancora sufficientemente chiari per essere considerati nella definizione delle soglie di rischio. La ricerca sugli effetti non termici si rivolge allo studio degli effetti di un’esposizione cronica (ovvero prolungata nel tempo) a campi deboli, ovvero con SAR inferiore alla soglia oltre la quale si innescano effetti termici. 12 I campi su cui attualmente si stanno svolgendo ricerche sono: 1. possibile promozione di effetti cancerogeni; 2. effetti sul sistema immunitario; 3. effetti sul sistema nervoso. Le ricerche finora condotte sono pochissime e dai dati finora disponibili non sono emerse prove convincenti dell’esistenza di effetti non termici a lungo termine che possano essere dannosi per la salute. Antenne di stazioni base per telefonia mobile Esistono diversi tipi di stazioni base: infatti ogni tecnologia (ETACS, GSM e DCS1800) impiega antenne differenti e facilmente riconoscibili. Tutte le antenne per telefonia mobile sono costituite da gruppi di pannelli rettangolari, generalmente bianchi, montati in verticale, con disposizioni diverse secondo i casi. Questi pannelli sono inclinati verso il basso di un angolo (chiamato angolo di tilt) compreso tra 1° e 10°. Figura 92 La prima tecnologia impiegata è stata la ETACS, una tecnologia analogica operante alla frequenza di 900 MHz, dove il segnale viene modulato in frequenza come per le trasmissioni radio FM. Le stazioni base per ETACS prevedono 12 antenne disposte in gruppi di quattro affiancate per ogni lato di un triangolo equilatero. La tecnologia GSM è digitale e occupa la frequenza di 900 MHz: ogni frequenza portante veicola fino a 8 comunicazioni contemporaneamente, pertanto le antenne richiedono una minore potenza. Le antenne sono disposte a gruppi di tre per ogni lato di un triangolo equilatero. Infine la più recente tecnologia DCS 1800, analoga al GSM Figura 93 ma funzionante a frequenza di 1800 MHz, impiega soltanto tre antenne disposte una per lato del triangolo equilatero. 13 Ogni tecnologia impiega potenze di trasmissione diverse e pertanto risulta variabile la distanza oltre la quale l’intensità di campo scende sotto il limite di legge (E<20 V/m). Il campo emesso non è uniforme in ogni direzione, ma è massimo sul piano perpendicolare all’antenna e diminuisce con l’angolo di inclinazione. Tecnologia ETACS GSM DCS 1800 frequenza 850-930 MHz 850-930 MHz 1770-1830 MHz Potenza Distanza orizz. 450-750 W 50 m 60-240 W 30 m 60-240 W 40 m Distanza 45° 10 m 1m 5m I valori di potenza sono mediati nel tempo: sono quindi possibile valori istantanei maggiori di quelli indicati in tabella, variabili secondo il numero di comunicazioni in corso. La potenza emessa dalle antenne di stazioni base per telefonia cellulare è sempre inferiore alla soglia oltre la quale si verificano effetti termici. Sono quindi da escludere danni acuti in seguito all’esposizione anche prolungata ai campi generati da antenne. Il limite di densità di potenza permessa per una stazione base per telefonia cellulare, fissato per gli USA nel 1992 dall’ANSI/IEEE1, è di 0,57 mW/cm2 mediato su un periodo di tempo di 30 minuti. L’ICNIRP2 ha successivamente fissato in 0,40 mW/m2 il limite permesso per i cellulari analogici e 0,90 mW/cm2 per i digitali (GSM). Questo limite si basa sugli effetti biologici (effetti termici) accertati per esposizione a radiofrequenze fino a 10 GHz e di forte intensità (superiore a 4 W/kg). Il limite è molto conservativo ed è stato posto ad una densità di potenza che è solo il 2% della densità necessaria perché si verifichino effetti termici (l’assorbimento di potenza specifico tipico presso una antenna è nell’ordine di 0,0005 W/kg). Un’antenna montata a 18,6 m di altezza e operante alla massima potenza (1600 W) produce una densità di potenza massima al suolo di 0,02 mW/cm2. Le pareti di un edificio schermano la potenza della radiazione di un fattore compreso tra 3 e 20 volte. Nel caso invece di accesso al piano dell’antenna (ad esempio se montata sul tetto di un edificio), a una distanza inferiore a 6 metri si può superare il limite di 0,02 mW/m2. Pertanto le antenne andrebbero montate in modo da impedire un Figura 94 accesso ravvicinato da parte del pubblico. Come già accennato, l’emissione di radiofrequenza non avviene in modo uniforme in tutte le direzioni: la densità di potenza emessa è massima sul piano orizzontale ortogonale al dipolo e nulla lungo l’asse del dipolo stesso. Inoltre l’intensità decresce con il quadrato della distanza. 14 Come si può osservare dalla figura l’emissione è minima verso il basso, e quindi l’abitazione dell’ultimo piano dell’edificio sul cui tetto sono montate le antenne riceve una minima parte di radiazioni. 3.1.7) ANTENNE RADIOTELEVISIVE Sebbene gran parte dell’attenzione dell’opinione pubblica si concentri sulle antenne base per telefonia mobile, le maggiori fonti di radiazioni elettromagnetiche sono attualmente costituite dalle antenne radiotelevisive. Le antenne televisive, spesso poste all’interno del tessuto urbano, hanno potenze tipicamente comprese tra 1.000W e 5.000 W , con punte fino a 15.000 W, e operano con frequenze simili a quelle della telefonia mobile, di 600-800 MHz. Data l’altissima potenza emessa è molto facile che in prossimità di un’antenna televisiva si superino ampiamente i limiti di legge. Per una emittente di solo 2.000 W occorre allontanarsi di ben 180 m sul piano ortogonale e di 50 m sul piano inclinato di 45° per scendere sotto la soglia di emissione prevista. Le antenne radiofoniche sono sorgenti persino più potenti delle televisive; a causa di una scarsa regolamentazione in passato, le trasmittenti radiofoniche si sono dotate di antenne potentissime, fino a 15.000 W, per superare le concorrenze, quando basterebbero potenze inferiori a 1000 W per assicurare una ottima ricezione su tutto il territorio. Data la conformazione delle antenne radiofoniche, operanti a frequenza Figura 95 comprese tra 88 MHz e 107 MHz, una buona parte della radiazione viene emessa anche verso il basso, infatti la soglia di legge per una emittente da 5000 W è di 100 m sull’orizzontale e di 80 m per 45°. Si stima che in aree dotate di antenne base per telefonia mobile e prive di emittenti radiotelevisive, circa l’80% dell’ intensità di campo misurate dipenda non dagli impianti telefonici ma bensì da emittenti radiotelevisive lontane. 3.2 )METODI DI CONTROLLO E PROTEZIONE Nell’ipotesi che l’esposizione a campi elettromagnetici di debole intensità possa essere dannosa alla salute, è opportuno ricercare dei metodi efficaci per limitare tale esposizione. Poiché le componenti elettrica e magnetica di un campo hanno comportamenti caratteristici differenti, come stiamo per vedere, possono essere adottati diversi metodi di protezione. 15 - Campo elettrico Il campo elettrico viene facilmente assorbito e schermato da qualunque materiale conduttore con modalità analoghe alla gabbia di Faraday: sotto l’azione del campo elettrico esterno le cariche del conduttore, libere di muoversi, si separano (le cariche positive e negative si dispongono su lati opposti), creando un campo contrario a quello esterno, che sommandosi ad esso lo attenua, fino ad annullarlo se la gabbia è costituita da un conduttore ideale. L’armatura in acciaio di un edificio in cemento armato è una tipica gabbia di Faraday, e scherma quasi completamente l’interno dai campi elettrici che investono l’edificio. Anche il corpo umano, essendo un buon conduttore, scherma il campo elettrico negli strati più superficiali dei tessuti. Negli studi medici il campo elettrico non viene considerato un fattore di rischio proprio per la sua scarsa azione sui tessuti. - Campo magnetico Diverso è il comportamento del campo magnetico, che non è schermabile. Come già visto trattando gli effetti non-termici e le sorgenti di campo (legge di Maxwell), un campo magnetico variabile induce nei materiali conduttori una corrente elettrica, proporzionale alla potenza trasportata. Nel caso di esposizione umana a campi magnetici variabili, la corrente elettrica indotta percorre tutti i tessuti e non solo i più superficiali. Questo più provocare danni biologici nelle diverse modalità già viste, ovvero per effetto termico e forse anche attraverso effetti non-termici a lungo termine. Non essendovi modo di schermare il campo magnetico, l’unico metodo di protezione attuabile è la definizione di distanze di sicurezza, limitando l’accesso alle aree più prossime alla sorgente di campo, dove la sua intensità è superiore alle soglie considerate di rischio. Ricordiamo che si possono considerare due diverse soglie di rischio: la prima, più bassa, fissa il confine oltre il quale si suppone possano nascere dei rischi a lungo termine, ovvero per esposizioni prolungate, per effetti non-termici; la seconda soglia invece definisce il limite di intensità oltre il quale si possono riportare dei danni biologici per effetti termici. 16 3.2.1) CONTROLLO DEL CAMPO PRODOTTO DA ELETTRODOTTI Molti studi sono stati condotti sull’andamento dei campi di elettrodotti, storicamente la prima sorgente analizzata in relazione all’esposizione di residenti nei pressi delle linee elettriche. Il metodo più diretto per attenuare l’intensità dei campi elettrico e magnetico e di conseguenza garantire alle abitazioni più vicine il rispetto dei limiti di esposizione, è quello di aumentare la distanza dalle sorgenti: aumentare la fascia di rispetto intorno alla linea elettrica, oppure aumentare l’altezza da terra delle linee. Entrambe le soluzioni però non sono ottimali, perché difficilmente si potranno spostare abitazioni già esistenti e innalzare le linee, oltre che aumentare il già non indifferente impatto ambientale, contribuirebbe molto poco Figura 96 ad abbassare l’intensità di campo. Una alternativa è costituita dall’impiego di elettrodotti interrati, che producono un campo la cui intensità massima, a parità di tensione, al livello del suolo è maggiore di quella degli elettrodotti aerei, ma decresce più rapidamente con la distanza (si scende sotto la soglia di attenzione a circa 24 m di distanza dall’asse della linea). Le linee interrate prevedono una guaina isolante che avvolge i conduttori e sono realizzate secondo due disposizioni: a trincea e a trifoglio. La disposizione a trifoglio consente di ridurre ulteriormente l’intensità di campo, perché i campi prodotti, interagendo tra loro, si attenuano a vicenda. Le linee interrate Figura 97 17 presentano però alcuni svantaggi, primo fra tutti il maggiore costo di installazione e di manutenzione (da 3 a 6 volte rispetto a linee aeree). Una tecnologia più recente è quella delle linee compatte nelle quali, grazie all’impiego di mensole isolanti, i conduttori sono molto vicini tra loro e, come nei cavi interrati disposti a trifoglio, interagendo tra loro attenuano il campo prodotto. Anche in questo caso però i costi sono molto elevati; inoltre sono richiesti sostegni più ravvicinati tra loro, non sempre realizzabili. Infine è possibile usare cavi aerei, simili ai cavi tripolari interrati disposti a trifoglio, ma montati su pali di sostegno. Anche in questo caso l’avvicinamento dei conduttori attenua notevolmente l’intensità del campo: una linea da 20 kV genera un campo a terra di 0,2 T se in cavo aereo e di 4,5 T se in linea aerea tradizionale. Anche questa tipologia è poco impiegata a causa dei maggiori costi di realizzazione. 3.2.2) NORMATIVA ITALIANA Le prime norme che limitano l’esposizione a campi elettromagnetici sono state concepite per gli elettrodotti, che furono le prime sorgenti approfonditamente investigate e sicuramente le più diffuse. Solo di recente si è posto il problema di specificare delle regola anche per altre sorgenti, quali le antenne per telecomunicazioni, ovvero antenne trasmittenti radiotelevisive e ripetitori per telefonia mobile. In linea generale le norme riprendono i suggerimenti dati dagli enti scientifici che hanno studiato il problema e hanno definito dei limiti di esposizione accettabili e compatibili con la salute umana. Normativa per gli elettrodotti Prima del 1992 gli elettrodotti italiani dovevano rispettare le norme tecniche del CEI (Centro Elettrotecnico Italiano), che specificavano le distanze minime dei conduttori dal terreno e dagli edifici in funzione della tensione nominale di esercizio; queste norme erano basate esclusivamente sulla necessità di evitare il rischio di scarica tra il conduttore e il terreno. Nel 1991 il Ministero dei Lavori Pubblici ha introdotto il concetto di tutela della salute in relazione ai possibili effetti dei campi elettromagnetici generati dalle linee elettriche. Questa esigenza di regolamentazione venne soddisfatta dal Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri del 23 aprile 1992, che fissa i “limiti massimi di esposizione ai campi elettrico e magnetico generati alla frequenza industriale nominale di 50 Hz negli ambienti abitativi e nell’ambiente esterno“. Le massime intensità di campo elettrico e di induzione magnetica consentite in aree destinate all’uso continuativo da parte della popolazione sono fissate in 5 kV/m per il campo elettrico e in 0,1 mT per l’induzione magnetica; in aree destinate ad uso occasionale i valori si innalzano rispettivamente a 10 kV/m e 1 mT. Vengono anche 18 definite le distanze minime tra i conduttori delle linee elettriche e i fabbricati adibiti a permanenza prolungata: 380 kV 28 m 220 kV 18 m 132 kV 10 m La successiva norma tecnica (DPCM 28/09/95 e 2003) privilegia il contenimento dell’intensità dei campi, mentre non impone il rispetto delle distanze di sicurezza. Normativa per le telecomunicazioni Con la crescente diffusione di telefoni cellulari e la conseguente installazione di numerosissime antenne base per la telefonia mobile, l’attenzione si è focalizzata sulle sorgenti di radiofrequenze, come antenne base per telefonia mobile e antenne trasmittenti radiotelevisive. Solo molto di recente (1998) sono stati fissati dei limiti di intensità per queste sorgenti con un decreto del ministero dell’ambiente. Decreto 381/98 del Ministero dell’Ambiente Con il decreto 381/98 del Ministero dell’Ambiente il 10/09/1998 vengono fissati i “tetti di radiofrequenze compatibili con la salute umana”. Il ministero ritiene necessario definire delle misure cautelative, nonostante le incertezze sull’effettiva dannosità dei campi elettromagnetici, almeno nei casi di esposizione per periodi di tempo prolungati. Il decreto fissa i limiti di intensità dei campi elettrici e magnetici, nonché la massima densità di potenza emessa, per sistemi di telecomunicazioni e radiotelevisivi che operano con frequenze comprese tra 100 kHz e 300 GHz; ricordiamo che le antenne base per telefonia mobile emettono frequenze di 900 e 1800 MHz (si trovano quindi nella 2° fascia). Frequenza (MHz) Intensità di Intensità di Densità di potenza campo elettrico campo magnetico (W/m2) E (V/m) B (A/m) 0,1 - 3 >3- 3.000 60 20 0,2 0,05 1 >3.000 – 300.000 40 0.1 4 I valori di intensità di campo e di potenza vanno intesi mediati su un’area di 2 m2 e un tempo di 6 minuti. Questo limita l’incidenza di punti singolari e di brevi picchi di intensità. Negli edifici adibiti a permanenze prolungate (almeno 4 ore al giorno) i limiti sono più restrittivi e sono indipendenti dalla frequenza: 19 Intensità di campo elettrico E Intensità di campo magnetico B Densità di potenza 6 V/m 0,016 A/m La legge attuale 22/2/2001 e D.P.C.M. 8/8/2003 prevede: 20 0,1 W/m2 INQUINAMENTO ELETTROMAGNETICO La parte più complessa delle analisi è riferita al posizionamento degli elettrodotti rispetto agli abitati. Le distanze dei cavi devono essere sufficientemente ampie da far sì che il campo magnetico che arriva agli edifici sia minore di 3 T (esposizioni continue). La formula che permette di calcolare il campo magnetico ad una data distanza dai cavi dipende da come sono costruiti i tralicci (dispensa parte IV, fig.85). Per determinare le formule necessarie a calcolare il valore del campo in un punto P si esegue l’analisi di un traliccio di tipologia A1 il cui schema è indicato in figura: L’analisi viene svolta per il cavo 2 ma, ruotando gli indici nella formula finale, si trovano anche i risultati analoghi per i cavi 1 e 3. 21 Il raggio r2 è dato dalla formula 𝑟2 = √(𝑥 − 𝑥2 )2 + (𝑦2 − 𝑦)2 Dalla figura si ha che: cos(𝛼) = ∆𝑦 𝑦2 − 𝑦 = 𝑟2 √(𝑥 − 𝑥2 )2 + (𝑦2 − 𝑦)2 𝑠𝑒𝑛(𝛼) = ∆𝑥 𝑥 − 𝑥2 = 𝑟2 √(𝑥 − 𝑥2 )2 + (𝑦2 − 𝑦)2 E Ricordando che per un filo percorso da una corrente si ha: 𝐵= 𝜇𝑜 𝐼 2𝜋𝑟2 Le componenti cartesiane di tale vettore sono: 𝐵𝑥 = 𝐵𝑦 = 𝜇𝑜 𝐼 𝜇𝑜 𝐼 𝑦2 − 𝑦 cos(𝛼) = ∙ 2𝜋𝑟2 2𝜋√(𝑥 − 𝑥2 )2 + (𝑦2 − 𝑦)2 √(𝑥 − 𝑥2 )2 + (𝑦2 − 𝑦)2 𝜇𝑜 𝐼 𝑦2 − 𝑦 = ∙ 2𝜋 (𝑥 − 𝑥2 )2 + (𝑦2 − 𝑦)2 𝜇𝑜 𝐼 𝜇𝑜 𝐼 𝑥 − 𝑥2 sen(α) = ∙ 2𝜋𝑟2 2𝜋√(𝑥 − 𝑥2 )2 + (𝑦2 − 𝑦)2 √(𝑥 − 𝑥2 )2 + (𝑦2 − 𝑦)2 𝜇𝑜 𝐼 𝑥 − 𝑥2 = ∙ 2𝜋 (𝑥 − 𝑥2 )2 + (𝑦2 − 𝑦)2 Ripetendo i passaggi per i cavi 1 e 3 si ottengono formule analoghe per le componenti x e y che sommate danno le seguenti componenti totali dove è stata inserita la corrente efficace (I/√2) per tener conto del fatto che si tratta di corrente alternata: 𝐵𝑥 = 𝜇𝑜 𝐼𝑖 𝑦𝑖 − 𝑦 ∑ [ ] 2𝜋 √2 (𝑦 − 𝑦𝑖 )2 + (𝑥 − 𝑥𝑖 )2 𝐵𝑦 = 𝜇𝑜 𝐼𝑖 𝑥 − 𝑥𝑖 ∑ [ ] 2𝜋 √2 (𝑦 − 𝑦𝑖 )2 + (𝑥 − 𝑥𝑖 )2 22 𝐵 = √𝐵𝑥2 + 𝐵𝑦2 Dove : Ii – intensità massima della corrente che scorre nel cavo i-esimo (pari a metà dell’I di targa se non si hanno dati più precisi, oppure alla mediana dei valori giornalieri forniti dal gestore della rete). Yi – altezza rispetto al punto di calcolo del cavo i-esimo Xi – distanza orizzontale rispetto all’asse del traliccio del cavo i-esimo X – distanza orizzontale tra il centro del traliccio e il punto P in cui si vuole calcolare il campo B Y – altezza rispetto al suolo del punto in cui si vuol calcolare il campo B. 23 MODULO N.4 4) PROGETTAZIONE IMPIANTO A PANNELLI SOLARI TERMICI Dopo aver studiato le onde E.M. possiamo ora vedere un loro utilizzo pratico. Abbiamo visto a suo tempo che gli impianti a pannelli solari termici possono essere di due tipi: a circolazione naturale o a circolazione forzata. Dato che i primi richiedono l’istallazione del serbatoio di accumulo sul tetto, con evidenti problemi estetici e strutturali derivanti dal peso dell’acqua nel serbatoio, è prevalente l’utilizzo di impianti a circolazione forzata che permettono di scegliere il luogo in cui posizionare il serbatoio di accumulo. Per questo motivo ci limiteremo ad analizzare le modalità di progettazione di massima degli impianti solari a circolazione forzata per la produzione di ACS. 4.1) POTENZA TERMICA DA IRRAGGIAMENTO SOLARE Il sole trasmette la sua energia tramite onde elettromagnetiche di varie frequenze; come sappiamo l’intensità di un’onda (potenza su unità di superficie) dipende dalla distanza dalla sorgente e dalla direzione di impatto dell’onda con la superficie in esame. Per la nostra latitudine l’intensità delle onde elettromagnetiche che producono effetti termici è definita COSTANTE SOLARE e vale: 𝐼𝐶𝑆 = 𝑊 𝐴 = 1353 𝑊 𝑚2 Questo valore rappresenta la quantità di energia media al secondo (potenza W) che incide ortogonalmente su una superficie A di 1 m2 posta ai limiti superiori dell’atmosfera. Questa intensità si riduce per effetto dell’assorbimento dell’aria (che così si scalda) a mano a mano che ci si avvicina alla superficie terrestre e in condizioni di cielo sereno diventa a livello del mare e in assenza di nuvole: 𝐼𝐶𝑆𝑜 = 1000 Figura 98 - Costante solare Icso in funzione del clima 24 𝑊 𝑚2 Come è evidenziato in fig. 98, il valore dell’intensità cala considerevolmente con la copertura nuvolosa. Dato che l’irraggiamento solare è soggetto a forti variazioni, si utilizza come parametro standard per gli impianti solari l’energia incidente sulla superficie dei pannelli nell’arco di un anno. Tale valore è, in Italia, compreso tra i 1100 e i 1800 kWh/am2 e varia in base a: - Latitudine del luogo – l’energia aumenta progressivamente da Nord a Sud lungo la penisola (figura 99). Figura 99 - Irraggiamento solare in Italia 1100kW/m2a Figura 100 – Irraggiamento in funzione della posizione del pannello - Posizionamento del pannello definito da (figura 100): a) Tilt = inclinazione del pannello rispetto al piano orizzontale; b) Azimut a = angolo di orientamento rispetto al Sud. Per ogni località esistono un orientamento (a=0 , Sud) e un’inclinazione (dipendente dal luogo) che danno la massima radiazione solare disponibile. Non tutta la radiazione solare che arriva al pannello viene convertita in energia utilizzabile. Per tener conto di ciò si definiscono le seguenti grandezze: 25 - Rendimento medio annuale del campo collettori (pannelli): rapporto tra il calore in uscita dai pannelli in un anno e l’energia solare che nello stesso tempo ha investito la superficie dei collettori. - Rendimento annuale del sistema: rapporto tra il calore utile trasferito all’impianto ( al netto delle perdite nei pannelli e nei vari componenti dell’impianto) e l’energia solare che investe il campo collettori nello stesso periodo. - Copertura del fabbisogno energetico totale: rapporto tra il calore utile solare e il fabbisogno energetico dell’intero sistema. - Efficienza (o rendimento) cap del collettore solare: rappresentata in funzione della differenza tra la temperatura media (Tm ) nel pannello e la temperatura dell’ambiente esterno (Tamb) (figura 4). Figura 101 - Efficienza dei pannelli solari All’aumentare di questo differenziale ( al diminuire cioè della temperatura ambiente o all’aumentare della temperatura nel pannello) l’efficienza diminuisce. Vi sono tre tipologie di pannelli in funzione della loro destinazione d’uso: Pannelli per piscina – hanno alti rendimenti per bassi T (piscina scoperta ad uso estivo) Pannelli piani – hanno alti rendimenti nelle applicazioni per la produzione di ACS e per l’integrazione al riscaldamento. Pannelli sottovuoto – hanno rendimenti molto alti per elevati T (applicazioni di tipo industriale) 26 4.2) COMPONENTI DELL’IMPIANTO A PANNELLI PIANI Analizziamo i principali componenti di un impianto a pannelli solari piani a circolazione forzata evidenziando le modalità di dimensionamento. Figura 102 - schema impianto e principali componenti 4.2.1) VASO DI ESPANSIONE Figura 103 - esempi di vaso di espansione - FUNZIONI Compensare le oscillazioni di volume del fluido termovettore del circuito solare, dovute all’espansione termica e all’eventuale evaporazione del liquido contenuto nei collettori. Evitare che si verifichi fuoriuscita di fluido termovettore attraverso le valvole 27 di sicurezza, agendo come accumulo, dal quale il liquido, una volta raffreddatosi, può ritornare nel circuito. - DIMENSIONAMENTO Nel dimensionamento del vaso va tenuto conto che il liquido contenuto nei collettori solari può evaporare. Questo porta a considerare un volume utile pari al volume di dilatazione del fluido aumentato del volume di evaporazione del campo collettori. 𝑉𝑢 = 1.1(𝑉𝑐 + 𝑒 ∙ 𝑉𝐹𝑙 ) [ 1] Dove: 1.1 = coefficiente di sicurezza VFl = contenuto di fluido nell’intero circuito, in litri Vc= contenuto di fluido nei collettori, in litri e = coefficiente di dilatazione del fluido (e = 0,07 per acqua+glicole, 0.045 acqua) Si calcola ora il volume di progetto del vaso di espansione, in funzione delle pressioni in esercizio: 𝑉 = 𝑉𝑢 (𝑝𝐹 + 1) (𝑝𝐹 − 𝑝𝑖 ) [ 2] Dove: pF = pressione finale in bar (105Pa). Valore consigliato: pressione di apertura della valvola di sicurezza (solitamente 6 bar) meno 0.5 bar pi = pressione iniziale di riempimento consigliato:pressione statica (2 bar) più 0.5 bar. dell’impianto, in bar. Valore Data la difficoltà di previsione del volume di fluido nell’intero circuito (VFL) in fase di dimensionamento si possono utilizzare i seguenti valori di volume del vaso di espansione: Sup. collettore pi= 1.5 bar pi= 2.5 bar m2 5.0 12 L 18 L 7.5 18 L 25 L 10 25 L 35 L 15 35 L 50 L 28 4.2.2) GRUPPO IDRAULICO DI MANDATA E RITORNO Figura 104 - Gruppo idraulico di mandata e ritorno Scelta del tipo Negli impianti solari chiusi vengono utilizzate le pompe centrifughe comunemente reperibili in commercio. Se nell'installazione considerata la pompa è protetta in modo affidabile dall’eccesso di temperatura non devono essere previsti particolari requisiti di termoresistenza. Il funzionamento con miscele acqua-glicole di regola non crea problemi, ma in caso di dubbi è consigliabile consultare il costruttore della pompa. Il dimensionamento della pompa richiede calcoli specifici di idraulica che non rientrano nelle vostre competenze e che vengono eseguiti, di solito, da chi progetta la parte relativa alle tubazioni. 4.2.3) BOLLITORE PER LA PRODUZIONE DI ACQUA CALDA SANITARIA IN IMPIANTI SOLARI • Il fluido termovettore del circuito solare scorre all’interno del serpentino inferiore del bollitore cedendo il calore all’acqua sanitaria contenuta al suo interno. Si lavora col solare sul serpentino inferiore perché è la parte più fredda del bollitore e permette un miglior scambio termico. • La caldaia integra il riscaldamento dell’acqua sanitaria sul serpentino superiore. 29 Figura 105 - Bollitore solare I bollitori di capacità fino ai 1000 litri sono trattati internamente con doppia mano di vetrificazione, resistente fino a 90°C - 95°C. Per i bollitori di taglia superiore tale trattamento diventa difficoltoso e la vetrificazione viene sostituita con la teflonatura, resistente però solo fino a 70°C: questo può portare a dei problemi nelle applicazioni col solare. Mediamente nelle nostre zone i bollitori hanno un volume di accumulo di circa 100 L al m2 di pannello. IL RAPPORTO TRA LA SUPERFICIE DEL SERPENTINO DEDICATO AL SOLARE E LA SUPERFICIE CAPTANTE DEVE ESSERE PARI A 1:5 Lo scambio termico tra collettore solare e serpentino è caratterizzato da bassi differenziali di temperatura (ΔT medio logaritmico), se confrontati col tradizionale scambio caldaia-bollitore. È necessario quindi l’utilizzo di superfici che non scendano sotto il valore consigliato al fine di riuscire a scaricare tutta la potenza dei pannelli. 30 4.2.4) CENTRALINA SOLARE Fig.106 – Collegamenti centralina FUNZIONI PRINCIPALI 1) ACCENSIONE E SPEGNIMENTO DEL CIRCOLATORE SOLARE (R1) POMPA ON S1-S2 > T1 (impostabile) e S1 > T2 (impostabile) POMPA OFF S1-S2 < T3 (impostabile) e S1 < T4 (impostabile) 2) TEMPERATURA MASSIMA BOLLITORE POMPA OFF S2 > Tmax bollitore POMPA ON S2 < Tmax bollitore (impostabile) - 5K 3) TEMPERATURA MASSIMA COLLETTORE POMPA OFF S1 > Tmax collettore (impostabile) POMPA ON S1 < Tmax collettore (impostabile) - 10 K 31 4.3) PANNELLI SOLARI 4.3.1) CARATTERISTICHE DEI PANNELLI SOLARI TEMPERATURA DI INATTIVITÀ Se al collettore non viene sottratto calore (la pompa si arresta, il fluido termovettore non circola più) il collettore si riscalda fino alla cosiddetta temperatura di inattività. In questa condizione le dispersioni termiche sono pari alla potenza irradiata assorbita, mentre la resa del collettore è pari a zero. In Italia i collettori solari piani comunemente reperibili in commercio raggiungono d’estate temperature di inattività superiori a 200 °C, mentre i collettori solari a tubi sottovuoto ca. 300 °C. POTENZA UTILE DEL COLLETTORE Potenza massima La potenza massima di un collettore è definita come prodotto del rendimento ottico η0 e della radiazione massima assorbita di 1000 W/m2. Se si presuppone un rendimento ottico dell’80 %, la potenza massima di una superficie collettore di un metro quadrato è pari a 0,8 kW. Nel normale esercizio questo valore viene però raggiunto raramente, la potenza massima è rilevante soltanto per il dimensionamento dei dispositivi di sicurezza. Potenza di progetto Per la progettazione di un impianto solare viene stabilita una potenza di progetto, necessaria per la progettazione dell’installazione e, in particolare, per il dimensionamento dello scambiatore di calore. Come limite inferiore le norme prevedono una potenza specifica del collettore di 500 W/m2; per una progettazione sicura si consiglia un valore leggermente superiore di 600 W/m2 per applicazioni con basse temperature, quindi per modalità di funzionamento con rendimenti del collettore buoni. Potenza installata Nella letteratura specializzata si trova un’ulteriore potenza che viene utilizzata solo a scopi statistici per comparare i generatori di energia. Per la rilevazione di tutti gli impianti di collettori installati in una regione oltre all’indicazione in m2 viene indicata anche la potenza installata. Quest’ultima è pari a 700 W/m2 di superficie di assorbimento (potenza media con irradiazione massima) e non è rilevante per la progettazione dell'impianto. 32 RESA DEL COLLETTORE Per la progettazione di un impianto solare è importante il dimensionamento dei componenti del sistema e meno rilevante è la potenza dei collettori rispetto alla resa attesa dall'impianto. La resa di un collettore è data dal prodotto della potenza media (kW) per una corrispondente unità di tempo (h). Il valore calcolato in kWh è riferito a un metro quadrato di superficie di collettore o di apertura e viene indicato in kWh/m2. Questo valore è importante in riferimento alla giornata per poter dimensionare l'accumulo solare in quanto rappresenta l’energia utile prodotta dall’impianto. La resa specifica del collettore osservata nell’arco di un intero anno viene indicata in kWh/(m2・a) ed è una grandezza di valutazione essenziale per il dimensionamento e l’efficienza dell'impianto. Quanto più alto è il valore, tanto maggiore è l'energia che l’impianto collettori porta nel sistema. Nell’andamento annuo rientrano anche le condizioni di esercizio in cui il collettore potrebbe fornire ancora energia, ma l'accumulo, ad esempio, è già completamente carico. In questo caso non si ha alcun contributo. La resa del collettore è la grandezza di valutazione essenziale per l’efficienza di un impianto solare. E’ particolarmente alta se la superficie del collettore è orientata in modo ottimale per l’utilizzo principale e non presenta ombreggiamenti. L’irradiazione ottimale non deve necessariamente corrispondere alla resa ottimale. Negli impianti per l’integrazione del riscaldamento ad energia solare per la resa e il comportamento d’esercizio è necessario ad esempio un angolo d'inclinazione maggiore, poiché la resa ottimale è fondamentale per il periodo di mezza stagione e per l’inverno. D’estate, quando viene supportata dall’energia solare solo la produzione d'acqua calda sanitaria, l’angolo d’inclinazione “peggiore” comporta una minore eccedenza, mentre nel periodo di mezza stagione l’angolo “migliore” aumenta la resa utile. La fornitura dell'energia, osservata nell'arco di un intero anno, viene analizzata e la resa dell'impianto è tanto più elevata quanto più l'esposizione si avvicina a quella con il massimo dell'irradiazione. 4.4) QUOTA DI COPERTURA DELL’ENERGIA SOLARE Per la progettazione di un impianto solare, oltre alla resa, la quota di copertura solare è la seconda grandezza di valutazione essenziale. La quota di copertura solare indica la percentuale di energia necessaria per l’utilizzo previsto che può essere coperta dall'impianto solare. Questo modo di considerare la situazione, che pone la resa solare in rapporto con la quantità di calore utilizzata, tiene in considerazione le perdite dell'accumulo ed è diventato un dato di consuetudine per la quota di copertura solare. Sussiste però anche la possibilità di mettere in relazione la resa solare con la quantità di energia impiegata per l’integrazione del riscaldamento. La quota di copertura solare calcolata in questo modo è quindi superiore. Se si paragonano i sistemi solari si deve sempre prestare attenzione a quale tipo di calcolo sta alla base della quota di copertura solare data. Quanto più elevata è la quota di copertura solare, tanto maggiore è il risparmio di energia convenzionale. Perciò è comprensibile che gli 33 interessati spesso desiderino un impianto con la quota di copertura solare maggiore possibile. Una progettazione corretta di un impianto solare comporta sempre un buon compromesso tra la resa e la copertura solare. La regola è: quanto più alta è la copertura solare, tanto più bassa è la resa specifica per metro quadrato di superficie del collettore, a causa delle inevitabili eccedenze estive e del basso rendimento del collettore. Nota bene: il rendimento diminuisce all’aumentare della differenza di temperatura tra il collettore e la temperatura ambiente. Normalmente un buon compromesso tra la resa e la copertura solare è anche un buon compromesso tra i costi degli investimenti per l’impianto solare e il risparmio dei costi per l’energia convenzionale. In Italia è consuetudine dimensionare le case monofamiliari al 65 – 75 % di copertura solare per la produzione d'acqua calda sanitaria, mentre nei condomini al 50% – 60%.Per il supporto per il riscaldamento ad energia solare è difficilissimo indicare valori standard poiché qui la copertura solare è estremamente dipendente dalla qualità energetica dell’edificio (isolamento, tenuta d'aria ecc.). 4.4.1) CARATTERISTICHE DEI COLLETTORI PIANI La struttura del collettore solare piano è costituita, in generale, da un telaio a profilo continuo in alluminio piegato senza tagli obliqui né spigoli appuntiti. Insieme con la guarnizione di tenuta (in un unico pezzo resistente alle intemperie e ai raggi UV) e con parete 107 - collettore posteriore resistente agli urti, garantisce lunga durata ed elevata Figura piano efficienza. I collettori solari piani si possono installare in modo semplice e sicuro sui tetti delle case, come soluzione integrata o sopra il tetto. Sempre più di frequente i collettori vengono installati anche sulla facciata. I collettori solari piani sono più economici dei collettori solari a tubi e vengono impiegati negli impianti per la produzione di acqua calda sanitaria, per il riscaldamento delle piscine e come integrazione al riscaldamento. I collettori solari piani standard presentano di regola una superficie lorda del collettore (misure esterne) di ca. 2–2,5 m2. 4.4.2) DENOMINAZIONE DELLE SUPERFICI Per i collettori vengono utilizzati tre diversi parametri come grandezze di riferimento per i dati di potenza o di resa. In letteratura però non è sempre indicato correttamente a quale superficie si sta facendo riferimento. 34 Superficie lorda del collettore La superficie lorda si ricava dal prodotto di lunghezza x larghezza, misurate lungo le dimensioni esterne del collettore. La superficie lorda dei collettori non è significativa per la potenza dei pannelli né per la loro valutazione, ma è importante per la progettazione del montaggio e delle superfici del tetto necessarie. Anche per la richiesta di bandi pubblici la superficie lorda del collettore e spesso determinante. Assorbitore Il nucleo del collettore è costituito dall'assorbitore o piastra assorbente. Qui la radiazione solare viene trasformata in calore. Dalla lamiera rivestita dell'assorbitore attraverso le tubazioni brasate, pressate o saldate, il calore viene ceduto al fluido termovettore. L'assorbitore è costituito sostanzialmente da rame o alluminio. Il rivestimento applicato è altamente selettivo, ovvero garantisce che la radiazione venga trasformata il più interamente possibile in calore (assorbimento elevato, α = alfa) e la dispersione termica dovuta all'irraggiamento dell'assorbitore molto caldo sia minima (emissione ridotta, ε= epsilon). Assorbitore nei collettori solari piani Nei collettori solari piani l'assorbitore può essere costituito da strisce di lamiera o da una superficie unica. L'assorbitore della prima tipologia è costituito da strisce assorbenti sotto le quali è stato saldato un tubo diritto. Il circuito idraulico dell'assorbitore a strisce è necessariamente ad arpa. Figura 108 Assorbitore ad arpa (tubi paralleli) Figura 109 - assorbitore a meandro 35 Nell'assorbitore a superficie piena, il tubo può essere saldato, oltre che ad arpa, anche a forma di meandro sull’intera superficie di assorbimento. In condizioni di funzionamento usuali i collettori con assorbitore ad arpa hanno una perdita di carico ridotta, ma nascondono il rischio di un flusso irregolare. Gli assorbitori a forma di meandro garantiscono un prelievo sicuro del calore prodotto poiché il fluido scorre esclusivamente attraverso un unico tubo. Negli impianti di piccole dimensioni questa differenza non è rilevante in fase di progettazione mentre per campi di collettori più grandi e più complessi si deve fare attenzione a queste differenze. Superficie di assorbimento La superficie di assorbimento si riferisce esclusivamente all'assorbitore. Negli assorbitori a strisce piane non vengono calcolate le sovrapposizioni delle singole strisce poiché i settori nascosti non fanno parte della superficie attiva. Negli assorbitori cilindrici conta invece l’intera superficie, anche se qui determinati settori della piastra assorbente non sono mai sottoposti alla luce diretta del sole. Perciò negli assorbitori cilindrici la superficie di assorbimento può essere maggiore della superficie lorda del collettore . Superficie di apertura Per superficie di apertura si intende la proiezione della superficie attraverso cui può filtrare la radiazione solare. Nel collettore solare piano la superficie di apertura è il settore visibile della lastra di vetro, quindi il settore all’interno del telaio del collettore attraverso cui la luce può giungere all'assorbitore. 4.5) SCELTA DEL TIPO DI COLLETTORE Per la scelta del tipo di collettore, oltre alla disponibilità di spazio e alle condizioni d’installazione, è decisivo il fattore differenza di temperatura ΔT tra la temperatura media del collettore e l’aria esterna. La temperatura media del collettore viene calcolata dalla media della temperatura di mandata e ritorno e influenza essenzialmente il rendimento del collettore, quindi la sua potenza. Per la scelta del collettore è decisivo il carico specifico dell’impianto solare; per effettuare questa valutazione si deve pertanto rilevare – per la maggior parte delle applicazioni di regola per un anno - il probabile ambito di esercizio del collettore per l’intero periodo di esercizio. Il risultato fornisce la differenza di temperatura attesa. 