1 Parrocchia Cristo Re – Milano Scuola parrocchiale di teologia

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Parrocchia Cristo Re – Milano
Scuola parrocchiale di teologia: breve introduzione alla Dottrina Sociale della Chiesa – AP 2009-10
I incontro: lunedì 11 gennaio 2010
LINEE INTRODUTTIVE
I. IL PENSIERO SOCIALE NELLA BIBBIA
La Bibbia NON è un trattato di morale (tanto meno sociale) ma attestazione di un evento, l’opera di
Dio nella storia degli uomini, che va oltre (ma non accanto o fuori) ogni dimensione e ambito del
vivere umano. L’AT copre un arco storico di oltre un millennio, raccolto in 46 libri. Vi troviamo
quindi diverse esperienze e modelli di società, ma con un tratto comune: domina il senso di
appartenenza, in cui la libertà e la consapevolezza dell’individuo “fanno corpo” con quelle del
gruppo. Si tratta quindi di una società “tradizionale” con le sue caratteristiche diverse dalla moderna
“società complessa”.
La Bibbia quindi non ci dice come la società debba essere strutturata, con quali istituzioni, con quali
modalità, ma offre alla comunità credente la possibilità di sottoporre a verifica ogni concreta società
esistente, mostrandone i limiti ma anche la direzione del cammino da percorrere in vista di un
possibile, migliore compimento.
A. L’ANTICO TESTAMENTO
Possiamo suddividere il messaggio dell’AT in tre macro tappe:
2. Esodo-Alleanza e Legge come momento fondativo
3. Il giudizio profetico come appello all’impegno etico
4. La riflessione sapienziale come confronto e identità.
1. Esodo-Alleanza e Legge come momento fondativo
La vicenda dell’Esodo è evento paradigmatico nella storia di Israele. La storia e la comprensione di
Dio sono illuminati dal dono della liberazione: solo la fede svincola Israele da ogni schiavitù e solo
la perseveranza in essa può mantenerlo libero. I binomi inscindibili di questo periodo sono:
schiavitù-idolatria e libertà-fede.
Esodo 6,6-7:Per questo di’ agli Israeliti: Io sono il Signore! Vi sottrarrò ai gravami degli
Egiziani, vi libererò dalla loro schiavitù e vi libererò con braccio teso e con grandi castighi. Io vi
prenderò come mio popolo e diventerò il vostro Dio. Voi saprete che io sono il Signore, il
vostro Dio, che vi sottrarrà ai gravami degli Egiziani. Cfr. anche Es 3,7-9; Is 43,10-12; 45,5-8.
L’esperienza dell’Esodo si struttura nell’Alleanza mosaica come volontà del popolo di Israele di
conservare immutata la propria fedeltà al Dio dell’Esodo. La celebrazione rituale dell’Alleanza
diventa il quadro di riferimento della coscienza di Israele come popolo di JHWH.
1
Conseguenze socio-politiche:
1. Israele riconosce che la libertà, l’unità, la pace… non sono l’immediata risultanza del proprio
impegno ma, benché traguardi raggiungibili dall’uomo, vivibili in pienezza solo perché dono di
Dio. La liberazione è quindi motivo di lode a JHWH e non di autocelebrazione entusiastica (cfr.
Es 15, 2-2).
Deuteronomio 8,17-18: Guardati dunque dal pensare: La mia forza e la potenza della mia mano
mi hanno acquistato queste ricchezze. Ricordati invece del Signore tuo Dio perché Egli ti dà la
forza per acquistare ricchezze, al fine di mantenere, come fa oggi, l’alleanza che ha giurata ai
tuoi padri.
2. L’Alleanza genera la percezione in Israele di essere un popolo, di essere interlocutore collettivo
di JHWH. Tale solidarietà non esonera nessuno, nemmeno i capi, quali Mosé, Aronne, Giosué, i
Giudici (Davide). Cfr. Es 32,11-14.31-34; Nm 11,10-15; 14,10-19; 17,6-15.
La legge:
Per far sì che l’esperienza dell’Esodo sia sempre presente e l’Alleanza abbia valore, JHWH dona
una serie di indicazioni contenute nella Legge. La Legge è quindi lo strumento-dono di Dio per
poter camminare verso i beni promessi e offerti gratuitamente. È un ponte tra la memoria del
passato e l’attesa del futuro, dove si giocano la grazia di Dio e la responsabilità degli uomini.
La Legge quindi non va intesa solo in senso giuridico: solo nella memoria del passato e nella
fiducia di chi la promulga è attuabile. Solo nella fede la Legge è portatrice della promessa di
JHWH, di comunione con Lui e l’altro. Non è quindi solo “argine” ma anche meta. Meglio: meta
comune.
Oltre al Decalogo (Es 20,2-17 e Dt 5,6-21) vi sono lunghe raccolte legislative che esplicitano la
Legge e normano singole situazioni: Codice dell’Alleanza (Es 20,22-23,33), Codice Deuteronomico
(Dt 12-26) e Codice di Santità (Lv 17-26). La motivazione della norma è sempre connessa alla
liberazione dell’Esodo-Alleanza.
Deuteronomio 5,1-6: Mosè convocò tutto Israele e disse loro: Ascolta, Israele, le leggi e le
norme che oggi io proclamo dinanzi a voi: imparatele e custoditele e mettetele in pratica. Il
Signore nostro Dio ha stabilito con noi un’alleanza sull’Oreb. Il Signore non ha stabilito
questa alleanza con i nostri padri, ma con noi che siamo qui oggi tutti in vita. Il Signore vi ha
parlato faccia a faccia sul monte dal fuoco, mentre io stavo tra il Signore e voi, per riferirvi la
parola del Signore, perché voi avevate paura di quel fuoco e non eravate saliti sul monte. Egli
disse: Io sono il Signore, tuo Dio, che ti ho fatto uscire dal paese di Egitto, dalla condizione
servile.
Deuteronomio 24,17-22: Non lederai il diritto dello straniero e dell’orfano e non prenderai in
pegno la veste della vedova, ma ti ricorderai che sei stato schiavo in Egitto e che di là ti ha
liberato il Signore tuo Dio; perciò ti comando di fare questa cosa. Quando, facendo la
mietitura nel tuo campo, vi avrai dimenticato qualche mannello, non tornerai indietro a
prenderlo; sarà per il forestiero, per l’orfano e per la vedova, perché il Signore tuo Dio ti
benedica in ogni lavoro delle tue mani. Quando bacchierai i tuoi ulivi, non tornerai indietro a
ripassare i rami: saranno per il forestiero, per l’orfano e per la vedova. Quando vendemmierai la
tua vigna, non tornerai indietro a racimolare: sarà per il forestiero, per l’orfano e per la vedova.
2
Ti ricorderai che sei stato schiavo nel paese d’Egitto; perciò ti comando di fare questa
cosa.
“Il criterio fondamentale della giustizia in Israele è ben diverso da quello oggettivistico elaborato,
ad esempio, dalla tradizione del diritto romano, attento alle cose oggetto di diritto. Qui c’è
attenzione alla qualità dei rapporti personali e alla condizione sociale e personale dei soggetti
implicati: il potente, il povero, il ricco, l’orfano; la loro relazione definisce il diritto e l’uso della
cosa oggetto di prestito, di controversia, non la cosa in se stessa, da chiunque posseduta La
percezione della società emergente da questi testi non è quella di una società pensata come
idealmente giusta, nella quale è normale che si viva secondo le leggi, che intervengono soltanto a
disciplinare i casi non corrispondenti ad esse come solitamente previsto dal diritto. La società presa
a riferimento è quella storicamente esistente, nella quale il ricco è comunque posto in condizioni di
partenza ben diverse dal povero, nel quale è l’ingiustizia più che la vera giustizia a prevalere: la
giustizia non è qui intesa come un ordine precostituito cui occorre conformarsi ma un
cammino da compiere sotto la guida di JHWH1”.
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Brevissimo excursus storico
Insediamento Canaan (1200-1000 a.C): “confederazione tribale” con centro cultuale (probab.
Sichem)
Monarchia (1000 a. C. circa): Saul, Davide, Salomone. Regno fragile.
Nel 931 si dissolve in due Regni: di Israele al Nord (10 tribù) e di Giuda al Sud (2 tribù).
Il Regno di Israele sfinisce sotto Assiri (721 a.C) e quello di Giuda sotto Babilonesi (586 a.C.).
Da quel momento Israele sarà sempre provincia di vari imperi: persiano, ellenistico, romano
fino al 70 d.C. (distruzione del Tempio).
2. Il giudizio profetico come appello all’impegno etico
Israele, fin dal deserto, fa esperienza che è possibile disobbedire e Dio e il cammino di fede non è
“automaticamente” garantito dalle istituzioni. Saranno i profeti a ribadire l’impegno etico, ovvero a
ricordare di scegliere, impegnandosi, la via di JHWH per poter vivere.
La predicazione ricorre spesso a formule sintetiche come “diritto e giustizia”, “verità, misericordia,
pace” non tanto per denunciare le violazioni della Legge quanto per mostrare la mancanza di
fede presente nei “peccati sociali”.
“La denuncia dei profeti di Israele parte sempre dalla fede, non da un discorso sull’uomo e la
società, ma da un discorso su Dio e il suo progetto di salvezza 2”.
I profeti pre esilici (Amos, Osea, Michea, Isaia 1-39) denunciano soprattutto i peccati di coloro che
hanno potere (economico, politico e cultuale). Un giudizio particolarmente severo è riservato alla
pretesa del re di sostituirsi a JHWH unico vero re di Israele.
1Samuele 8,7: “Ascolta la voce del popolo per quanto ti ha detto perché costoro non hanno
rigettato te, ma hanno rigettato me, perché io non regni più su di essi”.