36 Fluido termovettore Il fluido termovettore trasporta il calore dal collettore all'accumulo: nelle tubazioni dell'assorbitore viene riscaldato il fluido termovettore, che a sua volta nell'accumulo restituisce l'energia all'acqua del serbatoio tramite lo scambiatore di calore. La base per il fluido termovettore è costituita dall’acqua che, salvo poche eccezioni in applicazioni con temperature elevate, è particolarmente adatta grazie alla sua capacità termica elevata. Per evitare che il fluido termovettore geli, causando danni nel collettore o nelle tubazioni esterne, all’acqua viene aggiunto un antigelo (solitamente glicole propilenico), nell’Europa centrale in una concentrazione di circa il 40% del volume nelle nostre zone si scende al 30%. Il glicole propilenico 1,2 è un liquido difficilmente infiammabile, atossico e biodegradabile. Non necessita di contrassegni in base ai criteri EU e non è soggetto a particolari normative di trasporto. Il punto di ebollizione è di 188 °C, mentre la densità è di 1,04 g/cm3. 4.5.1) RENDIMENTO DEL COLLETTORE Il rendimento di un collettore indica la percentuale di radiazione solare incidente sulla superficie di apertura del collettore che può essere trasformata in energia termica utile. Come superficie di apertura viene definita la superficie di un collettore interessata dal sole. Il rendimento dipende, tra l’altro, dalla condizione d'esercizio del collettore; la modalità di misura è uguale per tutti i tipi di collettori. Una parte della radiazione solare che colpisce il collettore va perduta per via della riflessione e dell'assorbimento sulla lastra di vetro e della riflessione sull'assorbitore. Dal rapporto tra l’irradiazione sul collettore e la potenza di irradiazione, che viene trasformata in calore sull'assorbitore, si può calcolare il rendimento ottico, esso viene definito con η0. Un collettore riscaldato dalla radiazione solare cede una parte del calore all'ambiente per conduzione attraverso il materiale del collettore,per radiazione termica e convezione (movimento dell’aria). Queste perdite possono essere calcolate mediante i coefficienti di dispersione termica k1 e k2 e la differenza di temperatura ΔT tra l'assorbitore e l’ambiente. La differenza di temperatura viene indicata in K (= Kelvin). I valori standard di tali dati sono riportati nella seguente tabella: Figura 110 - tabella rendimento ottico, k1 e k2 Il rendimento ottico e i coefficienti di dispersione termica vengono rilevati con un procedimento descritto nella norma europea EN 12975 e rappresentano i parametri 37 essenziali di un collettore; devono essere indicati nei fogli di dati tecnici dal costruttore. Questi tre valori, insieme al valore dell’irraggiamento G sono sufficienti a raffigurare il rendimento del collettore e della sua curva caratteristica. Il rendimento ( efficienza) del collettore si calcola con la seguente formula: 𝜼 = 𝜼𝟎 − 𝒌𝟏 𝚫𝑻 𝒌𝟐 (𝚫𝑻)𝟐 − 𝑮 𝑮 [𝑨] Dove – rendimento del collettore 0 – rendimento ottico k1 , k2 – coefficiente di dispersione termica del pannello T – differenza di temperatura in kelvin tra la temperatura media della piastra e quella esterna. G – irraggiamento in W/m2. Figura 111 - Rendimento (efficienza) del pannello ESEMPIO DATI COLLETTORE Dati che vengono forniti dal costruttore del pannello: Marca . XXXXXXXX Serie : yyy Modello: VKF 150 V Dimensioni (LxPxH): 1233 x 2033 x 80 [mm] Peso a vuoto: 38 kg Tip. Pannello. COLLETTORE PIANO Sup. Complessiva 2,51 m2 38 Sup. Apertura Superficie Captante Contenuto di liquido Efficienza η0 Coeff. K1 Coeff. K2 2,35 m2 2,33 m2 1,85 L 84 % 3,7 w/m2K2 0,01 w/m2K2 4.6) DIMENSIONAMENTO DI UN IMPIANTO A PANNELLI SOLARI PIANI PREMESSA Ci soffermeremo solamente su impianti per la produzione di ACS nelle abitazioni. E’ molto importante dimensionare correttamente la superficie captante necessaria, per sfruttare al massimo l’energia solare senza incorrere in costi proibitivi. Anzitutto, non è consigliabile pretendere di soddisfare il fabbisogno delle utenze al 100% tutto l’anno: se volessimo raggiungere l’autosufficienza anche a dicembre, negli altri mesi avremo un’energia esuberante, che resterebbe inutilizzata, ed un impianto costoso e di difficile ammortamento. Conviene invece coprire con l’impianto solare la gran parte del fabbisogno, lasciando ad una fonte integrativa il compito di coprire le punte di carico nei mesi invernali o nelle giornate di cattivo tempo. Una buona regola pratica negli usi residenziali, se non si hanno dati più precisi sui fabbisogni di acqua calda, prevede una superficie captante pari a 0,7 ÷ 1 mq per persona per tutto l’anno (0,5 ÷ 0,7 mq per persona per solo uso estivo) ed una capacità del bollitore di circa 50-100 litri per ogni mq di pannelli. Possiamo dire, quindi che: - per una famiglia di 4 persone avremo bisogno di una superficie captante di circa 3÷4 mq ed un bollitore di 200-400 litri. In questo modo avremo, indicativamente, una copertura dei fabbisogni del 70-80 % mentre il sistema integrativo provvederà al resto. Per l’integrazione, la preferenza va data alla caldaia a metano, già presente spesso per il riscaldamento degli ambienti. In questi casi basterà, verificata la capacità di adattamento della caldaia esistente all’integrazione con il sistema solare, collegare l’attacco di uscita dell’acqua calda dell’impianto solare all’ingresso dell’acqua fredda della caldaia così che l’energia solare produrrà un preriscaldamento dell’acqua che ridurrà drasticamente i consumi della caldaia, mentre l’impianto garantirà in ogni situazione climatica una produzione sufficiente al fabbisogno. 4.6.1) CALCOLO DEL FABBISOGNO ACS Nel metodo di calcolo collegato alla certificazione energetica dei fabbricati abbiamo visto la procedura per determinare la quantità di ACS necessaria giornalmente (V W) per i fabbisogni standard. Tale valore è poi servito per calcolare il valore dell’energia 39 annua (Qw) che è utilizzato per la classificazione. Nell’ipotesi che l’edificio in esame venga dotato di impianto termico solare per la produzione dell’acqua calda, il valore VW può essere utilizzato così come lo abbiamo calcolato per la certificazione. Se però si intende fare una stima più precisa che tenga conto degli effettivi utilizzatori si può calcolare con il metodo indicato successivamente il volume di ACS giornaliero e, se il risultato differisce in modo significativo da quello visto con il metodo precedente, si deve sostituire il nuovo valore ricalcolando anche il Q W inserito nella certificazione. Questo permetterà, poi, di sottrarre l’apporto energetico dell’impianto solare all’energia totale richiesta abbassando così il totale di energia richiesta e quindi la classe dell’immobile. Quello che costituisce un errore di procedura è l’utilizzo di QW calcolato con il sistema previsto dalla certificazione (generalmente dà valori più bassi dei reali per il Vw) e calcolare il guadagno energetico del solare su un volume d’acqua ricavato con il secondo metodo il che porta a un valore di risparmio falsato rispetto al valore precedente. Come calcolare il fabbisogno di ACS. Da analisi statistiche approfondite sono risultati i valori raccolti nelle seguenti tabelle e riferiti ai vari aspetti che influenzano il valore totale del volume, V W , di ACS. Tabella A – n: numero di persone che vivono nell’abitazione.( 𝑓𝐴 ) 𝑓𝐵 40 𝑓𝐶 𝑓𝐷 𝑓𝐸 Il valore del volume d’acqua giornaliero necessario, V W, risulta dalla: 𝑽𝑾 = 𝒇𝑨 ∙ 𝒇𝑩 ∙ 𝒇𝑪 ∙ 𝒇𝑫 ∙ 𝒇𝑬 [3] ESEMPIO N.34 Un appartamento ha una superficie utile di Su=A=86.8 m2, è composto da 4 vani e abitato da 4 persone con un tenore di vita buono. L’appartamento è di categoria media. Determinare il volume d’acqua giornaliero, mensile e annuale e i corrispondenti valori 41 di energia necessari per portare l’A.C.S. da 15°C (temperatura d’acquedotto) a 40°C (temperatura d’uso). Dati: Su=A=86.8 m2, fA= 4 persone; fB= 70 l/d persona; fC= 1; fD=1.0; fE=1.1; Tu=40°C; To=15°C=1000 kg/m3;c=1.162 Wh/kgK. a) Calcolo del volume giornaliero con il metodo visto per la certificazione energetica. Il volume giornaliero è ( Su=A=86.8 m2): 𝑙 𝑉𝑊 = 4,514𝑆𝑢0.7644 = 4.514 ∗ 86.80.7644 = 136.8 = 0.137 𝑚3 /𝑑 𝑑 b) calcolo del volume giornaliero con il metodo dei coefficienti : 𝑙 𝑉𝑊 = 𝑓𝐴 ∙ 𝑓𝐵 ∙ 𝑓𝐶 ∙ 𝑓𝐷 ∙ 𝑓𝐸 = 4 ∗ 70 ∗ 1 ∗ 1 ∗ 1.1 = 308 = 0.308𝑚3 /𝑑 𝑑 Come si vede il valore ottenuto in questo modo è di molto superiore a quello previsto con il metodo semplificato della certificazione, ne consegue che il fabbisogno energetico giornaliero, mensile e annuale per l’ACS è notevolmente più alto di quello inserito nelle certificazioni usuali. Infatti: c) energia richiesta per il riscaldamento giornaliero con il dato a): 𝑄𝑊𝑑 = 𝜌𝑐𝑉𝑊 (𝑇𝑢 − 𝑇𝑜) = 1000 ∗ 1.162 ∗ 0.137 ∗ (40 − 15) = 3980 𝑊ℎ = 3.980 𝑘𝑊ℎ = 14.3 𝑀𝐽 Il valore mensile risulta: 𝑄𝑊𝑚 = 𝜌𝑐𝑉𝑊 (𝑇𝑢 − 𝑇𝑜)31 = 1000 ∗ 1.162 ∗ 0.137 ∗ (40 − 15) ∗ 31 = 123375 𝑊ℎ = 123.4 𝑘𝑊ℎ = 444.2 𝑀𝐽 Quello annuale vale (dato per la certificazione): 𝑄𝑊 = 𝜌𝑐𝑉𝑊 (𝑇𝑢 − 𝑇𝑜)𝐺 = 1000 ∗ 1.162 ∗ 0.137 ∗ (40 − 15) ∗ 365 = 1452645 𝑊ℎ = 1453 𝑘𝑊ℎ = 5230 𝑀𝐽 d) con il valore ottenuto in b) per il giornaliero si ha: 𝑄𝑊𝑑 = 𝜌𝑐𝑉𝑊 (𝑇𝑢 − 𝑇𝑜) = 1000 ∗ 1.162 ∗ 0.308 ∗ (40 − 15) = 8948 𝑊ℎ = 8.948 𝑘𝑊ℎ = 32.2 𝑀𝐽 Il valore mensile risulta: 𝑄𝑊𝑚 = 𝜌𝑐𝑉𝑊 (𝑇𝑢 − 𝑇𝑜)31 = 1000 ∗ 1.162 ∗ 0.308 ∗ (40 − 15) ∗ 31 = 277368 𝑊ℎ = 277.4 𝑘𝑊ℎ = 998.6 𝑀𝐽 Quello annuale vale (dato per la certificazione): 𝑄𝑊 = 𝜌𝑐𝑉𝑊 (𝑇𝑢 − 𝑇𝑜)𝐺 = 1000 ∗ 1.162 ∗ 0.308 ∗ (40 − 15) ∗ 365 = 3265800 𝑊ℎ = 3266 𝑘𝑊ℎ = 11758 𝑀𝐽 Confrontando i risultati in percentuale si ha: 42 metodo Metodo Differenza certific. Coeff. percentuale VW [l/g] 137 308 + 125% QWd [kWh] 3.98 8.98 +125% QWm [kWh] 123.4 277.4 +125% QW [kWh] 1453 3266 +125% L’incremento è del 125%. Questo significa che nella certificazione si fa un calcolo estremamente prudenziale (per difetto) del QW che però non può essere preso come valore di progetto in quanto poi gli utilizzatori dell’impianto si troverebbero con un quantitativo di acqua disponibile di molto minore delle loro aspettative. Si nota inoltre che se l’impianto non è in grado di produrre almeno (3266-1453)= 1813 kWh di energia termica, l’energia termica totale aumenterebbe nonostante l’apporto dell’impianto solare aumentando così l’indice di prestazione energetica globale anziché ridurlo. N.B. Il metodo completo di calcolo per coefficienti è illustrato nell’esempio di progettazione dell’impianto e viene costruito considerando le temperature minime mensili tabulate per ogni località nelle norme UNI 10349 per la temperatura dell’acqua iniziale. ESEMPIO N.35 Vogliamo vedere di quanto si scosta al massimo, in più o in meno, rispetto al valore calcolato per la certificazione il Vw in base ai parametri relativi alle caratteristiche statistiche introdotte con le nuove tabelle. Il valore di certificazione è V w=136.8 l/d fa min max fb 4 4 fc 40 200 fd 1 1 fe 1 1 Vw l/d var% 0.8 128 93.6 1.2 960 701.8 Come si vede il valore di certificazione è compatibile con una famiglia standard di tenore di vita bassa e abitante in case popolari. 43 4.6.2) CALCOLO DELL’ENERGIA MEDIA GIORNALIERA MENSILE Per individuare ad un certo istante dell'anno la posizione del Sole nel cielo in una determinata località è necessario definire alcuni angoli caratteristici. Questi angoli, come già in parte visto, sono: - la latitudine L: è l'angolo che la retta passante per la località considerata ed il centro della Terra forma con il piano dell'equatore; è positiva nell'emisfero settentrionale e negativa in quello meridionale; - l'altezza o altitudine solare y: è l'angolo formato tra la Figura 112 - Distribuzione della radiazione solare direzione dei raggi solari ed il piano orizzontale (complementare dell'angolo zenitale z); - l'azimut solare a: è l'angolo formato tra la proiezione sul piano orizzontale dei raggi solari e la direzione sud (è positivo prima del mezzogiorno solare); - l'angolo orario h: è la distanza angolare tra il Sole e la sua posizione a mezzogiorno lungo la sua traiettoria apparente sulla volta celeste; è anche pari all'angolo di cui deve ruotare la Terra affinché il Sole si porti sopra il meridiano locale. Tale angolo è positivo nelle ore antimeridiane. Esso risulta pari al numero di ore di distanza dal mezzogiorno moltiplicato per 15 (poiché la Terra ruota di 15 gradi all'ora alla velocità nominale di 360 gradi al giorno); Figura 113- Principali angoli L'angolo orario relativo all'alba ha o al tramonto ht può essere calcolato per mezzo dell'equazione: ha = arcos(-tgL × tg𝛿) [5] Una volta definito ha, il suo valore viene usato per calcolare n, la lunghezza espressa in ore del giorno in esame e cioè l’intervallo di tempo che separa l’alba dal tramonto: 2ℎ𝑎 𝑛= [6] 15 44 I dati più interessanti ai fini del progetto di un impianto a pannelli solari sono quelli dell'energia incidente; i contributi della radiazione istantanea sono però difficilmente integrabili e fortemente variabili nel tempo: bisogna quindi ricorrere ai dati statistici, numerosi e ben distribuiti sul territorio dei paesi industrializzati. Ci si può trovare in situazioni per cui è utile calcolare ha in due modi, con la formula [5] e con la formula seguente: ha = arcos(-tg(L-) × tg𝛿) [7a] Il valore che va utilizzato nel calcolo del fattore ℎ𝑎′ definito più avanti (pag.44) sarà il minimo tra i due ottenuti con le formule [5] e [7a]. - la declinazione solare : è l'angolo che la direzione dei raggi solari forma a mezzogiorno, sul meridiano considerato, con il piano equatoriale; risulta anche pari all'angolo che i raggi solari formano a mezzogiorno con la direzione dello zenit sull'equatore e coincide inoltre con la latitudine geografica alla quale in un determinato giorno dell'anno il Sole a mezzogiorno sta sullo zenit (il che può accadere solo fra i tropici). è positiva quando il Sole sta al di sopra del piano equatoriale ed è negativa quando il Sole è al di sotto di esso. La declinazione solare può essere calcolata per mezzo della formula approssimata di Cooper: 𝛿 = 23.45𝑠𝑒𝑛 [360 ( 284 + 𝑛 )] 365 [4] Dove n è l'ennesimo giorno dell'anno e 284 il numero corrispondente all'11 ottobre e non al 23 settembre ((t) non è una sinusoide perfetta per l'ellitticità dell'orbita). I dati della declinazione per ogni mese sono riportati nella seguente tabella: Tabella 1 - declinazione mensile 45 4.6.3) CALCOLO DELL’IRRAGGIAMENTO L’irraggiamento sul piano del pannello viene calcolato sulla base dei dati di irraggiamento riportati nelle tabelle della norma UNI 10394 sotto forma di ̅ 𝒃𝒉 ” e “radiazione diffusa sul piano “radiazione diretta su un piano orizzontale, 𝑯 ̅ 𝒅𝒉 ” giornaliera media mese per mese. orizzontale, 𝑯 La N° 99 è Vicenza Per determinare l’effettivo valore della radiazione giornaliera incidente su un piano inclinato vi sono varie teorie che hanno prodotto formule sperimentali, noi vedremo solamente il metodo proposto da Liu-Jordan che permette di calcolare l’energia giornaliera media mensile tramite dei fattori di inclinazione (che dipendono dall’inclinazione del pannello e dalle caratteristiche di riflettività dell’ambiente circostante) in MJ / m2 giorno. Tali risultati valgono solo per pannelli con azimut 46 (angolo rispetto al sud) a = 0. Per azimut diversi si hanno valori più bassi valutabili tramite coefficienti riduttivi esposti nella tabella G (pag.46). I fattori di inclinazione dipendono da: - : angolo di inclinazione del pannello rispetto al piano orizzontale (Tilt) - L: la latitudine del luogo di installazione - :declinazione - ha: angolo orario relativo all’alba - 𝒉′𝒂 : valore minimo tra ha0 = arcos(-tgL × tg𝜹) e ha90 = arcos(-tg(L)× tg𝜹) - : albedo o coefficiente di riflessione (del terreno o comunque dell'ambiente) i cui valori più ricorrenti sono riportati nella seguente tabella: Tab.H superficie neve (caduta di fresco con un film di ghiaccio) superfici d'acqua (ad elevati angoli di incidenza) strade sterrate superfici di bitume e ghiaia calcestruzzo Pareti di edifici scure (mattoni a vista, pitture scure) Pareti di edifici chiare Foresta in inverno Foresta in autunno Erba verde Erba secca albedo 0.75 0.07 0.04 0.13 0.22 0.27 0.60 0.07 0.26 0.26 0.20 Fattore di inclinazione Rbh (raggi diretti) Si calcola con la formula: 𝐜𝐨𝐬(𝑳 − 𝜷) 𝒄𝒐𝒔(𝜹)𝒔𝒆𝒏(𝒉′𝒂 ) + 𝒉′𝒂 𝒔𝒆𝒏(𝑳 − 𝜷)𝒔𝒆𝒏(𝜹) 𝐑 𝐛𝐡 = 𝐜𝐨𝐬(𝑳) 𝐜𝐨𝐬(𝜹) 𝒔𝒆𝒏(𝒉𝒂 ) + 𝒉𝒂 𝒔𝒆𝒏(𝑳)𝒔𝒆𝒏(𝜹) [𝟕] N.B. Tutti i valori vanno inseriti in radianti compresi gli h a e ha’al di fuori delle funzioni trigonometriche. Fattore di diffusione Rdh Si calcola con la formula: 𝐑 𝐝𝐡 = 𝟏 + 𝐜𝐨𝐬(𝜷) 𝟐 [𝟖] Fattore di riflessione Rrif Si calcola con la formula: 𝐑 𝐫𝐢𝐟 = 𝝆 𝟏 − 𝐜𝐨𝐬(𝜷) 𝟐 [𝟗] L’energia giornaliera media mensile H incidente sul pannello vale 47 ̅ 𝐛𝐡 + 𝐑 𝐝𝐡 ∙ 𝐇 ̅ 𝐝𝐡 + 𝐑 𝐫𝐢𝐟 ∙ (𝐇 ̅ 𝐛𝐡 + 𝐇 ̅ 𝐝𝐡 ) 𝐇 = 𝐑 𝐛𝐡 ∙ 𝐇 [𝟏𝟎] La potenza della radiazione media giornaliera mensile risulta: 𝑯 𝑮= [𝟏𝟏] 𝒏 Dove n è il numero di ore di luce al giorno (vedi tabelle UNI10394) . Il rendimento dei pannelli risulta: 𝒌𝟏 𝚫𝑻 𝒌𝟐 (𝚫𝑻)𝟐 𝜼 = 𝜼𝟎 − − [𝟏𝟐] 𝑮 𝑮 Dove – rendimento del collettore 0 – rendimento ottico k1 , k2 – coefficiente di dispersione termica del pannello T – differenza di temperatura in kelvin tra la temperatura media della piastra e quella esterna G – irraggiamento in W/m2. 4.6.4) CALCOLO DELLA SUPERFICIE DEI PANNELLI Per ottenere un valore di predimensionamento per l’area totale dei pannelli solari necessari noto il valore della quantità giornaliera media di acqua calda, in litri/giorno, si può utilizzare la seguente tabella: V1p Per calcolare la superficie dei pannelli di progetto basta dividere il fabbisogno totale giornaliero di acqua calda, VW, per la quantità prodotta da un metro quadrato di pannello, dopo aver scelto l’efficienza, per ottenere la superficie necessaria si usa: 𝑨𝒑𝒕𝒐𝒕 = 𝑽𝑾 𝑽𝟏𝒑 [13] Da un punto di vista del posizionamento del pannello teoricamente si ha: UTILIZZO ANNUALE: i risultati migliori si ottengono con valori di circa 30°di inclinazione rispetto al piano orizzontale. 48 UTILIZZO ESTIVO: conviene ridurre l’inclinazione a circa 20°.NOZIONI UTILIZZO INVERNALE: meglio un’inclinazione di 60° circa sul piano orizzontale. Inoltre: • Per valori di inclinazione fino a 55°, l'irraggiamento massimo si ottiene con superfici orientate a sud (azimut = 0°). • Per superfici orientate da SE a SO (azimut compreso tra -45° a +45°) come la gran parte di quelle interessate alle applicazioni solari, l'irraggiamento massimo si ottiene con una inclinazione dei pannelli di 30°; • Perdita di efficienza per orientamento non ottimale: si valuta che per azimut compresi tra +/-50° sud le perdite sono inferiori al 4%. L’utilizzo dei valori ottimali si scontra con la realtà in quanto la maggior parte degli impianti che si costruiscono nelle nostre zone hanno i pannelli collocati sui tetti che, per motivi architettonici, hanno le falde inclinate con angoli compresi tra i 15° e i 25° e quindi che non permettono l’istallazione con angolo utile di 30°. D’altra parte è assolutamente da evitare la disposizione di pannelli inclinati rispetto alla falda in modo da raggiungere i 30° sia per motivi costruttivi che di sicurezza (effetto vela, peso della neve…) Per tenerne conto si può utilizzare la seguente tabella di coefficienti di correzione del rendimento del collettore: Tabella G - Correzione per l'azimut a diverso da zero Da una sua analisi si osserva che, per angoli compresi tra 15° e 30° di tilt (), non si hanno grandi riduzioni di efficienza; quello che si nota invece è che tale valore diventa tanto più rilevante, a parità di tilt, con lo spostamento rispetto al sud dell’orientamento del pannello ( angolo a) e che non ha alcun senso esporre i pannelli orientati a nord. Infine si può progettare l’impianto in modo che la copertura di ACS richiesta durante l’anno sia completa oppure si sceglie di coprirne solo una parte (60%-70%) integrando quella mancante con la caldaia dell’impianto termico. Il secondo modo è quello di solito utilizzato in quanto per coprire i mesi invernali in modo completo sarebbe necessario installare aree molto grandi di pannelli il cui costo risulterebbe tale da rendere antieconomico l’impianto stesso. 49 ESEMPIO N.36 Nell’esempio n.1 abbiamo calcolato il volume di ACS richiesto per un appartamento abitato da quattro persone ottenendo VW = 308 L/d. Vogliamo determinare la superficie captante dei pannelli necessari per questo appartamento. Si ipotizza di utilizzare pannelli con media efficienza. Come di vede dalla tabella F i valori medi di acqua prodotti da un metro quadrato di pannello (V1p) variano da un minimo di 39 L/g in dicembre ad un massimo di 110 in luglio. Se si vuole avere il 100% di copertura si deve installare un’area di: 𝑉𝑊 308 𝐴𝑝𝑡𝑜𝑡 = = = 7.9 𝑚2 𝑉1𝑝 39 di pannelli, mentre se ci si limita ad una percentuale più bassa si può dimensionare con 𝑉 308 il valore di luglio quindi: 𝐴𝑝𝑡𝑜𝑡 = 𝑉𝑊 = 110 = 2.8 𝑚2 1𝑝 In conclusione si potrà scegliere una superficie compresa tra 3 m2 e 8 m2 , cosa che però sarà decisa in base agli effettivi valori di irraggiamento nel modo che ora vedremo. Dimensionamento dei pannelli Si raccolgono, per ogni mese, i valori di energia media giornaliera richiesta per l’ACS (Qwd) , i valori di energia giornaliera media mensile (H) raccolta dai pannelli per m2 e i valori di rendimento mensile dei pannelli, calcolando l’area minima richiesta per ogni mese: 𝑄𝑤𝑑 𝐴𝑝 = [14] 𝜂𝐻 I dodici valori di Ap trovati avranno valori massimi per i mesi invernali e minimi per quelli estivi. A questo punto si deve decidere quale percentuale di copertura si intende avere da parte dell’impianto solare riferendosi al calcolo di massima precedentemente svolto e scegliere un dato numero Np di pannelli il cui costruttore fornirà il valore dell’area captante Acapt. Il valore di progetto risulterà quindi: 𝐴𝑇𝑜𝑡 = 𝑁𝑝 𝐴𝑐𝑎𝑝𝑡 [15] L’energia giornaliera media mensile fornita dall’impianto risulta: 𝑄𝑤𝑠 = 𝜂𝐻𝐴𝑇𝑜𝑡 [16] Calcolata per ogni mese. La differenza: Δ𝑄 = 𝑄𝑊𝑑 − 𝑄𝑊𝑠 [17] Indica il difetto (se negativa) o l’eccesso di energia solare rispetto a quella richiesta per ogni mese. Il deficit di energia mensile si ottiene sommando tutti i DQ negativi moltiplicati per il numero di giorni del mese che rappresenta: 𝑄𝑟𝑚 = 𝑁𝑔 Δ𝑄− [18] 50 Il deficit di energia totale annuale vale: 𝑄𝑟𝑒𝑠/𝑎 = ∑ 𝑄𝑟𝑚 [19] La copertura del fabbisogno energetico fornita dall’impianto, in percentuale, 𝑄𝑟𝑒𝑠/𝑎 risulta: 𝐶% = (1 − )100 [20] 𝑄𝑊 Se la percentuale non soddisfa le richieste si riparte dalla [15] modificando il numero di pannelli fino ad ottenere la percentuale di copertura che si vuole. Trovato il valore di Np che produce l’energia richiesta si controlla che generi anche il numero di L/g minimo fissato. Quando ambedue le condizioni sono soddisfatte si conclude il progetto. Riassumendo si esegue la seguente procedura: Scelgo Np e ApTot Calcolo con la [16]: QWs Calcolo Q [17] Qrm [18] Qra [19] C% [20] No Controllo se Vw<Vwp C% Accettabil ee? Si Si Fine 51 No Tutto ciò è conveniente svolgerlo tramite fogli di calcolo come nel seguente esempio. ESEMPIO N. 37 Progettare un impianto fotovoltaico per un’abitazione con le seguenti caratteristiche: Un villino a Vicenza ha una superficie di Su=A=100 m2, è composto da 4 vani ed abitato da 4 persone con un tenore di vita normale. Il villino è di categoria media. Risoluzione. La spiegazione dei valori rappresentati nelle tre tabelle successive si desumono dalle relative legende. LEGENDA TABELLA FABBISOGNO DI ACS A) Nelle celle verdi sono inseriti i coefficienti che identificano le caratteristiche dell’utenza che si trovano nelle tabelle da A ad E. Il valore Vw è calcolato con la : 𝑉𝑊 = 𝑓𝐴 ∙ 𝑓𝐵 ∙ 𝑓𝐶 ∙ 𝑓𝐷 ∙ 𝑓𝐸 [3] A questo punto viene effettuato un calcolo medio mensile. 1) In questa riga si inserisce il valore di Vw precedentemente calcolato per ogni mese dell’anno. 2) N è il numero di giorni per ogni mese. 3) Te è la temperatura esterna per Vicenza dedotta dalle tabelle UNI 10394 (vedi formulario) 4) in questa riga viene calcolato il fabbisogno di energia giornaliera media mensile per il riscaldamento dell’ACS con la: 𝑄𝑊𝑚 = 𝜌𝑐𝑉𝑊 (𝑇𝑓 − 𝑇𝑒 )𝑁 In questo calcolo se la temperatura esterna è minore di quella minima dell’acquedotto (valore che si trova in letteratura per ogni acquedotto) si usa quest’ultima al posto di Te. Nel nostro esempio Tmin = 10°C > Te per i mesi di gen, feb, mar, nov, dic. 5) Si calcola il valore dell’energia media mensile richiesta dall’ACS Nell’ultima riga è indicato il valore <Q wd> che rappresenta la media delle medie mensili e soprattutto Qw che è il totale annuo di energia richiesta per il riscaldamento dell’ACS ed è il valore che si deve indicare in questo caso nella certificazione del fabbricato. (Le altre LEGENDE esplicative sono riportate dopo le tabelle di pag. 51 e 52) 52 53 54 CALCOLO NUMERO DI COLLETTORI [1] [2] [3] [4] [5] [6] Np= n giorni gen feb mar apr mag giu lug ago set ott nov dic Qw= 31 28 31 30 31 30 31 31 30 31 30 31 2 adottati [7] [8] Acapt= [9] 2.33 m^2 Qwd Atot Qws richiesta H Q Residuo Ap richiesta adottata fornita kWh/d kWh/dm^2 m^2 m^2 kWh/d kWh/d kWh/mes 12.65 1.89 0.01 669.312 4.660 0.0881 -12.56 -389.4 12.65 2.75 0.217 21.198 4.660 2.7809 -9.87 -276.3 12.65 3.93 0.399 8.067 4.660 7.3072 -5.34 -165.6 11.6 4.6 0.467 5.400 4.660 10.0106 -1.59 -47.7 10.12 5.48 0.541 3.414 4.660 13.8154 3.70 0.0 8.57 5.88 0.595 2.450 4.660 16.3035 7.73 0.0 7.74 6.15 0.634 1.985 4.660 18.1698 10.43 0.0 7.95 5.75 0.632 2.188 4.660 16.9344 8.98 0.0 9.18 4.75 0.58 3.332 4.660 12.8383 3.66 0.0 11.24 3.37 0.446 7.478 4.660 7.0041 -4.24 -131.3 12.65 2.19 0.212 27.246 4.660 2.1635 -10.49 -314.6 12.65 1.95 0.105 61.783 4.660 0.9541 -11.70 -362.6 Qres/a= -1687.54 3939.38 kWh/a Copertura= 57.2 % LEGENDA TABELLA IRRAGGIAMENTO sull’impianto solare termico. A) indicazioni geografiche e di posizione relative alla localizzazione dei pannelli B) caratteristiche tecniche dei pannelli adottati Anche in questo caso si esegue un calcolo mensile dell’insolazione ricevuta dai pannelli: 1) declinazione d ricavata dalla tabella 1 e trasformazione dell’angolo in radianti. 2) angolo orario calcolato con le: ha = arcos(-tgL × tg𝛿) [5] ha = arcos(-tg(L-) × tg𝛿) [7a] 𝐡′𝐚 =(min tra i valori di [5] e[7a]) Il valore va trasformato in radianti. 3) valori di insolazione media giornaliera sul piano orizzontale ricavati dalle tabelle UNI 10394 per Vicenza. 4) fattori di inclinazione sono calcolati per ogni mese con le: - Fattore di inclinazione Rbh cos(𝐿 − 𝛽)cos(𝛿) 𝑠𝑒𝑛(ℎ𝑎′ ) + ℎ𝑎′ 𝑠𝑒𝑛(𝐿 − 𝛽)𝑠𝑒𝑛(𝛿) R bh = cos(𝐿) cos(𝛿 ) 𝑠𝑒𝑛(ℎ𝑎 ) + ℎ𝑎 𝑠𝑒𝑛(𝐿)𝑠𝑒𝑛(𝛿) - Fattore di diffusione Rdh 55 [7] 1 + cos(𝛽) [8] 2 - Fattore di riflessione Rrif ( coef. di albedo, Tab. H) 1 − cos(𝛽) R rif = 𝜌 [9] 2 5) energia giornaliera media mensile H incidente sul pannello che vale R dh = ̅ bh + R dh ∙ H ̅ dh + R rif ∙ (H ̅ bh + H ̅ dh ) H = R bh ∙ H [10] 6) numero di ore giornaliere di illuminazione dei pannelli si ottiene dalla: 2ℎ𝑎 𝑛= [6] 15 7) radiazione media giornaliera su un m2 di pannello si ottiene : 𝐻 𝐺= 𝑛 8) Te è la temperatura esterna per Vicenza dedotta dalle tabelle UNI 10394 (vedi formulario) N.B. si usa questa temperatura per il calcolo del rendimento. 9) rendimento mensile del pannello (efficienza) vale: 𝑘1 Δ𝑇 𝑘2 (Δ𝑇)2 𝜂 = 𝜂0 − − [12] 𝐺 𝐺 10),11) e 12) valori medi mensili delle grandezze sopra riportate. LEGENDA CALCOLO NUMERO DI COLLETTORI Anche in questo caso si procede per mese dopo aver inserito il numero ottenuto dal predimensionamento di pannelli e l’area captante del prodotto che si intende installare. 1) n numero di giorni del mese 2) si inseriscono in questa colonna i valori ottenuti nella riga 4) della tabella ACS 3) si inseriscono in questa colonna i valori ottenuti nella colonna 5) della tabella precedente 4) si inseriscono i dati della colonna 9) della tabella precedente 5) viene calcolata l’area di pannello minima necessaria per soddisfare tutto il fabbisogno giornaliero medio mensile con la: 𝑄𝑤𝑑 𝐴𝑝 = [14] 𝜂𝐻 6) si DECIDE quale valore di area dei collettori utilizzare e la si inserisce PER TUTTI I MESI in questa colona 7) Calcolo del valore effettivo di energia prodotta giornalmente dai pannelli con la: 𝑄𝑤𝑠 = 𝜂𝐻𝐴𝑇𝑜𝑡 [16] 8) Calcolata per ogni mese. La differenza: Δ𝑄 = 𝑄𝑊𝑑 − 𝑄𝑊𝑠 [17] 56 9) Calcolo del deficit di energia mensile che si ottiene sommando tutti i Q negativi moltiplicati per il numero di giorni del mese: 𝑄𝑟𝑚 = 𝑁𝑔 Δ𝑄− [18] Il deficit di energia totale annuale vale: 𝑄𝑟𝑒𝑠/𝑎 = ∑ 𝑄𝑟𝑚 [19] La copertura del fabbisogno energetico fornita dell’impianto, in percentuale, risulta: 𝑄𝑟𝑒𝑠/𝑎 𝐶% = (1 − 𝑄 )100 =57% [20] 𝑊 che è soddisfacente; si controlla, infine, di avere una produzione di ACS sufficiente . 20 18 16 14 12 10 Qwd 8 Qws 6 4 2 0 gen feb mar apr mag giu lug ago set ott nov dic Confronto tra energia giornaliera richiesta e fornita Come si vede nell’istogramma precedente i mesi per cui i pannelli devono autonomamente fornire la quantità di 310.8 L/d vanno da maggio a settembre. Per questi mesi il valore della quantità minima di ACS prodotta per m2 di pannello medio risulta di 91 L/m2d (settembre, tab.F). Pertanto l’area adottata Atot= 4.66 m2 produce giornalmente un volume : 𝐿 𝑉𝑊𝑝 = 91 ∙ 4.66 = 424 > 𝑉𝑤 𝑑 Quindi il progetto è accettabile. Si procede infine con l’individuazione dei restanti elementi: Accumulatore, vaso di espansione, gruppo idraulico di mandata, tubature e valvole di sicurezza, secondo lo schema di figura 5. ACCUMULATORE Si adotta un bollitore a doppio serpentino per la produzione di ACS da collegare alla caldaia per il riscaldamento. Il volume di accumulo deve essere di 400 L. 57 VASO DI ESPANSIONE Si installerà un vaso di espansione da 15 L. GRUPPO IDRAULICO DI MANDATA E RITORNO Sarà del tipo indicato al punto 2.2 con valvola di sicurezza da 6 bar. CENTRALINA SOLARE Con regolazione delle temperature come indicato al punto 2.4. TUBATURE Lo schema delle tubature e le loro dimensioni sono parte del progetto idraulico esecutivo. 58 MODULO N.5 5) ELEMENTI DI MECCANICA QUANTISTICA La fisica studiata fino ad oggi1 è stata sviluppata prima dell’inizio del 1900 e viene definita “fisica classica”. L’insieme di modelli che abbiamo studiato sembrerebbe in grado di descrivere in modo completo e preciso tutti i fenomeni esistenti in natura. Nella realtà, a partire dai primi anni del XX secolo, è emersa una serie di problemi che hanno rimesso in discussione tutto l’impianto logico della fisica; questo ha portato ad una serie di nuove teorie che prendono nel loro insieme il nome di MECCANICA QUANTISTICA. Studiando il capitolo Figura 105 delle onde abbiamo verificato che la luce2 è descrivibile come un’onda e di conseguenza ne ha tutte le proprietà, compresa quella di trasmettere energia in modo continuo in tutto lo spazio che occupa. Abbiamo visto come le radiazioni che vengono assorbite od emesse da un oggetto dipendano dalla natura degli atomi che lo compongono. In generale, parlando di spettroscopia si è detto che i corpi possono emettere solo le radiazioni luminose che assorbono. Nell’esperienza in cui avete determinato la natura di un elemento con la tecnica Figura 106 spettroscopica, si è visto che un gas emette luce se stimolato dal passaggio di una corrente che lo porta ad alte temperature. Lo stesso succede ai solidi, basta osservare il filamento di una comune lampadina quando è attraversato dalla corrente. Un caso particolarmente importante per la comprensione del fenomeno di emissione delle radiazioni ad alte temperature è quello che corrisponde allo studio dell’emissione di un corpo nero. 5.1) RADIAZIONE DEL CORPO NERO. Un corpo nero è un sistema ideale che assorbe tutta la radiazione che incide su di esso; può essere approssimato da una cavità con una piccolissima apertura come illustrato in fig.105. Sperimentalmente sono stati misurati gli spettri di emissione di corpi di questo tipo a varie temperature ottenendo i grafici indicati in fig.106 chiamati “curve di 1 2 Compreso la Termodinamica che vedremo più avanti. Con il termine luce s’intende, da questo momento, qualsiasi radiazione elettromagnetica sia visibile che invisibile. 59 distribuzione spettrale” in cui in ascissa sono indicate le lunghezze d’onda mentre in ordinata la radianza spettrale P, che è la potenza di emissione riferita all’unità di area e all’unità di lunghezza d’onda. Essa è funzione sia della lunghezza d’onda che della temperatura ed è chiamata anche funzione di distribuzione spettrale. La funzione di distribuzione spettrale P(,T) può essere ricavata direttamente mediante la termodinamica classica e il suo risultato messo a confronto con le curve sperimentali indicate in fig.106 per verificarne l’attendibilità. Il risultato di questo calcolo è noto come legge di Rayleigh-Jeans e vale: P ( , T ) 2ckT [1] 4 dove k è la costante di Boltzmann determinata in termodinamica. Questa formula dà valori perfettamente in accordo con i risultati sperimentali nelle regioni delle grandi lunghezze d’onda (infrarosso) ma completamente errati per le piccole lunghezze d’onda. Quando tende a zero la radianza sperimentale tende anch’essa a zero, mentre i risultati della [1] prevedono che tenda all’infinito. Perciò, secondo il calcolo basato sulla fisica classica, un corpo nero dovrebbe emettere una grande intensità nell’ultravioletto cosa che sperimentalmente non si verifica e per questo, alla fine dell’800 quando emerse questo problema, si parlò di “catastrofe ultravioletta”. Infatti se i risultati di una teoria non corrispondono alle evidenze sperimentali se ne deduce che la teoria, almeno per quel che riguarda quella zona di valori, è errata: questo ha messo in crisi tutta la fisica classica che ha portato ai risultati appena discussi. Nel 1900 Max Planck annunciò che, effettuando una “strana” modifica nel calcolo classico, era in grado di determinare una funzione per la radianza spettrale che era in accordo con i dati sperimentali per tutte le lunghezze d’onda. Egli determinò una funzione empirica facendo l’ipotesi che l’energia non fosse emessa od assorbita continuamente dal corpo nero, ma che lo fosse in quantità discrete, o quanti di energia. Il valore di un quanto di energia doveva essere proporzionale alla frequenza della radiazione: E h [2] 60 dove h è una costante di proporzionalità, chiamata quanto di azione o, più comunemente, costante di Planck. Il valore di h risultò: h 6,626 1034 Js 4,136 1015 eVs Nella figura n. 107 la formula di Planck è rappresentata in linea continua, i circoli rappresentano i valori sperimentali mentre la curva che si ottiene con la formula di RayleighJeans appare in tratteggio. Come si vede l’equazione ottenuta con l’inserimento artificioso della costante di Planck descrive perfettamente i risultati sperimentali. [3] Figura 107 L’idea che l’energia radiante di un'onda elettromagnetica fosse prodotta o assorbita per quantità discontinue contrasta con il concetto stesso di onda nel quale per definizione l’energia viene trasportata in modo continuo. Planck considerò solo un artificio matematico la sua costante e non le dette mai un significato fisico concreto; passò il resto della sua vita a cercare di determinare il valore di h a partire dai concetti della fisica classica e non accettò mai l’ipotesi di Einstein, che definiva un tipo con delle idee stravaganti, il quale partendo dal quanto di azione di Planck introdusse il concetto di fotone e di natura anche corpuscolare della luce. 5.2) L’EFFETTO FOTOELETTRICO – I FOTONI. Sempre nello stesso periodo emerse un altro fenomeno che presentava degli aspetti non spiegabili in termini di fisica classica: se della luce colpisce una superficie metallica, in alcune situazioni, vengono emessi degli elettroni. In figura n. 108 è rappresentato un dispositivo sperimentale adatto a produrre questo fenomeno. La luce, che penetra dalla finestra trasparente di quarzo, colpisce la placca E. Le armature, E e C, costituiscono un condensatore collegato alle batterie indicate nella parte inferiore della figura; esse producono tra le armature una differenza di potenziale variabile tramite il contatto mobile del potenziometro. 61 Fig.108 Nella campana c’è il vuoto quindi tra le placche del condensatore non dovrebbe passare nessuna corrente. Invece si osserva che, se la luce è di Fig.110 un’opportuna frequenza, l’amperometro misura un’intensità di corrente, il che significa che s’instaura un passaggio di elettroni uscenti dall’armatura E ed assorbiti dall’armatura C. Se si fa in modo di portare la placca C ad un potenziale positivo di qualsiasi valore si vede che, per una data frequenza della luce, si ottiene un valore fisso di intensità di corrente come indicato in fig.110. Viceversa, se si inverte la polarità del condensatore, gli elettroni che escono da E con una data energia cinetica vengono frenati dal campo del condensatore e, per un certo valore,-Vo, si otterrà la cessazione del passaggio di corrente. Si ha quindi: L Ec eV ; dove V (-V0 ) 0 ed Ec i 0; 1 2 mevmax eV0 2 Fig.111 [4] Il potenziale -Vo è chiamato potenziale di arresto ed è una costante del materiale per una data frequenza della luce incidente. Questo fenomeno è chiamato fenomeno fotoelettrico e gli elettroni che vengono estratti in questo modo dal metallo sono definiti fotoelettroni. 62 La cosa importante da notare è che -V0, e quindi la velocità massima con cui escono gli elettroni, non dipende dall’intensità della luce incidente. Ciò è illustrato dalla fig.110 in cui nella curva a è rappresentata l’intensità della corrente che si ottiene per un valore basso di intensità della luce, cambiando l’intensità della luce si ottiene un’intensità di corrente maggiore (curva b) quando il potenziale di C è positivo ma il valore del potenziale di arresto rimane nei due casi lo stesso. In figura n.111 è indicato il grafico del potenziale empirico Vo in funzione della frequenza della luce incidente sull’emettitore E. Si vede per estrapolazione che i è una precisa frequenza di soglia o corrispondente ad un potenziale di arresto nullo. Se la luce che colpisce l’emettitore ha una frequenza minore di o non compaiono mai fotoelettroni qualunque sia l’intensità della luce stessa. Da quanto detto deriva che tre delle più importanti caratteristiche dell’effetto fotoelettrico contrastano in modo evidente con la teoria ondulatoria classica della luce: 1) La teoria ondulatoria prevede che se si aumenta l’intensità dell’onda luminosa, visto che aumenta l’energia per unità di superficie che riceve il metallo, per il principio di conservazione dell’energia, deve aumentare anche l’energia cinetica dei fotoelettroni. Viceversa la [4] e la fig.110 dimostrano, in accordo con i dati sperimentali che, qualsiasi sia l’intensità della luce, l’energia cinetica massima con cui escono i fotoelettroni rimane costante. 