1
2
E. Combi, E. Monti, Fede e società – Introduzione all’etica sociale, Centro Ambrosiano, Milano 2005, 21-22.
B. Maggioni, Uomo e società nella Bibbia, Jaca Book, Milano 1987, p. 179.
3
Esemplificativo in tal senso è il libro di Michea: ai governanti spetta il compito di “conoscere” (nel
senso di praticare) la giustizia. Ma essi la conoscono per meglio aggirarla e quindi stravolgere i
criteri stessi su cui si poggia. La condanna colpisce l’intera società perché solo JHWH può offrire
fondamento alla città dell’uomo.
Michea 3,1-4: Io dissi: «Ascoltate, vi prego, o capi di Giacobbe, e voi funzionari della casa
d’Israele. Non spetta a voi conoscere ciò che è giusto? Ma voi odiate il bene e amate il male,
scorticate il mio popolo e gli strappate la carne dalle ossa. Essi divorano la carne del mio
popolo, gli strappano la pelle di dosso, gli spezzano le ossa; lo fanno a pezzi come ciò che si
mette nella casseruola, come carne da mettere nella pentola». Allora grideranno al
SIGNORE, ma egli non risponderà loro; in quei giorni, egli nasconderà loro la sua faccia,
perché le loro azioni sono state malvagie.
Interessante la parabola ascendente delle accusa di Amos:
a. Ingiustizia e avidità nei rapporti economici e nell’amministrazione della giustizia
b. Perdita del senso morale
c. Pratica cultuale falsa e idolatria
In qualche modo l’accusa rimarca come dall’ingiustizia si passi all’idolatria, dall’oppressione
dell’uomo al disonore di Dio. È una sorta di anti-Esodo, di cammino che vanifica l’esperienza
fondante di Israele
Osea riafferma i contenuti del Decalogo non solo come “vie da seguire” ma come “capi di
imputazione” da parte di JHWH come giudizio radicale della infedeltà:
Osea
4,1-2:
Ascoltate
la
parola
del
SIGNORE,
o
figli
d’Israele.
Il SIGNORE ha una contestazione con gli abitanti del paese, poiché non c’è verità, né
misericordia,né conoscenza di Dio nel paese: si spergiura, si mente,
si uccide, si ruba, si commette adulterio;si rompe ogni limite e si aggiunge sangue a sangue.
Con l’esilio (disgregazione religiosa-etnica, distruzione e perdita del tempio, delle leggi e delle
tradizioni…) Israele subisce un grave colpo nell’identità collettiva. Iniziano a nascere quindi una
riflessione più personale sulla responsabilità e un’attenzione più universale agli eventi.
In questo contesto vanno collocate le prospettive teologiche di Ez 36,23-36 e Ger 31, 27-34 sulla
Nuova Alleanza come evento che investe il cuore e la coscienza della persona e perciò non si
identifica né coincide con un ordinamento giuridico-politico.
Nei Carmi del servo di JHWH (Is 42-53) ricorrono i temi della mitezza, della giustizia, del diritto,
della verità, della pace e dell’umiltà. Tutti valori che non indicano un determinato assetto sociale
ma una “qualità” della convivenza.
Nella Lettera di Geremia agli esiliati (Ger 29) vi è la convinzione che si può essere fedeli a JHWH
anche in condizioni di “non popolo” e di diaspora. Fede e organizzazione sociale non coincidono: la
prima ha una portata e una valenza universale che supera le forme storiche sociopolitiche e etniche.
La profezia di Israele di concretizza in ultima analisi nel ricercare la giustizia di Dio oltre e contro
ogni tentativo di attenuarne le esigenze e la portata. Essa fa appello in maniera vigorosa alla libertà
dell’uomo: se la istituzioni sociali non sono gestite nella ricerca del bene, esse, da realtà salvifiche
divengono strumenti dell’iniquità e dell’ingiustizia.
3. La riflessione sapienziale come confronto e identità.
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La sapienza è la caratteristica di tutti i popoli che tentano di “dare ordine” all’esistenza. Per Israele
la sapienza autentica è posseduta solo da Dio: l’uomo nella fede può accedervi. Quindi la tradizione
sapienziale biblica è un “filtro critico” nei confronti della sapienza mondana.
La maggior parte della riflessione avviene in epoca esilica e post esilica quando il confronto con gli
altri popoli costringe Israele a ripensare alla propria identità. Quindi la riflessione si concentra sia
sul “disegno originario” sia sulla “condizione storica” (cfr. Gen 1-12).
Nel disegno originario Dio è riconosciuto come il Signore del cosmo e della storia. Tra il Creatore e
l’uomo esiste un legame particolare: Adamo passeggia con Dio nel giardino. L’uomo è anche
chiamato a una singolare esperienza di comunione: la differenziazione-comunanza del rapporto
uomo-donna è il contenuto originario di ogni rapporto di prossimità e di socialità. Solo nel
riconoscimento di uno “che è simile a me” ma è irriducibilmente “altro” è possibile una
relazionalità autentica. Adamo ed Eva non creano da loro stessi la socialità ma la scoprono come
dono e possibilità. L’uomo trova la sua pienezza solo nel rapporto con l’altro e non con il resto della
creazione. La condizione storica però ci ricorda che il peccato è entrato nel disegno originario di
Dio. Il peccato si allarga contaminando ogni relazione di comunicazione e di socialità. La volontà
di Dio di mantenere aperto il rapporto è ribadita (cfr. il segno di Caino, l’alleanza con Noé,
l’alleanza con Abramo…).