2) La teoria ondulatoria prevede che l’effetto fotoelettrico debba verificarsi per qualsiasi valore della frequenza di radiazione purché l’intensità della luce incidente sia sufficientemente grande. Invece in fig.111 si vede che è sperimentalmente provata l’esistenza di una frequenza di soglia al di sotto della quale, qualunque sia l’intensità della luce utilizzata, non si ottengono fotoelettroni. 3) Secondo la teoria ondulatoria, un determinato elettrone nel metallo riceverebbe energia dalla luce molto lentamente perché l’elettrone potrebbe intercettare solo una piccolissima porzione dei fronti d’onda incidenti. Per questo motivo dovrebbe trascorrere del tempo prima che l’elettrone esca dal metallo. Il tempo calcolato in base alla teoria classica risulterebbe dell’ordine di diverse ore. Sperimentalmente si vede che l’emissione degli elettroni da parte del metallo è pressoché istantanea. Queste tre incongruenze portano ad un’ulteriore crisi della fisica classica che non riesce a spiegare in modo corretto come avviene questo fenomeno. 63 5.2.1 TEORIA DEI FOTONI. Per spiegare l’effetto fotoelettrico, nel 1905, Einstein propose un nuovo modo di concepire la luce affermando che essa si può descrivere, almeno in certe circostanze, come se l’energia che trasporta fosse concentrata in quantità finite e localizzate, dette fotoni. L’energia del singolo fotone è data da: E h [5] dove è la frequenza della luce. Questa idea che un fascio di luce si comporti come un fascio di particelle è in netto contrasto con l’idea che la luce sia un’onda. Come si vede la [5] non è altro che l’ipotesi di Planck [2] ma, mentre quest’ultimo l’applicò solo agli oscillatori atomici che costituivano le pareti della cavità formante il corpo nero, Einstein invece la considera una proprietà della luce anche nella sua forma di radiazione e non solo all’atto della sua emissione. In questo caso il fotone viene a prendere un ben preciso significato fisico e non appare come un artificio matematico come nel caso studiato da Planck3. Questa ipotesi applicata al fenomeno fotoelettrico porta al seguente risultato: Se la luce si propaga per fotoni allora un elettrone verrà colpito da un solo fotone per volta e di conseguenza se la sua energia di ionizzazione (o lavoro di estrazione) vale Le si otterrà il seguente bilancio energetico: 1 2 h Le mevmax 2 [6] L’equazione [6] afferma che se l’energia del fotone è maggiore di quella di legame dell’elettrone questo, nel caso non perda energia per urti interni al materiale, dovrebbe uscire con un’energia cinetica massima pari al valore che risulta dalla formula scritta nella forma: 1 2 mevmax h Le 2 [7] Vediamo ora che l’ipotesi dei fotoni di Einstein risolve le tre obiezioni sollevate contro l’interpretazione ondulatoria del fenomeno fotoelettrico. Per quanto riguarda l’indipendenza dell’energia cinetica massima dall’intensità della luce si vede che raddoppiando quest’ultima raddoppierà4 il numero di fotoni che compongono il fascio 3 In seguito Einstein dedusse la formula di Planck sulla base del concetto di fotone. 4 L’intensità della luce vale: I E quindi se a parità di tempo e superficie di riferimento aumenta I deve aumentare St in modo direttamente proporzionale a E che per l’ipotesi di Einstein sarà E=nh quindi 2E=2nh. 64 luminoso, ma la quantità di energia che colpirà il singolo elettrone rimarrà invariata e quindi non cambierà, per la [7], anche l’energia cinetica del fotoelettrone. 1) L’esistenza di una frequenza di soglia è giustificata dalla [7] poiché il valore minimo che deve avere un fotone per staccare un fotoelettrone del metallo deve essere almeno uguale al lavoro di estrazione il che significa energia cinetica nulla quindi: h o Le [8] La quale implica che il fotoelettrone ha un’energia sufficiente per sganciarsi dal metallo ma non per muoversi. Valori di energia del fotone minori di questo non sono sufficienti ad estrarlo dal metallo e, di conseguenza, ad avviare il fenomeno fotoelettrico. 2) La spiegazione dell’assenza del ritardo nell’emissione dei fotoelettroni è implicita nella teoria fotonica perché l’energia richiesta è fornita secondo quantità finite concentrate nei singoli fotoni e non è distribuita uniformemente sull’intera sezione ortogonale del fascio, come prevede la teoria ondulatoria. Combinando le equazioni [4] e [7] si ottiene il potenziale di arresto in funzione della frequenza: eVo h Le [9] L h Vo e e e [10] la [10]5 descrive correttamente il grafico di fig.111 in completo accordo con i risultati sperimentali. Inoltre la pendenza della retta [10] rappresentata in fig.111 è il valore h/e quindi da questo grafico è possibile ricavare il valore di h sperimentalmente. Il risultato è proprio il valore [3] proposto da Plank. E’ fondamentale capire che Einstein, con questa teoria, descrive la luce come uno sciame di particelle e non come un’onda il che ovviamente contrasta con le evidenze sperimentali sui fenomeni di diffrazione ed interferenza che abbiamo discusso nel capitolo dell’ottica fisica. Se da una parte si risolve il problema dell’effetto fotoelettrico, dall’altra ne fa sorgere un altro cioè quello di un fenomeno naturale come la radiazione 5 È l’equazione di una retta di variabile indipendente , coefficiente angolare h/e e termine noto Le/e. 65 elettromagnetica, che la fisica classica ha inquadrato nella teoria ondulatoria, in alcune situazioni si comporta in un modo del tutto inammissibile per questo modello. L’importanza di questa scoperta è tale che Einstein fu insignito del premio Nobel per la fisica per la teoria dei fotoni e non per quella della relatività come tutti credono. 5.2.2 ESPERIENZA DI YOUNG E FOTONI. Nel capitolo dedicato all’ottica fisica abbiamo analizzato dettagliatamente l’esperienza di Young con due fenditure della larghezza dell’ordine della lunghezza d’onda della luce incidente. Si è visto che l’immagine che ne risultava era una figura d’interferenza in cui erano presenti bande chiare e scure equispaziate che venivano correttamente previste dalla teoria ondulatoria. Se effettivamente la luce è composta di fotoni in qualche modo questo deve apparire anche nell’esperienza di Young. Nell’analisi del fenomeno si è dato per scontato che l’intensità dell’onda incidente sulle due fenditure fosse elevata in modo tale da illuminare la zona dello schermo ottenendo la figura rappresentata nella foto 112a). Fig.112 Rifacendo l’esperimento, diminuendo progressivamente l’intensità della luce e utilizzando al posto di uno schermo una pellicola fotosensibile, si sono ottenute in successione le immagini 112b), 112c) e 112d). Come si vede l’immagine ad energia continua che si ha quando l’intensità è forte comincia a presentare delle discontinuità nella foto 112.b) che si accentuano notevolmente nella foto 112c) in cui i puntini, che rappresentano i punti d’impatto di singoli fotoni, continuano a disporsi in modo da formare le frange di interferenza previste dal modello ondulatorio. 66 Nella foto 112d) dove l’intensità è bassissima, si notano chiaramente solo pochi punti disposti in modo casuale che non rispettano minimamente la previsione delle frange d’interferenza del modello ondulatorio ma che appaiono nello stesso modo in cui si presenterebbe un bersaglio di un tiro a segno del luna-park dopo che uno studente ha cercato con un fucile di centrarlo, sicuramente non nel modo ordinato previsto dal modello ondulatorio. 5.3) QUANTITA’ DI MOTO DEI FOTONI. Essendo i fotoni, per definizione, delle particelle senza massa si potrebbe concludere che non possono avere quantità di moto ( p mv ). Sappiamo che la luce, e quindi anche i fotoni, si propaga nel vuoto a velocità costante pari a c. Un’altra importante teoria di Einstein (la teoria della relatività speciale), elaborata sempre nei primi anni del 900, impone di considerare particolari collegamenti tra massa ed energia quando gli oggetti si spostano a velocità prossime a quella della luce. Non entreremo nel merito di questo tipo di analisi dei fenomeni che è alquanto complessa, ma per i nostri fini è sufficiente accettare per valida una delle formule principali che la caratterizzano cioè: E mc 2 [11] Questa formula, da cui risulta che l’energia e la massa, a meno di una costante, sono la stessa cosa, ha avuto una serie di importanti verifiche sperimentali6 e permette di considerare la massa come una forma “condensata” di energia che, tramite opportuni procedimenti7, è possibile ricondurre nella sua forma diffusa. Si può allora combinare la [11] con la [5] ottenendo: mc 2 h [12] ne risulta che la massa equivalente8 all’energia trasportata da un fotone vale: m h c2 [13] ne segue che la quantità di moto risulta in modulo: 6 Una particolarmente evidente è stata la distruzione di Hiròshima con una esplosione atomica che è basata proprio su questa formula. 7 Ad esempio si può liberare l’energia che forma la massa di un elettrone se lo si fa urtare da un positrone (elettrone positivo), il risultato è la sparizione di ambedue le particelle atomiche e la liberazione, sotto forma di fotoni dell’equivalente energia secondo la [11]. 8 La massa che avrebbe il fotone se l’energia che trasporta si condensasse. 67 p mc h c [14] la lunghezza d’onda della radiazione associata ai fotoni di frequenza è: c [15] quindi la [14] può anche essere scritta nella forma: p h [16] Come si vede la luce, o meglio i fotoni che la compongono, sono portatori di quantità di moto. Ricordiamo che quando un fotone viene assorbito da un oggetto, cioè gli trasmette la sua energia, la sua quantità di moto si annulla visto che scompare e poiché il processo occupa un intervallo di tempo, anche se molto piccolo, si avrà: F p t [17] quindi la luce applica delle spinte agli oggetti che colpisce. I valori di tali forze applicate alle superfici irraggiate, producono una pressione che viene chiamata pressione della luce. Il suo valore è molto piccolo e ha degli effetti solo a livello di particelle atomiche o subatomiche. Una dimostrazione evidente dell’esistenza di questa pressione è data dalla disposizione della coda delle comete che orbitano attorno al sole. La coda, che è costituita di particelle atomiche derivanti dalla sublimazione del nucleo solido, risulta sempre puntata in modo da allontanarsi dal sole in direzione radiale verso l’esterno. La causa è proprio la pressione che la luce solare applica alle particelle atomiche che la compongono. Un’altra prova sperimentale della validità della [16] e della correttezza della teoria dei fotoni è data dalla diffusione (scattering) Compton. Secondo la teoria classica, quando un’onda elettromagnetica di frequenza 1 incide su un materiale contenente cariche, queste ultime oscilleranno con questa frequenza e emetteranno nuovamente onde elettromagnetiche della stessa frequenza. Compton fece rilevare che nell’ipotesi fotonica la collisione tra un fotone e un elettrone dovrebbe essere simile ad un urto tra particelle, l’elettrone assorbirebbe energia e il fotone diffuso avrebbe 68 Fig.113 meno energia e quindi frequenza minore del fotone incidente. La trattazione teorica di questo esempio, data la velocità della luce con cui si muove il fotone, deve tenere conto degli effetti relativistici del fenomeno. Il suo risultato però è chiaramente rappresentato dalla figura n.113 in cui si vede il caratteristico schema di un urto obliquo e si verifica che, essendo 2 diversa da 1, nelle quantità di moto risultanti si ha un effettivo cambiamento di frequenza del fotone diffuso (p2) rispetto a quello incidente (p1). 5.4) ONDE MATERIALI DI DE BROGLIE. Nel 1924 Louis de Broglie nella sua tesi di laurea considerò i seguenti fatti: a) la natura è spiccatamente simmetrica; b) l’universo osservabile è costituito interamente di radiazioni e di materia; c) se la radiazione ha una natura duale, ondulatoria e corpuscolare, può essere che ce l’abbia anche la materia. In altri termini propose di considerare che la materia, cioè le particelle con massa, potesse essere descritta secondo il modello ondulatorio. La radiazione, nella sua forma ondulatoria, è caratterizzata dalla sua frequenza e dalla lunghezza d’onda, mentre per quel che riguarda la sua descrizione corpuscolare è definita dalla quantità di moto e dall’energia dei fotoni. Per dare sostanza alle ipotesi di de Broglie bisognava quindi identificare queste proprietà per la materia. L’energia e la quantità di moto di una particella di massa m sono secondo la fisica classica: p mv 1 2 p2 E mv 2 2m [18] Mancavano la lunghezza d’onda e la frequenza dell’onda associata alla massa. De Broglie propose che le equazioni fossero le stesse trovate per il fotone e cioè: e E h [19] h p [20] E’ evidente che se queste formule non avessero un riscontro a livello sperimentale sarebbero prive di senso. Per aver idea dei valori di queste grandezze si può considerare il seguente esempio: 69 ESEMPIO N.38 Determinare la lunghezza d’onda di un elettrone in moto con un’energia cinetica di 100 eV. me 9,1 1031 kg; E 100eV 1,6 1017 J ; h 6,6 1034 Js Dalla seconda delle [18] si ha: p 2mE [21] che sostituita nella [20] dà: h 2mE 6,6 1034 31 2 9,1 10 17 1,6 10 1,2 1010 m [22] L’ordine di grandezza di questa lunghezza d’onda è di un diametro atomico. Per verificare l’esistenza del comportamento ondulatorio degli elettroni, si tratta di vedere se essi seguono le leggi studiate per le onde e in particolare se fanno interferenza e diffrazione. In ottica fisica abbiamo studiato che l’effetto di interferenza-diffrazione si Fig.114 verifica in modo molto marcato quando si fa passare un’onda attraverso una coppia di fenditure con l’apertura dell’ordine della lunghezza dell’onda in esame. Ora già con la luce, che aveva lunghezze d’onda dell’ordine dei m, avevamo difficoltà a procurarci fenditure di quelle dimensioni; è evidente che adesso per un 70 fascio di elettroni è necessario usare delle fenditure con distanze dell’ordine di quelle interatomiche. Si è quindi cercato di far diffrangere un fascio di elettroni sul reticolo cristallino di alcuni corpi. Dalla chimica ricordate che l’ordine di grandezza delle distanze tra i piani atomici del reticolo cristallino di un solido è proprio quello trovato con la [22]. Il risultato di uno di questi esperimenti è riportato nella fig.114 dove è messo a confronto con quanto ottenuto dalla diffrazione di un raggio elettromagnetico X della stessa lunghezza d’onda di quella ipotizzata per gli elettroni. Come si vede le figure di diffrazione sono, entro i limiti sperimentali, identiche. Ciò ha confermato il comportamento ondulatorio della materia e di conseguenza la validità delle ipotesi di de Broglie. L’equazione [20] ha preso il nome di lunghezza d’onda di de Broglie. 5.5) DUALISMO ONDA-PARTICELLA. Abbiamo visto che la luce, di solito descritta come un’onda, mostra proprietà corpuscolari quando interagisce con la materia, come nell’effetto fotoelettrico e nella diffusione Compton. Al tempo stesso gli elettroni, che di solito descriviamo come particelle, presentano proprietà ondulatorie d’interferenza e di diffrazione. Tutti i portatori di quantità di moto e di energia (elettroni, atomi, luce, suono ecc.) hanno entrambe le caratteristiche: corpuscolare e ondulatoria. Si potrebbe dire che un elettrone è al tempo stesso un’onda e una particella, ma il significato di quest’affermazione non ha senso: nella fisica classica, i concetti di onda e particella si escludono a vicenda. Una particella classica si comporta come un pallino di piombo: essa può venir localizzata e diffusa; scambia energia per impulsi e negli urti obbedisce ai principi di conservazione della quantità di moto e dell’energia. Essa non può presentare interferenza o diffrazione. Un’onda classica si comporta come un’onda sull’ondoscopio: essa presenta diffrazione e interferenza e la sua energia si propaga continuamente nello spazio e nel tempo. Per la fisica classica niente può essere al tempo stesso una particella e un’onda. Si è visto nei paragrafi precedenti che i modelli di onda e di particella non descrivono correttamente e completamente nessun fenomeno. Risulta che: Ogni cosa si propaga come un’onda classica e scambia energia come una particella classica. 71 Spesso i due modelli portano allo stesso risultato. Se la lunghezza d’onda è molto piccola, non si riesce a distinguere la propagazione di un’onda classica da quella di una particella classica. Per onde di lunghezza piccolissima, gli effetti di diffrazione non sono evidenziabili e quindi le onde viaggiano su traiettorie rettilinee come se fossero delle particelle. In modo analogo non si osserva interferenza per onde di piccolissima lunghezza d’onda, perché le frange d’interferenza sono troppo vicine per poter essere risolte. In questo caso non fa differenza quale dei due modelli usiamo. Possiamo considerare la luce come un’onda che si propaga lungo raggi oppure come un fascio di fotoni. In modo analogo si può considerare un elettrone come un’onda di de Broglie che si propaga per raggi o come una particella. Se siamo interessati solo ai valori medi degli scambi d’energia e di quantità di moto possiamo usare sia il concetto d’onda sia quello di particella. Per esempio abbiamo bisogno del modello corpuscolare della luce per spiegare l’esistenza del fenomeno fotoelettrico e la dipendenza dell’energia massima degli elettroni dalla frequenza della luce; ma se siamo interessati solo alla corrente fotoelettrica totale (sopra la soglia) la teoria ondulatoria della luce prevede correttamente che questa corrente sia direttamente proporzionale all’intensità dell’onda. In definitiva Niels Bohr ha enunciato il seguente principio di complementarità che aiuta a orientarci in questo caos concettuale: “La natura ondulatoria e quella corpuscolare, sia della materia che della radiazione, sono complementari l’uno all’altra. Non è possibile, né per la materia né per la radiazione, dimostrare che hanno natura solo ondulatoria o solo corpuscolare. Entrambi questi modelli sono necessari.” Il termine complementare ha in questo contesto un significato ben preciso: non si possono mettere in evidenza contemporaneamente sia gli aspetti corpuscolari sia ondulatori nell’osservazione di uno stesso fenomeno. Un esempio molto elementare, ma utile per capire bene questo concetto è il seguente: se due persone osservano da lati opposti una moneta da 1 euro uno vedrà la figura dell’uomo, il secondo vedrà l’Europa. Ambedue osservano la stessa cosa ma da punti di vista diversi. Se poi lanciano in aria la moneta alla fine ambedue vedranno o l’uomo o l’Europa: è impossibile osservare simultaneamente le due facce della moneta. 72 5.6) PROBLEMI DELL’ATOMO. DI STABILITA’ DEL MODELLO PLANETARIO In chimica siete abituati ad usare gli orbitali nella descrizione della struttura dell’atomo. Vi è stato detto che gli elettroni occupano probabilmente delle zone di forma particolare attorno al nucleo senza specificare le motivazioni di una simile affermazione. Vedremo in questo e nei successivi paragrafi qual è la causa per cui è corretto usare questo tipo di descrizione dell’atomo. Cominciamo con il ricercare ciò che impedisce di Fig.115 considerare valido il modello planetario dell’atomo che risulta sostituendo la forza elettrica al posto di quella gravitazionale, come rappresentato nello schema di fig.115 in cui sono indicati un protone ed un elettrone che ruota su un’orbita circolare. La fisica classica risolve il problema nei seguenti termini: Tra le cariche di segno opposto è presente una forza di attrazione coulombiana che è la causa dell’accelerazione centripeta applicata alla massa m e dell’elettrone, accelerazione che permette l’esistenza di una rotazione a velocità costante su un’orbita circolare di raggio r. Dalla dinamica: Dalla cinematica: e2 F ur K 2 r [23] a u r 2 r [24] Per la legge fondamentale della dinamica risulta: F me a [25] sostituendo le [24] e [23] nella [25] e semplificando si ottiene: K e2 me 2 r [26] 2 r 1 da cui esplicitando r risulta: Ke 2 3 [27] r 2 m e 73 ricordando che 2 dove è la frequenza di rotazione dell’elettrone, la [27] si 1 può scrivere: Ke 2 3 r 2 m ( 2 ) e [28] Questa formula porta ad un risultato che contrasta con la realtà per due motivi: a) La teoria classica dell’elettromagnetismo prevede, come ricordate, che se una carica elettrica è accelerata, come l’elettrone nel nostro caso, deve emettere con continuità onde elettromagnetiche di frequenza pari a quella di rotazione. Ne segue che, dato che un’onda trasporta energia, essa deve essere prelevata da quella meccanica dell’elettrone e di conseguenza, perdendo energia sotto forma di radiazione, l’elettrone percorre orbite a spirale con raggio locale sempre più piccolo fino a precipitare nel nucleo. b) Modificandosi il raggio con continuità deve cambiare anche la frequenza di emissione dell’onda e quindi la luce emessa dall’atomo dovrebbe risultare con spettro continuo. Nella realtà avete visto in spettroscopia che lo spettro dell’idrogeno è a righe. Per questi motivi il modello dell’atomo costruito in base alle teorie della fisica classica non è accettabile in quanto non descrive la realtà sperimentale. Come abbiamo studiato nei capitoli precedenti quando la fisica classica fallisce è probabile che entri in gioco la meccanica quantistica. Vedremo nel prossimo paragrafo che è questa la strada da seguire per arrivare ad una descrizione corretta della struttura dell’atomo. 5.7) IL MODELLO ATOMICO DI BOHR CON L’IPOTESI DI DE BROGLIE. Per risolvere le incongruenze emerse con il modello classico sopra descritto, nel 1913 Bohr propose un modello dell’atomo che prevedeva correttamente le lunghezze d’onda spettrali determinate sperimentalmente. Per ottenere questo risultato propose due postulati che modificavano le leggi dell’elettromagnetismo: - 1°Postulato (degli stati stazionari) - L’atomo d’idrogeno può esistere solo in un insieme discreto di stati stazionari ciascuno con una precisa energia totale E; egli ipotizzò che l’atomo non può emettere energia sotto forma di onde (fotoni) finché si trova in uno di questi stati - 2° postulato (delle frequenze) - Si può avere emissione di radiazione solo quando l’atomo compie 74 Fig.116 una transizione da uno stato di energia totale Ei ad un altro di energia totale minore Ej. In forma di equazione si ha: [29] h Ei E j Come si vede si tratta di due ipotesi che contrastano in modo netto con la fisica classica che prevede emissione di energia in modo continuo da parte dell’elettrone. Ipotesi di de Broglie - Queste ipotesi portano ad un primo modello dell’atomo che però non costruiremo poiché, avendo già studiato le onde materiali di de Broglie, possiamo sostituire il primo postulato9 con la considerazione che l’elettrone, nella situazione in esame, si presenta nel suo aspetto ondulatorio. Pertanto, visto che l’elettrone deve percorre un’orbita circolare chiusa, verrà a formare un’onda stazionaria10. Detto in altre parole, la lunghezza d’onda dell’elettrone deve essere contenuta un numero intero di volte nella circonferenza (fig.116), cioè: n 2 r n 1,2,3 [30] utilizzando la lunghezza d’onda di de Broglie [20] si ha: n h 2 r p [31] da cui si ricava la quantità di moto: p nh 2r [32] Riprendiamo l’analisi del modello planetario introducendo queste nuove ipotesi. 5.7.1) DETERMINAZIONE DEL RAGGIO ATOMICO. La forza elettrica con cui il nucleo attira l’elettrone vale: e2 F ur K 2 r [23] si può scrivere la [26] nella forma: v2 F me a ur me r che per la [23] diventa: Il primo postulato di Bohr non era spiegabile in modo accettabile prima della dimostrazione dell’esistenza delle onde materiali di de Broglie. 10 Rivedere come nascono le onde stazionarie sulle corde. 9 75 v2 e2 me K 2 r r r da cui [33] Ke 2 mev 2 moltiplicando sopra e sotto per me e usando p=mev, può essere scritta nella forma: r Ke 2 me p2 [34] sostituendo nella [34] la [32] si ha: r Ke 2 me nh 2r 2 4 2 Ke 2 me r 2 h2n2 da cui risulta per il raggio la formula: h2 r 2 2 n 2 4 Ke me con n=1,2,3…. [35] La [35] prevede che le “orbite” percorse dalle onde elettroniche siano quantizzate dal numero quantico n. Questo significa che per l’elettrone non sono possibili tutte le orbite come prevedeva la meccanica classica ma solamente quelle risultanti a partire da un valore minimo per r, ottenuto con n=1, che corrisponde al risultato del termine tra parentesi nella [35], tale termine dipende solo da delle costanti universali e vale: 2 h2 6,63 10 34 r1 0,53 1010 m 4 2 Ke 2 me 4 2 9,00 109 1,60 1019 2 9,11 10 31 A questo punto la [35] si può scrivere nel modo seguente: rn r1n2 [36] dove con rn si intende il raggio dell’orbita corrispondente al numero quantico n considerato. Come esempio calcoliamo i valori dei raggi corrispondenti ai numeri quantici 2 e 3. n2 r2 r1 22 2,1 1010 m n3 r3 r1 33 4,8 1010 m 76 Ciò significa che le “onde elettroniche”, stando a questi calcoli, non possono mai percorrere orbite con raggi 0,53 1010 m r 2,1 1010 m 2,1 1010 m r 4,8 1010 m ecc. Questa formula introduce nella descrizione degli atomi un primo elemento quantistico, il numero quantico n, che dipende dall’ipotesi che l’elettrone si comporti come un’onda e che di conseguenza, girando su un percorso limitato, tale onda sia anche stazionaria. Una delle proprietà delle onde stazionarie è quella di “congelare” l’energia nella zona interessata dall’onda; questo spiega perché, contrariamente alle previsioni dell’elettromagnetismo classico, l’elettrone non irraggia energia fintanto che si trova in una di queste “orbite”. Calcoliamo ora l’energia totale, o di legame11, posseduta dagli elettroni . 5.7.2) DETERMINAZIONE DELL’ENERGIA DI LEGAME. L’energia meccanica dell’elettrone in termini di fisica classica risulta: E EC EP 1 e2 mev 2 K 2 r [37] la [33], semplificando r, può essere scritta nel seguente modo: mev 2 K e2 r [38] dividendo ambo i membri per 2 si ottiene una formula per l’energia cinetica che ha al suo interno solo valori relativi alla struttura elettrica dell’atomo: 2 1 Ke mev 2 2 2r [39] Sostituendo la [39] nella [37] si ottiene: 11 Fig.117 Ricordiamo che l’energia di ionizzazione è il valore dell’energia di legame cambiato di segno. 77 Fig.118 Ke 2 Ke 2 Ke 2 E 2r r 2r [40] Quindi l’energia di legame è negativa 12. Sostituendo il generico raggio con i valori permessi dalla quantizzazione [36] si trovano i valori dell’energia di legame corrispondenti ad ogni numero quantico n. E Ke2 2r1n 2 [41] Questo dimostra che anche l’energia di legame è quantizzata da n. Vista l’importanza dell’energia, di solito, il numero quantico n è chiamato numero quantico energetico o principale. Anche in questo caso si vede che il valore dell’energia corrispondente all’ orbita più interna n=1, dipende solamente dalle costanti universali e risulta per l’atomo d’idrogeno: Ke 2 9,00 109 1,60 1019 E1 2r1 2 0,53 1010 2 2,17 1018 J 13,6eV Per questo motivo la [41] viene di solito scritta nella forma: En E1 1 n2 [42] Con significato analogo alla [36]. L’equazione [42] è rappresentata in fig.117 dove sono indicati i collegamenti tra i valori dei raggi riportati in ascissa e i corrispondenti valori di energia rappresentati in ordinata. Nella fig. 118 è rappresentato lo stesso grafico come si usa in chimica. Le energie corrispondenti ai numeri quantici 2 e 3 risultano: n2 n3 1 3,4eV 22 1 E3 E1 2 1,5eV 3 E2 E1 come si nota, a mano a mano che il numero quantico cresce il valore dell’energia aumenta. Questo significa che se si vuole togliere l’elettrone da una di queste orbite si deve fornire energia dall’esterno (positiva) con un valore, in modulo, almeno pari a quello appena trovato. Questo valore è chiamato energia di ionizzazione. 12 78 Siamo ora in grado di dare una spiegazione all’esistenza dello spettro a righe trovato per l’idrogeno in spettroscopia. 5.7.3) SPETTRO A RIGHE. Una delle ipotesi di Bohr prevedeva che il legame esistente tra l’energia irradiata tramite fotoni e quella propria dell’elettrone fosse dato dalla: h Ei E j [29] Questa equazione ora può essere spiegata in questi termini: quando per cause esterne un elettrone riceve energia tale da poter saltare da un’orbita interna ad un’altra più esterna, tra quelle permesse, esso passa da un valore basso di energia EJ, che possedeva al livello corrispondente al numero quantico n=j, al livello più alto di energia Ei, che corrisponde al livello energetico con n=i , con i>j. L’elettrone non potendo rimanere in questo stato eccitato13 deve ritornare al livello energetico più basso e di conseguenza liberarsi dell’energia in eccesso emettendo un fotone come previsto dalla [29] che, esplicitata rispetto alla frequenza, risulta: Per la [42] la [43] diventa: Ei E j E1 h [43] 1 1 E1 2 2 i j h Ricordando che E1 è un numero negativo, si può riformulare l’equazione precedente nel seguente modo: E1 1 1 h j 2 i 2 [44] Confrontando la [44] con l’equazione trovata sperimentalmente in spettroscopia da Balmer che è: c 1 1 R 2 2 m 2 1 [45] si vede che basta riscrivere la [44] nella forma: Per capire il perché si può fare la seguente analogia: quando si lancia un sasso verso l’alto questo acquista energia potenziale gravitazionale ma poi la deve restituire ricadendo verso il livello più basso di energia potenziale che può raggiungere. La stessa cosa deve fare l’elettrone visto che il campo elettrico in cui si trova è del tutto analogo a quello gravitazionale. 13 79 c 1 E1 1 1 ch j 2 i 2 [46]14 La [44] coincide con la [46] se si considera come numero quantico più basso j=2 e come livello corrispondente a m il numero quantico i. Inoltre la costante trovata sperimentalmente da Rydberg, che vale R= 1,10 107 1 m , dovrebbe risultare dal seguente calcolo: R E1 ch [47] sostituendo i valori si ha: 13,6 1,60 1019 R 1,10 107 1 m 34 8 6,63 10 2,997 10 in perfetto accordo con i risultati sperimentali. Si può verificare che le altre serie di righe spettroscopiche nell’U.V. (serie di Lyman) e nell’I.R. (serie di Paschen) sono casi particolari della [46], nel primo caso con j=1 e nel secondo con j=3. (vedi fig.119) 5.7.4) MOMENTO DELLA QUANTITA’ DI MOTO. Un altro parametro importante per la fisica atomica è il momento della quantità di moto dell’elettrone definito dalla: L r xp Fig.119 [48] i vettori r e p formano un angolo di 90°, quindi il modulo del momento della quantità di moto risulta: L pr [49] per la [32] la quantità di moto si può scrivere: c 1 viene chiamata numero d’onda che però non va confuso con K 2 che è l’effettivo numero d’onda per le equazioni da noi studiate. In generale il numero d’onda viene 14 Nei testi di spettrometria la quantità espresso in unità 1 cm per ragioni di comodità e tradizione. 80 p nh 2r che sostituita nella [49] dà: L h n 2 [50]15 Dato che il vettore L è il risultato di un prodotto vettoriale esso ha una direzione ortogonale al piano contenente i due vettori che lo generano, cioè al piano che contiene l’orbita dell’elettrone. Ricordiamo che un vettore ortogonale ad un piano può essere utilizzato per definire l’orientazione del piano stesso nello spazio16 quindi conoscere il momento della quantità di moto significa conoscere la giacitura dell’orbita dell’elettrone rispetto ad un sistema di riferimento associato al nucleo. Il fatto che anche L sia quantizzato17 significa che le possibili giaciture per le orbite elettroniche sono a loro volta limitate ad un numero discreto di possibilità dipendenti dal valore di n. 5.8) PRINCIPIO DI INDETERMINAZIONE DI HEISENBERG. Pur ottenendo dei valori riscontrabili sperimentalmente per quanto concerne lo spettro di energia dell’idrogeno e spiegando in modo sufficientemente chiaro la mancanza di emissione di energia da parte degli elettroni visti come onde stazionarie, il modello dell’atomo di Bohr – de Broglie si è dimostrato non valido per atomi più complessi di quello dell’idrogeno. La causa di questo insuccesso risiede nel fatto che, pur utilizzando aspetti quantistici, il modello di Bohr continua ad operare anche con i concetti della fisica classica descrivendo il moto degli elettroni, sia pure come onde, in base a traiettorie precise in funzione del tempo. In altri termini pretende di descrivere il moto degli elettroni come se fosse possibile misurare, istante per istante, l’esatta posizione e velocità 18 dell’elettrone rispetto ad un sistema di riferimento associato al nucleo dell’atomo. h viene chiamata costante di Dirac. 2 16 Ricordarsi del versore u n che definisce la posizione della superficie attraverso la quale si determina il flusso di un 15 La quantità campo vettoriale. 17 Nel modello originale di Bohr l’equazione [50] era la diretta conseguenza del primo postulato che noi abbiamo sostituito con quello di de Broglie. 18 Il ché equivale a dire quantità di moto visto che p=mv. 81 Questa procedura, che è alla base della meccanica Newtoniana, è certamente possibile con corpi macroscopici dove l’operazione di misura non interferisce in modo significativo con l’evolversi del fenomeno studiato; nel caso di corpi microscopici, però, il concetto di osservazione e di misura va riconsiderato. Per misurare la posizione di un elettrone occorre “vederlo” quindi illuminarlo con un raggio di luce che si può ridurre, come intensità, fino al minimo costituito da un fotone. Abbiamo visto nel paragrafo 5.3) che il fotone, essendo dotato di quantità di moto, quando “urta” un elettrone dà luogo all’effetto Compton o, in altri termini, devia dalla sua “traiettoria” e cambia la quantità di moto dell’oggetto di cui volevamo studiare il moto. Questo significa che pur avendo determinato la posizione dell’oggetto in quell’istante non siamo in grado di dire assolutamente niente né della strada che avrebbe seguito se non avessimo fatto la misura né della velocità e direzione con cui si muove dopo l’osservazione. Questo significa che operare misure a livello microscopico porta inevitabilmente a produrre delle incertezze sulla valutazione delle grandezze che si vogliono identificare. Se ne deduce che è impossibile conoscere esattamente simultaneamente posizione e velocità di un oggetto microscopico, ne segue che tutta l’impostazione della meccanica classica, che prevede di definire univocamente questi parametri istante per istante, non è applicabile a livello atomico. La conseguenza è che il modello di Bohr che determina traiettorie circolari di un preciso raggio e valore energetico non può essere esatto. Uno dei postulati fondamentali che ha portato alla costruzione della meccanica ondulatoria (o meccanica quantistica) mette in evidenza proprio quanto appena discusso, infatti IL PRINCIPIO DI INDETERMINAZIONE DI HEISENBERG afferma quanto segue : Siano p e x le indeterminazioni (le incertezze) della quantità di moto e della posizione della particella in esame. Tra esse sussiste la seguente relazione: px h 2 [51] Questo principio è stato verificato sperimentalmente e costituisce il fondamento di tutta la fisica moderna. 82 Vediamo come questo principio influisce sul modello di Bohr, ad esempio nella determinazione della prima orbita (n=1). Nel capitolo precedente abbiamo ricavato: r1 0,53 1010 m E1 13,6eV Applichiamo il principio di indeterminazione di Heisenberg a questi due valori: E1 dipende da p e quindi fornisce uno dei due elementi presenti nella [51], infatti dalla [40] si ha: Fig.120 E Ke 2 1 p2 mev 2 2r 2 2me [52] Sperimentalmente si è riscontrato che E1 è un valore corrispondente a quello delle previsioni teoriche, quindi determinabile con una incertezza su p tale che: p p [53] Altrimenti E non sarebbe accettabile, per questo motivo dalla [50] si ottiene: r p p [54] ricaviamo ora p dalla [52]: p 2me E1 [55] che sostituita nella [54] ed eseguendo i calcoli dà: r 0,53 1010 m 2me E1 cioè l’incertezza sulla posizione dell’orbita (fig.120) è dell’ordine di grandezza del raggio! 83 Questo semplice calcolo demolisce la credibilità del modello di Bohr anche se, per i risultati ottenuti, rimane un utile strumento per la descrizione dell’atomo di idrogeno e dei sistemi idrogenoidi19. 5.9) CENNI DI MECCANICA ONDULATORIA. Con questo capitolo entriamo, molto superficialmente, nella vera teoria quantistica abbandonando tutti gli argomenti classici che fino a questo momento abbiamo utilizzato per descrivere la struttura dell’atomo. Per cominciare dobbiamo capire, in modo più approfondito, che cosa significa la frase “un elettrone si può descrivere come un’onda di de Broglie”. 5.9.1) LA FUNZIONE D’ONDA. Nel capitolo 5.4) abbiamo visto che si può considerare un fascio di elettroni come un’onda, perché se ne può misurare la lunghezza d’onda. Non abbiamo però ancora specificato qual è la grandezza fisica dell’elettrone la cui variazione nello spazio e nel tempo costituisce l’onda. Abbiamo già risolto questo problema per altri tipi di onde. In ogni caso l’onda è descritta da un campo variabile nel tempo. Per le onde su una corda tesa la grandezza fisica è costituita dal campo dei possibili spostamenti trasversali y che ha un’equazione del tipo: y A senk x vt [56] per le onde sonore si tratta delle fluttuazioni di un campo di pressioni p: p A senk r vt [57] per le onde elettromagnetiche è il campo elettrico E: E A senk r ct [58] dove in ogni caso l’ampiezza, A, rappresenta il valore massimo della grandezza variabile. Per le onde materiali indichiamo l’onda con un campo 20, detto funzione d’onda. Per descrivere un problema che riguarda la materia – per esempio il moto dell’elettrone nell’atomo d’idrogeno – occorre procurarsi il valore di per quel problema, sia in funzione del tempo che dello spazio. Per tener presente questo fatto si può scrivere r , t , dove r rappresenta il vettore posizione che identifica qualsiasi 19 20 Per sistemi idrogenoidi s’intendono atomi ionizzati che abbiano perso tutti gli elettroni tranne uno. Leggi Psi. 84 punto nello spazio rispetto al sistema di riferimento considerato e t l’istante in cui si considera l’onda. La funzione r , t , che rappresenta la natura ondulatoria della materia, è legata alla natura corpuscolare della materia nello stesso modo in cui si devono pensare legate la natura ondulatoria della luce con la sua natura corpuscolare costituita dai fotoni. Sappiamo che la densità di energia in un’onda vale: D bA2 [59] cioè <D> risulta proporzionale al quadrato dell’ampiezza massima del campo in esame. Per un’onda elettromagnetica questo significa che A2 deve essere proporzionale al numero di fotoni racchiusi in una determinata regione di spazio21. Se si ha a che fare con un’onda di bassissima intensità, che contiene l’energia ad esempio di un solo fotone, A2 deve essere interpretato come la probabilità per unità di volume che il fotone sia presente. Il campo r , t in meccanica ondulatoria è analogo a E per le onde elettromagnetiche, soltanto che il suo valore non può essere determinato sperimentalmente. Però la sua ampiezza al quadrato, che indicheremo con 2 (sempre psi ma minuscolo) può essere misurata sperimentalmente ed ha la seguente interpretazione fisica: Quando sono presenti molte particelle 2 rappresenta in ciascun punto la densità delle particelle in quel punto. Quando c’è una sola particella – come il singolo elettrone nel problema dell’atomo - 2 rappresenta in ciascun punto la probabilità per unità di volume che la particella si trovi in quel punto. Nel 1926 Schrodinger sviluppò una teoria, a partire dalle onde di de Broglie, che regola la variazione nel tempo e nello spazio della funzione , presentando 21 La regione corrispondente al volume considerato nel calcolo della densità di energia che, come definizione, vale: E E (ricordarsi che in questo caso E significa energia e non campo elettrico) V 85 un’equazione fondamentale ora nota come equazione di Schrodinger22, che determina per molti problemi la funzione . Con questo tipo di equazioni è possibile descrivere completamente qualsiasi atomo senza incontrare le incongruenze viste con i modelli semiclassici precedentemente proposti. D’altra parte la fisica classica funziona benissimo per descrivere i moti di oggetti, come virus, pallottole, pianeti, con dimensioni maggiori di quelle di atomi o molecole semplici. 5.9.2) L’ELETTRONE IN SCATOLA Fig.121 Troveremo la soluzione dell’equazione di Schrodinger in un modo indiretto utilizzando la discussione di un problema unidimensionale, quello dei possibili moti di una particella di massa m – per esempio un elettrone – costretto a muoversi avanti e indietro tra due pareti di distanza L, come in fig.121b). Il formalismo della meccanica ondulatoria asserisce che ogni possibile informazione riguardante questo moto è contenuta nella funzione d’onda . La soluzione del problema consiste nel trovare e interpretare una funzione d’onda che sia coerente con l’equazione di Schrodinger e con le condizioni imposte dalle pareti rigide. La funzione cercata deve essere simile a quella che descrive la fisica classica per la corda tesa tra due pareti indicata in fig.121a). Studiandole onde meccaniche abbiamo ottenuto che i vincoli agli estremi di una corda in vibrazione determinano la formazione di onde stazionarie con nodi quantizzati dalla formula: 2L n n 1,2,3 [60] Se la corda non fosse fissata, ma illimitatamente lunga, vi si potrebbero propagare onde di qualsiasi lunghezza d’onda. La quantizzazione deriva dall’aver costretto l’onda entro la lunghezza L, tra i due punti tenuti fissi. Per la corda abbiamo trovato come equazione d’onda stazionaria la formula: yx, t 2 A senk x L senkL t [61] da cui si vede che tutti i punti della corda oscillano di moto armonico semplice con un’ampiezza variabile definita dalla prima parte della formula che dipende solo da x: 22 Per pura curiosità vi riporto l’equazione di Schrodinger : i 2 2 V r t 2m r 2 si tratta di un’equazione differenziale alle derivate parziali. Per avere un’idea di cosa significa si può fare un’analogia con le equazioni di secondo grado che conoscete dove il sistema di risoluzione vi permette di determinare i valori della x che soddisfano la condizione Y =0. In questo caso, anziché essere dei singoli valori, le incognite sono delle funzioni matematiche. Esistono delle tecniche matematiche complesse, che permettono di risolvere questi problemi. 86 yx 2 A senk x L [62] La [62] rappresenta “l’ampiezza delle ampiezze” ed è un valore che indica la massima ampiezza d’oscillazione che si può avere nei vari punti della corda. Inserendo la [60]nella [62] si ottiene: n 2 y x 2 A sen x L 2 A sen x n L [63] La figura n.122 illustra i grafici dei primi tre e del quindicesimo modo di vibrare della corda tesa. Passiamo ora alla figura 121b), all’esempio della particella costretta a muoversi tra due pareti rigide. In questo caso la probabilità che la particella possa penetrare oltre le pareti è zero. Quindi la funzione d’onda cercata deve dare un nodo (uno zero) in corrispondenza a ciascuna parete come studiato per la corda. Dunque per analogia con la [63] si può scrivere: n x n L ( x) 2 A sen [64] Fig.122 Ciò permette di affermare che la fig.122 rappresenta anche l’andamento delle ampiezze x della funzione d’onda dell’elettrone. La quantizzazione della lunghezza d’onda porta automaticamente, per la corda tesa, a quella della frequenza: v n v 2L n=1,2,3…. [65] Per la particella costretta a muoversi tra le pareti rigide, la quantizzazione della lunghezza d’onda porta a quella della sua energia cinetica 23: ECn 1 2 p2 h2 [65] mv 2 2m 2m2 dove si è usata per p l’equazione [20] di de Broglie. Inserendo nella [65] la condizione di quantizzazione [60] si ha: ECn h2 h2 2 2 n n EC1n 2 2 2 8mL 2m 2 L [66] Ricorda che nel paragrafo precedente abbiamo visto che il quadrato dell’ampiezza è proporzionale alla densità di energia. 23 87 Ne segue che la particella non può avere una velocità qualsiasi come previsto dalla fisica classica. Si nota in particolare che il valore E C=0 non è permesso, ciò significa che l’elettrone non può stare fermo tra le due pareti. Per avere un’idea della differenza di comportamento tra oggetti microscopici e macroscopici visti secondo la meccanica ondulatoria consideriamo i seguenti esempi: ESEMPIO N.39 Si consideri un elettrone costretto da forze elettriche a muoversi tra due pareti rigide distanti 1,0 nm, che è dell’ordine di cinque diametri atomici. Si determini l’energia minima di oscillazione. (me=9,1 10-31kg) E1 6,6 10 34 2 31 18 8 9,1 10 1,0 10 6,0 10 20 J 0,38eV che per un elettrone corrisponde ad una grande velocità (v=3,6 10 5 m/s) ESEMPIO N.40 Si consideri un granello di polvere di massa m= 1 g, costretto a muoversi tra due pareti rigide distanti 0,1 mm. La sua velocità è di 1.10-6 m/s, per cui occorrono 100 s perché passi da una parete all’altra. Quale numero quantico descrive questo moto? L’energia cinetica risulta: En 1 2 1 mv 1 1091 10 6 5 10 22 J 2 2 Risolvendo la [66] rispetto ad n si ha: n 8mEn L 1 104 8 10 95 10 22 3 1014 34 h 6,6 10 Neppure in queste condizioni, quasi microscopiche, si può notare la natura quantizzata del moto; sperimentalmente non si può distinguere tra n=3.1014 e n=3.1014+1. La fisica classica, che per il problema dell’esempio 1 è del tutto inadeguata, funziona perfettamente bene in questo caso in cui si approssima il moto ad una variazione continua. Se ne deduce (ovviamente non solo da questi due esempi) che quando i numeri quantici per i fenomeni macroscopici diventano molto grandi, i fenomeni di quantizzazione sono sperimentalmente inosservabili e la fisica quantistica si riduce all’usuale fisica classica. 88 Questi esempi infatti illustrano un altro dei fondamentali principi della meccanica ondulatoria enunciato da Bohr, chiamato principio di corrispondenza, il quale afferma: Nelle regioni dei numeri quantici molto grandi il calcolo classico e quello quantistico devono portare agli stessi risultati. Fig.123 5.9.3) IL SIGNIFICATO L’ORBITALE. FISICO DELLA FUNZIONE D’ONDA: Torniamo alla relazione tra una funzione d’onda e la sua interpretazione in termini di possibili risultati sperimentali. Nel paragrafo 5.9.1) abbiamo visto che il valore del quadrato della sua ampiezza 2 si può interpretare in ciascun punto come la probabilità che la particella si trovi in quel punto. Più precisamente, se si considera un elemento di volume V attorno a quel punto, la probabilità che la particella si trovi in quell’elemento di volume è misurata da 2 V . Questa interpretazione della funzione d’onda fornisce il collegamento statistico tra la funzione d’onda e la particella ad essa associata. Non possiamo stabilire dov’è la particella ma solo dov’è probabile che essa si trovi. Il caso dell’elettrone vincolato a muoversi tra due pareti rigide è unidimensionale, per cui l’elemento di “volume” V si riduce ad un tratto x della lunghezza L. La probabilità che la particella si trovi tra due piani alle distanze x e x+x da una parete è per la [63]: 2 n x x 2 A sen x n x L 2 n [67] La fig.123 rappresenta la n2 x , che ha il significato di probabilità per unità di lunghezza, per i tre modi di muoversi corrispondenti a n=1,2 e 3 e per il quindicesimo modo. Si noti che per n=1 è molto probabile che la particella si trovi più vicino al centro che non alle pareti. Questa previsione è in netta contraddizione con quanto sostiene la fisica classica, per la quale la particella ha la stessa probabilità di essere localizzata in qualsiasi posizione tra le pareti, come illustrato dalle linee orizzontali indicate in fig.123. 89 Sempre dalla fig.123 si vede che le previsioni della meccanica ondulatoria, al crescere di n, si avvicinano a quelle della meccanica classica (le linee orizzontali), proprio come previsto dal principio di corrispondenza. Può apparire molto strano che, per qualsiasi valore di n, vi siano dei valori di x per i quali la probabilità di trovarvi la particella è nulla, questo è un fatto che sembra non aver senso classicamente. Abbiamo però visto che, a causa del principio di indeterminazione di Heisenberg, vi è un limite alla precisione con cui si può misurare la posizione di una particella. Quando lo si applica a questo problema esso implica che le oscillazioni di n2 x in fig.123 non possono essere osservate sperimentalmente. E’ soltanto il valore medio locale di n2 (il quale coincide con la previsione classica per grandi numeri quantici) che ha un significato fisico. Consideriamo ora il moto di un elettrone in un atomo d’idrogeno. Esamineremo solo il moto dell’elettrone nel suo stato fondamentale, definito ponendo n=1 nell’equazione [42] del modello di Bohr. La soluzione24 dell’equazione di Schrodinger per lo stato fondamentale risulta: 1 r e r r1 [68] r13 dove r1 è il risultato della [35] per n=1, r1 nel modello di Bohr rappresentava il raggio della prima orbita possibile. Questa interpretazione non ha significato in meccanica ondulatoria dato che la nozione di orbita non esiste in quanto tale; r1 è chiamato raggio di Bohr e rappresenta solo una conveniente unità di misura di riferimento quando si tratta di problemi atomici. La probabilità per unità di volume che l’elettrone si trovi nell’elemento V, alla distanza radiale r dal centro si ottiene dalla: 12 r e 2r r1 r13 [69] che è illustrata in fig.124a); quanto più densa è la distribuzione dei puntini25 in ciascuna zona della figura, tanto più è probabile che l’elettrone si trovi in quel piccolo volume V. Nella meccanica ondulatoria questa “nube di probabilità”, detta orbitale, ha sostituito l’idea di orbita nel modo di visualizzare il moto dell’elettrone nello stato fondamentale dell’atomo d’idrogeno. 24 Fig.124 In questo caso non è possibile ricavarla senza ricorrere al calcolo differenziale. N.B. non è che i puntini abbiano un significato reale di presenza dell’elettrone servono solo a far vedere qual è l’addensamento di probabilità; in un modo del tutto equivalente si potrebbero disegnare delle zone con colori tanto più marcati quanto maggiore è la probabilità di presenza dell’elettrone. 25 90 Un altro metodo di rappresentare la distribuzione dell’elettrone è quello di determinare la funzione densità di probabilità radiale P(r). Questa è definita in modo che Pr r rappresenta la probabilità che l’elettrone si trovi nell’intercapedine tra due superfici sferiche di raggi r e r+r. Il volume V in questo caso è: V 4r 2r [70] Ora la probabilità si può scrivere in due modi: a) come 12 r V , con il V dato dalla [70] b) come P(r)r. Queste due espressioni devono essere uguali, quindi: P' Pr r 12 V 4r 2 12 r [71] semplificando r e sostituendo la [69] nella [71] si ha: Pr 2 4r e r13 2 r r1 [72] L’andamento di P(r) è rappresentato in fig.124b). Si osserva che la distanza radiale più probabile per l’elettrone corrisponde al raggio di Bohr. Vediamo di chiarire con un esempio il significato di quanto appena esposto. ESEMPIO N.41 Quanto vale la probabilità P’ che l’elettrone nello stato fondamentale dell’atomo d’idrogeno si trovi ad una distanza radiale compresa tra 10,00 nm e 10,20 nm? Questi due raggi sono sufficientemente vicini tra loro da poter considerare costante P(r) in questo intervallo: r= 0,20 nm. Applicando la [72] nella [71] si ha: P' P(r )r 4r e r13 4 10,00 e 5,33 2 2 2 r r1 210, 00 5, 3 r 0,20 0,012 1,2% Quindi l’elettrone si trova tra questi due limiti radiali per l’1,2% del tempo considerato. 5.10) MODELLO COMPLETO DELL’ATOMO D’IDROGENO. Nel capitolo precedente abbiamo studiato l’equazione che descrive la “forma” del primo orbitale per l’atomo d’idrogeno. Troveremo ora la funzione d’onda anche per il numero quantico n=2. Il fatto che s’impieghi tanto tempo ad analizzare la struttura dell’atomo d’idrogeno è spiegabile dall’importanza che riveste tale modello per tutta la fisica atomica e la chimica. Infatti mentre il modello di Bohr descrive adeguatamente solo l’atomo d’idrogeno ma fallisce poi quando lo si applica ad atomi più complessi, il modello derivante dalla meccanica ondulatoria è applicabile 91 indistintamente a tutti gli atomi ed è alla base della costruzione della tabella periodica degli elementi e della teoria dei legami chimici molecolari. 5.10.1) I NUMERI QUANTICI . Sappiamo che l’energia potenziale di un elettrone in rotazione attorno al nucleo dell’atomo d’idrogeno vale: e2 Ep K r [73] Sebbene l’atomo sia una struttura tridimensionale, la sua energia potenziale dipende da una sola variabile, la distanza radiale r dell’elettrone dal nucleo. La meccanica ondulatoria deduce la funzione d’onda che descrive i vari stati stazionari in cui l’atomo si può trovare proprio a partire dalla [73]. E’ al di là delle vostre attuali conoscenze matematiche il procedimento che porta all’identificazione delle equazioni corrispondenti agli stati permessi e delle loro funzioni d’onda. Basta sapere che tramite questo procedimento si ottengono le energie E n corrispondenti a questi stati. Esse valgono: En Ke 2 1 1 2 13,6 2 [eV] 2r1 n n n 1,2,3... [74] Come si vede queste energie sono le stesse ricavate con la [42] nel modello di Bohr, il che spiega i successi da esso ottenuti; questo però è l’unico risultato che rimane valido perché, oltre al numero quantico n, le soluzioni dell’equazione di Schrodinger determinano altri due numeri quantici che sono associati a proprietà fisico-chimiche dell’atomo che nel modello di Bohr non esistevano. Nel problema unidimensionale dell’elettrone costretto a muoversi tra due pareti, rigide, vi era effettivamente un solo numero quantico. Il moto dell’elettrone nell’atomo però avviene in tre dimensioni e quindi vi sono tre numeri quantici per ogni stato stazionario; in questo problema ciò corrisponde alla presenza dei tre gradi di libertà (x,y,z) indipendenti accessibili per l’elettrone. Oltre al numero quantico principale n vi sono anche il numero quantico orbitale e il numero quantico magnetico orbitale m. Dall’equazione [74] si vede che solo n individua le energie degli stati permessi all’atomo d’idrogeno. Il significato di ed m verrà illustrato nel prossimo paragrafo. Per ora vediamo quali correlazioni emergono tra questi numeri dalla soluzione dell’equazione d’onda: - Numero quantico principale n: parte da 1 e non ha limite superiore. - Numero quantico orbitale : per ogni valore di n i valori permessi per sono tutti gli interi positivi a partire da 0 fino a (n-1) quindi in totale sono n. - Numero quantico magnetico orbitale m: per ogni i valori permessi per m sono tutti gli interi compresi tra – e + (quindi un totale di 2 +1). 92 Per motivi storici i vari numeri quantici , che vedremo essere associati alla forma geometrica degli orbitali, di solito sono indicati con delle lettere: 0 simbolo s 1 p 2 d 3 f 4 g 5 h Ecc. …. Nella tabella successiva sono indicati gli stati permessi per l’atomo d’idrogeno fino ad n= 3. 5.10.2) LE FUNZIONI D’ONDA DELL’ATOMO D’IDROGENO. Per lo stato corrispondente ad n=1 si ha =0 m=0, cioè uno stato 1s. Nel paragrafo 5.9.3) abbiamo già visto che l’equazione d’onda vale: 1 r e r r1 r13 [68] La notazione 1 va ora completata con gli altri numeri quantici che contraddistinguono questo stato diventando: 100 . Le equazioni [69] e [72] definiscono rispettivamente la densità di probabilità 2 e la densità di probabilità radiale Pr . Gli stati26 n=2. Le funzioni d’onda corrispondenti a n=2 sono quattro cioè: Orbitali 2s 2p 26 Funzioni d’onda 200 21, 1, 210 , 211 Il termine stati è sostituito molto spesso da orbitale. 93 Tutti questi stati corrispondono ad un’energia data dalla [74] con n=2 e pari a: E2 13,6 1 3,40eV 22 - Orbitale 2s - La fig.125a) illustra il comportamento della densità di probabilità 2 r per l’orbitale 2s. Si nota che esso ha simmetria sferica come l’1s. L’analisi 200 matematica completa dimostra che tutti gli orbitali s hanno questa proprietà di simmetria sferica. Fig.125 Sempre in fig.125b) è illustrata la corrispondente funzione densità di probabilità radiale, che risulta in questo caso: 2 r r 2 r P200 r 3 2 e r1 r1 8r1 [75] Osservando questa equazione si nota che essa è nulla per r = 2r1. - Orbitali 2p – Le tre funzioni d’onda 2p non hanno simmetria sferica; lo illustra chiaramente la fig.126a) in cui sono rappresentate le funzioni densità di probabilità per questi orbitali. Si vede che 2 , in questo caso, non dipende soltanto da r, ma anche dalla variabile angolare mostrata in figura. 94 Tutte e tre le distribuzioni hanno simmetria cilindrica rispetto all’asse z. Si nota Fig.126 inoltre che le rappresentazioni di 2 con m =-1 e con m=1 sono identiche anche se le corrispondenti funzioni d’onda sono diverse. Anche se 212 , 1 r , , 212 ,0 r , , 212 ,1 r , in fig.126a) non hanno simmetria sferica, tuttavia quando si considera la loro somma, si ottiene una grandezza che è sfericamente simmetrica; tutti i termini contenenti la variabile nella somma si annullano e rimangono solo quelli dipendenti dalla variabile r. Pertanto la funzione densità di probabilità radiale dipende solo da r e vale: r r 4 r1 e P2 P r 4 24 r 1 [76] che è rappresentata in fig.126b). Per gli altri numeri quantici le formule si complicano notevolmente e si ottengono le varie forme degli orbitali che avete visto nei testi di chimica. Quello che è importante capire però è il significato fisico che assumono queste forme cioè che rappresentano, in ogni caso, una distribuzione di probabilità relativa alla presenza dell’elettrone in quel volume e non un’orbita e tantomeno una “spalmatura” dell’elettrone in una zona come a volte viene detto. 5.10.3) MOMENTO DELLA QUANTITA’ ANGOLARE). DI MOTO (MOMENTO Nella teoria di Bohr dell’atomo d’idrogeno abbiamo trovato che è quantizzato anche il momento della quantità di moto dell’elettrone (par.5.7.4). Questo fatto portava a dire che la giacitura delle orbite era limitata ad un numero discreto di angoli d’inclinazione nello spazio, infatti L risultava: L n 95 [50] Dalla meccanica ondulatoria si deduce che il modulo del momento angolare orbitale L, associato agli stati dell’atomo d’idrogeno, ha valori: L 1 [77] dove è il numero quantico orbitale, del cui nome si capisce ora l’origine. Proprio come il numero quantico n identifica l’energia dell’atomo, così il numero quantico orbitale identifica il modulo del suo momento angolare, che si collega strettamente con la forma della distribuzione di probabilità dell’orbitale considerato. Risulta evidente come la formula [50] prevista da Bohr sia errata. Il numero quantico magnetico m è legato, nelle formule derivanti dalla soluzione delle equazioni di Schrodinger, alla componente del momento della quantità di moto in una certa direzione. Nello spazio Fig.127 tutte le direzioni sono equivalenti, ma si può individuare una direzione particolare mettendo l’atomo in un campo magnetico esterno. Se si associa l’asse z con la direzione del campo magnetico, la componente z del momento della quantità di moto è data dalla formula: Lz m [78] Come si vede dalla fig.127 le possibili orientazioni dei vari orbitali sono strettamente legate al valore di m tramite la [78] che impone al vettore L di assumere solo alcune delle possibili inclinazioni nello spazio. Per questo motivo si è soliti dire che il numero quantico magnetico m definisce l’orientamento degli orbitali nello spazio (ad esempio orbitale 2px, 2py ecc.). 5.10.4) IL NUMERO QUANTICO DI SPIN. Nonostante il perfetto accordo tra i risultati della meccanica ondulatoria e le evidenze sperimentali in quasi tutti i fenomeni analizzati rimane a questo punto da spiegare un’ultima anomalia che si presenta ancora in spettroscopia. Se si utilizzano strumenti ad altissima risoluzione si può vedere che le righe spettrali dell’atomo d’idrogeno non sono singole, come avevamo precedentemente visto, ma sono costituite da un certo numero di componenti molto vicine, definite come la struttura fine dello spettro. 96 Per venire a capo di questa anomalia è stato necessario introdurre un quarto numero quantico magnetico di spin che è indicato con ms. I valori che può assumere sono solo + ½ e – ½ . Per capire a cosa faccia riferimento questo nuovo elemento quantistico Uhlembeck e Goudsmit hanno postulato che l’elettrone, oltre al moto attorno al nucleo, compia anche rotazioni su se stesso e di conseguenza abbia anche un momento della quantità di moto rispetto al suo centro. Da questa ipotesi risulta che il valore della componente di tale momento rispetto alla direzione z è : S z ms [79]27 e può assumere solo due valori. L’equazione d’onda per un elettrone risulta ora completamente definita quando sono noti tutti e quattro i suoi numeri quantici. Questo ha portato all’enunciazione del principio di esclusine di Pauli che afferma: nello stesso stato quantico di un atomo non possono esserci due elettroni; cioè due elettroni non possono avere lo stesso insieme di valori per i numeri quantici n, , m, ms. Una conseguenza immediata di quanto appena visto è che in un orbitale, dato che i valori di n, ed m lo identificano, non ci possono stare più di due elettroni. L’applicazione di questo principio ha portato alla costruzione della tavola periodica degli elementi nella sua forma attuale. 5.11) LE MOLECOLE. In natura si incontrano raramente atomi singoli; normalmente gli atomi si legano tra loro per formare molecole o solidi. I due tipi principali di legami sono il legame ionico e quello covalente. Altri tipi di legame importanti sono quelli di Wan der Waals, i legami a ponte d’idrogeno e quello metallico. In molti casi l’unione tra atomi e molecole è una miscela tra questi tipi di legame. In chimica avete descritto in modo approfondito tutti i modelli usando spesso la nozione di orbitale e quindi i risultati della meccanica ondulatoria. Ciò che si vuol vedere ora è dove interviene l’effetto quantistico nella formazione dei legami. Analizzeremo solo i due casi corrispondenti ai legami ionico e covalente. - Legame ionico – Quando un atomo perde il suo elettrone più esterno28 diventa uno ione positivo. Se un atomo, di specie diversa, cattura questo elettrone a sua volta diventa uno ione negativo; l’energia liberata mediante l’acquisto di un elettrone è chiamata affinità elettronica. L’energia potenziale elettrostatica dei due ioni a distanza 27 Dato che il momento della quantità di moto è un vettore ne segue che la sua componente z può avere solo due versi corrispondente al segno + e – del numero quantico ms per questo si parla molto spesso di spin parallelo o antiparallelo all’asse z. 28 Con il termine più esterno s’intende quello corrispondente allo stato con numeri quantici massimi. 97 r vale E p Ke 2 r . Se la distanza tra gli ioni è dell’ordine di 1 nm in generale l’energia potenziale elettrostatica è sufficiente a portare alla creazione del legame stabile tra gli atomi. Questo è quanto si vede sperimentalmente. Poiché l’attrazione elettrostatica aumenta quando gli ioni si avvicinano, potrebbe sembrare che non possa esistere equilibrio. Però quando la distanza tra gli ioni è molto piccola, entra in campo una forte repulsione di natura quantistica, che è legata al principio di esclusione del Pauli. Si può spiegare qualitativamente questa repulsione come segue. Quando gli ioni sono molto lontani, la funzione d’onda di un elettrone interno di uno degli ioni non si sovrappone a quella di uno qualsiasi degli elettroni dell’altro ione: è possibile distinguere gli elettroni in base allo ione a cui appartengono. Invece, quando gli ioni sono vicini, le funzioni d’onda degli elettroni interni cominciano a sovrapporsi Fig.128 e alcuni elettroni devono andare in stati quantici di energia più alta a causa del principio di esclusione. Questo non è un processo improvviso, gli stati energetici degli elettroni vengono cambiati gradualmente man mano che gli elettroni si avvicinano. Nella fig.128 è mostrato il grafico dell’energia potenziale degli ioni Na+ e Cl- in funzione della distanza che li separa; questa curva è ottenibile solo con calcoli derivanti dalla meccanica ondulatoria. L’energia è minima in corrispondenza ad una distanza di equilibrio di circa 0,24 nm. Per distanze minori l’energia cresce ripidamente come risultato del principio di esclusione; l’energia necessaria in questo caso per separare gli ioni, chiamata energia di Fig.129 ionizzazione, vale 4,23 eV. - Legame covalente – In questo caso non si ha trasferimento di elettroni da un atomo all’altro in termini classici non esiste una posizione di equilibrio, ad esempio considerando quattro cariche uguali in modulo ma due positive e due negative come sono quelle che formano la molecola H2, si vede che il problema non ammette soluzioni di equilibrio né statico né dinamico. Per questo l’attrazione tra due atomi d’idrogeno è un effetto completamente 98 quantistico. La diminuzione d’energia che si ha quando due atomi d’idrogeno si avvicinano l’uno all’altro è dovuta al fatto che entrambi gli atomi condividono due elettroni, ed è strettamente legata alla proprietà di simmetria delle funzioni d’onda elettroniche. Un requisito di simmetria in relazione al principio di esclusione del Pauli impone che: - se gli spin dei due elettroni in H2 sono antiparalleli, la funzione d’onda deve essere simmetrica nello spazio; - se, viceversa, sono paralleli la funzione d’onda deve essere antisimmetrica. In fig.129 a) e b) sono mostrate queste situazioni per due distanze di separazione tra gli atomi d’idrogeno. In fig.129c) sono evidenziate le densità di probabilità nei casi simmetrico e asimmetrico; aspetto importante di questi grafici è che la distribuzione di probabilità 2 nella regione tra i protoni è grande nel caso simmetrico e piccola in quello asimmetrico. Quindi, quando gli spin dei due elettroni sono antiparalleli, gli elettroni si trovano spesso nella regione tra i nuclei e i protoni sono legati tra loro dagli elettroni carichi negativamente posti tra essi. Viceversa se gli elettroni hanno spin parallelo, essi trascorrono poco tempo tra i nuclei, così che gli atomi non si legano tra loro per formare una molecola. Da quanto appena visto emerge che anche le molecole hanno strutture caratterizzate da orbitali molecolari che possono essere a loro volta descritti tramite i quattro numeri quantici n, , m, ms. Le equazioni d’onda risultano combinazioni lineari di quelle di partenza e le energie dei vari livelli sono molto più complesse da determinare. 5.11.1) SPETTRI MOLECOLARI. Così come succede con gli atomi, viene spesso emessa radiazione elettromagnetica quando una molecola compie una transizione da uno stato eccitato a uno stato di energia minore. Viceversa, una molecola può assorbire radiazioni e compiere una transizione da uno stato più basso a uno più alto. Ne segue che lo studio dell’emissione molecolare e degli spettri di assorbimento o emissione fornisce informazioni sugli stati eccitati delle molecole. L’energia di una molecola è suddivisa in tre parti: - energia dovuta all’eccitazione dei suoi elettroni; - energia dovuta alla vibrazione della molecola; - energia dovuta alla rotazione della molecola. I valori di queste energie sono tanto diversi quanto basta perché esse possano essere distinte. Le energie degli stati eccitati elettronici di una molecola hanno ordine di grandezza di 1 eV, come per gli stati eccitati degli atomi. Le energie di vibrazione e di rotazione sono molto minori. Per introdurre il metodo d’analisi di questi spettri Fig.130 considereremo solo molecole biatomiche. 99 - Energia di rotazione – La fig.130 mostra un semplice modello schematico di una molecola biatomica costituita dalle masse m1 e m2, separate dalla distanza r, che ruotano attorno al centro di massa. Dalla meccanica classica l’energia cinetica di rotazione risulta: E 1 2 I 2 [80] dove I è il momento d’inerzia e la velocità angolare. Il momento della quantità di moto di un sistema di questo tipo risulta: L I [81] Combinando la [80] con la [81] si ha: 2 I E 2I L2 2I [82] dalla meccanica ondulatoria sappiamo che, per un atomo, il momento della quantità di moto è quantizzato dall’equazione: L 1 [77] l’equazione di Schrodinger applicata alla molecola dà esattamente lo stesso risultato però, mentre per l’atomo L rappresenta il momento della quantità di moto dell’elettrone, in questo caso L rappresenta il momento angolare dell’intera molecola rispetto al suo centro di massa. Sostituendo la [77] nella [82] si ottengono i valori dei livelli energetici di una molecola rotante: 1 2 E 2I [83] A causa degli “urti” tra le molecole, i gas emettono energia sotto forma di fotoni dovuti a salti tra livelli rotazionali permessi che, dati i bassi valori energetici sono difficilmente separabili; questa branca della spettrometria 29 è molto importante per lo studio della stereometria delle molecole in quanto permette di determinare facilmente le distanze interatomiche. 29 Si parla in questo caso di spettrometria e non di spettroscopia perché, non essendo le bande nel visibile, è necessario usare degli strumenti registratori al posto di quelli ottici. 100 ESEMPIO N.43 La frequenza di rotazione che si ricava dallo spettro di emissione del primo ordine ( 1 ) di una molecola di O2, è 1,2 1011 Hz (I.R.). Determinare la distanza tra i centri dei due atomi. Dati: mo 2,67 1026 kg; 1,05 10-34 Js ; 1; 1,2 1011 Hz L’energia corrispondente risulta: E h 6,6 10341,2 1011 7,9 1023 J Il momento d’inerzia rispetto al centro di massa vale: 2 2 1 r r I mo mo mo r 2 2 2 2 dalla [83] si può esplicitare I: 1 2 I 2E [84] [85] sostituendo la [84] nella [85] si ha: 1 1 2 mo r 2 2 2E r 1 2 mo E 2 2 1,05 10-34 1,0 1010 m 26 23 2,67 10 7,9 10 che è proprio la distanza interatomica delle molecole di ossigeno. N.B. L’energia di rotazione è in questo caso dell’ordine di 10 -4eV cioè quattro ordini di grandezza più piccola di quelle corrispondenti alle energie elettroniche che sono dell’ordine di 1 eV. - Energia di vibrazione – Le energie di vibrazione sono da 10 a 100 volte più grandi di quelle rotazionali, ma sono ancora molto minori di quelle associate a transizioni elettroniche. Una molecola può essere considerata come un sistema di oscillatori armonici. Infatti ogni legame chimico può essere considerato come una molla che collega tra loro gli atomi, come indicato in fig.131. Il problema della quantizzazione dell’energia in un oscillatore armonico semplice è stato uno dei primi risolti da Schrodinger . La soluzione trovata è: Fig.131 1 E n h 2 con n=0,1,2,3… [86] dove è la frequenza dell’oscillatore. Si nota che essendo zero il primo numero quantico vibrazionale l’energia dello stato fondamentale di vibrazione risulta: 101 E 1 h 2 [87] ne segue che la molecola è sempre in vibrazione30. A temperatura ambiente gran parte delle molecole si trovano nello stato fondamentale perché la loro energia termica è insufficiente per eccitarle a livelli di energia più alta. Per questo motivo gli spettri di assorbimento osservati sperimentalmente sono dovuti quasi esclusivamente al passaggio dal numero quantico n=0 a n=1. Una particolare condizione che risulta dalla meccanica ondulatoria, chiamata regola di selezione31 , impone che n cambi solo di 1 , così che l’energia del fotone emesso vale: 1 1 E n 1 h n h h 2 2 [88]32 La fig.132 è una rappresentazione schematica di alcuni livelli energetici elettronici, vibrazionali e rotazionali di una molecola. I livelli sono indicati dai numeri quantici n per la vibrazione e per la rotazione. I livelli vibrazionali più in basso sono Fig.132 equispaziati come previsto dalla [88]. Per livelli vibrazionali più alti non è più valida l’approssimazione dell’oscillatore armonico e i livelli non sono più spaziati uniformemente. La distanza tra i livelli rotazionali aumenta all’aumentare di . Poiché le energie di vibrazione e di rotazione sono molto più piccole di quelle di eccitazione di un elettrone, la vibrazione e la rotazione molecolari si manifestano negli spettri ottici (quando ci sono) sotto forma di una suddivisione fine di righe. Se non si risolve questa struttura, lo spettro appare costituito da bande come mostrato dalla fig. 133a). Le componenti delle bande sono dovute a transizioni tra livelli vibrazionali di due stati elettronici com’è indicato nel diagramma. Un esame più accurato di queste bande, evidenziato dall’ingrandimento 30 Contrariamente a quanto previsto dalla termodinamica nei cristalli gli atomi mantengono una vibrazione anche allo zero assoluto (0 K). 31 In pratica però il legame chimico si comporta come un oscillatore anarmonico e quindi si possono osservare anche transizioni che in base a questa regola sarebbero proibite, questo fenomeno viene definito overtone e dà luogo a bande di overtone di intensità nettamente più bassa della fondamentale. Vedi fig. 133. 32 Esiste una regola di selezione anche per per transizioni tra stati rotazionali che può cambiare di 1 . 102 di fig.133b), rivela che le bande hanno una struttura fine dovuta a livelli energetici rotazionali. La fig.134 mostra lo spettro di assorbimento dell’acido cloridrico. Il momento d’inerzia dell’HCl può essere calcolato in base alla distanza tra i picchi nella figura. La frequenza al centro dell’intervallo grande tra i picchi è la frequenza di vibrazione della molecola. La struttura doppia dei picchi deriva dal fatto che in natura si trovano due isotopi del cloro, 35Cl e 37Cl in diversa proporzione Fig.133 Per molecole più complesse di quelle biatomiche i modi di vibrare sono più di uno come evidenziato nell’esempio di fig. 135. Il numero di modi di vibrare per ogni molecola è pari a: Fig.134 N 3m (3 3) [89] 103 dove m è il numero di atomi che compongono la molecola. Si nota che è pari alla differenza fra il numero totale di gradi di libertà (3 per ogni atomo) della molecola e i gradi di libertà traslazionali e rotazionali. Nella fig.135 sono evidenziati i 6 modi33 di vibrare del gruppo metilenico (-CH2-). Nel caso la molecola sia lineare la formula [89] diventa: N 3m 3 2 [90] in quanto le molecole lineari hanno un grado di libertà rotazionale in meno rispetto a quelle bi e tridimensionali. Infatti la molecola O2 ha un solo grado di libertà vibrazionale quello nella direzione del collegamento tra i due atomi. Fig.135 33 I modi risultano 6 perché, non essendo il gruppo metilenico una molecola isolata, non è possibile usare la formula [89] senza tener conto dei vincoli posti dal resto degli atomi a cui è legato il gruppo. 104 MODULO N.6 6) IMPIANTI A PANNELLI FOTOVOLTAICI Lo scorso anno abbiamo analizzato brevemente quali sono le motivazioni per cui gli impianti fotovoltaici sono particolarmente adatti al territorio italiano. Dopo aver studiato le onde elettromagnetiche e un po’ di meccanica quantistica siamo ora in grado di capire le modalità di funzionamento di questi pannelli che convertono direttamente l’energia elettromagnetica solare in energia elettrica utilizzabile nei nostri impianti. 6.1) PRINCIPI GENERALI Un impianto fotovoltaico trasforma direttamente ed istantaneamente l’energia solare in energia elettrica senza l’utilizzo di alcun combustibile. Questa nuova tecnologia sfrutta infatti l’effetto fotovoltaico, per mezzo del quale alcuni semiconduttori opportunamente “drogati” generano elettricità se esposti alla radiazione solare. I principali vantaggi degli impianti fotovoltaici possono riassumersi in: • generazione distribuita nel luogo dove serve; • assenza di emissione di sostanze inquinanti; • risparmio di combustibili fossili; • affidabilità degli impianti poiché non vi sono parti in movimento (vita utile di norma superiore ai 20 anni); • ridotti costi di esercizio e manutenzione; • modularità del sistema (per incrementare la potenza dell’impianto è sufficiente aumentare il numero di moduli) secondo le reali esigenze dell’utente. Tuttavia, il costo iniziale per la realizzazione di un impianto fotovoltaico è ancora piuttosto elevato a causa di un mercato che non ha ancora raggiunto la piena maturità tecnica ed economica. Inoltre la produzione è discontinua a causa della variabilità della fonte energetica solare. La produzione elettrica annua di un impianto fotovoltaico dipende da diversi fattori tra cui: • radiazione solare incidente sul sito di installazione; • inclinazione ed orientamento dei moduli; • presenza o meno di ombreggiamenti; • prestazioni tecniche dei componenti dell’impianto (principalmente moduli ed inverter). Le principali applicazioni degli impianti fotovoltaici sono: 1. impianti (con sistemi di accumulo) per utenze isolate dalla rete (stand-alone); 2. impianti per utenze collegate alla rete di bassa tensione (grid-connected); 3. centrali di produzione di energia elettrica fotovoltaica, generalmente collegate alla rete in media tensione. 105 Gli incentivi in “conto energia” sono concessi solo per le applicazioni di tipo 2 e 3, in impianti con potenza nominale non inferiore ad 1 kW. Un impianto fotovoltaico è essenzialmente costituito da un generatore (moduli fotovoltaici), da una struttura di sostegno per installare i moduli sul terreno, su un edificio o una qualsiasi struttura edilizia, da un sistema di controllo e condizionamento della potenza, da un eventuale accumulatore di energia, da quadri elettrici contenenti le apparecchiature di manovraprotezione e dai cavi di collegamento. 