La riflessione sapienziale, a partire dai due punti appena detti, cerca di individuare e proporre della
indicazioni morali, a partire dalla base storica, per avvicinarsi e ritornare al piano originario di Dio.
In particolare si sofferma sui beni della terra destinati a tutti e sviluppa indicazioni sull’onestà e la
correttezza nei rapporti economico-commerciali e di proprietà; sottolinea la proibizione del prestito
a interesse, la tutela del salariato e la tutela del pegni del povero. Inoltre nel quadro dell’affidamento
del creato è riaffermata la dignità del lavoro umano.
B. IL NUOVO TESTAMENTO
La Palestina è una provincia romana. Il dominio è abbastanza tollerante ma non privo di tensioni.
Zeloti: rifiutano nettamente il dominio romano in quanto considerano la Legge come norma anche
politica
Farisei: tolleranti nei confronti del dominio romano in nome del realismo politico che permette di
mantenere alcune istituzioni fondamentali.
Sadducei: hanno maggiori interessi politici ed economici e quindi situazione più compromessa con
il potere romano. Non riconoscono la contraddizione tra il potere romano e le istituzioni di Israele.
Esseni (a Qumran): propongono osservanza estrema della Legge e teorizzano la più assoluta
separazione dal mondo. Non hanno contatti con le istituzioni romane.
Gesù non rifiuta né il Sinedrio né il potere romano. Il punto di partenza della missione e della
predicazione è l’accettazione del quadro sociale esistente. Il giudizio parte sempre da un
coinvolgimento con la realtà sociale, non da una separazione: presenza critica. Tutti, di fatto,
condividono l’ideale monarchico messianico, come attesa di un Re restauratore dell’ordine e della
giustizia.
5
“Ciò che più colpisce nel giudizio di Gesù sulle situazioni terrene è il suo atteggiamento
realistico3”.
Vediamo rapidamente il messaggio “sociale” di Gesù in tre punti: la legge nuova, il rapporto
ricchezza-povertà e l’autorità civile.
La legge nuova:
La legge nuova è compimento (e non abolizione) in quanto la legge può essere inverata dall’evento
Gesù. L’annuncio non propone formulazioni più estese o dettagliate. Piuttosto esige cuori rinnovati.
La Legge assume pienezza in quanto è storicamente realizzata in Gesù. Cfr. Il discorso della
montagna
San Paolo parla di adempimento della “legge di Cristo” proprio come condivisione sociale,
economica e spirituale, che insegna a portare gli uni i pesi degli altri (Gal 6,2), secondo i doni di
ciascuno e in vista dell’utilità comune (1Cor 12,4-7).
Ricchezza e povertà:
Nella sua missione Gesù ha costantemente rifiutato le sollecitazioni che gli suggerivano di servirsi
del prestigio, della potenza e dei mezzi terreni: le tentazioni arrivano da Satana (Mt 4,1-11) ma
anche dalle folle (Gv 6,15), dagli scribi e dai farisei (Mc 8,11; 15, 31-31) e persino dai discepoli.
Tuttavia Gesù, pur privilegiando i poveri di qualsiasi genere nella Rivelazione del Regno, frequenta
anche uomini ricchi di beni, di potere, di autorità. Li incontra però come uomini, amati da Dio e
invitati alla salvezza: mai la loro posizione appare come luogo privilegiato per l’annuncio del
Regno né per loro né per l’annuncio stesso.
Circa i beni materiali abbiamo due indicazioni:
Da una parte Gesù, secondo la linea sapienziale, riconosce la bontà del creato e propone un uso
buono delle risorse. Dall’altra, sviluppando la linea profetica, sottolinea la radicalità della scelta tra
Dio e mammona.
In linea di principio il possesso di beni materiali è un vantaggio per l’uomo finché essi rimangono al
suo servizio, rendono sicuro il suo avvenire, dilatano le sue possibilità, lo rendono potenziale
benefattore. Di contro, il possesso di beni, di molti beni, tende a spadroneggiare sull’uomo, a
renderlo schiavo, a infondere false sicurezze e quindi a soffocare la Parola (Lc 12,15). La relazione
tra beni terreni e salvezza eterna è ben illustrata nell’episodio del giovane ricco (Mt 10,23).
L’ambiguità della ricchezza emerge anche nel rapporto tra beni materiali e esistenza quotidiana. Si
può parlare di affanno, intesa come agitazione continua, perenne fiato sospeso. L’affanno spinge a
faticare, a illudersi che possedendo si raggiungano quiete e libertà. Ma proprio il possesso poi
aumenta l’affanno per il mantenimento del possesso. L’affanno lascia comunque intatto il problema
di fondo dell’uomo: la morte (Mt 6, 27). Alla base di questa spirale c’è una radicale mancanza di
fiducia in Dio che Gesù svela chiaramente. Riemerge un intreccio tra idolatria (non si pone la
fiducia in Dio ma altrove) e antiumanesimo (la fiducia riposta nel posto sbagliato si rivolta contro
l’uomo). È proprio nel rapporto tra beni terreni, salvezza eterna e vita quotidiana che si sviluppa
l’insegnamento sull’uso dei beni (cui dedica speciale attenzione S. Luca). La stoltezza sta
3
R. Schnackenburg, Il messaggio morale del Nuovo Testamento – Da Gesù alla Chiesa primitiva, vol. 1, Paideia,
Brescia 1989, 161.
6
nell’accumulare per sé, invece di arricchire davanti a Dio. La condivisione dei beni, al contrario, è
vera sapienza.
Autorità civile:
“Gesù rifiuta il potere oppressivo e dispotico dei capi sulle Nazioni e la loro pretesa di farsi
chiamare benefattori, ma non contesta mai direttamente le autorità del suo tempo” (CDSC 379)
Il brano di Lc 22,25-26 richiama l’uso ideologico del potere. Il potere deve essere servizio ma
spesso costituisce un’etica a se stante e quasi una religione. Il richiamo a questa ambiguità è
rintracciabile anche nell’episodio delle tentazioni sataniche.
L’episodio del tributo a Cesare è un altro episodio importante: la risposta di Gesù indica che
l’obbedienza a Dio non esonera dagli obblighi politici, ai doveri verso lo stato, fatta salva la
supremazia di Dio. Agostino interpreta in questo senso: a Cesare è dovuta la moneta che porta la
sua effige, a Dio l’uomo che è imago Dei. (Cfr.: Mc 12, 13-17; Lc 20, 20-26; Mt 22, 15-22. Tra gli
innumerevoli commenti al brano, rimandiamo alle pagine di R. Schnackenburg, op. cit, 166-170
proprio per la lettura e l’ermeneutica morale del brano). Da notare che il verbo non è “dare” ma
“rendere”, sia a Cesare che a Dio: non siamo noi i primi a dare ma i primi ad aver ricevuto. Se
anche nella società siamo costituti anzitutto come debitori, dobbiamo porre un ripensamento
radicale anche sugli obblighi sociali. Gesù non risponde con un principio formale ma ripone
correttamente il problema da affrontare nelle concrete situazioni storiche.
“Si può dire che l’annuncio evangelico non è politico, nel senso che non impone un regno
(teocratico) alternativo a quelli esistenti […]; ma si deve dire che l’annuncio evangelico è politico
nel senso che propone un criterio valutativo e una direzione di cammino nella storia di ogni regno
terreno4”.
La predicazione apostolica
La predicazione apostolica è caratterizzata sia da un
– lealismo nei confronti dell’istituzione sociale che da una
– distanza critica nei confronti dell’istituzione sociale.
Il primo invito è quello di essere leali e obbedire all’autorità politica. Si vedano le tavole
domestiche (1Pt 2,13-20) e quelle comunitarie (1Tm 2,1-3; Tt 3,1-3.8). Il brano più famoso è Rm
13,1-7.
Romani 13, 1-7: Ogni persona stia sottomessa alle autorità superiori; perché non vi è
autorità se non da Dio; e le autorità che esistono, sono stabilite da Dio. Perciò chi resiste
all’autorità si oppone all’ordine di Dio; quelli che vi si oppongono si attireranno addosso
una condanna; infatti i magistrati non sono da temere per le opere buone, ma per le cattive.
Tu, non vuoi temere l’autorità? Fa’ il bene e avrai la sua approvazione, perché il magistrato
è un ministro di Dio per il tuo bene; ma se fai il male, temi, perché egli non porta la spada
invano; infatti è un ministro di Dio per infliggere una giusta punizione a chi fa il male.
Perciò è necessario stare sottomessi, non soltanto per timore della punizione, ma anche per
motivo di coscienza. È anche per questa ragione che voi pagate le imposte, perché essi, che
sono costantemente dediti a questa funzione, sono ministri di Dio. Rendete a ciascuno quel
4
E. Chiavacci, Teologia morale – morale della vita economica, politica, di comunicazione, vol. 3/2, Cittadella, Assisi
19942, 271.
7
che gli è dovuto: l’imposta a chi è dovuta l’imposta, la tassa a chi la tassa; il timore a chi il
timore; l’onore a chi l’onore.
Tt 3,1-2 indica tre atteggiamenti sociali in crescente rilievo (sottomissione, obbedienza e prontezza)
dove la novità sta nell’ultima indicazione (sostenuta dalle quattro virtù seguenti): anche nella vita
sociale la gratuità deve essere il criterio e la logica.
Lettera a Tito 3, 1-2: Ricorda loro che siano sottomessi ai magistrati e alle autorità, che
siano ubbidienti, pronti a fare ogni opera buona, che non dicano male di nessuno, che non
siano litigiosi, che siano miti, mostrando grande gentilezza verso tutti gli uomini.