6.2) PRINCIPALI COMPONENTI DI UN IMPIANTO FOTOVOLTAICO 6.2.1) GENERATORE FOTOVOLTAICO Il componente elementare del generatore è la cella fotovoltaica in cui avviene la conversione della radiazione solare in corrente elettrica. La cella è costituita da una sottile fetta di materiale semiconduttore, generalmente silicio opportunamente trattato, dello spessore di circa 0.3 mm e con una superficie compresa tra i 100 e i 225 cm2. Il silicio, che ha quattro elettroni di valenza (tetravalente), viene “drogato” mediante l’inserimento su una “faccia” di atomi trivalenti (es. boro – drogaggio P) e sull’altra faccia con piccole quantità di atomi pentavalenti (es. fosforo – drogaggio N). La regione tipo P ha un eccesso di lacune, mentre la regione tipo N ha un eccesso di elettroni (figura 136). + E Figura 136 - CELLA FOTOVOLTAICA Nella zona di contatto tra i due strati a diverso drogaggio (giunzione P-N), gli elettroni tendono a diffondersi dalla regione ad alta densità di elettroni (N) alla regione a bassa densità di elettroni (P) creando pertanto un accumulo di carica negativa nella regione P. Un fenomeno analogo avviene per le lacune, con un accumulo di carica positiva nella regione N (più avanti vedremo l’analisi quantitativa del fenomeno). 106 Figura 137 - funzionamento di una cella fotovoltaica Si viene quindi a creare un campo elettrico interno alla giunzione che si oppone all’ulteriore diffusione di cariche elettriche. Se si applica una tensione dall’esterno, la giunzione permette il passaggio di corrente in un solo senso (funzionamento da diodo). Quando la cella è esposta alla luce, per effetto fotovoltaico, vengono a crearsi delle coppie elettrone-lacuna sia nella zona N che nella zona P. Il campo elettrico interno permette di dividere gli elettroni in eccesso (ottenuti dall’assorbimento dei fotoni da parte del materiale) dalle lacune e li spinge in direzioni opposte gli uni rispetto agli altri. Gli elettroni, una volta oltrepassata la zona di svuotamento, non possono quindi più tornare indietro perché il campo impedisce loro di invertire il “senso di marcia”. Connettendo la giunzione con un conduttore esterno, si otterrà un circuito chiuso nel quale la corrente fluisce dallo strato P, a potenziale maggiore, verso lo strato N, a potenziale minore fintanto che la cella resta illuminata. (figura 137). In figura 138 e nella sua didascalia sono evidenziati gli elementi che concorrono all’utilizzo dell’energia solare incidente e alla quantità finale di questa energia che può venire utilizzata dai nostri impianti (Eg energia di gap). Figura 138 - Effetto fotovoltaico e rendimento elettrico 107 Come si vede il risultato finale è che solo il 16% dell’energia solare è effettivamente convertita in energia elettrica. Nelle condizioni di funzionamento standard (irraggiamento di 1kW/m2 alla temperatura di 25°C) una cella fotovoltaica fornisce una corrente di circa 3A con una tensione di 0.5V ed una potenza di picco pari a 1.5-1.7 Wp34. In commercio si trovano i moduli fotovoltaici che sono costituiti da un insieme di celle. I più diffusi racchiudono 36 (fino a 50) celle disposte su 4 file parallele collegate in serie con una superficie che varia da 0.5 a 1 m2. Più moduli collegati tra loro meccanicamente ed elettricamente formano un pannello, ( a volte di un solo modulo) ossia una struttura comune ancorabile al suolo o ad un edificio. Più pannelli collegati elettricamente in serie costituiscono una stringa e più stringhe, collegate elettricamente in parallelo per fornire la potenza richiesta, costituiscono il generatore o campo fotovoltaico (fig.139). Nei moduli, le celle fotovoltaiche non sono tutte identiche a causa delle inevitabili difformità di fabbricazione, pertanto due blocchi di celle collegate tra loro in parallelo possono non avere la stessa tensione. Si viene a creare conseguentemente una corrente di circolazione dal blocco di celle a tensione maggiore verso quello a tensione minore. Quindi una parte della potenza prodotta dal modulo viene persa all’interno del modulo stesso (perdite Figura 139 - Composizione di un campo fotovoltaico di mismatch). La disuguaglianza tra le celle può essere determinata anche da un diverso irraggiamento solare, ad esempio una parte di celle sono ombreggiate, oppure dal loro deterioramento. Tali celle si comportano come un diodo che blocca la corrente prodotta dalle altre celle. Il diodo è sottoposto alla tensione delle altre celle, la quale può provocare la perforazione della giunzione con surriscaldamento locale e danni al modulo. Pertanto i moduli sono dotati di diodi di by-pass che limitano tale fenomeno, cortocircuitando la parte del modulo ombreggiata o danneggiata. Anche tra le stringhe del campo fotovoltaico si può creare il fenomeno di mismatch, a seguito della disuguaglianza dei moduli, diverso irraggiamento delle stringhe, ombreggiamenti e guasti di una stringa. 34 Definizione di kWp : Un campo fotovoltaico di potenza pari ad 1 kWp corrisponde ad un insieme di moduli FV, disposti in serie, in grado di generare energia elettrica di potenza pari ad 1 kW se sottoposti ad un irraggiamento solare di 1.000 W/m2, alla temperatura di 25 °C ed Air Mass 1,5. L’energia prodotta dall’impianto varia nel corso dell’anno e soprattutto della giornata, in funzione delle condizioni meteorologiche e dell’altezza del sole sull’orizzonte. Il campo unitario-tipo di cui prima genererà una potenza via via crescente a partire dalle prime ore del mattino, sino ad 1 kW quando il sole si trova allo zenit, per poi decrescere gradualmente sino a portarsi allo zero quando il sole sarà tramontato. 1 kWp, installato in una località con insolazione pari a quella riscontrabile in una località dell’Italia centrale (media annuale = 4,7 kWh/m 2/giorno), è in grado di produrre almeno 1.300 kWh di energia elettrica utile all’anno. 108 Per evitare la circolazione di corrente inversa tra le stringhe si possono inserire diodi. Le celle che costituiscono il modulo sono incapsulate con un sistema di assemblaggio che: • isola elettricamente le celle verso l’esterno; • protegge le celle dagli agenti atmosferici e dalle sollecitazioni meccaniche; • resiste ai raggi ultravioletti, alle basse temperature, agli sbalzi di temperatura e all’abrasione; • smaltisce facilmente il calore, per evitare che l’aumento di temperatura riduca la potenza fornita dal modulo. Tali proprietà devono permanere per la vita attesa del modulo. La figura 140 mostra la sezione di un modulo standard in silicio cristallino, composto da: • una lamina di protezione sul lato superiore esposto alla luce, caratterizzata da elevata trasparenza (il materiale più utilizzato è il vetro temprato); • un materiale di incapsulamento per evitare il contatto diretto vetro-cella, per eliminare gli interstizi dovuti alle imperfezioni superficiali delle celle e per isolare elettricamente la cella dal resto del modulo; Figura 140 - Sezione modulo fotovoltaico nei processi che utilizzano la fase di laminazione si impiega spesso il Vinil Acetato di Etilene (EVA); • un substrato di supporto posteriore (vetro, metallo, plastica, tedlar); • una cornice metallica (telaio), usualmente in alluminio. Nei moduli in silicio cristallino, per il collegamento delle celle, si utilizzano contatti metallici saldati successivamente alla realizzazione delle celle; nei moduli a film sottile il collegamento elettrico anteriore rientra nel processo di produzione della cella ed è garantito da uno strato di ossidi metallici trasparenti, come l’ossido di zinco o l’ossido di stagno. 6.2.2) INVERTER Il sistema di condizionamento e controllo della potenza è costituito da un inverter che trasforma la corrente continua in alternata controllando la qualità della potenza in uscita per l’immissione in rete anche attraverso un filtro L-C interno all’inverter stesso. La figura 141 mostra lo schema di principio di un inverter. I transistor, utilizzati come interruttori statici, sono pilotati da un segnale di aperturachiusura che, nella forma più semplice, fornirebbe un’onda quadra in uscita. La potenza fornita da un generatore fotovoltaico dipende dal punto in cui esso si trova ad operare. 109 Per ottimizzare l’energia prodotta dall’impianto si deve adeguare il generatore al carico, in modo tale che il punto di funzionamento corrisponda sempre a quello di massima potenza. Figura 141 - schema di un inverter monofase e MPPT A tal fine viene utilizzato nell’inverter un chopper controllato denominato inseguitore del punto di massima potenza (MPPT: Maximum Power Point Tracking) che individua istante per istante la coppia di valori di tensione e corrente del generatore per la quale la potenza fornita e massima. Il punto di massimo trasferimento di potenza corrisponde al punto di tangenza tra la curva I,V per un dato valore di radiazione solare è l’iperbole di equazione V . I = cost. 6.2.3) MODULI IN SILICIO CRISTALLINO I moduli in silicio cristallino sono attualmente i più utilizzati negli impianti installati e si suddividono in tre categorie: • monocristallino, omogeneo a cristallo singolo, sono prodotti da cristallo di silicio di elevata purezza. Il lingotto di silicio monocristallino è di forma cilindrica del diametro di 13-20 cm e 200 cm di lunghezza, ottenuto per accrescimento di un cristallo filiforme in lenta rotazione. Successivamente, tale cilindro viene opportunamente suddiviso in wafer dello spessore di 200-250 μm e la superficie superiore viene trattata producendo dei microsolchi aventi lo scopo di minimizzare la perdite per riflessione. Il vantaggio principale di queste celle è l'efficienza (16-16,5%, fino a 20-22% per i moduli ad alte prestazioni), a cui si associa una durata elevata ed il mantenimento delle caratteristiche nel tempo. Il prezzo di tali moduli è intorno a 0.80 €/W (2014) ed i moduli realizzati con tale tecnologia sono caratterizzati usualmente da un’omogenea colorazione blu scuro. • policristallino, in cui i cristalli che compongono le celle si aggregano tra loro con forma ed orientamenti diversi. Le iridescenze tipiche delle celle in silicio policristallino sono infatti dovute al diverso orientamento dei cristalli ed il conseguente diverso comportamento nei confronti della luce. Il lingotto di silicio policristallino è ottenuto mediante un processo di fusione e colato in un contenitore a forma di parallelepipedo. I wafers che si ottengono presentano forma squadrata e caratteristiche striature con spessore di 180-300 μm. 110 L’efficienza è inferiore al monocristallino (15-16%, fino a 18-20% per i moduli ad alte prestazioni), ma anche il prezzo è più basso: 0.73 €/W. La durata è comunque elevata (paragonabile al monocristallino) ed anche il mantenimento della prestazioni nel tempo (85% del rendimento iniziale dopo 20 anni). Le celle con tale tecnologia sono riconoscibili dall’aspetto superficiale in cui si intravedono i grani cristallini. • quasi-monocristallino, che presenta una struttura intermedia tra il mono e il policristallino. Il metodo per ottenere i lingotti è simile a quello di produzione del policristallino, in particolare, sul fondo del crogiuolo viene posto un cristallo di silicio monocristallino che funge da “nucleo di condensazione” da cui si formeranno cristalli di grandi dimensioni. Il raffreddamento del lingotto deve essere lento in modo da permettere che i cristalli crescano senza frammentarsi e deve avvenire nella direzione che va dal nucleo di silicio verso l’alto. Esistono anche altre tipologie di pannelli ottenute con materiali diversi dal silicio di cui però non ci occuperemo. 6.3) TIPOLOGIA DEGLI IMPIANTI FOTOVOLTAICI 6.3.1) IMPIANTI ISOLATI (stand-alone) Sono impianti non collegati alla rete elettrica, sono costituiti da moduli fotovoltaici e da un sistema di accumulo che garantisce l’erogazione di energia elettrica anche nei momenti di scarsa illuminazione o nelle ore di buio. Essendo la corrente erogata dal generatore fotovoltaico di tipo continuo, se l’impianto utilizzatore richiede l’utilizzo di corrente alternata è necessaria l’interposizione dell’inverter. Tali impianti risultano tecnicamente ed economicamente vantaggiosi qualora la rete elettrica sia assente o difficilmente raggiungibile, sostituendo spesso i gruppi elettrogeni. Inoltre, in una configurazione stand-alone, il campo fotovoltaico è sovra- dimensionato al fine di consentire, durante le ore di insolazione, sia l’alimentazione del carico sia la ricarica delle batterie di accumulo con un certo margine di sicurezza per tener conto delle giornate di scarsa insolazione. Attualmente le applicazioni più diffuse servono ad alimentare : • apparecchiature per il pompaggio dell’acqua; • ripetitori radio, stazioni di rilevamento e trasmissione dati (meteorologici o sismici); • sistemi di illuminazione; • segnaletica sulle strade, nei porti e negli aeroporti; • alimentazione dei servizi nei camper; • impianti pubblicitari; • rifugi in alta quota. 6.3.2) IMPIANTI COLLEGATI ALLA RETE (grid-connected) 111 Gli impianti collegati permanentemente alla rete elettrica assorbono energia da essa nelle ore in cui il generatore fotovoltaico non è in grado di produrre l’energia necessaria a soddisfare il bisogno dell’impianto utilizzatore. Viceversa, se il sistema fotovoltaico produce energia elettrica in eccesso rispetto al fabbisogno dell’impianto utilizzatore, il surplus viene immesso in rete: sistemi connessi alla rete non necessitano pertanto di batterie di accumulatori. Tali impianti (figura 142) offrono il vantaggio della generazione distribuita, anzichè centralizzata, difatti l’energia prodotta nei pressi dell’utilizzazione ha un valore Figura 142 - Schema impianto grig-connected maggiore di quella fornita dalle grosse centrali tradizionali, perché si limitano le perdite di trasmissione e si riducono gli oneri economici dei grossi sistemi elettrici di trasporto. Inoltre la produzione di energia nelle ore di sole consente di ridurre la domanda alla rete durante il giorno, proprio quando si verifica la maggiore richiesta. 6.4) FUNZIONAMENTO DELLE CELLE FOTOVOLTAICHE Come ricorderete dalla chimica il comportamento elettrico degli elementi suddivide la tabella periodica in tre zone rispettivamente dei metalli, dei non metalli e dei semiconduttori. In base a quanto visto in meccanica quantistica questa suddivisione è strettamente collegata alla disposizione delle bande di energia di valenza e di conduzione che contraddistinguono ogni categoria, bande che sono rappresentate in figura 143 a temperatura ambiente. 112 Figura 143 - Bande di energia Come si vede i metalli hanno la banda di conduzione che risulta parzialmente sovrapposta a quella di valenza, quindi nei solidi sono presenti elettroni liberi (mare di Fermi – legame metallico) che possono spostarsi formando correnti elettriche se sollecitati da un campo esterno, pertanto vengono definiti materiali conduttori. Per i non metalli le due bande sono nettamente separate presentando un gap di energia dell’ordine di 4-7 eV; ciò comporta che gli elettroni di valenza sono vincolati a rimanere negli atomi di pertinenza (legame ionico) e quindi non possono essere prodotte correnti con i campi esterni che generalmente si usano per questi scopi, quindi essi sono definiti materiali isolanti. Per i semiconduttori il gap energetico esiste ancora, ma è limitato a piccoli valori di energia dell’ordine di 1 eV (ad esempio per il Silicio vale 1.11 eV). Come si vede i semiconduttori sono in una situazione intermedia tra gli isolanti e i conduttori quindi anche a temperatura ambiente possono condurre corrente che diventa tanto maggiore quanto più alta è la temperatura (n.b. esattamente il contrario dei metalli). Il principale semiconduttore utilizzato per i pannelli fotovoltaici è il Silicio. Risulta evidente come, per ottenere l’effetto fotoelettrico, siano indicati i semiconduttori in quanto i fotoni della luce, le cui energie non sarebbero sufficienti a produrlo negli isolanti, ne hanno abbastanza per i semiconduttori dato il piccolo gap energetico che richiedono. A temperatura ambiente il silicio è un solido cristallino con gli atomi che formano un legame covalente. L’energia necessaria per la transizione tra la BV (banda di valenza) e la BC (banda di conduzione) oltre che da fotoni può essere fornita anche da un aumento di temperatura. La formula che descrive la concentrazione di elettroni nella banda di conduzione di un semiconduttore intrinseco (termine che indica un semiconduttore puro) in funzione della temperatura è: 𝐸 𝑔0 𝑛𝐼 = √𝐵𝑇 3 𝑒 − 𝐾𝑇 [1] Dove nI è la concentrazione dei portatori di carica, B una costante di temperatura, E go è l’energia di gap tra le bande di valenza e di conduzione allo zero assoluto, K la costante di Boltzman. Per il silicio a temperatura di 300 K il numero di elettroni per unità di volume vale 1,1.1016 elettroni/m3 valore apparentemente molto grande ma che 113 risulta non significativo rispetto al numero di atomi presenti nello stesso volume che è di 5.1028 atomi/m3. ( Silicio Eg=1.16 eV, GaAs Eg=1.52 eV, B=1.90.1043 1/K3) ESEMPIO N.43 La luce che permette di far crescere la conducibilità di un semiconduttore ha una lunghezza d’onda tale che il suo valore sia minore di 350 𝜇𝑚. Calcolare il valore della larghezza della banda proibita EG (energia di gap). Dati: l< 350 mm; Tale energia deve essere pari al valore di un fotone che ha la frequenza di questa luce e pertanto vale: 𝐸𝐺 = ℎ𝜈 = ℎ 𝑐 = 3.5 𝑒𝑉 𝜆 6.4.1) DROGAGGIO p ED n Per aumentare la concentrazione di elettroni mobili in un semiconduttore si inseriscono in un semiconduttore intrinseco delle impurità costituite o da elementi del V gruppo o da elementi del III gruppo; tale operazione si definisce drogaggio. Consideriamo il drogaggio del Silicio tramite il Fosforo (V gruppo). In tal caso l’elettrone del Fosforo non utilizzato per formare i quattro legami covalenti con il Silicio (fig.136) è Figura 144 - Drogaggio p ed n libero di muoversi nella banda di conduzione che è cambiata diventando come in figura 144b; per questo motivo i semiconduttori che hanno un drogaggio con elementi del V gruppo vengono definiti di tipo n (negativi). All’opposto se si usa il Boro (III gruppo) si formano i tre legami covalenti e rimane una lacuna in corrispondenza della posizione in cui dovrebbe formarsi il quarto legame (fig.136). Una lacuna è vista, oltre che come mancanza di un elettrone, anche come un portatore di carica positiva. Se un semiconduttore è drogato con un elemento del III gruppo esso presenta un elevato numero di lacune positive e pertanto è indicato come drogaggio di tipo p (fig.114c). L’ordine di grandezza degli atomi dopanti è di 1021 atomi/m3. L’inserimento di queste impurità nel Silicio aumenta in modo enorme la concentrazione di portatori di carica e rende il semiconduttore più sensibile alla radiazione elettromagnetica. Infatti i fotoni incidenti su un semiconduttore hanno una certa probabilità di far passare un elettrone dalla banda di valenza a quella di conduzione; questa probabilità è definita efficienza quantica (QE) e questo valore aumenta in modo significativo per i semiconduttori drogati. 114 6.4.2) CELLA FOTOVOLTAICA Ponendo a contatto un semiconduttore drogato di tipo n con lo stesso semiconduttore drogato di tipo p si genera una giunzione e , a cavallo di questa, si forma una zona di piccolo spessore all’interno della quale le lacune tendono ad essere colmate dagli elettroni in eccesso. Si ottiene in questo modo una zona di svuotamento cioè priva di cariche libere di muoversi. Il sistema appena descritto è definito giunzione p-n. E Figura 145 - Cella fotovoltaica La figura 145 evidenzia come le cariche fisse all’interno della regione di svuotamento generano un campo elettrico E orientato dal semiconduttore tipo n verso quello tipo p. Questa giunzione è l’elemento fondamentale della cella fotovoltaica in quanto, quando un fotone con un’energia sufficiente arriva agli atomi nella zona corrispondente alla giunzione, esiste una notevole probabilità che riesca a far raggiungere ad un elettrone nella banda di valenza la banda di conduzione. Si crea quindi una coppia elettronelacuna e, a causa del campo, le due cariche vengono separate e spinte in direzioni opposte generando così una corrente nel semiconduttore che, se è collegato ad un circuito come in fig.137, può essere utilizzata per far funzionare degli apparecchi elettrici. In altri termini la cella funziona come una pila. Ricordiamo che il verso convenzionale della corrente elettrica è opposto a quello del moto degli elettroni. Vediamo un primo utilizzo di una giunzione p-n in una situazione nella quale non c’è illuminazione della cella, ma le si applica dall’esterno una differenza di potenziale come in figura 146. Questa è la configurazione di un diodo. (Ricordare che attualmente sono molto pubblicizzate le lampadine a diodo, i LED, per il risparmio energetico che permettono rispetto a quelle tradizionali.) 115 V Id Figura 147 - Funzionamento di un DIODO Applicando una differenza di potenziale V ai capi di un diodo si produce un restringimento della zona di svuotamento e quindi si facilita il passaggio di elettroni dalla regione n a quella p. Si induce così una corrente Id che dipende dal potenziale V secondo la formula: 𝑄𝑉 𝐼𝑑 = 𝐼𝐷 (𝑒 𝐴𝐾𝑇 − 1) [2] Dove Q è il modulo della carica dell’elettrone, K la costante di Boltzman, T la temperatura assoluta di funzionamento, A la costante del materiale (per il Silicio vale 2) e ID (ID=1.10A germanio) la corrente di saturazione inversa che dipende dal tipo di semiconduttore e dalla concentrazione di atomi di drogaggio. In questa situazione l’energia ottenuta dalla ricombinazione viene emessa sotto forma di fotoni luminosi. Circuito equivalente della cella Una cella fotovoltaica può essere considerata come un generatore di corrente e può essere rappresentata dal circuito equivalente della figura 148. La corrente ai terminali d’uscita I è pari alla corrente generata per effetto fotovoltaico Ig dal generatore ideale di corrente, diminuita della corrente di diodo Id e della corrente di dispersione Il. La resistenza in serie Rs rappresenta la resistenza interna al flusso di corrente generata e dipende dallo spessore della giunzione p-n, dalle impurità presenti e dalle resistenze di contatto. La conduttanza35 di dispersione Gl tiene conto della corrente verso terra nel normale funzionamento. In una cella ideale si avrebbe Rs=0 e Gl=0. In una cella al silicio di alta qualità si hanno invece una Rs=0.05 ÷ 0.10Ω ed una Gl=3.5mS. L’efficienza di conversione della cella fotovoltaica risente molto anche di una piccola variazione di Rs, mentre è molto meno influenzata da una variazione di Gl. 35 Ricordiamo che la definizione di conduttanza : G=1/R con unità di misura [S] siemens 116 Figura 148 - Circuito equivalente di una cella fotovoltaica La tensione a vuoto Voc si presenta quando il carico non assorbe corrente (I=0) ed è data dalla relazione: 𝐼𝑙 𝑉𝑜𝑐 = [3] 𝐺𝑙 La corrente di diodo è fornita dalla classica espressione della corrente diretta [2] scritta nella forma: 𝑄𝑉𝑜𝑐 𝐼𝑑 = 𝐼𝐷 (𝑒 2𝐾𝑇 − 1) [4] dove: • ID è la corrente di saturazione del diodo; • Q è la carica dell’elettrone (1.6 . 10-19 C) • 2 è il fattore di identità del diodo del Silicio A=2 • K è la costante di Boltzmann • T è la temperatura assoluta in K La corrente utile risulta quindi: 𝑄𝑉𝑜𝑐 𝐼 = 𝐼𝑔 − 𝐼𝑑 − 𝐼𝑙 = 𝐼𝑔 − 𝐼𝐷 (𝑒 2𝐾𝑇 − 1) − 𝐺𝐼 𝑉𝑜𝑐 [5] L’ultimo termine, la corrente di dispersione verso terra Il, nelle usuali celle è trascurabile rispetto alle altre due correnti. La corrente di saturazione del diodo può pertanto essere determinata sperimentalmente applicando la tensione a vuoto Voc in una cella non illuminata e misurando la corrente fluente all’interno della cella. Caratteristica tensione-corrente di un modulo La caratteristica tensione-corrente di un modulo fotovoltaico è rappresentata in figura 149. In condizioni di corto circuito la corrente generata è massima (Isc), mentre in condizioni di circuito aperto è massima la tensione (Voc). Nelle due condizioni precedenti la potenza elettrica prodotta dal modulo è nulla, mentre in tutte le altre condizioni, all’aumentare della tensione aumenta la potenza prodotta, raggiungendo 117 dapprima il punto di massima potenza (Pm) e poi diminuendo repentinamente in prossimità della tensione a vuoto. Figura 149 - Diagramma tensione corrente di una cella fotovoltaica Pertanto i dati caratteristici di un modulo fotovoltaico si riassumono in: • Isc corrente di corto circuito; • Voc tensione a vuoto; • Pm (Wm) potenza massima prodotta in condizioni standard (STC); • Im corrente prodotta nel punto di massima potenza; • Vm tensione nel punto di massima potenza; • FF fattore di riempimento: è un parametro che determina la forma della curva caratteristica V,I ed è il rapporto tra la potenza massima ed il prodotto (Voc . Isc ) della tensione a vuoto per la corrente di corto circuito Schema circuitale di connessione alla rete Un impianto fotovoltaico connesso alla rete ed alimentante un impianto utilizzatore può essere rappresentato in modo semplificato attraverso lo schema di figura 150. La rete di alimentazione (supposta a potenza di corto circuito infinita) è schematizzata mediante un generatore ideale di tensione il cui valore è indipendente dalle condizioni di carico dell’impianto utilizzatore. Il generatore fotovoltaico è al contrario rappresentato da un generatore ideale di corrente (corrente costante a parità di irraggiamento solare), mentre l’impianto utilizzatore da una resistenza Ru. Figura 150 - Schema di circuito di impianto fotovoltaico connesso alla rete 118 Nel nodo N di figura 150 convergono le correnti Ig ed Ir, provenienti rispettivamente dal generatore fotovoltaico e dalla rete, ed esce la corrente Iu assorbita dall’impianto utilizzatore: 𝐼𝑈 = 𝐼𝑔 + 𝐼𝑟 [6] Poichè la corrente sul carico è anche il rapporto tra la tensione di rete U e la resistenza del carico stesso Ru: 𝑈 𝐼𝑈 = [7] 𝑅𝑈 la relazione sulle correnti diventa: 𝑈 𝐼𝑟 = − 𝐼𝑔 [8] 𝑅𝑈 Se nella [8] si pone Ig = 0, come ad esempio si può verificare durante le ore notturne, la corrente che il carico assorbe dalla rete risulta: 𝑈 𝐼𝑟 = [9] 𝑅𝑈 Viceversa, se tutta la corrente generata dall’impianto fotovoltaico è assorbita dall’impianto utilizzatore, si annulla la corrente fornita dalla rete e pertanto la [8] diventa: 𝑈 𝐼𝑔 = [10] 𝑅𝑈 Se al crescere dell'irraggiamento solare la corrente generata Ig diventa superiore a quella richiesta dal carico Iu, la corrente Ir diventa negativa, ossia non e più prelevata bensì immessa in rete. Moltiplicando i termini della [6] per la tensione di rete U si possono fare le considerazioni precedenti anche in termini di potenze, assumendo come: • Wu= Pu = U . Iu = U2/Ru la potenza assorbita dall’impianto utilizzatore; • Wg= Pg = U . Ig la potenza generata dall’impianto fotovoltaico; • Wr= Pr = U . Ir la potenza fornita dalla rete. Potenza nominale di picco La potenza nominale di picco (kWp) è la potenza elettrica che un impianto fotovoltaico è in grado di erogare in condizioni di prova standard (STC): • 1 kW/m2 di irraggiamento perpendicolarmente ai moduli; • 25°C di temperatura delle celle; • massa d’aria (AM) pari a 1.5. La massa d’aria influenza la produzione energetica fotovoltaica in quanto è un indice dell’andamento della densità spettrale di potenza della radiazione solare. Difatti quest’ultima ha uno spettro con una caratteristica W/m2-lunghezza d’onda che varia anche in funzione della densità dell’aria. L’indice di massa d’aria AM si determina nel modo seguente: 119 𝐴𝑀 = 𝑝 𝑝𝑜 𝑠𝑒𝑛(𝑧) [11] dove: p è la pressione atmosferica rilevata nel punto e nell’istante considerati [Pa]; po è la pressione atmosferica di riferimento a livello del mare [1.013 . 105 Pa]; z è l’angolo di zenit, ossia l’angolo di elevazione del Sole sull’orizzonte locale nell’istante considerato (vedi modulo 4 par.4.3.2). 6.5) PRODUZIONE ENERGETICA ANNUALE ATTESA Dal punto di vista energetico, il principio progettuale utilizzato usualmente per un generatore fotovoltaico è quello di massimizzare la captazione della radiazione solare annua disponibile. In alcuni casi (es. impianti fotovoltaici stand-alone) il criterio di progettazione potrebbe essere quello di ottimizzare la produzione energetica in determinati periodi dell’anno. L’energia elettrica che un impianto fotovoltaico può produrre nell’arco di un anno dipende soprattutto da: • disponibilità della radiazione solare; • orientamento ed inclinazione dei moduli; • rendimento dell’impianto fotovoltaico. Poichè l’irraggiamento solare è variabile nel tempo, per determinare l’energia elettrica che l’impianto può produrre in un fissato intervallo di tempo si prende in considerazione la radiazione solare relativa a quell'intervallo di tempo, assumendo che le prestazioni dei moduli siano proporzionali all’irraggiamento. I valori della radiazione solare media in Italia si possono desumere da: • norma UNI 10349: riscaldamento e raffreddamento degli edifici. Dati climatici; • atlante solare europeo che si basa sui dati registrati dal CNR-IFA (Istituto di Fisica dell’Atmosfera) nel decennio 1966-1975. Riporta mappe isoradiative del territorio italiano ed europeo su superficie orizzontale o inclinata; • banca dati ENEA: dal 1994 l’ENEA raccoglie i dati della radiazione solare sull’Italia, tramite le immagini del satellite Meteosat. Le mappe finora ottenute sono state riportate in due pubblicazioni: una relativa all’anno 1994 ed un’altra relativa al periodo 1995-1999. Per tutta l’analisi relativa alla fornitura di energia solare si rimanda al Modulo 4 relativo ai pannelli solari termici che, per quanto riguarda la procedura di calcolo per l’irraggiamento, utilizza la stessa procedura che si applica anche ai pannelli fotovoltaici. Riportiamo di seguito alcune tabelle delle norme UNI 10349 di cui disponete in forma completa nel formulario. 120 Figura 151 - tabella UNI 10349 per la radiazione solare annuale Figura 152 - alcuni valori dell'irraggiamento mensile della banca dati ENEA Tali tabelle rappresentano rispettivamente, per diverse località italiane, i valori della radiazione solare media annuale su piano orizzontale [kWh/m2] e valori medi giornalieri mese per mese [kWh/m2/giorno] da fonte ENEA. La radiazione solare annua per una data località può variare da una fonte all’altra anche del 10%, poiché, come ricordate, deriva da elaborazioni statistiche di dati relativi a periodi di rilevazione diversi; inoltre tali dati sono soggetti alla variazione delle condizioni meteorologiche da un anno all’altro. Pertanto i valori di radiazione hanno un significato probabilistico, cioè un valore atteso e non certo. Partendo dalla radiazione media annuale Ema per ottenere l’energia attesa prodotta all’anno Ep per ogni kWp si procede attraverso la seguente formula: 𝐸𝑃 = 𝐸𝑚𝑎 𝜂𝐵𝑂𝑆 [12] Dove: - BOS (Balance Of System) è il rendimento complessivo di tutti i componenti dell’impianto fotovoltaico a valle dei moduli (inverter, connessioni, perdite dovute all’effetto della temperatura, perdite dovute a dissimmetrie nelle prestazioni, perdite per ombreggiamento e bassa radiazione, perdite per riflessione…). Tale rendimento, in un impianto correttamente progettato ed installato, può essere compreso tra 0.75 e 0.85. Prendendo invece in considerazione la radiazione media giornaliera Emg, per ottenere l’energia attesa prodotta all’anno per ogni kWp si ottiene: 121 𝐸𝑃 = 365𝐸𝑚𝑔 𝜂𝐵𝑂𝑆 [13] ESEMPIO N. 44 Si vuole determinare l’energia media annua prodotta da un impianto fotovoltaico, posto su piano orizzontale, di 3 kWp installato in Italia a Bergamo. Si suppone che il rendimento dei componenti d’impianto sia pari a 0.75. Dalla tabella della norma UNI 10349 si ricava una radiazione media annuale di 1276 kWh/m2. Assumendo di essere nelle condizioni standard pari a 1 kW/m2, si avrà una produzione media annuale attesa pari a: Ep = 3. 1276 . 0.75 = 3062 kWh La procedura di calcolo completa che tiene conto dell’orientamento azimutale e di tilt dei pannelli è però la stessa vista per i pannelli solari termici a cui si rimanda (modulo 4). Ricordiamo solamente che un modulo non orizzontale riceve, oltre alla radiazione diretta e diffusa, anche la radiazione riflessa dalla superficie circostante in cui si trova (componente di albedo). Solitamente si assume un fattore di albedo 0.2. Per una prima valutazione della producibilità annua di energia elettrica di un impianto fotovoltaico è in genere sufficiente applicare alla radiazione media annuale sul piano orizzontale i coefficienti correttivi delle tabelle seguenti (riferiti al contesto italiano): Figura 153 - Nord Italia latitudine 44° ESEMPIO N.45 Si vuole determinare l’energia media annua prodotta dall’impianto fotovoltaico dell’esempio precedente, disposto ora con un orientamento di +15° ed un’inclinazione di 30°. Dalla tabella 2.3 si ricava un coefficiente maggiorativo pari a 1,12. Moltiplicando tale coefficiente per l’energia attesa su piano orizzontale ottenuta nell’esempio precedente la producibilità attesa diventa: E = 1,12 . Ep = 1,12 . 3062 ≈ 3430 kWh 122 6.5.1) TENSIONI E CORRENTI IN UN IMPIANTO FV I moduli fotovoltaici generano una corrente di 4-10A ad una tensione di 30-40V. Per ottenere la potenza elettrica progettuale di picco, i moduli vengono collegati elettricamente in serie formando le stringhe, le quali a loro volta vengono poste in parallelo. La tendenza è di creare stringhe costituite dal maggior numero di moduli possibile, data la complessità ed il costo di cablaggio, specie dei quadri di parallelo fra le stringhe stesse. Il numero massimo di moduli che possono essere collegati in serie (e quindi la tensione massima raggiungibile) per costituire una stringa è determinato dal range di operatività dell’inverter (vedi più avanti) e dalla disponibilità di apparecchi di sezionamento e protezione idonei all’utilizzo alla tensione raggiunta. In particolare, la tensione dell’inverter è legata, per ragioni di efficienza, alla sua potenza: usualmente utilizzando inverter con potenza inferiore a 10 kW, il range di tensione più comunemente impiegato è tra 250V e 750V, mentre con potenza dell’inverter superiore a 10 kW, il range di tensione usuale è tra 500V e 900V. Variazione dell'energia prodotta I principali fattori che influenzano l’energia elettrica prodotta da un impianto fotovoltaico sono: • irraggiamento • temperatura dei moduli • ombreggiamenti - Irraggiamento In funzione dell’irraggiamento incidente sulle celle fotovoltaiche, la caratteristica V,I delle stesse si modifica come indicato in figura 154. Figura 154- andamento della tensione in funzione dell'irraggiamento 123 Al diminuire dell’irraggiamento diminuisce proporzionalmente la corrente fotovoltaica generata, mentre la variazione della tensione a vuoto è minima. L’efficienza di conversione non è, di fatto, influenzata dalla variazione dell’irraggiamento entro il range di normale funzionamento delle celle, il che significa che l’efficienza di conversione è la stessa sia in una giornata serena che nuvolosa. La minor potenza prodotta con cielo nuvoloso è riconducibile pertanto, non ad una diminuzione dell’efficienza, ma ad una ridotta produzione di corrente per minor irraggiamento. - Temperatura dei moduli Contrariamente al caso precedente all’aumentare della temperatura dei moduli fotovoltaici, la corrente prodotta resta praticamente invariata, mentre decresce la tensione e con essa si ha una riduzione delle prestazioni dei moduli in termini di potenza elettrica prodotta (figura 155). La variazione della tensione a vuoto Voc di un modulo fotovoltaico, rispetto alle condizioni standard36 Voc,stc, in funzione della temperatura di lavoro delle celle Tcel, è espressa dalla formula seguente (guida CEI 82-25 II ed.): 𝑉𝑜𝑐 = 𝑉𝑜𝑐𝑠𝑡𝑐 − 𝑁𝑆 𝛽(25 − 𝑇𝑐𝑒𝑙 ) [14] dove: Figura 155 - Variazione di tensione in funzione della temperatura delle celle - β e il coefficiente di variazione della tensione con la temperatura e dipende dalla tipologia del modulo fotovoltaico (in genere -2.2 mV/°C/cella per moduli in Silicio cristallino e circa -1.5 . -1.8 mV/°C/cella per moduli in film sottile); - Ns (~50)e il numero di celle in serie nel modulo. (generalmente NS=-0.107 V/°C) Al fine di evitare quindi un’eccessiva riduzione delle prestazioni è opportuno tenere sotto controllo la temperatura in esercizio cercando di dare ai moduli una buona ventilazione che limiti la variazione di temperatura stessa su di essi. Così facendo si può ridurre la perdita di energia per effetto della temperatura (rispetto ai 25°C delle condizioni standard) ad un valore intorno al 7%. 36 STC condizioni standard di temperatura e irraggiamento 25°C e 1 k W/m2 124 - Ombreggiamenti Considerata l’area occupata dai moduli di un impianto fotovoltaico, può accadere che una parte di essi (una o più celle) venga ombreggiata da alberi, foglie che si depositano, camini, nuvole o da moduli fotovoltaici installati nelle vicinanze. In caso di ombreggiamento una cella fotovoltaica costituita da una giunzione P-N smette di produrre energia e diventa un carico passivo. Tale cella si comporta come un diodo che blocca la corrente prodotta dalle altre celle collegate in serie con la conseguente compromissione di tutta la produzione del modulo. Inoltre il diodo è soggetto alla tensione delle altre celle che può provocare la perforazione della giunzione con surriscaldamento localizzato (hot spot) e danni al modulo. Per evitare che una o più celle ombreggiate vanifichino la produzione di un’intera stringa, a livello dei moduli vengono inseriti dei diodi di by-pass che cortocircuitano la parte di modulo in ombra o danneggiata. Così facendo si garantisce il funzionamento del modulo pur con un’efficienza ridotta. Teoricamente occorrerebbe inserire un diodo di by-pass in parallelo ad ogni singola cella, ma ciò sarebbe troppo oneroso nel rapporto costi/benefici. Pertanto solitamente vengono installati tra 2 a 4 diodi di bypass per modulo (figura156). Figura 156 - Collegamento dei diodi di bypass 6.5.2) CONFIGURAZIONE DEL CAMPO SOLARE Il collegamento delle stringhe costituenti il campo solare dell’impianto fotovoltaico può avvenire principalmente prevedendo: • un unico inverter per tutto l’impianto (impianto mono-inverter o ad inverter centralizzato) (figura 157); • un inverter per ogni stringa; • un inverter per più stringhe (impianto multi-inverter). 