1 Pt 2,13-17 ci richiama la motivazione della obbedienza (l’amore del Signore). Da notare che al re
e a tutti è dovuto onore, ai fratelli amore e a Dio timore.
1 Lettera di Pietro 2,13-17: Siate sottomessi, per amor del Signore, a ogni umana
istituzione: al re, come al sovrano; ai governatori, come mandati da lui per punire i
malfattori e per dar lode a quelli che fanno il bene. Perché questa è la volontà di Dio: che,
facendo il bene, turiate la bocca all’ignoranza degli uomini stolti. Fate questo come uomini
liberi, che non si servono della libertà come di un velo per coprire la malizia, ma come servi
di Dio. Onorate tutti. Amate i fratelli. Temete Dio. Onorate il re.
Malgrado questi appelli, sia la concezione teologica sia la prospettiva escatologica mantengono il
primato sull’autorità di Dio. Nell’obbedienza è comunque richiesta una distanza critica
At 4, 19-20: Giudicate voi se è giusto, davanti a Dio, ubbidire a voi anziché a Dio. Quanto
a noi, non possiamo non parlare delle cose che abbiamo viste e udite.
At 5,29: Bisogna ubbidire a Dio anziché agli uomini
Cfr. Paolo a Filemone circa Onesimo (v. 16: non più come schiavo, ma molto più che
schiavo, come un fratello caro specialmente a me, ma ora molto più a te, sia sul piano
umano sia nel Signore!)
Circa i beni materiali la Chiesa primitiva nutre un atteggiamento sostenuto dall’amore fraterno: i
beni vengono messi in comune e distribuiti a ciascuno secondo il bisogno (At 2,42-45; 4,32-35).
L’ideale non è una povertà volontaria ma una vita che non tollera fratelli indigenti. La messa in
comune dei beni deve pertanto essere volontaria e in coscienza (cfr. At 5, 1-4: le parole di Pietro ad
Anania).
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II. L’INSEGNAMENTO SOCIALE: LE FONDAMENTA.
La relazione interpersonale è caratterizzata dagli aspetti personali, dal sentimento e dalla libera
scelta. Sono relazioni “corte”. La relazione sociale è caratterizzata da ruoli e status. Questa
relazione “trascende” le caratteristiche personali. Sono relazioni “lunghe” 5.
Il sociale è quindi una dimensione costitutiva dell’esperienza e delle relazioni umane. Le rende
possibili ma non le esaurisce. Ogni persona è nel contempo caratterizzata da singolarità e socialità.
Il sociale possiede uno spazio specifico e “obiettivo”, irriducibile alla somma dei singoli.
CDSC: 149 La persona è costitutivamente un essere sociale, perché così l’ha voluta Dio che
l’ha creata. La natura dell’uomo si manifesta, infatti, come natura di un essere che risponde
ai propri bisogni sulla base di una soggettività relazionale, ossia alla maniera di un essere
libero e responsabile, il quale riconosce la necessità di integrarsi e di collaborare con i propri
simili ed è capace di comunione con loro nell’ordine della conoscenza e dell’amore: «Una
società è un insieme di persone legate in modo organico da un principio di unità che supera
ognuna di loro. Assemblea insieme visibile e spirituale, una società dura nel tempo: è erede
del passato e prepara l’avvenire».
Occorre pertanto sottolineare che la vita comunitaria è una caratteristica naturale che
distingue l’uomo dal resto delle creature terrene. L’agire sociale porta su di sé un
particolare segno dell’uomo e dell’umanità, quello di una persona operante in una comunità
di persone: questo segno determina la sua qualifica interiore e costituisce, in un certo senso,
la stessa sua natura. Tale caratteristica relazionale acquista, alla luce della fede, un senso più
profondo e stabile. Fatta a immagine e somiglianza di Dio (cfr. Gen 1,26), e costituita
nell’universo visibile per vivere in società (cfr. Gen 2,20.23) e dominare la terra (cfr. Gen
1,26.28-30), la persona umana è perciò sin dall’inizio chiamata alla vita sociale: « Dio non
ha creato l’uomo come un “essere solitario”, ma lo ha voluto come un “essere sociale”. La
vita sociale non è, dunque, estrinseca all’uomo: egli non può crescere né realizzare la sua
vocazione se non in relazione con gli altri».
Il Vangelo non è un messaggio solo per pochi privilegiati ma è destinato a ogni uomo, in ogni
tempo, in ogni terra. La missione propria della Chiesa è religiosa e soprannaturale. Tuttavia questa
missione si incarna e realizza nella storia e nelle realtà naturali. Vi è un nesso inscindibile tra
annuncio del Vangelo e liberazione dell’uomo.
La Chiesa ha quindi il diritto-dovere di intervenire in campo sociale:
– perché l’ordine morale è intimamente connesso con l’ordine soprannaturale;
– perché la Rivelazione ha un’intrinseca dimensione storica.