125 - Impianto mono-inverter37 Noi ci occuperemo solo di questa tipologia in quanto tale configurazione è utilizzata nei piccoli impianti con moduli dello stesso tipo e aventi la stessa esposizione, cioè la situazione che incontrerete nella maggior parte dei casi che vi si presenteranno. Si hanno vantaggi economici derivanti dalla presenza di un unico inverter, in termini di riduzione dell’investimento iniziale e degli oneri di manutenzione. Tuttavia l’avaria del singolo inverter comporta l’arresto della produzione dell’intero impianto. Inoltre tale soluzione è poco adatta all’aumentare dell’estensione (e con essa della potenza di picco) dell’impianto FV, poichè si incrementano i problemi di protezione dalle sovracorrenti ed i problemi derivanti da un diverso ombreggiamento, ossia quando l’esposizione dei moduli non è identica su tutto l’impianto. L’inverter regola il suo funzionamento attraverso il MPPT38, tenendo conto dei parametri medi delle stringhe collegate all’inverter stesso: quindi, se tutte le stringhe sono collegate ad un unico inverter, l’ombreggiamento od il guasto di una o parte di esse comporta una maggior riduzione delle prestazioni elettriche d’impianto rispetto alle altre configurazioni. Figura 157 - Impianto mono-inverter - Scelta ed interfacciamento inverter La scelta dell’inverter e della sua taglia, va effettuata in base alla potenza nominale fotovoltaica che esso deve gestire. Si può stimare la taglia dell’inverter, scegliendo tra 0.8 e 0.9 il rapporto tra la potenza attiva immessa in rete e la potenza nominale del generatore fotovoltaico. Tale rapporto tiene conto della diminuzione di potenza dei moduli fotovoltaici nelle reali condizioni operative (temperatura di lavoro, cadute di tensione sulle connessioni elettriche...) e del rendimento dell’inverter stesso. Tale rapporto dipende anche dalle condizioni d’installazione dei moduli (latitudine, inclinazione, temperatura 37 38 Questa parte dell’impianto è di competenza specifica di un elettrotecnico. Vedi fig.141 e successive spiegazioni 126 ambiente…) che possono far variare la potenza generata. Per questo motivo, l’inverter è provvisto di una limitazione automatica della potenza erogata per ovviare a situazioni in cui la potenza generata sia maggiore di quella normalmente prevista. Gli inverter disponibili sul mercato hanno una potenza nominale fino a circa 10 kW in monofase ed a circa 100 kW in trifase. Tra le caratteristiche di dimensionamento dell’inverter dovrebbero comparire: • lato c.c.: - potenza nominale e massima; - tensione nominale e massima tensione ammessa; - campo di variazione della tensione di MPPT in funzionamento normale; • lato c.a.: - potenza nominale e massima erogabile in modo continuativo dal gruppo di conversione, nonché il campo di temperatura ambiente alla quale tale potenza può essere fornita; - corrente nominale erogata; - corrente massima erogata che consente di determinare il contributo dell’impianto fotovoltaico alla corrente di corto circuito; - distorsione massima della tensione e fattore di potenza; - massima efficienza di conversione; - efficienza a carico parziale ed al 100% della potenza nominale (attraverso il “rendimento europeo”39) attraverso il diagramma di efficienza (figura 157a) Figura 157a - Efficienza a carico parziale Occorre inoltre valutare i valori nominali di tensione e frequenza in uscita e di tensione in ingresso all’inverter. I valori di tensione e frequenza in uscita, per impianti connessi alla rete di distribuzione pubblica, sono imposti dalla rete stessa con tolleranze definite. 39 Il rendimento europeo si determina tenendo in considerazione le efficienze a carico parziale dell’inverter secondo la formula: euro = 0.03.5% + 0.06.10% + 0.13.20% + 0.10.30% + 0.48.50% + 0.20.100% 127 Per quanto riguarda la tensione in ingresso vanno valutate le condizioni estreme di funzionamento del generatore fotovoltaico, al fine di avere un funzionamento sicuro e produttivo dell’inverter. Si deve anzitutto verificare che la tensione a vuoto Voc in uscita dalle stringhe alla minima temperatura ipotizzabile (-10°C) sia inferiore a quella massima sopportabile dall’inverter, ossia: Voc max ≤ U [14b] MAX Ogni inverter è caratterizzato da un range di tensioni in ingresso di normale funzionamento. Poichè la tensione in uscita dai moduli fotovoltaici è funzione della temperatura, occorre verificare che nelle condizioni di esercizio prevedibili (da -10°C a +70°C), l’inverter si trovi a funzionare nell’intervallo di tensione dichiarato dal costruttore. Devono essere quindi verificate contemporaneamente le due disuguaglianze [15] e [16]: Vocmin ≥ UMPPT min [15] ossia, la tensione minima (a 70°C), considerata alla corrispondente massima potenza in uscita dalla stringa con irraggiamento standard, deve essere superiore alla tensione minima di funzionamento del MPPT dell’inverter che mantiene accesa la logica di controllo e permette la corretta erogazione di potenza nelle rete dell’ente distributore. Inoltre: Vocmax ≤ UMPPT max [16] ossia, la tensione massima (a -10°C), considerata alla corrispondente massima potenza in uscita dalla stringa con irraggiamento standard, deve essere inferiore o uguale alla tensione massima di funzionamento del MPPT dell’inverter. In figura 157b vi è una rappresentazione grafica di accoppiamento tra campo fotovoltaico ed inverter che tiene conto delle tre disuguaglianze precedenti [14b],[15],[16]. Oltre al rispetto delle tre condizioni precedenti sulle tensioni, occorre verificare che la massima corrente del 128 generatore fotovoltaico nel funzionamento al MPP sia inferiore alla massima corrente in ingresso ammissibile dall’inverter. - Scelta dei cavi I cavi utilizzati in un impianto fotovoltaico devono essere in grado di sopportare, per la durata di vita dell’impianto stesso (20-25 anni), severe condizioni ambientali in termini di elevata temperatura, precipitazioni atmosferiche e radiazioni ultraviolette. Anzitutto i cavi devono avere una tensione nominale adeguata a quella dell’impianto. In corrente continua, la tensione d’impianto non deve superare del 50% la tensione nominale dei cavi (tabella 158) che si riferisce al loro impiego in c.a. (in c.a. la tensione d’impianto non deve superare la tensione nominale dei cavi). Figura 158- tensione nominale dei cavi - Protezione dell’impianto Oltre a quanto visto è necessario predisporre anche una serie di dispositivi di protezione ( per i cavi, per l’inverter, contro i fulmini ecc.) che qui non tratteremo essendo di competenza dell’elettrotecnico che progetterà questa parte dell’impianto. 6.5.3 CARATTERISTICHE DEL MODULO FOTOVOLTAICO Concludiamo questa parte indicando nella tabella sottostante le caratteristiche del pannello (modulo) fotovoltaico che devono essere fornite dal costruttore: TIPO DI CELLE DENOMINAZIONE SIMBOLO POTENZA NOMINALE WMPP=PMPP EFFICIENZA TENSIONE VMPP CORRENTE IMPP TENSIONE A VUOTO VOC CORRENTE DI CORTOCIRCUITO ISC TENSIONE MASSIMA VMAX COEFFICIENTE DI TEMPERATURA Ns TEMPERATURA MASSIMA TMAX TEMPERATURA MINIMA TMIN DIMENSIONI 129 UNITA’ DI MISURA W % V A V A V V/°C °C °C mm SUPERFICIE PESO ISOLAMENTO S m2 kg Classe II Nell’immagine successiva sono riportati due esempi di specifiche tecniche di pannelli reali. Come si vede le specifiche sono più estese di quanto sopra riportato, ma, per quel che compete ai dati strettamente necessari coincidono. Figura 159a - Specifiche di un pannello solare 130 Figura 159b -Specifiche di un pannello solare Dove l’acronimo NOCT indica la Temperatura Nominale di Operatività della Cella. 6.6) PROGETTAZIONE DI UN IMPIANTO FOTOVOLTAICO In questo capitolo opereremo una sintesi di quanto precedentemente visto applicando le varie parti studiate alla realizzazione pratica di un progetto di impianto FV. Viene proposto un esempio di dimensionamento di un impianto fotovoltaico gridconnected in parallelo ad un impianto utilizzatore preesistente. Il progetto fa riferimento ad un impianto FV di piccole dimensioni tipico di un’utenza familiare. L’impianto utilizzatore è allacciato alla rete BT di distribuzione pubblica con sistemi di messa a terra; all’impianto di terra già esistente verranno connesse le masse dell’impianto FV che rimarrà invece isolato nelle sue parti attive. Si ipotizza infine che la corrente presunta di corto circuito fornita dalla rete di distribuzione sia di 6kA fase-neutro. IMPIANTO FOTOVOLTAICO DA 3.0 kWp Si vuole dimensionare un impianto fotovoltaico allacciato alla rete pubblica di BT in regime di scambio sul posto per una villetta monofamiliare situata in provincia di Bergamo. Tale villetta e già allacciata alla rete con potenza contrattuale di 3.0 kW, con un consumo medio annuale di circa 4000 kWh. La falda del tetto (tetto a due falde) su cui verranno installati i moduli con integrazione parziale ha una superficie di 60 m2, e inclinata di un angolo di tilt β pari a 30° ed ha un orientamento (angolo di Azimut ) di 0° rispetto a sud. Si decide di dimensionare un impianto da 3.0 kWp, al fine di soddisfare il più possibile la richiesta di potenza dell’utente. 131 Si utilizzano pannelli fotovoltaici aventi le seguenti caratteristiche tecniche: TIPO DI CELLE Silicio policristallino Denominazione simbolo Valore e u.m. Potenza nominale MPP WMPP= 175 W Efficienza 12.8% = Tensione MPP VMPP= 23.30 V Corrente MPP IMPP= 7.54 A Tensione a vuoto Vocstc= 29.40 V Corrente di corto circuito ISC= 8.02 A Tensione massima Vmax= 1000 V Coefficiente di temperatura NS= -0.107 V/°C Dimensioni (a*b*h) 2000*680*50 mm Superficie S= 1.36 m2 Temperatura max Tmax= +70 °C Temperatura min Tmin= -10 °C Peso m= 18 kg isolamento classe II Si considera il rendimento dell’impianto BOS=0.90 a) CALCOLO DELL’IRRAGGIAMENTO 40 La valutazione della fonte solare per la località di BERGAMO è stata effettuata in base alla Norma UNI 10349. La norma UNI 10349 fornisce una serie di dati climatici tra cui l’irraggiamento globale giornaliero medio mensile su piano orizzontale con le sue componenti diretto e diffuso. Per la località in esame i valori di irraggiamento giornaliero medio mensile sono inserite nella tabella riportata nella pagina successiva con i valori specificati nella seguente legenda : LEGENDA TABELLA IRRAGGIAMENTO - IMPIANTO FOTOVOLTAICO. A) indicazioni geografiche e di posizione relative alla localizzazione dei pannelli, B) caratteristiche tecniche dei pannelli adottati e potenza nominale dell’impianto. Il foglio elettronico esegue un calcolo mensile dell’insolazione ricevuta dai pannelli utilizzando le seguenti formule: 1) declinazione d ricavata dalla tabella 1 (modulo 4) e trasformazione dell’angolo in radianti. 2) angolo orario calcolato con le: ha = arcos(-tgL × tg𝛿) [15] ha = arcos(-tg(L-) × tg𝛿) [16] ′ 𝐡𝐚 =(min tra i valori di [15] e[16]) Il valore va trasformato in radianti. 3) valori di insolazione media giornaliera sul piano orizzontale, ricavati dalle tabelle UNI 10394 per BERGAMO. 40 Si utilizza il metodo di Liu – Jordan già visto nel modulo 4 per il calcolo dell’irraggiamento sui pannelli solari termici. 132 4) fattori di inclinazione calcolati per ogni mese con: - Fattore di inclinazione Rbh cos(𝐿 − 𝛽)cos(𝛿) 𝑠𝑒𝑛(ℎ𝑎′ ) + ℎ𝑎′ 𝑠𝑒𝑛(𝐿 − 𝛽)𝑠𝑒𝑛(𝛿) R bh = [17] cos(𝐿) cos(𝛿 ) 𝑠𝑒𝑛(ℎ𝑎 ) + ℎ𝑎 𝑠𝑒𝑛(𝐿)𝑠𝑒𝑛(𝛿) - Fattore di diffusione Rdh 1 + cos(𝛽) R dh = [18] 2 - Fattore di riflessione Rrif ( coef. di albedo, Tab. H) 1 − cos(𝛽) R rif = 𝜌 [19] 2 5) energia giornaliera media mensile H incidente sul pannello, che vale: ̅ bh + R dh ∙ H ̅ dh + R rif ∙ (H ̅ bh + H ̅ dh ) H = R bh ∙ H [20] 6) numero di giorni per mese 7) radiazione media giornaliera su un m2 di pannello si ottiene : 𝐸𝑠𝑚 = 𝑛𝐻 8) energia media fornita da 1 m di pannello: 2 12 𝐸𝑡 = ∑ 𝐸𝑠𝑚 1 9) energia media annua prodotta dal impianto tenendo conto dell’efficienza: 𝐸𝑃 = 𝜂 ∙ 𝜂𝐵𝑂𝑆 𝑁𝐴𝑝𝑎𝑛 𝐸𝑡 [13] 10) Numero di pannelli necessari: 𝑁= 𝑊𝑝 𝑊𝑀𝑃𝑃 [23] La superficie totale ricoperta dai moduli è pari a: 𝑆𝑇𝑜𝑡 = 𝑁𝐴𝑝𝑎𝑛 = 18 ∗ 1.36 = 24.48 𝑚2 Che è inferiore ai 60 m2 di falda disponibile. 133 134 Per un singolo modulo, utilizzando la [14]: 𝑉𝑜𝑐 = 𝑉𝑜𝑐𝑠𝑡𝑐 − 𝑁𝑆 𝛽(25 − 𝑇𝑐𝑒𝑙 ) si ha: - Tensione a vuoto massima : 𝑉𝑜𝑐𝑚𝑎𝑥 = 29.40 + 0.107(25 + 10) = 33.13𝑉 - Tensione MPP minima: 𝑉𝑀𝑃𝑃𝑚𝑖𝑛 = 23.30 + 0.107(25 − 70) = 18.50𝑉 - Tensione MPP massima: 𝑉𝑀𝑃𝑃𝑚𝑎𝑥 = 23.30 + 0.107(25 + 10) = 27.03𝑉 Ai fini della sicurezza ed in modo cautelativo, si assume per la scelta dei componenti dell’impianto il valore maggiore tra la tensione a vuoto massima (Vocmax=33.13V) ed il 120% della tensione a vuoto dei moduli (V ocstc quindi 1.2*29.40=35.28V): In questo caso si usa: Tensione a vuoto massima del modulo Vocmax= 35.28V. VALORI DELLA STRINGA DI MODULI FOTOVOLTAICI I 18 moduli saranno collegati in un'unica stringa le cui caratteristiche saranno: - Tensione MPP di stringa 𝑉𝑀𝑃𝑃𝑠 = 𝑛𝑉𝑀𝑃𝑃 = 18 ∗ 23.30 = 419𝑉 - Corrente MPP IMPP=7.54 A - Tensione a vuoto massima 𝑉𝑜𝑐𝑚𝑎𝑥𝑠 = 𝑛𝑉𝑜𝑐𝑚𝑎𝑥 = 18 ∗ 35.28 = 635𝑉 - Tensione MPP min stringa 𝑉𝑀𝑃𝑃𝑚𝑖𝑛𝑠 = 𝑛𝑉𝑀𝑃𝑃𝑚𝑖𝑛 = 18 ∗ 18.50 = 333𝑉 - Tensione MPP max stringa 𝑉𝑀𝑃𝑃𝑚𝑎𝑥𝑠 = 𝑛𝑉𝑀𝑃𝑃𝑚𝑎𝑥 = 18 ∗ 27.03 = 480𝑉 INVERTER Data la piccola potenza dell’impianto fotovoltaico e per effettuare la connessione diretta alla rete in BT monofase, si sceglie un inverter monofase, il quale effettuerà la conversione c.c./c.a. Tale inverter sarà dotato di una protezione interna per evitare l’immissione in rete di correnti con componenti continue. Avrà filtri in ingresso ed uscita per la soppressione di disturbi emessi sia condotti che irradiati, ed un sensore di isolamento verso terra dei moduli fotovoltaici. Sarà munito del dispositivo di inseguimento del punto di massima potenza MPPT e del dispositivo di interfaccia (DDI) con relativo sistema di protezione (SPI). Caratteristiche tecniche DELL’INVERTER fornite dal costruttore: • Potenza nominale in ingresso 3150 W • Tensione di funzionamento lato c.c. MPPT UMPPTmin/max= 203-600 V • Tensione massima lato c.c. UMAX= 680 V • Corrente massima in ingresso lato c.c. 11.5 A • Potenza nominale in uscita lato c.a. 3000 W • Tensione nominale lato c.a. 230 V • Frequenza nominale 50 Hz • Fattore di potenza 1 • Rendimento massimo 95.5% • Rendimento europeo 94.8% 135 Per la verifica del corretto accoppiamento stringa-inverter (vedi cap.6.5.2) occorre anzitutto verificare che la massima tensione a vuoto ai capi della stringa sia inferiore alla massima tensione in ingresso sopportata dall’inverter [14b]: 635 V < 680 V (OK) Inoltre la tensione MPP minima della stringa (𝑉𝑀𝑃𝑃𝑚𝑖𝑛𝑠 )non deve essere inferiore alla minima tensione dell’MPPT dell’inverter [15]: 333 V > 203 V (OK) Mentre la tensione MPP massima della stringa (𝑉𝑀𝑃𝑃𝑚𝑎𝑥𝑠 ) non deve essere superiore alla massima tensione dell’MPPT dell’inverter: 486 V < 600 V (OK) Infine la corrente di corto circuito massima della stringa non deve essere superiore a quella massima sopportabile in ingresso dall’inverter: 8.02 A < 11.5 A (OK) Il cablaggio, gli interruttori, il quadro elettrico e i contatori sono di competenza dell’elettrotecnico. COPERTURA DEL FABBISOGNO PRODOTTA DALL’IMPIANTO FV Sappiamo che il consumo medio annuo per l’abitazione risultava di 4000 kWh. L’impianto fotovoltaico è in grado di generare 4038 kWh all’anno ne consegue che la percentuale di copertura risulta: 𝐶% = 4038 100 = 100% 4000 136 MODULO N.7 7) ENERGIA NUCLEARE Come ultimo argomento del corso analizzeremo l’energia nucleare evidenziando i metodi di produzione, i vantaggi e gli svantaggi che presenta il suo utilizzo. Per comprendere veramente la natura di questa forma di energia è necessario fare un passo in avanti nella conoscenza della struttura atomica rispetto a quella vista fino a questo momento in chimica e in meccanica quantistica. Finora ci si è preoccupati di descrivere il comportamento degli elettroni, indicando il nucleo come qualcosa di invariabile che entrava nei fenomeni studiati solamente come generatore del campo elettrico positivo prodotto dai protoni che, con i neutroni, lo compongono. In realtà la struttura del nucleo e delle particelle presenti a suo interno è estremamente più complessa di quella appena descritta. Per comprendere i fenomeni della radioattività e della produzione di energia nucleare è quindi necessario fare una breve incursione nella fisica nucleare. 7.1) CENNI DI FISICA NUCLEARE Per prima cosa è necessario superare l’idea che i protoni e i neutroni siano le particelle fondamentali che, con l’elettrone, formano tutto ciò che esiste alla base della struttura della materia. Attualmente il numero di particelle fondamentali che si conoscono è dell’ordine delle decine. Per poter procedere in questa branca della fisica è necessario soffermarsi sulle definizioni di alcuni termini in modo da arrivare a comprendere l’insieme delle idee che stanno alla base della fisica nucleare. Vediamo quindi il seguente glossario che costituirà anche un primo percorso all’interno della struttura moderna dell’atomo. INTERAZIONI definizione generale per i modi attraverso cui la materia agisce sulla materia. Nel mondo macroscopico agiscono le due che già conoscete l’interazione gravitazionale e quella elettromagnetica. A livello subatomico si devono aggiungere alle due precedenti le interazioni debole (spiega il decadimento su cui non ci soffermeremo molto) e forte di cui parleremo in modo più esteso più avanti. SPIN ( o più correttamente spin intrinseco) Lo spin è una quantità vettoriale e quantizzata quindi, oltre ad avere una grandezza una direzione e un verso, assume valori che non possono variare in modo continuo. Per la grandezza, gli elementi di questa serie sono dati da 𝑛(𝑛 + 1)ℏ [1] Dove ℏ è la costante di Dirac41 e il numero quantico n è o un multiplo pari di ½ (quindi un intero) o un multiplo dispari di ½ (sarà allora definito semi-intero). Queste 41 ℎ ℏ = 2𝜋 𝑐𝑜𝑛 ℎ = 𝑐𝑜𝑠𝑡𝑎𝑛𝑡𝑒 𝑑𝑖 𝑃𝑙𝑎𝑛𝑐𝑘 137 denominazioni sono trasferite allo spin stesso, che sarà chiamato intero o semi-intero, in dipendenza dai valori di n. Riguardo alla quantizzazione della direzione e del verso, una particella con numero quantico di spin ½ (ricordare l’elettrone) può avere solo una direzione con i due possibili versi up (↑) e down (↓). In genere, uno spin associato con il numero quantico n può avere solo (2n+1) orientazioni permesse, in modo tale che le proiezioni42 di questo spin su di un asse siano date da –n, -(n-1), -(n-1)….+(n+1), n moltiplicate per ℏ. FERMIONE: particella con spin semi-intero. Il numero quantico n è un multiplo dispari di ½ (ad esempio l’elettrone). BOSONE: particella con spin intero. Il numero quantico n è un multiplo pari di ½ (ad esempio il fotone). LEPTONI (dal greco, piccolo): fermioni non sensibili all’interrazione forte. A questo gruppo appartengono: l’elettrone (e), il muone ), il tauone () e i tre neutrini rispettivamente associati (e, m,t). NUCLEONI: il protone e il neutrone, i principali costituenti dei nuclei atomici; entrambi sono fermioni e sono soggetti sia all’interazione forte sia all’interazione debole. IPERONI (dal greco, attivo): che comprendono particelle a cascata cioè fermioni instabili che hanno masse maggiori dei nucleoni e decadono in uno di questi ultimi. Sono soggetti ad entrambe le interazioni nucleari. A questo gruppo, tra gli altri, appartengono: la particella sigma (), il lambda (), il xi () e la omega (). BARIONI (dal greco, pesante): designazione generale per l’insieme di tutti gli iperoni e nucleoni. MESONI (dal greco, medio): le particelle di questa famiglia di bosoni hanno masse comprese tra quelle dei nucleoni e dell’elettrone. Sono soggetti ad entrambe le interazioni sia forte sia debole e decadono, ad esempio, in muoni. Alcuni membri di rilievo di questo gruppo sono: i kaoni (K), i pioni (), il jay/psi (J/) e l’ipsilon (Y). ADRONI ( dal greco, voluminosi): la serie di tutti i barioni e mesoni come mostrato nello schema seguente: 𝐴𝐷𝑅𝑂𝑁𝐼 { 𝑁𝑈𝐶𝐿𝐸𝑂𝑁𝐼 𝐼𝑃𝐸𝑅𝑂𝑁𝐼 𝑀𝐸𝑆𝑂𝑁𝐼 (𝑐ℎ𝑒 𝑠𝑜𝑛𝑜 𝑏𝑜𝑠𝑜𝑛𝑖) 𝐵𝐴𝑅𝐼𝑂𝑁𝐼(𝑐ℎ𝑒 𝑠𝑜𝑛𝑜𝑓𝑒𝑟𝑚𝑖𝑜𝑛𝑖) { ISOSPIN: numero quantico intero o semi-intero assegnato agli adroni per spiegare le loro proprietà di apparire in gruppo ( di barioni o mesoni), in modo che le masse delle 42 Rivedi in meccanica quantistica paragrafo 5.10.3 e successivo. 138 particelle entro ciascun gruppo siano praticamente le stesse, mentre le cariche elettriche, se misurate in unità di carica elementare, formano una serie di numeri interi consecutivi, una cosiddetta carica multipletto (doppietto, tripletto, quadrupletto e, per estensione, singoletto, per due, tre, quattro e uno adroni nel gruppo, rispettivamente).Questo comportamento può essere spiegato in un modo simile alla forma con cui è descritto lo spin: tutte le particelle entro un gruppo hanno lo stesso isospin I, ma differenti valori per la “terza componente” I3 di I, che varia nell’intervallo –I, -(I-1), -(I-2)….,(I-1), I. Per esempio i nucleoni hanno I= ½ con I3 = - ½ per il neutrone e I3 =+ ½ per il protone; questo significa che i nucleoni sono un doppietto. I pioni, a loro volta, hanno I=1, quindi formano un tripletto: I3=-1, per -, I3=0 per °, e I3= +1 per +. QUARKS: fermioni che sono i costituenti degli adroni. Vi sono sei tipi di quarks, chiamati sapori: down (d), up (u), strange (s), charm (c), bottom (b), top (t). ANTIPARTICELLE: il prefisso anti ed una barra sul simbolo sono utilizzati per identificare le antiparticelle dei leptoni, adroni e quarks. Alcune proprietà di una particella e della sua antiparticella hanno lo stesso valore in entrambe (massa, spin), mentre altre manifestano il valore opposto ( carica elettrica, carica colore43, numero di famiglia barionico o leptonico quando applicabile). Una coppia particellaantiparticella può annichilarsi in fotoni in una collisione, ma può anche costituire sistemi che mostrano un ampio spettro di durata di vita. Un esempio di quest’ultimo caso è l’atomo positronio, una struttura simile all’idrogeno con un positrone (cioè un antielettrone) al posto del nucleo. CARICA COLORE o COLORE: questa è una proprietà che ha, nell’interazione forte, un ruolo simile a quello della carica elettrica nell’interazione elettromagnetica, essa è associata ad ogni tipo di quark. A differenza della carica elettrica però vi sono tre44 tipi di carica colore, a ciascuno dei quali corrisponde una diversa carica di anticolore. Addizionando insieme o i tre diversi colori o i tre diversi anticolori, o addizionando ognuno dei tre colori al suo corrispondente anticolore si ottiene tutte le volte un valore pari a zero45. TEORIA GAUGE: teoria di cui la formulazione e sviluppo sono stati elaborati in modo tale da racchiudere in sé certe simmetrie esistenti o auspicabili nell’area di conoscenza a cui si fa riferimento. Per raggiungere questo scopo la teoria richiede l’introduzione di una interazione e di un portatore, un cosiddetto gauge boson, per questa interazione. 43 Vedi voce successiva Anzichè 2: + e 45 La cosa funziona in questo modo anche sommando i colori della luce primari e complementari ottenendo in ogni caso il bianco. In base a questa analogia si è usato il nome di carica colore. 44 139 FOTONE: gauge boson di massa = 0 e spin = 1; è un portatore dell’interazione elettromagnetica. I fotoni non hanno carica elettrica, proprietà essenziale associata all’interazione che trasportano. GLUONE: gauge boson di massa = 0 e spin = 1; portatore dell’interazione forte. A differenza del fotone, i gluoni hanno una carica colore proprietà essenziale associata all’interazione forte. W+,W- e Z°: gauge bosons con spin 1 e massa non nulla, sono i portatori dell’interazione debole che presiede al decadimento . GRAVITONE: gauge boson con spin 2 e massa zero, che dovrebbe essere il portatore dell’interazione gravitazionale. PARTON: termine generale che indica i quarks e i gluoni. 7.1.1) LA STRUTTURA DELLA MATERIA Come detto all’inizio, nella chimica che avete studiato ci si è preoccupati dell’atomo e dei suoi costituenti limitatamente a protoni elettroni e neutroni. Questo era tutto ciò che si sapeva all’inizio del novecento sui costituenti ultimi della materia. A cavallo della seconda guerra mondiale sono state effettuate una serie di nuove scoperte relative a particelle simili ai nucleoni, ma di massa maggiore ( gli iperoni). In aggiunta a queste si individuarono anche molti mesoni, che erano già stati previsti teoricamente come portatori dell’interazione forte. Fino ai giorni nostri il numero di particelle elementari rinvenute sperimentalmente ha superato abbondantemente il centinaio. Come risultato delle scoperte degli ultimi cinquant’anni si può far riferimento al seguente quadro: I) nucleoni (protoni e neutroni) ed iperoni sono costituiti da combinazioni di quarks; II) mesoni sono costituiti da quarks; III) elettroni NON sono composti da sub particelle, appartengono alla famiglia dei leptoni. Mentre i quarks sono soggetti agli effetti di tutti i quattro tipi di interazione, i leptoni non sono sensibili a quella forte. Inoltre le cariche elettriche dei quarks sono frazionarie mentre quelle dei leptoni sono intere. I quarks e i leptoni appaiono in generazioni e, per ognuno dei valori di carica elettrica, la massa cresce con l’avanzare del numero di generazione. Il tutto è riassunto nella seguente tabella: LEPTONI QUARKS GENERAZIONE Carica elettrica -1 0 -1/3 +2/3 PARTICELLE d u I e e FONDAMENTALI m s c II b t III t 140 Allo stato attuale delle conoscenze si ritiene che i sei quark e i sei leptoni, con le loro rispettive antiparticelle, siano le particelle elementari fondamentali costituenti la materia. Come già detto i nucleoni (che nella vecchia logica erano ritenute particelle fondamentali) si è dimostrato che hanno la seguente composizione in quark: protone p+ = u+u+d carica = +2/3+2/3-1/3=+1 neutrone n = d+d+u carica = -1/3-1/3+2/3= 0 Tutti gli adroni hanno composizioni interne e di conseguenza possono “trasformarsi”, in termine tecnico decadere. Nella seguente tabella sono riportate alcune particelle adroniche con i possibili decadimenti. 7.1.2) PRINCIPI DI CONSERVAZIONE Una delle caratteristiche della natura è che “tutto ciò che può accadere, accade”. Se una reazione concepibile non si verifica deve esserci un motivo. Questo motivo in fisica è espresso sotto forma di principio di conservazione. La conservazione dell’energia esclude ogni decadimento in cui la massa di riposo totale dei prodotti sia maggiore della massa iniziale a riposo della particella prima di decadere. La conservazione della quantità di moto impone che, se un elettrone e un positrone fermi si annichilano, devono essere emessi due fotoni. La conservazione della carica limita i possibili decadimenti e le possibili reazioni a quelle per cui la carica elettrica totale prima e dopo il decadimento deve essere uguale. 141 Come notate questi principi sono gli stessi che abbiamo utilizzato nella fisica classica. Nella fisica nucleare sono stati introdotti altri due principi di conservazione: principio di conservazione del numero barionico e principio di conservazione del numero leptonico. Si consideri il possibile decadimento del protone: 𝑝+ → 𝜋 0 + 𝑒 + [2] Questo decadimento conserva la carica, l’energia, il momento angolare e la quantità di moto ma non si verifica perché non conserva né i leptoni né i barioni. La conservazione dei leptoni e dei barioni implica che, ogni qual volta si crea un leptone o un barione, si deve creare anche un’antiparticella dello stesso tipo. Questa regola viene descritta assegnando a tutti i leptoni il numero leptonico L=+1, a tutti gli antileptoni L=-1 e a tutte le particelle che non sono leptoni L=0. Analogamente si assegna un numero barionico B=+1 a tutti i barioni, B= -1 a tutti gli antibarioni e B=0 alle particelle che non sono barioni. Come si vede nella relazione [2] il numero barionico prima e dopo il decadimento vale 1 ma quello leptonico vale zero prima del decadimento mentre vale -1 dopo il decadimento (dovuto all’antiparticella dell’elettrone). La conservazione del numero leptonico impone che il possibile decadimento del neutrone, che quindi non è stabile, avvenga con l’emissione di un antineutrino. Questo decadimento, definito decadimento , si esprime con la relazione: 𝑛 → 𝑝+ + 𝑒 − + 𝜈̅𝑒 [3] Questa relazione rispetta tutti i principi di conservazione ed infatti si verifica in natura. Quindi come si vede i neutroni possono decadere generando tra l’altro protoni. Vi sono anche altri principi che valgono solamente per alcuni tipi di particelle e di decadimenti e coinvolgono una grandezza definita stranezza che li descrive ma che non rientrano nelle cose che possono interessarci nel seguito del corso e che quindi tralasciamo. 7.1.3) INTERAZIONE NUCLEARE FORTE E STRUTTURA DEL NUCLEO Per mantenere legati i nuclei che sono composti da protoni, con carica elettrica positiva, e neutroni, elettricamente neutri, risulta evidente che necessita la presenza di una nuova forza in quanto la presenza solamente di quella elettrica respingerebbe i protoni impedendo la formazione del nucleo stesso. Questa forza deve essere sufficientemente intensa per poter annullare la repulsione elettrostatica e per poter mantenere entro i confini del volume del nucleo i protoni e i neutroni. Abbiamo visto precedentemente che i due nucleoni sono composti da quark a ciascuno dei quali è associata quella che abbiamo definito la carica colore. L’interazione che cerchiamo è il risultato degli effetti di queste cariche colore che determinano quella che viene chiamata “interazione forte”. Non scendiamo nei particolari (dipende dalle cariche colore dei quark) del calcolo di tale forza; quello che serve sapere è che essa ha un piccolo raggio di azione (dell’ordine delle dimensioni di un nucleone) ma ha un modulo maggiore della forza repulsiva elettrica che si scambiano due protoni. Questo implica che la forza di attrazione fra due nucleoni tende rapidamente a zero con la 142 distanza e sicuramente non se ne risente al di fuori del nucleo. Significa, inoltre, che in generale un dato nucleone può interagire solamente con i nucleoni vicini e non con tutti i nucleoni del nucleo di cui fa parte. Ricordiamo che, invece, la forza di Coulomb è una forza a lungo raggio e che quindi tutti i protoni del nucleo interagiscono tra di loro respingendosi. Sistematica del nucleo Come ricorderete dalla chimica il numero di protoni presente in un nucleo è chiamato numero atomico ed è indicato con Z. Il numero di neutroni è chiamato numero neutronico ed è indicato con N. Il numero totale di nucleoni è chiamato numero di massa ed è indicato con A. A=Z+N [4] Si usa A, numero totale dei nucleoni, come indice scritto in alto a sinistra del simbolo per identificare i nuclidi. 197Au indica che l’oro ha nel suo nucleo 197 nucleoni. Sappiamo che per l’oro il numero atomico è Z=79 quindi che il numero di neutroni risulta N=197-79=118. La figura n.160 mostra una carta dei nuclidi, dove Z e N sono le coordinate di ciascun nuclide rappresentate da un piccolo cerchio. Figura 260 143 I cerchi neri individuano nuclei stabili, i cerchi colorati i nuclidi radioattivi (radionuclidi) che sono relativamente stabili avendo un tempo di dimezzamento maggiore di 100 anni; i cerchi bianchi rappresentano radionuclidi con tempo di dimezzamento inferiore ai 100 anni. Si vede che i nuclidi più stabili (neri o colorati) sono disposti lungo una fascia rettilinea mentre quelli instabili sono a cavallo di essa. E’ evidente, inoltre, che i nuclei più leggeri tendono ad avvicinarsi alla linea Z=N, mentre quelli più pesanti si trovano sotto questa linea e quindi hanno più neutroni che protoni. La tendenza ad avere un eccesso di neutroni per grandi numeri di massa è un effetto della forza elettrostatica. Poiché un nucleone interagisce con la forza nucleare forte solo con i nucleoni più vicini, l’energia del legame nucleare cresce proporzionalmente ad A. L’energia coulombiana cresce più rapidamente perché ciascun protone interagisce con tutti gli altri e quindi diviene più grande con il crescere del solo numero atomico, ne segue che a parità di forza elettrica 144 (protoni) la forza nucleare aumenta per lo stesso nucleo se si aumenta N e non Z fino a raggiungere il bilanciamento cercato. Raggio del nucleo – per definire il raggio del nucleo si utilizza come unità di misura il fermi (fm) definito nel seguente modo: 1 fm = 10-15 m [5] Sperimentalmente si è trovato che il raggio medio caratteristico (in realtà il nucleo non è perfettamente sferico) risulta: 𝑅= Con 1 𝑅0 𝐴3 R0= 1.1 fm [6] [7] ESEMPIO N. 46 Confrontare il raggio medio del nucleo del rame con quello del suo ione in un reticolo cristallino dove la distanza tra ioni misura d= 0.96 10-10m. Dati: massa atomica del rame A=63 Applicando la [6] si ha: 1 1 𝑅 = 𝑅0 𝐴3 = 1.1 ∙ 633 = 4.4 𝑓𝑚 = 4.4 ∙ 10−15 𝑚 R è dell’ordine di 104 volte più piccolo di d. ESEMPIO N. 47 Calcolare la densità del nucleo dell’idrogeno (quindi di un protone). =1.67 10-27kg) Il raggio medio del protone risulta: 1 1 𝑅 = 𝑅0 𝐴3 = 1.1 ∙ 13 = 1.1 𝑓𝑚 = 1.1 ∙ 10−15 𝑚 La densità , considerandolo sferico, risulta: 3 ∙ 1.67 ∙ 10−27 𝜌= = = 3.0 ∙ 1017 𝑘𝑔/𝑚3 4 3 4𝜋 ∙ (1.1 ∙ 10−15 )3 3 𝜋𝑅 𝑚 Come si vede è 1014 volte più grande di quella dell’acqua. Massa dei nuclei ed energia di legame Ricordiamo la definizione di unità di massa atomica u: 1 u = 1.6605 10-27 kg 145 (m In fisica nucleare le variazioni di energia sono di solito così grandi che la formula di Einstein che collega massa ed energia: 𝐸 = 𝑚𝑐 2 [8] diventa un indispensabile strumento di lavoro. In pratica si usa l’energia equivalente ad una massa atomica cioè, considerando una massa pari ad 1 u: 𝐸 = 𝑚𝑐 2 = 1.6605 ∙ 10−27 ∙ (2.9979 ∙ 108 )2 = 1.4924 ∙ 10−10 𝐽 Ricordando la definizione di elettronvolt: 1 eV= 1.602 10-19J E=9.315 108eV= 931.5 MeV Si ha: Questo comporta che : 𝑐2 = 𝐸 𝑀𝑒𝑉 = 931.5 𝑚 𝑢 [9] Quindi utilizzando questo valore si può immediatamente calcolare l’energia di una quantità qualsiasi di masse nucleoniche A o DA moltiplicando il valore in u per il valore della [9]. ESEMPIO N.48 Il nucleo del Deuterio consiste di un protone e di un neutrone legati dalla forza nucleare forte. Se si vuole rompere questo legame ed ottenere quindi un atomo di idrogeno, occorre fornire un quantitativo di energia EB, detta energia di legame. Dalla conservazione della massa e dell’energia si ha: mDc2+ EB=mnc2+mHc2 dove: massa del Deuterio: mD = 2.01410 u massa di un neutrone: mn= 1.00867 u massa dell’Idrogeno: mH= 1.00783 u ricavando l’energia di legame si ha: EB=( mn+mH- mD)c2=∆𝑚𝑐 2 = =(1.00867+1.00783-2.01410)932=2.24Mev Ricordiamo che l’energia di legame dell’elettrone dell’idrogeno (esempio n.2) vale 13.6 eV quindi quella di legame nucleare è dell’ordine di 105volte più grande. 146 Figura 161- Energia di legame in funzione del numero di nucleoni A ESEMPIO N. 49 Calcolare l’energia di legame per nucleone necessaria a scindere i nucleoni del nucleo di Iodio. Dati: Z = 53, N= 74, A= 127; mI= 126.90448 u; mp= 1.00783u; mn=1.00867u; c2=932 MeV/u. La massa totale dei componenti del nucleo separati risulta: m=Zmp+Nmn= 128.05657 u Il difetto di massa del nucleo vale quindi: Dm=m-mI=1.15209 u L’energia totale di legame è: E= Dmc2= 1073.7 MeV L’energia di legame per nucleone vale: 𝐸 EB=𝐴 = 8.45 𝑀𝑒𝑉 𝑛𝑢𝑐𝑙𝑒𝑜𝑛𝑒 In figura 161 è rappresentato l’andamento dell’energia di legame media per nucleone – energia di legame totale di un nucleo divisa per il numero totale di nucleoni A – in funzione del numero di massa A. Osservando la curva si nota che, a partire dagli elementi più leggeri, l’energia di legame cresce con l’aumentare del numero di massa, raggiungendo un valore massimo 147 di circa 8,8 MeV, in corrispondenza dell’isotopo 62Ni (EBNi = 8,7946 ± 0,0003 MeV/nucleone), e poi diminuisce gradualmente fino a 7,6 MeV per A = 238, valore – come vedremo tra poco – insufficiente per mantenere unito il nucleo. Questo andamento è di importanza fondamentale per i decadimenti nucleari e per la produzione di energia da processi nucleari. Come abbiamo detto precedentemente, la forza attrattiva su un singolo nucleone è dovuta a tutti gli altri nucleoni del nucleo che si trovano a distanza minore del raggio di azione della forza nucleare: quanto maggiore è questo numero tanto maggiore è la forza attrattiva e quindi l’energia necessaria per strappare un particolare nucleone. Questo spiega il valore più basso dell’energia di legame dei nuclei leggeri. Poiché il raggio di azione della forza nucleare è corto e i nucleoni sono incompressibili, al crescere del numero di nucleoni si arriva ad una situazione (caso dei nuclei pesanti) in cui i nucleoni sono per la maggior parte troppo distanti per esercitare un’attrazione reciproca notevole. Per contro, poiché la forza elettrica non diminuisce così rapidamente con la distanza quanto la forza nucleare, nei nuclei più grandi la repulsione elettrica tra i protoni ha un’influenza tutt’altro che trascurabile. Un altro aspetto importante della curva della figura 161 è il picco per il nucleo 4He, che risulta particolarmente stabile rispetto ai nuclei vicini (EB4He = 7 MeV). Ciò comporta che nei nuclei pesanti esiste una situazione favorevole, dal punto di vista energetico, all’emissione spontanea di nuclei di elio (chiamati particelle alfa nei decadimenti nucleari). E’ facile rendersi conto di questo fatto: per esempio, in un nucleo in cui EB = 8 MeV (A =180 in figura 160), l’energia di legame totale di due protoni e due neutroni è più grande di quella complessiva di un nucleo 4He (EB4He = 7 MeV): precisamente 4∙8MeV = 32 MeV contro 4∙7 = 28 MeV. Pertanto per liberare una particella a da quel nucleo sono richiesti soltanto 4 MeV (32 – 28 = 4 MeV) contro gli 8 MeV richiesti per liberare un singolo nucleone. Poiché per i nuclei con A > 185 l’energia media di legame per nucleone è minore di 8 MeV e decresce al crescere di A, l’energia richiesta per l’emissione di una particella a può ridursi a zero e il nucleo può emettere spontaneamente (ossia senza necessità di energia aggiuntiva) particelle . E’ chiaro che per due protoni e due neutroni è energeticamente conveniente essere legati in un nucleo 4He anziché in un nucleo molto più pesante dove i due protoni sarebbero respinti dai molti altri protoni presenti. Questo è il motivo per cui i nuclei con massa A maggiore di quella del nucleo 209Bi sono instabili ed emettono particelle . La curva di figura 161 mostra anche che la fusione (cioè l’unione di due nuclei leggeri in uno più pesante) è energeticamente favorevole per i nuclidi più leggeri e la fissione (cioè la scissione di un nucleo pesante in due nuclei di massa circa metà) lo è per quelli più pesanti. Un nucleo è, infatti, dinamicamente instabile quando la sua energia di legame per nucleone è inferiore a quella nei frammenti in cui può dividersi. Un esame della figura 161 mostra che questo fatto si verifica per tutti i nuclei di numero A >100, che pertanto sono instabili rispetto al processo di fissione. 148 ESEMPIO N.50 Calcolare l’energia di legame totale del più abbondante isotopo del ferro, il nucleo 56 Fe. Soluzione L’energia di legame totale si ottiene sottraendo la massa del nucleo56Fe dalla somma delle masse dei 26 protoni e 30 neutroni che lo costituiscono. Utilizzando i valori tabulati (quando si usano i valori delle masse atomiche per determinare il difetto di massa di un nucleo occorre tenere conto della massa degli elettroni. Per questo useremo la massa degli atomi di idrogeno invece di quella del protone) si ha: Δm(56Fe) = 26m (1H) + 30mn – mFe = = 26(1,007825) + 30(1,008665) – (55,934939)= 0,52846 u. L’energia di legame del nucleo 56Fe è quindi: Δm∙c 2 = (0,52846 u)c 2(932 (MeV/c 2)/u) = 492 MeV. L’energia media di legame per nucleone in un nucleo di ferro-56, che ha 56 nucleoni, è: (492 MeV)/(56 nucleoni) = 8,8 MeV. ESEMPIO N.51 Calcolare il difetto di massa e l’energia di legame del più abbondante isotopo dell’elio, il nucleo 4He, la cui massa è mHe = 6,6447∙10‑27 kg. Soluzione Per ottenere il difetto di massa Δm, si deve sottrarre la massa del nucleo 4He dalla somma delle masse dei due protoni e due neutroni che lo costituiscono: Δm è pari a circa il 7 ‰ della massa mHe [infatti: (0,0504∙10−27)/( 6,6447∙10−27) = 0,0076 ]. L’energia di legame del nucleo 4He è quindi (usando il valore approssimato c ≈ 3∙108 m/s per la velocità della luce nel vuoto): ∆𝑚𝑐 2 = 0.0504 ∙ 10−27 ∙ (3.00 ∙ 108 )2 = 4.53 ∙ 10−12 𝐽 = 28.3 𝑀𝑒𝑉 Questo valore è più di 2 milioni di volte l’energia necessaria per rimuovere un elettrone da un atomo di idrogeno, che vale 13,6 eV. L’energia media di legame per nucleone in un nucleo di elio-4, che ha 4 nucleoni, è (28,3 MeV)/(4 nucleoni) = 7,07 MeV. ESEMPIO N.52 Valutare se il nucleo 226Ra (massa = 226,025403 u) può subire un decadimento a spontaneo trasformandosi in 222Rn (massa = 222,017570 u). Soluzione La massa del nucleo 226Ra è maggiore della somma delle masse dei nuclei 222Rn e 4He: 149 mRa – (mRn + mHe) = 226,025403 – (222,017570+ 4,002603) = 0,005230 u Pertanto la disintegrazione spontanea è possibile. Un simile processo si dice “energeticamente possibile”. ESEMPIO N.54 Per nuclei con numero di massa A = 180 e A = 200 l’energia di legame media per nucleone è rispettivamente di 8,0 MeV e 7,85 MeV. Calcolare l’energia di legame media EB dei 20 nucleoni in più nel secondo nucleo. Soluzione Utilizzando i dati forniti, risulta il seguente bilancio energetico: 180∙8,0 + 20EB = 200∙7,85 da cui segue: EB = 6,5 MeV Se due protoni e due neutroni di questi 20 nucleoni formassero un nucleo 4He, essi sarebbero legati tra di loro con 7 MeV ciascuno. Pertanto l’emissione di un nucleo 4He (particella a) porterebbe a una riduzione dell’energia di 4(7 – 6,5) = 2 MeV ed è, quindi, favorita dal punto di vista energetico. ESEMPIO N.55 Calcolare quanta energia si libera nella reazione: 2 H + 3H → 4He + n in cui un nucleo di deuterio e uno di trizio si fondono, formando un nucleo di elio e un neutrone libero. Soluzione L’energia liberata si ottiene sottraendo la massa totale del sistema finale (nucleo 4He e un neutrone) dalla somma delle masse del sistema iniziale (deuterio e trizio): m(2H) + m(3H) – [m(4He) + m(n)] = =2,014102 + 3,016029 – 4,002603 – 1,008665 = 0,188630 u. Pertanto l’energia liberata è (0,18863 u)(931,5 MeV/u) = 17,57 MeV. Alla reazione di fusione partecipano cinque nucleoni e, quindi, l’energia di legame liberata per nucleone è: 17.57 ∆𝐸 = 5 = 3.51 𝑀𝑒𝑉 Questa energia è circa 4 volte maggiore di quella liberata in un processo di fissione, pari a circa 0,9 MeV/nucleone. A parità di massa di combustibile, una reazione di fusione fornisce più energia di una reazione di fissione. 150 7.2) LE REAZIONI NUCLEARI Così come avvengono reazioni chimiche che modificano la distribuzione degli elettroni esterni degli atomi, dando origine alla formazione di molecole, reazioni tra due nuclei che possono dare luogo a formazioni di nuclei diversi da quelli iniziali. Nel caso delle reazioni nucleari, le energie in gioco nelle trasformazioni sono molto maggiori (circa un milione di volte) di quelle che intervengono nelle reazioni chimiche. Occorrono quindi situazioni particolari perchè le reazioni nucleari possano avvenire. Tali condizioni si verificano, per esempio, nella regione centrale delle stelle dove, per effetto della grande pressione esercitata dalla massa dell’astro, i nuclei di idrogeno (elemento di cui è costituita la stella) sono portati a stretto contatto fra loro e possono fondere, dando luogo a una serie di reazioni che portano alla produzione di nuclei di elio, liberando, sotto forma di radiazione e rilascio di neutrini, un’energia pari a circa 28 MeV (vedi Esempio 51). Quando la zona centrale della stella si è arricchita di elio, sempre con un meccanismo di fusione, le stelle fabbricano carbonio, azoto e ossigeno. Successivamente partendo da questi elementi vengono prodotti elementi ancora più pesanti, come ferro e silicio. In una delle fasi finali una stella può esplodere, scaraventando fuori i prodotti della sua attività. Nella fase dell’esplosione vengono prodotti tutti i nuclei più pesanti del ferro e molti nuclei di massa intermedia. L’origine degli elementi di cui è costituita la Terra risale quindi a remote esplosioni stellari che liberarono nello spazio circostante tutti gli elementi. In quel processo vennero liberati nuclei stabili e nuclei instabili. 7.2.1) NUCLEI INSTABILI E RADIOATTIVITÀ Un nucleo è instabile se può trasformarsi spontaneamente in un nucleo diverso o può riordinare la propria struttura interna con liberazione di energia. Questa instabilità è detta radioattività. Un nucleo instabile, o radionuclide, emette particelle o pacchetti di energia. Queste emissioni sono determinate, valutate e misurate con estrema precisione; esse sono tipiche di ciascun nucleo emettitore. –– Si ha un’emissione (alfa) quando il nucleo di un atomo espelle un nucleo di elio4, 4He, consistente in due protoni e due neutroni legati. Schematicamente: 𝐴 𝐴−4 4 𝑍𝑋 → 𝑍−2𝑌 + 2𝐻𝑒 Ad esempio: 238 𝑈 → 234𝑇ℎ + 4𝐻𝑒 151 Figura 162 - Decadimento alfa –– Si ha un’emissione - (beta meno) quando un neutrone interno ad un nucleo si trasforma in un protone emettendo un elettrone e una particella neutra detta antineutrino. 𝐴 𝐴 − Schematicamente: 𝑍𝑋 → 𝑍+1𝑌 + 𝑒 + 𝜈̅𝑒 A livello di nucleoni: 𝑛 → 𝑝 + 𝑒 − +𝜈̅𝑒 –– Si ha un’emissione + (beta più) quando un protone interno ad un nucleo si trasforma in un neutrone emettendo un positrone (ossia un “elettrone positivo”, vedi glossario) e una particella neutra detta neutrino. Schematicamente: A livello di nucleoni: 𝐴 𝑍𝑋 → 𝑍−1𝐴𝑌 + 𝑒 + + 𝜈𝑒 𝑝 → 𝑛 + 𝑒 + + 𝜈𝑒 Figura 163 - Decadimenti beta –– Si ha un’emissione (gamma) quando, fermo restando il numero di nucleoni costituenti il nucleo dell’atomo, variano i livelli energetici da essi occupati e l’energia risultante viene emessa come un'onda elettromagnetica, non accompagnata da materia. I raggi sono anche descritti come pacchetti di energia, chiamati fotoni. Schematicamente: 𝐴 𝑍𝑋′ → 𝐴𝑍𝑋 + 𝛾 Il nucleo non cambia ma lo stato finale ha perso energia rispetto a quello di partenza e quindi è più stabile. 152 Poichè le emissioni e comportano una variazione del numero delle cariche elettriche dell’atomo (l’emissione produce una diminuzione di due cariche positive, mentre le emissioni - e + producono rispettivamente l’aumento e la diminuzione di una carica positiva), l’atomo emettitore si trasmuta da un elemento a un altro. Le emissioni sono elettricamente neutre e non provocano trasmutazioni. Questi processi si indicano usualmente con il termine decadimento e si parla di un nucleo che decade . Esistono molti isotopi instabili in natura e la radioattività che essi emanano è detta radioattività naturale. In laboratorio si possono produrre molti altri isotopi instabili per mezzo di reazioni nucleari; si dice quindi che questi isotopi sono prodotti “artificialmente” e si parla in questi casi di radioattività artificiale. E’ bene evidenziare che dal punto di vista fisico le radiazioni naturali e quelle artificiali sono perfettamente uguali. Ogni nuclide instabile emette sempre lo stesso tipo di radiazioni e con la stessa energia totale unitaria; ad esempio, un emettitore emette sempre fotoni di uguale energia. Figura 164 - Decadimento dell'uranio-238 In alcuni casi il nucleo che si è formato dopo l’emissione di radiazione è a sua volta instabile. Il processo di decadimento si ripete quindi fino al raggiungimento di una configurazione stabile. E’ il caso, per esempio, dell’uranio-238 che si trasforma in piombo con una successione di quattordici decadimenti (fig.164). Il decadimento riguarda principalmente gli isotopi degli elementi più pesanti (Z > 78), mentre il decadimento avviene negli isotopi di tutti gli elementi: precisamente gli isotopi che si trovano sopra la curva di stabilità di figura 160 decadono + quelli che si trovano sotto la curva decadono -. Il decadimento si accompagna spesso al decadimento o . Infatti, quando un nucleo radioattivo decade, il nucleo figlio non viene necessariamente prodotto nella configurazione di più bassa energia (stato 153 fondamentale): in tal caso decade rapidamente nello stato fondamentale mediante emissione di . 7.2.2) TEMPO DI DIMEZZAMENTO, VITA MEDIA, ATTIVITÀ Oltre che dal tipo di particelle emesse e dalla loro energia, un radionuclide viene caratterizzato anche dalla rapidità con cui avviene il decadimento. E’ questa una proprietà intrinseca del nucleo stesso, che non dipende dalle condizioni esterne in cui esso si trova, quali temperatura, pressione, presenza di altri elementi che ne diluiscano la concentrazione, ecc. Ogni nucleo radioattivo ha una probabilità ben definita di decadere in un dato periodo di tempo; pertanto il numero di decadimenti ΔN che avviene in un breve intervallo di tempo Δt è proporzionale a Δt e al numero totale N di nuclei radioattivi presenti, ossia ΔN = – NΔt [10] dove il segno meno al secondo membro tiene conto del fatto che il numero N di nuclei radioattivi va diminuendo con il passare del tempo e è una costante che prende il nome di costante di decadimento. Quanto maggiore è , tanto più elevata è la frequenza dei decadimenti. La costante di decadimento è fissa per ciascun radionuclide, ma varia molto tra i diversi radionuclidi. Per la misura della velocità di un decadimento si usa l’emivita o tempo di dimezzamento (che si denota con 1/2), che è il tempo trascorso il quale la metà dei radionuclidi presenti in un materiale radioattivo si è disintegrata. L’equazione [10] può essere risolta rispetto a N (mediante qualche passaggio di analisi matematica) ottenendo il risultato: N(t) = N0 e-t [11] dove N0 è il numero di nuclei presenti al tempo zero e N(t) rappresenta il loro numero dopo un tempo t. L’equazione (11) indica che il numero di nuclei radioattivi presenti in un campione diminuisce nel tempo con l’andamento esponenziale riportato in figura 163: dopo ciascun periodo di tempo t1/2 resta metà della quantità di radionuclide che esisteva all’inizio di quel periodo di tempo. Pertanto, dopo n tempi di dimezzamento la quantità di isotopo radioattivo si è ridotta a 1/2n della quantità iniziale. In base alla sua definizione, dall’equazione (11) segue che il tempo di dimezzamento o emivita è: ln 2 0.693 𝜏1/2 = 𝜆 = 𝜆 [12] Spesso si usa anche la vita media di un isotopo definita come = 1/,così la precedente relazione diventa: 1/2 = 0,693 [13] E’ opportuno evidenziare che le due grandezze, vita media e emivita, sono diverse numericamente e quindi confonderle può provocare gravi errori. 154 I tempi di dimezzamento dei diversi nuclei radioattivi variano entro limiti assai ampi, passando da oltre centomila miliardi di anni dell’indio-115, agli otto giorni dello iodio131, fino a un milionesimo di miliardesimo di secondo per certi nuclei. L’uranio-238 ha un tempo di dimezzamento circa uguale all’età media della Terra (che e stimata in 4,5 miliardi di anni). Questo significa che circa la metà dell’uranio-238 esistente al momento della formazione della Terra è ancora presente oggi. La quantità di radiazioni emesse da una sostanza contenente isotopi radioattivi dipende da due fattori: il numero di nuclei instabili presenti e il loro tempo di dimezzamento. Ai fini pratici, tuttavia, è importante poter individuare l’attività (velocità di decadimento), ΔN/Δt, di una sostanza radioattiva, definita come il numero di decadimenti che avvengono nell’unità di tempo. Figura 165 - Andamento del decadimento nel tempo Usando l’equazione (10) si ha: Δ𝑁 | = 𝜆𝑁 [14] Δ𝑡 L’unità di misura dell’attività è il becquerel (Bq), così chiamato in onore del grande fisico francese che, per primo, scopri i fenomeni radioattivi. Si parla di 1 becquerel quando nella sorgente radioattiva avviene una trasformazione al secondo, con conseguente emissione di una particella o . 𝑅=| ESEMPIO N.56 Un isotopo radioattivo 124Sb (antimonio) con attività iniziale R0 =7,4∙107 Bq ha una emivita di 60 d. Calcolare la sua attività residua R dopo un anno. Soluzione la costante di decadimento del campione di antimonio in esame è = 0,693/60 = 0,01155 d−1 . 155 Usando le equazioni (11) e (14) e chiamando N0 e N il numero di nuclei di Sb all’istante iniziale e dopo un anno, si ottiene: Δ𝑁 𝑅𝑜 = | | = 𝜆𝑁0 Δ𝑡 0 Δ𝑁 𝑅 = | | = 𝜆𝑁 = 𝜆𝑁𝑜 𝑒 −𝜆𝑡 = 𝑅0 𝑒 −𝜆𝑡 = 7.4 ∙ 107 ∙ 𝑒 −0.01155∙365 = 1.09 ∙ 106 𝐵𝑞 Δ𝑡 ESEMPIO N.57 In t=3,5 ore l’attività di un isotopo radioattivo passa da R0= 350 a R= 275 disintegrazioni al minuto. Calcolare la sua emivita e la sua costante di decadimento. Soluzione Dall’esempio precedente risulta che R/R0 = e-t . Eseguendo il logaritmo naturale del primo e secondo membro di questa relazione si ha: 𝑙𝑛 𝑅 = −𝜆𝑡 𝑅0 da cui segue 𝜆=− 𝑅 𝑙𝑛 𝑅 𝑜 𝑡 = 𝑅𝑜 𝑅 = 1.91 ∙ 10−5 1/𝑠 𝑡 𝑙𝑛 osservando che t=3,5 ore = 12600 s. Il tempo di dimezzamento è quindi: 𝜏1/2 = 0.693 = 3.62 ∙ 104 𝑠 = 10 ℎ 𝜆 7.2.3) RADIOATTIVITÀ NATURALE E ARTIFICIALE L’uomo è sempre stato esposto alle radiazioni naturali. Siamo colpiti dalle radiazioni del Sole e a quelle cosmiche provenienti da altri corpi celesti; materiali naturalmente radioattivi sono presenti ovunque: nel terreno e negli edifici in cui abitiamo, nel cibo e nell’acqua che consumiamo. Gas radioattivi sono nell’aria che respiriamo e persino il nostro corpo è reso debolmente radioattivo dalla presenza di sostanze radioattive naturali. I livelli di queste radiazioni naturali, usualmente chiamate radiazioni di fondo, non sono costanti in ogni luogo e dipendono in parte anche dalle abitudini di vita. L’uomo non è esposto solo a radiazioni naturali dato che, nel corso di tutta la vita, viene a contatto con sorgenti di radiazioni che egli stesso ha creato. I raggi X e altri tipi di radiazioni usate in medicina, le ricadute radioattive causate dagli esperimenti con esplosivi nucleari o ancora i materiali radioattivi generati nel corso della 156 produzione di energia nucleare sono solo alcuni esempi di queste sorgenti di radiazioni. I danni che le radiazioni possono provocare agli organismi biologici sono principalmente dovuti alla ionizzazione, cioè alla rimozione di un elettrone dalla nuvola elettronica di un atomo. Nel tessuto biologico la componente fondamentale èla cellula composta per l’80% di acqua (H2O) e per il restante 20% da sistemi biologici complessi. Il processo di ionizzazione produce radicali OH• liberi che sono chimicamente molto attivi e possono alterare altre importanti molecole nella cellula. Queste variazioni chimiche possono causare dannosi effetti biologici e il danno dipende dalla parte di cellula colpita: se la ionizzazione ha luogo nelle parti critiche della cellula, quali il DNA che presiede al funzionamento e alla riproduzione della cellula stessa, queste funzioni possono essere alterate con gravi danni biologici, fino alla formazione di tumori o modificazioni genetiche. Per quanto riguarda la pericolosità dei radionuclidi è importante osservare che, a parità di numero di radionuclidi, un tempo di dimezzamento più breve significa che l’attività è più elevata e quindi la sostanza è più radioattiva e potenzialmente più pericolosa. D’altra parte un tempo di dimezzamento più breve significa che il materiale in questione decadrà più presto a un livello inferiore e quindi richiede una protezione per un periodo di tempo più breve. Per esempio, in un campione di un materiale radioattivo con emivita 30 anni, metà dei nuclei si disintegra in quel periodo. Un materiale con lo stesso numero di radionuclidi con emivita 300 anni avrà perso, dopo lo stesso periodo, meno di 1/10 della radioattività iniziale (1 – e–(0,1×0,693)) = 0,067; ma la manterrà 10 volte più a lungo. Per un’emivita di 3000 anni il numero di decadimenti sarà circa 1/100 (1 – e–0,00693 =0,007). Pertanto i materiali più pericolosi sono spesso quelli con emivita né lunga né corta, ma intermedia. Questo perchè, quando è esposto, il nostro corpo riceve solo i decadimenti che hanno luogo nel corso della nostra vita e i radionuclidi con emivita breve scompaiono rapidamente, mentre quelli con emivita lunga impiegano talmente tanto tempo a esaurirsi perchè hanno pochissimi decadimenti al secondo e quindi per generare dosi significative richiedono tempi enormi. 7.2.4) EFFETTI BIOLOGICI DELLE RADIAZIONI. DOSIMETRIA L'informazione sull'attività di una sorgente non è sufficiente per conoscere del tutto gli effetti prodotti dalle radiazioni emesse. Ciò deriva dal fatto che le interazioni di particelle e di neutroni con la materia sono diverse e dipendono inoltre dall’energia delle radiazioni. La radiazione può essere fermata da un foglio di carta, quella può attraversare 1– 2 cm di tessuto umano, i raggi e i neutroni sono assai più penetranti (vedi figura 166). Un comportamento così diverso dipende dal differente modo di interazione con la materia delle varie radiazioni. I raggi e , che sono particelle cariche, nell’attraversamento di un qualsiasi materiale, strappano elettroni agli atomi che incontrano per via (ossia li ionizzano) e trasferiscono loro una frazione della loro energia. Cosi alla fine del percorso, quando si arrestano, la loro energia iniziale è stata interamente trasferita al mezzo attraversato. Le particelle , che hanno massa assai 157 maggiore (circa ottomila volte) delle particelle , perdono energia assai più rapidamente e quindi vengono arrestate da piccoli spessori di materiale. Figura 166 - penetrazione delle radiazioni nucleari L’interazione dei raggi con la materia è invece più complessa: un può attraversare notevoli spessori di materiale conservando per intero la sua energia, finché, nell’interazione con un atomo, strappa via un elettrone, cedendo ad esso buona parte della propria energia. L’elettrone estratto, a sua volta, cede l’energia ricevuta al materiale, con lo stesso meccanismo dei raggi . I neutroni, che sono elettricamente neutri, interagiscono debolmente con la materia e sono quindi molto penetranti e non si rallentano facilmente. Essi perdono velocità negli “urti” con i nuclei atomici del materiale attraversato. Per fermarli si usano spessi strati di cemento o di materiali che contengono idrogeno (ad es. acqua o oli), che assorbono più efficacemente la loro energia. I processi di interazione consistono, quindi, nel trasferimento di energia dalle radiazioni alla materia attraversata. La quantità di energia che la radiazione cede all'unità di massa della materia attraversata si chiama dose assorbita e si misura in gray (simbolo Gy). Il gray è la dose corrispondente all'energia di 1 joule depositata nella massa di 1 chilogrammo, 1 Gy = 1J/kg. Per valutare gli effetti delle radiazioni nei tessuti biologici non è sufficiente conoscere la dose assorbita; occorre anche tenere in conto la qualità della radiazione e il fatto che alcuni tessuti sono più sensibili di altri. Ad esempio, a parità di dose assorbita, la radiazione è potenzialmente circa 20 volte più pericolosa di quelle e perché rilascia l’energia in regioni più piccole; quindi il danno cellulare risultante può essere più difficilmente riparabile. Così pure, a parità di dose e di tipo di radiazione che la induce, il danno prodotto ai polmoni è maggiore di quello prodotto alle ossa. La pericolosità delle radiazioni dipende anche dalle modalità di introduzione nel corpo; per esempio le radiazioni sono molto pericolose se il radionuclide che le emette è inalato. Per irradiazione esterna, la pericolosità è invece molto minore perchè esse sono facilmente schermabili; per esempio è sufficiente lo spessore della pelle per arrestarle. Per tener conto della diversa efficacia biologica relativa correlata anche alla capacità ionizzante delle diverse radiazioni sui tessuti viventi, si usa la dose equivalente che si 158 ottiene moltiplicando la dose assorbita per un fattore di ponderazione adimensionale, wR, della radiazione considerata. La dose equivalente è misurata in sievert (simbolo Sv), definito come la dose assorbita di qualsiasi radiazione che produce lo stesso effetto (danno) biologico di 1 Gy di raggi X. Pertanto, un sievert, a differenza di un gray, produce gli stessi effetti biologici indipendentemente dal tipo di radiazione considerata. Nella Tabella 167 sono riportati i fattori di ponderazione dei diversi tipi di radiazioni. Tabella 167 Per tenere conto della diversa radiosensibilità dei tessuti, si usa la dose efficace, che si ottiene moltiplicando la dose equivalente per un fattore di ponderazione adimensionale, wT, del tessuto considerato. Anche la dose efficace si misura in sievert. Nella Tabella 168 sono riportati i fattori di ponderazione di alcuni tessuti e organi. Tabella 168 In pratica ciò che importa conoscere è la dose efficace media annua che ciascuno di noi riceve dalle più disparate sorgenti di radiazione. Il maggior contributo alla dose efficace assorbita dagli esseri viventi è dovuta alla radiazione emessa da sorgenti naturali (radon, raggi cosmici, radionuclidi sulla crosta terrestre e nei cibi), la cui distribuzione non è tuttavia la stessa per tutte le zone 159 geografiche. Mentre mediamente la dose di esposizione del pubblico alle radiazioni sulla Terra è valutabile in circa 3 mSv annui, in alcune zone del Brasile (Guarapari) e dell’India (Kerala) essa arriva a 50 mSv all’anno. Il record mondiale è probabilmente detenuto dalla zona di Ramsar, in Iran, dove, a causa di acque termali contenenti radio, si toccano i 260 mSv all’anno (Fonte UNSCEAR 2000 Report). Studi recenti hanno rilevato l’importanza del radon (Rn), un gas radioattivo (che emana dal terreno) che decade emettendo raggi a e che, insieme ai propri discendenti, contribuisce alla maggior parte della dose naturale. Un altro contributo importante alla dose equivalente deriva dalla radiazione cosmica (“raggi cosmici”), costituita da radiazione elettromagnetica (prevalentemente raggi g), protoni e nuclei più pesanti di altissima energia che piovono sulla Terra dall’esterno, originati in processi stellari. I raggi cosmici bersagliano costantemente l’atmosfera creando un flusso continuo sulla superficie terrestre dell’ordine di 180 particelle al secondo per metro quadrato. 7.3 INQUINAMENTO DA RADON Il radon (Rn) è un gas nobile caratterizzato dal numero atomico Z=86 e massa atomica A=222. Esistono 26 isotopi del radon compresi tra 199Rn e 226Rn. Solamente tre di questi sono naturali: - Il radon: 222Rn che deriva dal decadimento del 238U (1/2= 3.825 gg). - L’attinon: 219Rn che deriva dal decadimento del 235U (1/2= 3.96 s). - Il toron: 220Rn che deriva dal decadimento del torio 232Th (1/2= 55.61 s). Dei tre isotopi il 222Rn ha emivita più lunga per questo diffonde più ampiamente degli altri in atmosfera anche in presenza di concentrazioni minori nel terreno. Il radon è un gas: - Radioattivo: emette radiazioni ; - Inodoro, incolore, insapore quindi di difficile individuazione se non con l’uso di strumentazioni sofisticate, - Inerte (è un gas nobile) - Solubile in acqua, quindi è spesso presente nelle falde acquifere. Per quanto riguarda la sua presenza nell’ambito del territorio italiano si ha una situazione diversificata da regione a regione come indicato in figura 169. 160 Esso si trova nelle rocce, nel suolo e negli ambienti in cui si vive a causa della sua presenza in molti dei materiali da costruzione e nell’acqua. Figura 169 - Concentrazioni di Radon nel territorio Figura 170 - fonti di inquinamento da radon negli ambienti 7.3.1) DIFFUSIONE DEL RADON La diffusione del radon avviene nel terreno in base alle seguenti caratteristiche del suolo: - Permeabilità e porosità: più è permeabile e poroso maggiore è la diffusione del gas di radon attraverso i suoi strati. - Consistenza: in terreni sabbiosi o argillosi si ha la massima diffusione di gas. - Il suo stato: un terreno gelato, impregnato di acqua o coperto di neve libera una quantità di radon molto più bassa di quella che esce dallo stesso terreno secco. - Condizioni meteorologiche: si ha una maggiore diffusione in presenza di alte temperature del suolo e dell’aria, lo stesso vale per la pressione barometrica e per il vento. - Falde acquifere: più elevata è la profondità, maggiore è la concentrazione di radon nell’acqua che vi si attinge. La diffusione nei materiali da costruzione è significativa nei seguenti casi: - Tufi e pozzolane: questi materiali, di origine vulcanica, possono presentare contenuti di radio e torio di alcune centinaia di Bq/kg. - Graniti e porfidi: presentano elevati livelli di uranio e torio. Per un quadro d’insieme si rimanda alla seguente tabella 171: 161 Figura 171 Il radon è solubile in acqua, pertanto può essere presente nelle acque che scorrono tra le rocce e le sabbie. �� L’acqua costituisce un veicolo efficace per il trasporto del radon dagli strati più profondi alla superficie e a grandi distanze dal luogo di formazione; �� l’acqua per uso domestico se proviene da terreni vulcanici può contenere radon; �� la solubilità del radon in acqua decresce all’aumentare della temperatura. IL FLUSSO DI GAS RADON CHE ENTRA NEGLI EDIFICI DIPENDE DA: �� permeabilità del suolo �� tipologia dell’edificio (forma, dimensioni, ad uno o più piani, ecc) �� tipo fondamenta dell’edificio �� modalità di impiego dei locali (collegamento seminterrato-piani abitati, ecc) �� integrità strutturale edificio �� ventilazione edificio �� stato e manutenzione edificio (impianti di riscaldamento, ecc.). 7.3.2) EFFETTI SULLA SALUTE Dal 1988 il RADON è classificato nel Gruppo 1 degli agenti cancerogeni per l’uomo. Il principale effetto sulla salute è un aumento di rischio di tumore polmonare attraverso il seguente meccanismo: - essendo radioattivo decade e si trasforma in altri elementi, chiamati "figli”del radon; 162 - I figli del radon sono metalli pesanti, che vengono prodotti in forma di ioni e hanno un’altissima probabilità di legarsi al pulviscolo atmosferico generando quindi un aerosol radioattivo che penetra e può depositarsi nel parenchima polmonare; - il contributo maggiore di dose all’apparato respiratorio deriva proprio dall’inalazione dell’aerosol; - gli atomi così depositati e radioattivi emettono radiazioni alfa che possono danneggiare il DNA; - nei polmoni le particelle alfa delle radiazioni che si liberano in seguito al decadimento possono danneggiare DNA e RNA delle cellule portando alla formazione di tumori; - i fumatori sono i soggetti più a rischio in quanto esiste un effetto sinergico tra il fumo di sigaretta e la presenza del radon. Per prevenire il rischio di contrarre malattie sono state fissati livelli di riferimento per le abitazioni e per l'ambiente di lavoro, al di sotto dei quali il rischio si ritiene accettabile, anche se per le sostanze radioattive il rischio non potrà mai essere ridotto a zero. 7.3.3) NORMATIVA Attualmente in Italia esistono obblighi solo per i luoghi di lavoro introdotti dal decreto legislativo 241/2000 che ha modificato il Dlgs 230/95. Per gli ambienti residenziali e le acque destinate ad uso potabile esistono raccomandazioni della Unione Europea: rispettivamente la 143/90 e la 928/2001. Attività lavorative a rischio sono considerate: a) quelle svolte in tunnel, metropolitane, sotto-vie, catacombe, grotte e comunque tutti i luoghi sotterranei in cui si svolgano attività, come ad esempio impianti sportivi, attività artigianali ecc. b) quelle svolte in tutti i luoghi di lavoro in superficie che si trovano in un'area in cui è alta la probabilità di riscontrare elevate concentrazioni di radon indoor, indipendentemente dal tipo di attività svolta, come ad esempio, scuole, esercizi commerciali, studi professionali ecc. c) quelle in cui si utilizzano materiali non considerati radioattivi, ma che possono raggiungere una considerevole quantità di radionuclidi naturali es. attività lavorative nelle cave d) quelle in cui si producono rifiuti di lavorazione non considerati radioattivi, ma che possono contenere una considerevole quantità di radionuclidi naturali es. edilizia, industria estrattiva e) stabilimenti termali f) le miniere non uranifere. 163 7.3.4) ADEMPIMENTI PER LA ESPOSIZIONE AL RADON NEI LUOGHI DI LAVORO L’ art. 10 bis, 1°, lett. a) e b) e 10 Ter, Capo III bis del Dlgs 241/2000 impone che entro 24 mesi dall'inizio attività si esegue una campagna di misure (da parte di un organismo riconosciuto) con relazione finale. Posto il Livello di azione a 500 Bq/m3: A) Se la misura è inferiore all' 80% del livello di azione (i.e. 400 Bq/m3) l'obbligo è risolto e bisognerà ripetere la misura solo se variano le condizioni di lavoro. B) Se la misura è tra l'80% ed il 100% del livello di azione (i.e. 400 – 500 Bq/mc) l'obbligo si risolve con la ripetizione della misura annualmente. C) Se la misura supera il livello di azione (i.e. > 500 Bq/m3) si dovrà: 1) Spedire agli Organi di controllo la relazione di misura. 2) Incaricare un Esperto Qualificato per la valutazione della dose efficace assorbita dai singoli lavoratori. 3) Verifica della dose efficace. D) Se la dose efficace è inferiore a 3 mSv/anno l'obbligo si risolve con la ripetizione della misura annualmente. E) Se la dose efficace è superiore o uguale a 3mSv/anno: 1) L'esperto qualificato fa la valutazione del rischio. 2) L'esercente predispone le azioni di rimedio e al termine ripete la misura. Se anche la nuova misura fornisce valori superiori a 3 mSv/anno l'esercente incarica: 1) Esperto Qualificato per la sorveglianza fisica, 2) Medico per la sorveglianza medica dei lavoratori, e predispone ulteriori azioni di rimedio e ripete la misura. Se la dose efficace è inferiore a 3mSv/anno l'obbligo si risolve con la ripetizione della misura annualmente. 7.3.5) MISURAZIONE DEL RADON La concentrazione del radon indoor può essere misurato attraverso: - STRUMENTI CHE EFFETTUANO MISURAZIONI ATTIVE STRUMENTI CHE EFFETTUANO MISURAZIONI PASSIVE 164 I RIVELATORI PASSIVI - NON SONO ALIMENTATI ELETTRICAMENTE Le tecniche di tipo passivo maggiormente impiegate nella misura della concentrazione di radon indoor sono: - 1) Adsorbimento su canestri a carboni attivi. - 2) Rivelazione di carica elettrica mediante elettrete. - 3) Rivelazione delle tracce alfa con dosimetri. Figura 172 - Vari tipi di canestri a carbone attivo Canestri di carbone attivo: i carboni vengono quindi analizzati in spettrometria gamma con rivelatore a scintillazione (cristalli NaI), ottenendo un risultato di concentrazione, anche per valori < 20 Bq/mc; i campionatori sono spesso influenzati dalle condizioni ambientali (Temperatura e umidità). Elettreti: sono basati su una resina di derivazione ottica denominata Columbia Resins 39, dotati di un codice di identificazione e sono trattati in modo antistatico dal produttore. La camera di diffusione e Figura 173 - Elettreti filtro è un contenitore di plastica di dimensioni 4.5 cm x 2.5 cm. Il contenitore ha forma cilindrica e possiede un tappo di chiusura; la fessura esistente tra tappo e contenitore (20-30 micrometri) è tale per cui è possibile l’ingresso, al suo interno, del solo gas radon. Dosimetri radon: sono misuratori di tracce alfa che registrano il contenuto di radioattività alfa presente in Figura 174 - Dosimetri locali, stanze, ambienti, pozzi e costruzioni di ogni genere. TEMPI DI MISURAZIONE NECESSARI PER AVERE UN VALORE EFFICACE CON DOSIMETRI DI TIPO PASSIVO: �� DOSIMETRI: il tempo va da 3 mesi ad 1 anno. �� ELETTRETI: alcuni giorni fino ad alcuni mesi. �� CANESTRI: non superiore ad una settimana. I rilevatori passivi hanno un basso costo e dunque sono molto indicati per campagne di rilevazioni di lunga durata. 165 RILEVATORI ATTIVI Sono costituiti da strumenti dotati di un particolare sensore Geiger sensibile prevalentemente alla radiazione alfa. I risultati sono più attendibili ma il costo per l'analisi è più elevato. Vanno usati per determinazioni accurate in genere laddove i rivelatori passivi hanno determinato Figura 175 - Contatore Geiger concentrazioni preoccupanti di Radon. Esistono analizzatori che individuano, sulla base delle energie rilasciate durate il processo di decadimento, la presenza dei prodotti figli. PREVENZIONE TECNICA Si deve favorire il ricambio d’aria nei locali aumentando la ventilazione naturale attraverso porte e finestre o con l’ausilio di ventilatori appositi. Isolare l’edificio dal suolo al fine d’impedire l’ingresso del Radon nell’abitazione (sigillatura di crepe, fessure, tubazioni, rivestimento in cemento del pavimento in cantina…). TECNICHE CONSIGLIATE NEL CASO DI CONCENTRAZIONE MOLTO ELEVATA DERIVANTE DAL SUOLO. Figura 176 - Pozzetto con ventilazione forzata e vespaio ventilato Pozzetto con ventilazione forzata. Consiste nel realizzare sotto la superficie dell'edificio un pozzetto per la raccolta del gas radon, che viene collegato a un piccolo ventilatore (fig.176). In tal modo all'interno del pozzetto si realizza una depressione che raccoglie il radon e lo espelle in aria impedendo che entri all'interno dell'edificio. Ventilazione del vespaio. Questo metodo viene utilizzato quando è presente un vespaio al di sotto dell'edificio. Aumentando la ventilazione del vespaio si diluisce il radon presente e di conseguenza meno radon si trasferisce nell'edificio. L'incremento della ventilazione può essere realizzato aumentando il numero delle bocchette di aerazione ed eventualmente applicando un ventilatore. In alcuni casi la semplice pulizia delle bocchette di aerazione porta a un abbassamento della concentrazione di radon. 166 Pressurizzazione dell'edificio Si cerca di incrementare la pressione interna dell'edificio, in modo da contrastare la risalita del radon dal suolo. In pratica l’aria interna spinge il radon fuori dall'edificio. E’ necessario l'ausilio di un ventilatore. In sintesi tali interventi sono riassunti in figura 177. Figura 177 - Interventi di prevenzione 7.3.6) IL RADON NEL VENETO L’ARPAV ha eseguito un’indagine estesa al territorio veneto dalla quale è emerso che il livello medio nella zona settentrionale della regione è di 94 Bq/m 3 il che contrasta con la classificazione della regione Veneto indicata nella figura 169. I valori misurati nelle case hanno permesso anche di costruire una mappa del territorio regionale nella quale sono indicate le percentuali di abitazioni in cui il livello di radon supera il valore di riferimento fissato dalla Regione Veneto pari a 200 Bq/m3. Nelle case che superano questo limite è consigliato l’intervento di risanamento. Sono considerate aree ad alto potenziale quelle in cui il livello di riferimento è superato in almeno il 10% delle abitazioni. Le aree con queste caratteristiche occupano circa un decimo del territorio regionale ( vedi figura 178). La maggior concentrazione di zone interessate si trova nelle aree settentrionali delle province di Belluno e Vicenza che presentano alti valori di concentrazione di radon. 167 Nel bellunese l’area critica comprende la zona del Cadore in particolare la valle di Ampezzo e l’alta valle del Piave fino oltre Longarone, i dintorni di Agordo e il Figura 178 - Mappa della distribuzione del radon nel Veneto (ARPAV) Comelico. In provincia di Vicenza risultano a maggior rischio la parte occidentale dell’altopiano di Asiago, le zone pedemontane sottostanti a questa, le zone a ridosso dei monti Lessini orientali. Esistono alcune zone isolate in cui la concentrazione è risultata particolarmente elevata, tanto da rientrare tra le aree di alto potenziale di rischio. Si tratta di alcune maglie della rete in cui è suddiviso il territorio nella zona di Asolo e del Cansiglio in provincia di Treviso. 7.4) FISSIONE, FUSIONE E CENTRALI NUCLEARI. Nel paragrafo 7.1.3) abbiamo analizzato la struttura del nucleo e le sue possibili trasformazioni accennando alla fissione e alla fusione e al relativo rilascio di grandi quantità di energia. Riprenderemo ora queste due trasformazioni nucleari in modo da comprendere come si possa ottenere energia utilizzabile nelle centrali di produzione di energia elettrica con alimentazione a combustibile nucleare. 7.4.1) LA FISSIONE NUCLEARE I nuclei radioattivi come l’uranio hanno tempi di decadimento naturali molto lunghi e, quindi, se si vuol ottenere l’energia che un decadimento libera è necessario indurre la 168 fissione artificialmente. I nuclei pesanti (Z>92), se bombardati ad esempio con neutroni, tendono a decadere spezzandosi in due nuclei di massa circa metà di quella di partenza, emettendo inoltre altri neutroni, che possono provocare una reazione a catena. Figura 179 - Fissione nucleare Per esempio la fissione dell’ uranio è descritta da Bohr e Wheeler secondo il seguente schema: Figura 180 - Fissione dell'uranio-235 La fissione dell'uranio 235 indotta da un neutrone è tra le più conosciute, si scrive n + 235U -> 236U ->X + Y + kn 169 dove X e Y sono dei nuclei mediamente pesanti e radioattivi chiamati prodotti di fissione e k è il numero di neutroni emessi. I numeri di massa di X e Y sono tipicamente distribuiti come segue: Figura 181 - % dei numeri di massa A nel decadimento dell’uranio-235 Il calcolo approssimativo basato sulla variazione dell'energia di legame ci dà l'energia liberata nella fusione dell'235U con i seguenti dati estrapolati dalla figura 161; un nucleone con A =240 -> EB= 7.6 MeV si dissocia in due nucleoni con A = 120 -> EB= 8,5 MeV da cui l'energia liberata risulta: 2 (8, 5*120) – 7,6*240=216 MeV che come vedremo nei seguenti esempi è proprio l’ordine di grandezza delle reazioni di fissione dell’uranio-235. Ecco alcune possibili reazioni di fissione nucleare: n + 235U -> 95Sr + 139Xe + 2n + + 184 MeV n + 235U -> 93Rb + 141Cs + 2n + + 180 MeV n + 235U -> 93Kr + 140Xe + 3n + + 162 MeV n + 235U -> 94Zr + 140Cs + n + + 208 MeV Se i neutroni prodotti da una reazione possono venire assorbiti da nuclei fissili vicini provocano una nuova reazione. Tipicamente per l'uranio 235 sono liberati in media 1,33 neutroni. 