Oltre alle encicliche, il tema “sociale” è affrontato anche mediante radiomessaggi, discorsi,
documenti, “indirizzi”…
L’insegnamento “sociale” della Chiesa può essere considerato in tre aspetti:
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Dottrina
Insegnamento
Discorso
Cfr. P. Ricoeur, Histoire et verité, Seuil, Paris 1955, 99-11.
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Con il termine “dottrina” si indicano il contenuto e la sostanza di un insegnamento ovvero un
complesso di principi e di enunciati, frutto di deduzione teorica, esposti in modo organico e
sistematico.
Con “insegnamento sociale”, pur non escludendo l’aspetto dottrinale, si pone l’accento sull’aspetto
storico e pratico degli interventi.
Una volta distinti nel tema sociale ciò che ha valore permanente e ciò che ha valore storico, si fa uso
quotidiano e “familiare” di quei principi, applicandoli a questioni di carattere locale: nasce così il
“discorso sociale” (cfr. i discorsi sociali di Giovanni Paolo II nei suoi viaggi).
Questa distinzione dei termini (in relazione al contenuto e alle occasioni dei documenti) ci consente
di delineare tre caratteristiche dell’insegnamento sociale:
1 - non è un insegnamento definitivo ma dinamico: il Magistero sociale della Chiesa non nasce
come qualcosa già di definito, come qualcosa come i dogmi di fede (è così e non si mettono in
discussione), il Magistero sociale della Chiesa è sempre in evoluzione, è sempre in un
atteggiamento dinamico; quindi possiamo dire che è sempre come qualcosa che è destinato a
svilupparsi, mai fermarsi;
2 - non è soltanto discendente, ma anche ascendente: il Magistero sociale della Chiesa non nasce
solo dall’altro (dai principi, dalla gerarchia) ma anche dal basso (da situazioni storiche concrete e
dal popolo di Dio tutto);
3 - non è inerte, ma organico: è un Magistero organico, cioè che si organizza, che si mette in una
prospettiva di apprendere per poter poi avviare un discorso adatto per il presente e per il futuro e
che, anche quando tratta un singolo argomento (ad es. il lavoro), lo fa tenendo conto anche degli
altri ambiti (ad es. la famiglia).
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Titolo
Anno
Pontefice
Rerum Novarum
1891
Leone XIII
Quadragesimo Anno
1931
Pio XI
Mater et Magistra
1961
Giovanni XXIII
Pacem in Terris
1963
Giovanni XXIII
Populorum Progressio 1967
Paolo VI
Octagesima Adveniens 1971
Paolo VI
Laborem exercens
1981
Giovanni Paolo II
Sollecitudo rei socialis 1987
Giovanni Paolo II
Centesimus Annus
1991
Giovanni Paolo II
Caritas in Veritate
2009
Benedetto XVI
Il compito quindi deve sviluppare:
1. Una riflessione sull’agire
2. capace di rendere conto (in vista della responsabilità, della libertà, della consapevolezza)
delle strutture e delle istituzioni come prassi,
3. mostrando come ciò riguardi la fedeltà al Vangelo.
L’insegnamento sociale della Chiesa può essere scandito in quattro tappe:
1.
2.
3.
4.
L’ideologia cattolica (1891-1931)
La nuova cristianità (1931-1958)
Il dialogo (1958-1978)
La profezia (1978-…)
La DSC (“iniziata” nel 1891) da una parte eredità la riflessione cristiana, dall’altra deve rispondere
alle sollecitazioni dell’epoca. Durante il suo percorso vi sono stati alcuni accenti o sottolineature
diverse (dovuti ai cambiamenti storici: ad es. totalitarismi, questione operaia, società
multiculturale…) ma il criterio di ricerca è rimasto il medesimo: mostrare l’esigenza profonda delle
politica di fare riferimento a una verità ultima che non è essa stessa a darsi. Dimenticando la
dinamica tra politica-sociale e verità ultima, due sono i rischi:
1. La politica si svuota dai contenuti, riducendosi a contenuti formali, rinunciando a cercare
quella verità e quel senso che le competono al servizio del bene comune. La politica si
estrania dal suo fondamento.
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2. La politica assume toni totalitari, assorbendo ogni altra questione (filosofica, morale, di
fede…) presentandosi come il bene e la verità universale. È così annullata la differenza tra la
politica e il suo fondamento.
In questa ricerca, il Magistero sociale della Chiesa ha sempre adottato quattro principi come cardine
della riflessione e del suo insegnamento (cfr. CDSC 160-163).
•
•
•
•
principio personalista
principio di solidarietà
principio di sussidiarietà
principio del bene comune
PRINCIPIO PERSONALISTA: uomo soggetto, fondamento e fine della vita sociale
Il primo principio su cui fondare la società è il primato della persona umana. La persona è “l’autore,
il centro e il fine di tutta la vita economico-sociale” (GS 63). La rivelazione cristiana dà stabilità e
rafforza questa conquista della retta ragione.
Da questo principio derivano due criteri di giudizio:
- Lo Stato e la società devono perseguire il bene comune, subordinandolo alla piena
realizzazione della persona
- Neppure la stessa persona può rinunciare a questo primato e alla propria dignità
trascendentale
Si passa così da un’antropologia individualistica ad una di relazione. Le principali attuazioni
storiche sono: dignità, diritti e doveri degli uomini.