170 Se il numero di neutroni che danno luogo a nuove fissioni è maggiore di 1 si ha una reazione a catena per cui il numero di fissioni aumentano esponenzialmente, se tale numero è uguale a 1 si ha una reazione stabile, se è inferiore a 1 la reazione si arresta. 7.4.2) NOCCIOLO DI UN REATTORE NUCLEARE Le componenti principali del nocciolo di un reattore a fissione sono: - il combustibile (barre fisse di materiale radioattivo); - il moderatore; - le barre di controllo (mobili). Oltre al nocciolo vi sono dei circuiti di raffreddamento. L'uranio in natura si trova sotto forma di ossido o sale complesso ed è composto da una miscela dei tre isotopi: 234 U: < 0;01%, 1/2 = 2.5 105 a; 235 U: = 0,70%, 1/2 = 7.0 108 a; 238 U: = 99,3%, 1/2 = 4,5 109 a. Per generare la fissione dell'235U i neutroni devono essere lenti (detti neutroni termici, di energia cinetica molto ridotta dell'ordine di 0.04 eV) così da aumentare il tasso di reazione. Questi neutroni non permettono la fissione dell'238U (che diventa 239U e decade via poichè fissiona solo con neutroni veloci). Per un reattore a fissione di 235U è quindi necessario aumentare la concentrazione dell'isotopo 235U rispetto al più comune 238U; il processo di arricchimento dell'uranio per passare dallo 0.70% a circa il 3.4% di 235U, che serve per una centrale nucleare a fissione è estremamente complesso e costoso. La fissione produce neutroni veloci di energia cinetica dell'ordine di 2 MeV, ma a questo livello di energia il tasso di reazione è molto basso ed è necessario rallentare i neutroni. Per questo tra le barre di combustibile si mette una sostanza, chiamata moderatore, che: - rallenta i neutroni (in collisioni elastiche); - non sottrae i neutroni al processo assorbendoli. Solitamente si usa acqua (H2O) o acqua pesante (D2O). Per un reattore nucleare si definisce il fattore di moltiplicazione : K = neutroni all'inizio di una generazione/neutroni all'inizio della generazione precedente Se K < 1: regime subcritico, il reattore tende a fermarsi; se K = 1: regime critico; se K > 1: regime supercritico. Il reattore tende ad esplodere. Nei reattori nucleari a fissione è importante regolare la reazione in modo tale che essa sia stabile, ossia che K non superi per troppo tempo il valore limite di K = 1.05. Le barre di controllo : 171 - sono fatte di un materiale (ad esempio cadmio) in grado di assorbire facilmente i neutroni; - servono a controllare il regime del reattore (il fattore di moltiplicazione che deve essere mantenuto al valore K = 1) sottraendo neutroni: - il reattore è infatti progettato in modo da avere fissioni supercritiche; - a causa dell'accumularsi dei prodotti di fissione, che assorbono neutroni, la tendenza del reattore è di diventare subcritico e le barre di controllo possono essere gradualmente estratte per mantenere K = 1; - le barre garantiscono la possibilità di interrompere il processo di fissione. Figura 182- Nocciolo di un reattore con le barre sollevate e abbassate. Figura 184 - ciclo di un reattore a fissione Analizziamo un ciclo (o generazione),c.f.r.fig.184, con 1000 neutroni termici iniziali: - fissione dell'235U, si generano 1330 neutroni veloci; - fissione dell'238U, si generano altri 40 neutroni quindi in totale 1330 + 40 = 1370 neutroni veloci; 172 - si ha una fuga dal nocciolo di 70 neutroni; restano 1300 neutroni veloci; - il moderatore rallenta i neutroni (da 2 MeV a 0,04 eV) - 130 neutroni lenti (tra i 1 eV 100 eV) vengono catturati per risonanza, ne restano 1170 neutroni termici n + 238U ->238U + - altri 20 neutroni si perdono per cattura termica (non fissile), restano 1050 neutroni termici; - fuga dal nocciolo di 50 neutroni, restano 1000 neutroni termici. In un ciclo si guadagnano circa 200 MeV di energia termica rilasciati dai 370 neutroni aggiunti dagli effetti della fissione iniziale. Il sistema di raffreddamento ha lo scopo di prelevare l'energia prodotta dalle reazioni di fissione e trasferirla all'esterno producendo energia elettrica come negli altri tipi di centrale elettrica. L'energia cinetica dei prodotti della reazione va convertita. Tipicamente i prodotti di reazione cedono la loro energia cinetica ad un liquido (acqua) che aumenta quindi la sua energia termica. Nei reattori ad acqua pressurizzata (PWR) l'acqua è utilizzata sia come moderatore sia come veicolo per il trasferimento dell'energia termica. Vi sono, oltre al nocciolo i seguenti circuiti: - circuito primario: l'acqua pressurizzata, cioè il refrigerante, circolando nel contenitore del reattore trasporta energia e grandissima pressione (fino a 600K e 150 bar) dal nocciolo del reattore al generatore di vapore; - circuito secondario in questa parte l’acqua vaporizzata del primario scalda attraverso una serpentina l’acqua di questa parte del circuito producendo il vapore surriscaldato che viene inviato alle turbine. Quest’acqua non è a diretto contatto con il nocciolo. Per completare il circuito, il vapore a bassa pressione viene scaricato dalla turbina, condensato per raffreddamento sotto vuoto e forzato nuovamente da pompe ad alta pressione nel generatore di vapore. Come si vede in figura 185 la turbina fa ruotare il sistema elettromagnetico dell’alternatore producendo così un flusso variabile che genera corrente alternata. 173 Figura 185 - Schema di una centrale nucleare a fissione. 7.4.3) FUSIONE NUCLEARE La fusione è il processo nucleare consistente nell'unione di due nuclei leggeri in uno più pesante. In questo tipo di reazione il nuovo nucleo costituito ha massa totale minore della somma delle masse reagenti, con conseguente liberazione di energia (cinetica dei prodotti). Affinchè avvenga una fusione tra due nuclei, questi devono essere sufficientemente vicini in modo da lasciare che la forza nucleare forte predomini sulla repulsione coulombiana (i due nuclei hanno carica elettrica positiva quindi si respingono): ciò avviene a distanze molto piccole, dell'ordine di qualche fermi (10-15 m). L'energia necessaria per superare la repulsione coulombiana può essere fornita alle particelle portandole in condizioni di altissima pressione (altissima temperatura e/o altissima densità). Per ottenere la fusione i nuclei in gioco devono vincere la barriera di energia potenziale coulombiana, repulsiva, per cadere nella buca di potenziale nucleare, attrattiva: questo è possibile anche grazie ad un effetto quantistico Figura 186 - Effetto tunnel : energie chiamato effetto tunnel. 174 Una situazione in cui si verifica la fusione naturale è all’interno di una stella, ad esempio il sole, dove avvengono le seguenti reazioni (figura 187): p + p → D + e+ +e + 0,93 MeV p + D →3He + + 5,49 MeV 3 He + 3He →4He + 2p + 12,86 MeV il bilancio complessivo di reazione è quindi: 4p →4He + 2e+ + 2 + 2 + 25 MeV : Condizioni in cui avviene la fusione: - temperature dell'ordine di 107 K, il gas si trova nello stato di plasma (gas ionizzato); - la densità è dell'ordine di 1032 m-3; - il combustibile è confinato dalla sua stessa forza di gravità. Figura 187 - Fusione nucleare e metodi di confinamento Come risulta evidente dai dati sopra riportati è estremamente complesso confinare in un luogo ristretto una fusione nucleare in modo da poter utilizzare l’energia che se ne ricava nelle centrali elettriche. Le conoscenze attuali hanno permesso di ideare solamente due sistemi di confinamento: - confinamento magnetico (grazie alla forza di Lorentz); - confinamento inerziale (grazie a potenti laser). La condizione necessaria per ottenere la fusione nei reattori a fusione è la seguente: 175 Triplo prodotto (criterio di Lawson): T > 5 1021 s/m3 keV dove: = densità, = tempo di confinamento, T = temperatura. Il criterio di Lawson indica che: - le particelle devono essere molte (= alta densità); - stare assieme per un tempo sufficiente (= alto tempo di confinamento); - molto energetiche (= alta temperatura). La relazione energia-temperatura è data come ricordiamo dalla teoria cinetica: 3 Ecin =2 kT Ecco alcune possibili reazioni di fusione nucleare che vengono considerate negli studi dei reattori a fusione: D + T →4He + n + 17.6 MeV D + D →3He + n + 3.27 MeV (50%) D + D→T + p + 4,03 MeV (50%) D + 3He →4He + p + 18,4 MeV Il tasso di reazione (o sezione efficace) è una misura della probabilità di una reazione di fusione in funzione della velocità dei nuclei reagenti (che dipende dall'energia cinetica e quindi della temperatura).( 1 KeV= 107K) Figura 188 - velocità di fusione Per la reazione deuterio-trizio (D-T) come si possono ottenere i reagenti? 176 - il deuterio lo si trova in abbondanza nel mare (30 L → 1 g); - il trizio lo si produce grazie alla reazione innescata da un neutrone: 6 Li + n →T + 4He + 4,8 MeV ; il litio lo si trova nelle rocce e negli oceani. Vediamo ora alcuni dati energetici a confronto: Combustione: 1 kg di carbone → 8,14 kWh; Fissione: 1 kg di uranio → 2.3 107 kWh; Fusione: 400 g di D + 600 g di T → 108 kWh; Risulta evidente che questo tipo di energia è la più conveniente, peccato che non sia ancora tecnicamente realizzabile. Gli studi finora sono solamente a livello sperimentale. Il metodo più seguito prevede: - Riscaldamento: grazie a onde elettromagnetiche (onde radio e microonde) ad alta potenza; - Confinamento: grazie ad una camera toroidale con campo magnetico (Tokamak) Figura 189 - Campo di confinamento del Tokamak Le previsioni sulla sua realizzazione, da più di 30 anni, affermano che “ci si arriverà praticamente nei prossimi 10 anni”……. 177 7.4.4) VANTAGGI E SVANTAGGI DELLE DUE FORME DI ENERGIA NUCLEARE. Per concludere facciamo un bilancio relativo al possibile uso dell’energia nucleare. FUSIONE Vantaggi - Ottima alternativa di fronte all'esaurimento e all'insostenibilità ambientale delle fonti fossili (petrolio, carbone, gas, …). - I reagenti che intervengono nelle reazioni di fusione abbondano in natura e sono equidistribuiti sul pianeta, fatto questo che potrebbe almeno in parte contrastare l'aumento di conflitti globali per l'accaparramento di fonti energetiche naturali. - Elimina i problemi legati alla fissione nucleare in materia di sicurezza dell'impianto, sicurezza militare nazionale ed internazionale: un reattore a fusione non controllato si spegne. - Nessun rischio di esplosione o intossicazione radioattiva in caso di fallimento del controllo del processo di fusione. - Nessuna emissione di gas serra. - Nessun trasporto di materiale contaminante: deuterio e litio (da cui si ricava il trizio) abbondano in natura. - Bassa radioattività dei materiali sottoposti a flusso neutronico che decade con tempi dell'ordine dei decenni consentendone un agevole trattamento. - In caso di incidente il peggiore isotopo che potrebbe essere messo in circolazione è il trizio, che decade in 12.3 anni. - Esperimenti di rilascio controllato di trizio nell'atmosfera hanno mostrato che l'attivazione del suolo nell'area contaminata scende in circa un anno al livello del background. Svantaggi - Difficoltà tecnologiche legate al confinamento. In pratica non è ancora realizzabile. FISSIONE Vantaggi - Alternativa di fronte all'esaurimento e all'insostenibilità ambientale delle fonti fossili (petrolio, carbone, gas, …). - Nessuna emissione di gas serra. 178 Svantaggi - Se non controllato, con reazione a catena non stabile si ha il rischio di esplosione nucleare (fig.190). - Produzione di scorie radioattive (plutonio, americio, . . . ) con tempi di dimezzamento grandissimi tali da richiedere depositi geologici. In Italia attualmente non ci sono centrali nucleari attive, ma la situazione ai nostri confini è evidenziata dalla seguente cartina: Figura 190 - Esplosione nucleare Come si può vedere le centrali straniere attive sono molto più vicine al Veneto che non le regioni meridionali italiane. Tenendo conto che gli effetti di Chernobyl sono arrivati dalla Russia fino alla Spagna… 179 MODULO N.8 8) CELLE AD IDROGENO Dalle comuni pile elettriche, le celle a combustibile si differenziano in quanto sono basate su una reazione di combustione controllata, in cui il combustibile è idrogeno (H2) e il comburente è ossigeno (O 2): il prodotto finale è acqua (H2O). Gli elettrodi, l’anodo e il catodo, sono immersi in un elettrolita che può essere di vario tipo (acido fosforico, da carbonati fusi, da ossidi solidi ceramici, ecc.). L’erogazione di energia elettrica prosegue finché la cella a combustibile viene alimentata con il combustibile all’anodo e con un comburente al catodo. I due reagenti non entrano in contatto direttamente fra loro, ma attraverso la mediazione dell’elettrolita. Gli impianti completi sono formati, oltre che dalla cella, da un sistema (reformer) per produrre idrogeno che si ricava a partire dai vari tipi di combustibili a disposizione (gas naturale, biogas, ecc.). Accanto al vantaggio di sfruttare praticamente tutti i combustibili in modo pulito, le celle a combustibile ne offrono altri, quali l’estrema varietà di potenza installabile (da qualche kW fino a 100 MW, la minima rumorosità e l’eccellente efficienza energetica. Occorrono comunque ancora alcuni miglioramenti tecnologici per rendere le celle a combustibile economicamente competitive con le tradizionali fonti di energia. Figura 491 180 8.1) CENNI STORICI Già nell'anno 1839 vennero posate le fondamenta dell'odierna tecnologia delle celle a combustibile. Fu l'avvocato e fisico gallese Sir William Robert Grove (1811-1896) a costruire il primo prototipo funzionante composto da due elettrodi di platino, ciascuno racchiuso in un cilindro di vetro. In uno dei cilindri c'era idrogeno, nell'altro ossigeno. Ambedue gli elettrodi erano immersi in acido solforico diluito che fungeva da elettrolito e originava un contatto elettrico. La tensione poteva essere prelevata dagli elettrodi, ma poiché era esigua, Grove combinava una serie di celle per ottenere una maggiore tensione. I contemporanei di Grove non riconobbero la sua scoperta e il tema "Cella a combustibile" venne dimenticato. Solo negli anni cinquanta, nel segno della guerra fredda, l'idea venne ripresa, poiché la tecnica spaziale e militare necessitava di fonti energetiche compatte ed efficienti. 8.2) FUNZIONAMENTO DELLE CELLE AD IDROGENO La struttura di una cella a combustibile è molto semplice: essa è composta di tre strati sovrapposti. Il primo strato è l’anodo, il secondo è l’elettrolita e, il terzo, il catodo. L’anodo e il catodo servono da catalizzatori, mentre lo strato intermedio consiste in una struttura di supporto che assorbe l’elettrolita. Nei vari tipi di celle a combustibile vengono usati differenti elettroliti; alcuni di questi sono liquidi, altri solidi e altri ancora hanno struttura membranosa. Poiché una singola cella genera una tensione Schema di una singola cella a combustibile molto bassa, per ottenere tensioni maggiori, diverse celle vengono impilate. Una pila di questo genere è chiamata “stack”. Il processo che si svolge in una cella a combustibile è inverso di quello dell’elettrolisi: nel processo dell’elettrolisi l’acqua, con l’impiego di energia elettrica, viene decomposta nei suoi componenti. Una cella a combustibile inverte questo processo e unisce i due componenti producendo acqua. In questo processo viene liberata la stessa quantità di energia elettrica che è stata impiegata per la decomposizione, almeno teoricamente, perché in realtà un po’ di energia va dispersa a causa di altri processi fisico-chimici. Nell’idrogeno è quindi immagazzinata energia elettrica o, in altre parole, l’idrogeno è un gas che consente l’accumulo di energia elettrica che può essere liberata con l’uso di una cella a combustibile. Nel processo di ricomposizione dell’acqua si usa normalmente l’aria e non l’ossigeno puro che, pertanto, non deve essere immagazzinato. Funzionamento dell’elettrolisi Esistono differenti tipi di celle che si distinguono per la loro struttura e il loro funzionamento. Descriviamo, come esempio, il funzionamento di una cella a combustibile PEM. PEM sta per Polymer-Electrolyte-Membrane. 181 Figura 192 - CIRCUITO CELLA AD H Quando l’anodo è immerso nell’idrogeno (H2) e il catodo nell’ossigeno (O2), si svolge il seguente funzionamento della cella a combustibile: una molecola d’idrogeno si decompone in due atomi d’idrogeno con la liberazione di elettroni (e). 2H2 → 4H+ + 4eGli ioni di idrogeno formati migrano attraverso l’elettrolito al catodo, ossidano con l’ossigeno e formano acqua. 4H+ + 4e- + O2 → 2H2O Per formare l’acqua occorrono gli elettroni che prima sono stati ceduti all’anodo. L’elettrolita è però un isolante che non consente agli elettroni di attraversarlo. Collegando i due elettrodi (catodo e anodo) con un conduttore elettrico, gli elettroni lo attraversano e partendo dall’anodo raggiungono il catodo: quindi si genera una corrente elettrica sfruttabile. Questo processo si svolge senza interruzione fino a che permane una sufficiente quantità di idrogeno e di ossigeno. 8.3) CELLA DI COMBUSTIBILE ALCALINA (AFC) La cella a combustibile alcalina è – escludendo i prototipi di Grove – il tipo più antico e trova ancora oggi impiego nella tecnologia spaziale e nei motori di sottomarini. Esso è l’unico 193 - CELLA AFC tipo che richiede idrogeno e ossigeno puri per la Figura dello space shuttle trasformazione energetica, perché già minime impurità distruggono la cella. L’elettrolita è una soluzione (base) alcalina (idrossido di potassio 182 KOH). Per l’uso normale, la cella AFC è poco appropriata, perché la necessaria purezza dei gas rende il sistema molto costoso e anche la durata di vita della cella è molta limitata a causa della perdita di tensione di 15 … 50 mV ogni 1000 ore di funzionamento. Funzionamento Fase 1 - I due gas ossigeno ed idrogeno, tenuti separati in due circuiti, migrano dal serbatoio al catalizzatore . Fase 2 - Il catalizzatore decompone le molecole d’idrogeno (H 2) in due atomi H (protoni); ogni atomo di idrogeno cede il proprio elettrone. Fase 3 - Gli elettroni defluiscono dall’anodo al catodo e generano una corrente elettrica che alimenta una utenza (fig.192). Fase 4 - A contatto con il catodo, sempre quattro elettroni si ricombinano con una molecola di ossigeno. Fase 5 - Gli ioni di ossigeno che si sono formati reagiscono con l’acqua formando ioni OH. Fase 6 - Gli ioni OH attraversano l’elettrolita (idrossido di potassio) e migrano all’anodo. Fase 7 - A contatto con l’anodo, gli ioni OH reagiscono con i protoni H formando acqua. Una parte dell’acqua ritorna al catodo dove è disponibile per la successiva reazione. Applicazioni Senza le celle a combustibile alcaline, i viaggi spaziali con equipaggio umano non sarebbero stati possibili. Sia nella missione Apollo e nel programma Apollo-Soyuz, sia nello Skylab e negli Space shuttle sono stati, e sono ancora in uso, celle a combustibile alcaline. Attualmente sono in fase di sviluppo delle AFC per applicazioni in automobili, ma in questo caso hanno lo svantaggio di dover essere alimentate con ossigeno puro e non con l’aria. Volendo usare l’aria si deve prima eliminare il biossido di carbonio (CO2) che “avvelena” l’elettrolita e questa eliminazione richiede Cella a combustibile dispositivi tecnici supplementari. 183 8.4) LE CELLE A COMBUSTIBILE PEM (POLYMER ELECTROLYTE MEMBRANE) Questa cella a combustibile è di più facile applicazione. Il suo peso è modesto, le sue prestazioni sono buone e il suo funzionamento richiede, come comburente, solo l’ossigeno dell’aria. L’idrogeno può essere prodotto in un processo di reforming. Le celle PEM non sopportano però il monossido di carbonio (CO) che può bloccare la catalizzazione sull’anodo e conseguentemente ridurre le prestazioni. L’elettrolita usato consiste in una membrana solida di polimero solforato in grado di condurre protoni. Le prestazioni di una cella a combustibile PEM possono essere regolate molto rapidamente e queste celle si prestano Figura 194 - CELLA PEM pertanto molto bene per applicazioni mobili e per Stack di una cella PEM l’approvvigionamento energetico decentralizzato. Nell’ambito della ricerca tecnologica di questo settore, le celle a combustibile PEM godono attualmente il maggiore interesse, perché sono quelle che si prestano meglio alla produzione in massa. I costi di un gruppo sono stimati a circa 100 Euro/kW. Funzionamento Fase 1 - I due gas ossigeno ed idrogeno, tenuti separati in due circuiti, migrano dal serbatoio al catalizzatore. Fase 2 - Le molecole d’idrogeno (H2) vengono decomposti, dal catalizzatore, in due atomi H+ (protoni) e, in questo processo, ciascuno degli atomi d’idrogeno cede il suo elettrone. Fase 3 - I protoni attraversano l’elettrolita (membrana) e raggiungono la parte del catodo. Fase 4 - Gli elettroni entrano nella parte dell’anodo e generano una corrente elettrica che alimenta una utenza. Fase 5 - A contatto con il catodo, sempre quattro elettroni si ricombinano con una molecola di ossigeno. Fase 6 - Gli ioni che si sono formati hanno una carica negativa e migrano verso i protoni con carica positiva. Fase 7 - Gli ioni di ossigeno cedono le loro due cariche negative a due protoni e reagendo con questi si forma acqua. 184 Applicazioni Le celle a combustibile PEM consentono molte applicazioni che vanno dalla telefonia mobile e la cogenerazione fino ai motori per veicoli. Queste celle vengono oggi sperimentate con successo in molti veicoli speciali: automobili, minibus e bus. Sicuramente in futuro saranno impiegate anche in furgoni e in altri veicoli da piccolo trasporto. Solo i pesanti camion non potranno essere attrezzati, nel prossimo futuro, con questi motori, perché questi veicoli devono avere un’elevata autonomia che richiederebbe un enorme serbatoio per l’idrogeno; i comuni motori diesel sono inoltre molto efficienti. Le celle a combustile PEM si prestano anche per veicoli su rotaie, per esempio tram e treni regionali che, in questo caso, non necessitano delle linee elettriche aeree. Le celle PEM si prestano soprattutto per l’impiego in impianti di cogenerazione. Sono in fase di sviluppo dei modelli per piccoli edifici residenziali e grandi edifici come, per esempio, ospedali. La commercializzazione di queste celle dovrebbe iniziare nei prossimi anni. In questi sistemi l’idrogeno è prodotto, tramite reforming, con l’uso di gas naturale o GPL. Un altro campo di applicazione delle celle PEM sono gli apparecchi portatili elettrici, per esempio gli elettrodomestici usati in campeggio e utensili elettrici come trapani e tosaerba. Sono stati sviluppati anche i primi sistemi per cellulari e laptop. 8.5) CELLE A COMBUSTIBILE PAFC La cella a combustibile ad acido fosforico (PAFC) è il tipo che ha raggiunto la maggiore maturità tecnologica ed economica. Grazie alla sua alta temperatura d’esercizio, essa è ideale per l’applicazione in centrali di cogenerazione. Il catalizzatore della cella è l’acido fosforico, altamente concentrato incorporato in una matrice di gel. I gas reattivi sono l’ossigeno dell’aria e l’idrogeno. Uno svantaggio è che, a Figura 195 -impianto con celle PAFC temperature sotto i 42 °C, l’acido fosforico cristallizza e questo processo irreversibile rende la cella inutilizzabile. Funzionamento Fase 1 - I due gas ossigeno ed idrogeno, tenuti separati in due circuiti, migrano dal serbatoio al catalizzatore. Fase 2 - Le molecole d’idrogeno (H2) vengono decomposti, dal catalizzatore, in due atomi H+ (protoni) e, in questo processo, ciascuno degli atomi d’idrogeno cede il suo elettrone. 185 Fase 3 - I protoni attraversano l’elettrolita (acido fosforico ad alta concentrazione) e raggiungono la parte del catodo. Fase 4 - Gli elettroni migrano dall’anodo al catodo e generano una corrente elettrica che alimenta una utenza. Fase 5 - A contatto con il catodo, si ricombinano sempre quattro elettroni con una molecola di ossigeno. Fase 6 - Gli ioni che si sono formati hanno una carica negativa e migrano verso i protoni con carica positiva. Fase 7 - Gli ioni di ossigeno cedono le loro due cariche negative a due protoni e reagendo con questi si forma acqua. Applicazioni La cella PAFC, la prima ad essere stata commercialmente disponibile, viene usata esclusivamente in impianti di cogenerazione. È prodotta dalla società americana ONSI in gruppi con una potenza elettrica di 200 kW e una potenza termica di 220 kW. Finora, in tutto il mondo, sono stati installati circa 200 impianti PAFC (situazione maggio 2000). 8.6) CELLE A COMBUSTIBILE MCFC Le celle a combustibile da carbonati fusi lavorano ad alte temperature, tra 580 e 660 °C. Queste celle hanno il vantaggio di non richiedere la produzione di gas, inoltre sono insensibili al monossido di carbonio. Sono direttamente utilizzabili, senza reforming, gas naturale, gas di città, biogas e GPL. Come elettrolita è usato una fusione di carbonati alcalini (Li2CO3 / K2CO3). Fig.196 produzione di stack MCFC Fig.197 Centrale da2.5 MW a MCFC 186 Funzionamento Fase 1 - I due gas tenuti separati in due circuiti – ossigeno e biossido di carbonio da parte del catodo e idrogeno da parte dell’anodo - migrano dal serbatoio al catalizzatore. Fase 2 - Le molecole di idrogeno (H2) vengono decomposte dal catalizzatore in due atomi H+ (protoni) e, in questo processo, ciascuno degli atomi di idrogeno cede il suo elettrone. Fase 3 - Gli elettroni migrano dall’anodo al catodo e generano una corrente elettrica che alimenta una utenza. Fase 4 - A contatto con il catodo, sempre quattro elettroni si ricombinano con una molecola di ossigeno. Fase 5 - Gli ioni di ossigeno che si sono formati hanno una carica negativa e reagiscono con il biossido di carbonio formando ioni di carbonato. Fase 6 - Gli ioni di carbonato con carica negativa attraversano l’elettrolita (carbonati fusi) e raggiungono i protoni con carica positiva sul lato dell’anodo. Fase 7 - Gli ioni di carbonato cedono le loro due cariche negative a due protoni e reagendo con questi si forma acqua. Con la scissione degli ioni di ossigeno si forma nuovamente biossido di carbonio. Applicazioni Le celle a carbonati fusi vengono sviluppate per applicazioni fisse e, poiché la loro temperatura d’esercizio è circa di 650 °C, si prestano soprattutto per impianti di cogenerazione in stabilimenti industriali dove i processi richiedono alte temperature. I normali impianti sviluppati hanno una potenza di 300 kW, ma sono possibili anche potenze di alcuni Megawatt. Oltre a queste applicazioni fisse, sono in sviluppo anche celle MCFS per motori navali. 8.7) CELLE A COMBUSTIBILE DA OSSIDI SOLIDI CERAMICI - SOFC Le celle a combustibile da ossidi solidi ceramici (SOFC) lavorano con l’ossigeno dell’aria e idrogeno. La temperatura d’esercizio è compresa tra 800 e 1000 °C. L’alta temperatura consente, all’interno della cella, un parziale reforming di gas naturale in idrogeno. Così si riduce notevolmente il dispendio della produzione di idrogeno. La SOFC viene prodotta non solo in piastre, ma anche in forma tubolare. Il SOFC tubolare catodo, l’elettrolita e l’anodo sono disposti sulla superficie interna del tubo di 187 ceramica. Il gas comburente attraversa l’interno del tubo, mentre l’ossigeno dell’aria passa all’esterno. L’ambito di applicazione è la produzione di energia decentralizzata con potenze a partire da 100kW. Funzionamento Fase 1 - I due gas ossigeno ed idrogeno, tenuti in due circuiti separati, migrano dal serbatoio al catalizzatore. Figura 198 - cella tubolare SOFC Fase 2 - Le molecole d’idrogeno (H2) vengono decomposte dal catalizzatore in due atomi H+ (protoni) e, in questo processo, ciascuno degli atomi d’idrogeno cede il suo elettrone. Fase 3 - Gli elettroni migrano dall’anodo al catodo e generano una corrente elettrica che alimenta un’utenza. Fase 4 - A contatto con il catodo, sempre quattro elettroni si ricombinano con una molecola di ossigeno. Fase 5 - Gli ioni di ossigeno appena formati attraversano l’elettrolita (biossido di zirconio dotato di ittrio) e raggiungono il lato dell’anodo. Fase 6 - Gli ioni di ossigeno cedono le loro due cariche negative a due protoni e reagendo con questi si forma acqua. Applicazioni Le celle a combustibile da ossidi solidi si prestano sia ad applicazioni fisse che mobili. Impianti fissi vengono sviluppati sia per il settore residenziale che per applicazioni industriali. È possibile prelevare il calore ad alta temperatura e usarlo in processi industriali. Sono in via di sviluppo anche SOFC per grandi centrali in cui il calore viene usato per produrre energia elettrica mediante turbine a gas. Si prevede che queste centrali possano raggiungere un rendimento del 70 %. Le SOFC destinate ad applicazioni mobili non riguardano la costruzione di motori, bensì la sostituzione delle convenzionali batterie di automobili. Il motivo è il crescente numero di apparecchi elettrici nelle automobili, ma anche quello di avere a disposizione, per tempi prolungati, corrente elettrica anche quando il motore è spento. Il carburante è in questo caso la benzina che, prima dell’introduzione nella cella a combustibile, deve subire un reforming e una desolforazione. 188 8.8) DIRECT METHANOL FUEL CELL – DMFC Questa cella a combustibile è l’unica che non usa l’idrogeno, bensì il metanolo. Non ha bisogno di un reformer perché la cella stessa trasforma il metanolo in protoni di idrogeno, elettroni liberi e CO 2. L’assenza di un reformer rende questa cella molto adatta per applicazioni in veicoli anche perché si avvicina all’obiettivo di avere a disposizione la più semplice sorgente energetica. Come elettrolita viene usata una membrana polimerica in grado di condurre i protoni. Figura 199- cella DMFC Funzionamento Fase 1 - I due gas ossigeno e metanolo, tenuti in due circuiti separati – l’ossigeno dalla parte del catodo, il metanolo dalla parte dell’anodo - migrano dal serbatoio al catalizzatore. Fase 2 - Il metanolo (CH3OH) reagisce con l’acqua formando biossido di carbonio e idrogeno. Dal catalizzatore, l’idrogeno viene decomposto in due atomi H + (protoni) e, in questo processo ogni atomo di idrogeno cede un suo elettrone. Fase 3 - I protoni attraversano l’elettrolita (membrana polimerica in grado di condurre i protoni) e si spostano al catodo. Fase 4 - Gli elettroni migrano dall’anodo al catodo e generano una corrente elettrica che alimenta una utenza. Fase 5 - A contatto con il catodo, sempre quattro elettroni si ricombinano con una molecola di ossigeno. Fase 6 - Gli ioni di ossigeno appena formati hanno cariche negative e reagendo con i protoni si forma acqua. Applicazioni Le celle a combustibile DMFC vengono attualmente sviluppate per l’uso in piccole applicazioni portatili e in veicoli, anche perché il metanolo liquido è più facilmente immagazzinabile rispetto all’idrogeno. Problemi si pongono però a causa della tossicità del metanolo e della sua solubilità in acqua. Se il metanolo dovesse essere usato come carburante nei veicoli, la DMFC semplificherebbe il sistema propulsivo rispetto a un sistema con reformer e cella PEM. 189 Riassumendo si hanno le seguenti tipologie: PRINCIPALI AREE DI APPLICAZIONE: 190 APPLICAZIONE DELLE CELLE AD IDROGENO NEI VEICOLI A MOTORE 191 Bibliografia - Michael H. Orn, Handbook of engineering control methods for occupational radiation protection; Prentice Hall, Englewood Cliffs, New Jersey, 1992 - M. Alonso, J. Finn, Elementi di fisica per l’Università, Volume II: campi e onde; Masson – Addison- Wesley, Milano, 1993 - N. Faletti, Trasmissione e distribuzione dell’energia elettrica; Patron, Bologna, 1963 - Pauling – Wilson , introduzione alla meccanica quantistica - Feynman , La fisica di Feynman - Melissinos – Lobkowicz , Fisica per scienze e ingegneria Fonti da internet - Roberto Cirio, Onde elettromagnetiche - Roberto Capone, lezioni di fisica: elettromagnetismo - M.Martinelli, Fisica generale: onde elettromagnetiche 192 - Commission of the European communities, Proposal for a council recommendation on the limitation of exposure of the general pubblic to electromagnetic fields 0 Hz – 300 GHz, Bruxelles, 1998 - European Commission Expert Group, Possible health effects related to use of radiotelephones, Bruxelles, 1998 - John E. Moulder, Static electric and magnetic fields and human health; Medical College of Wisconsin, 1999 - John E. Moulder, Power lines and cancer; Medical College of Wisconsin, 1999 - John E. Moulder, Cellular phones antennas and human health; Medical College of Wisconsin, 1999 - L. Verschaeve, Can non ionizing radiation induce cancer?; The cancer journal vol.8 no.5, 1997 - Daniele Andreuccetti, Campi magnetici a bassissima frequenza: studi relativi alla valutazione della pericolosità; CNR – IROE, Firenze, 1997 - Daniele Andreuccetti, Livelli di campo magnetico a 50 Hz nell’ambiente e nelle abitazioni; CNR –IROE, Firenze, 1997. - Elementi di progettazione sul solare termico . Thermital - Solare termico. Ing. Tony Iachini - Manuale di progettazione solare termico. Viesmann s.r.l. - n.n - Fisica della radiazione solare . - Guida per progettisti e per installatori , solare termico - Sistemi solari termici. Luca Rubini , Mario Di Veroli e Alfonso Calabria - Impianti solari termici. Battisti Ricardo , Annalisa Corrado ed Andrea Micangeli - Liu B.Y.H. and Jordan R.C., The Long Term Average performance of Flat-Plate Solar Energy Collettors, Solar Energy 7,53,1963 - Norme UNI 10349 - Dott. Ing. R. Battisti, Dott. M. Calderoni, Dott. A. Siciliano, Dott. R. Pasinetti Solare termico. - G.Demurtas - Impianto solare termico e fotovoltaico. - ABB.SACE – Quaderni di applicazione tecnica N.10 : Impianti fotovoltaici. - M. Sgherri- Sharp Italia – Introduzione al mondo fotovoltaico. - Ferri C. – Fisica nucleare, radioattività, fusione e fissione - Scribano A. – Fisica nucleare per Fisica medica - Ministero della Salute - piano nazionale radon - Fiaschetti M. e altri – Rischio radon e prevenzione - N.N. - Fisica del nucleo -ARPAV – Il radon in Veneto. 193 INDICE MODULO N. 3 3) INQUINAMENTO ELETTROMAGNETICO 3.1) EFFETTI DELLE RADIAZIONI IONIZZANTI SULL’UOMO 3.1.1) CAMPI A BASSE FREQUENZE 3.1.2) RADIOFREQUENZE E MICROONDE 3.1.3) ELETTRODOTTI 3.1.4) AMBIENTE DOMESTICO 3.1.5) RADIAZIONE DI FONDO 3.1.6) TELEFONIA MOBILE 3.1.7) ANTENNE RADIOTELEVISIVE 3.2) METODI DI CONTROLLO E PROTEZIONE 3.2.1) CONTROLLO DEL CAMPO PRODOTTO DA ELETTRODOTTI 3.2.2) LA NORMATIVA ITALIANA MODULO N. 4 4) PROGETTAZIONE IMPIANTO A PANNELLI SOLARI TERMICI 4.1) POTENZA TERMICA DA IRRAGGIAMENTO SOLARE 4.2) COMPONENTI DELL’IMPIANTO A PANNELLI PIANI 4.2.1) VASO DI ESPANSIONE 4.2.2) GRUPPO IDRAULICO DI MANDATA E RITORNO 4.2.3) BOLLITORE PER LA PRODUZIONE DI ACS 4.2.4) CENTRALINA SOLARE 4.3) PANNELLI SOLARI 4.3.1) CARATTERISTICHE DEI PANNELLI SOLARI 4.4) QUOTA DI COPERTURA DELL’ENERGIA SOLARE 4.4.1) CARATTERISTICHE DEI COLLETTORI PIANI 4.4.2) DENOMINAZIONE DELLE SUPERFICI 4.5) SCELTA DEL TIPO DI COLLETTORE 4.5.1) RENDIMENTO DEL COLLETTORE 4.6) DIMENSIONAMENTO DI UN IMPIANTO A PANNELLI PIANI 4.6.1) CALCOLO DEL FABBISOGNO DI ACS 4.6.2) CALCOLO DELL’ENERGIA MEDIA MENSILE 4.6.3) CALCOLO DELL’IRRAGGIAMENTO 4.6.4) CALCOLO DELLA SUPERFICIE DEI PANNELLI MODULO N.5 5) ELEMENTI DI MECCANICA QUANTISTICA 5.1) RADIAZIONE DEL CORPO NERO 5.2) L’EFFETTO FOTOELETTRICO - FOTONI 5.2.1) TEORIA DEI FOTONI 5.2.2) ESPERIENZA DI YOUNG E FOTONI 5.3) QUANTITA’ DI MOTO DEI FOTONI 194 PAG. 3 3 4 6 7 10 11 12 15 15 17 18 24 24 27 27 29 29 31 32 32 33 34 34 36 37 39 39 43 46 48 59 59 61 64 66 67 5.4) ONDE MATERIALI DI DE BROGLIE 5.5) DUALISMO ONDE-PARTICELLE 5.6) PROBLEMI DI STABILITA’ DEL MODELLO PLANETARIO DELL’ATOMO D’IDROGENO 5.7) IL MODELLO ATOMICO DI BOHR CON L’IPOTESI DI DE BROGLIE 5.7.1) DETERMINAZIONE DEL RAGGIO ATOMICO 5.7.2) DETERMINAZIONE DELL’ENERGIA DI LEGAME 5.7.3) SPETTRO A RIGHE 5.7.4) MOMENTO DELLA QUANTITA’ DI MOTO 5.8) PRINCIPIO DI INDETERMINAZIONE DI HEISENBERG 5.9) CENNI DI MECCANICA ONDULATORIA 5.9.1) LA FUNZIONE D’ONDA 5.9.2) L’ELETTRONE IN SCATOLA 5.9.3) IL SIGNIFICATO FISICO DELLA FUNZIONE D’ONDA: L’ORBITALE 5.10) MODELLO COMPLETO DELL’ATOMO D’IDROGENO 5.10.1) I NUMERI QUANTICI 5.10.2) LE FUNZIONI D’ONDA DELL’ATOMO D’IDROGENO 5.10.3) MOMENTO DELLA QUANTITA’ DI MOTO 5.10.4) IL NUMERO QUANTICO DI SPIN 5.11) LE MOLECOLE 5.11.1) SPETTRI MOLECOLARI MODULO N. 6 6) IMPIANTO A PANNELLI FOTOVOLTAICI 6.1) PRINCIPI GENERALI 6.2) PRINCIPALI COMPONENTI DI UN IMPIANTO FOTOVOLTAICO 6.2.1) GENERATORE FOTOVOLTAICO 6.2.2) INVERTER 6.2.3) MODULI IN SILICIO CRISTALLINO 6.3) TIPOLOGIE DEGLI IMPIANTI FOTOVOLTAICI 6.3.1) IMPIANTI ISOLATI ( STAND-ALONE) 6.3.2) IMPIANTI COLLEGATI ALLA RETE (GRID-CONNECTED) 6.4) FUNZIONAMENTO DELLA CELLA FOTOVOLTAICA 6.4.1) DROGAGGIO p ED n 6.4.2) CELLA FOTOVOLTAICA 6.5) PRODUZIONE ENERGETICA ANNUALE ATTESA 6.5.1) TENSIONI E CORRENTI IN UN IMPIANTO FV 6.5.2) CONFIGURAZIONE DEL CAMPO SOLARE 6.5.3) CARATTERISTICHE DEL MODULO FOTOVOLTAICO 6.6) PROGETTAZIONE DI UN IMPIANTO FOTOVOLTAICO 195 69 71 73 74 75 77 79 80 81 84 84 86 89 91 92 93 95 96 97 99 105 105 106 106 109 110 111 111 112 112 114 115 120 123 125 129 131 MODULO N.7 7) ENERGIA NUCLEARE 7.1) CENNI DI FISICA NUCLEARE 7.1.1) LA STRUTTURA DELLA MATERIA 7.1.2) PRINCIPI DI CONSERVAZIONE 7.1.3) INTERAZIONE NUCLEARE FORTE E STRUTTURA DEL NUCLEO 7.2) LE REAZIONI NUCLEARI 7.2.1) NUCLEI INSTABILI E RADIOATTIVITA’ 7.2.2) TEMPO DI DIMEZZAMENTO, VITA MEDIA, ATTIVITA’ 7.2.3) RADIOATTIVITA’ NATURALE E ARTIFICIALE 7.2.4) EFFETTI BIOLOGICI DELLE RADIAZIONI. DOSIMETRIA 7.3) INQUINAMENTO DA RADON 7.3.1) DIFFUSIONE DEL RADON 7.3.2) EFFETTI SULLA SALUTE 7.3.4) ADEMPIMENTI PER L’ESPOSIZIONE AL RADON NEI LUOGHI DI LAVORO 7.3.5) MISURAZIONE DEL RADON 7.3.6) IL RADON NEL VENETO 7.4) FISSIONE, FUSIONE E CENTRALI NUCLEARI 7.4.1) LA FISSIONE NUCLEARE 7.4.2) NOCCIOLO DI UN REATTORE NUCLEARE 7.4.3) FUSIONE NUCLEARE 7.4.4) VANTAGGI E SVANTAGGI DELLE DUE FORME DI ENERGIA NUCLEARE MODULO N.8 8.0) CELLE AD IDROGENO BIBLIOGRAFIA 196 137 137 140 141 142 151 151 154 156 157 160 160 162 163 164 166 168 168 170 173 174 180 192