CDSC 105 La Chiesa vede nell’uomo, in ogni uomo, l’immagine vivente di Dio stesso;
immagine che trova ed è chiamata a ritrovare sempre più profondamente piena spiegazione
di sé nel mistero di Cristo, Immagine perfetta di Dio, Rivelatore di Dio all’uomo e
dell’uomo a se stesso. A quest’uomo, che da Dio stesso ha ricevuto una incomparabile ed
inalienabile dignità, la Chiesa si rivolge e gli rende il servizio più alto e singolare,
richiamandolo costantemente alla sua altissima vocazione, perché ne sia sempre più
consapevole e degno. Cristo, Figlio di Dio, « con la sua incarnazione si è unito in un certo
senso ad ogni uomo »; per questo la Chiesa riconosce come suo compito fondamentale il far
sì che una tale unione possa continuamente attuarsi e rinnovarsi. In Cristo Signore, la Chiesa
indica e intende per prima percorrere la via dell’uomo, e invita a riconoscere in chiunque,
prossimo o lontano, conosciuto o sconosciuto, e soprattutto nel povero e nel sofferente, un
fratello « per il quale Cristo è morto » (1 Cor 8,11; Rm 14,15).
106 Tutta la vita sociale è espressione della sua inconfondibile protagonista: la persona
umana. Di questa consapevolezza la Chiesa ha saputo più volte e in molti modi farsi
interprete autorevole, riconoscendo e affermando la centralità della persona umana in ogni
ambito e manifestazione della socialità: « La società umana è oggetto dell’insegnamento
sociale della Chiesa, dal momento che essa non si trova né al di fuori né al di sopra degli
uomini socialmente uniti, ma esiste esclusivamente in essi e, quindi, per essi ». Questo
importante riconoscimento trova espressione nell’affermazione che « lungi dall’essere
l’oggetto e un elemento passivo della vita sociale », l’uomo « ne è invece, e deve esserne e
rimanerne, il soggetto, il fondamento e il fine ». Da lui pertanto ha origine la vita sociale, la
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quale non può rinunciare a riconoscerlo suo soggetto attivo e responsabile e a lui ogni
modalità espressiva della società deve essere finalizzata.
107 L’uomo, colto nella sua concretezza storica, rappresenta il cuore e l’anima
dell’insegnamento sociale cattolico. Tutta la dottrina sociale si svolge, infatti, a partire dal
principio che afferma l’intangibile dignità della persona umana. Mediante le molteplici
espressioni di questa consapevolezza, la Chiesa ha inteso anzitutto tutelare la dignità umana
di fronte ad ogni tentativo di riproporne immagini riduttive e distorte; essa ne ha, inoltre, più
volte denunciato le molte violazioni. La storia attesta che dalla trama delle relazioni sociali
emergono alcune tra le più ampie possibilità di elevazione dell’uomo, ma vi si annidano
anche i più esecrabili misconoscimenti della sua dignità.
PRINCIPIO DI SUSSIDIARIETÀ: il primato della società civile sull’istituzione
Il termine deriva da subsidium che indica le truppe di riserva. La sussidiarietà esprime l’aiuto, il
sostegno, l’intervento di rinforzo che viene incontro a carenze obiettive di un organismo sociale
inferiore pur senza sminuirne la potenzialità o sostituirsi ad esso. Indica inoltre la logica di ordine
sociale (verticale). Come la persona viene prima della società, così la società viene prima dello
stato. Questo principio educa e favorisce la dimensione della singolarità personale
Sinonimo: partecipazione. Contrari: burocratizzazione, accentramento, assistenzialismo.
Principali attuazioni storiche sono: “tutelare” e “promuovere le espressioni originarie della
socialità”.
CDSC: 187 Il principio di sussidiarietà protegge le persone dagli abusi delle istanze sociali
superiori e sollecita queste ultime ad aiutare i singoli individui e i corpi intermedi a
sviluppare i loro compiti. Questo principio si impone perché ogni persona, famiglia e corpo
intermedio ha qualcosa di originale da offrire alla comunità. L’esperienza attesta che la
negazione della sussidiarietà, o la sua limitazione in nome di una pretesa democratizzazione
o uguaglianza di tutti nella società, limita e talvolta anche annulla lo spirito di libertà e di
iniziativa.
Con il principio della sussidiarietà contrastano forme di accentramento, di
burocratizzazione, di assistenzialismo, di presenza ingiustificata ed eccessiva dello Stato e
dell’apparato pubblico: «Intervenendo direttamente e deresponsabilizzando la società, lo
Stato assistenziale provoca la perdita di energie umane e l’aumento esagerato degli apparati
pubblici, dominati da logiche burocratiche più che dalla preoccupazione di servire gli utenti,
con enorme crescita delle spese». Il mancato o inadeguato riconoscimento dell’iniziativa
privata, anche economica, e della sua funzione pubblica, nonché i monopoli, concorrono a
mortificare il principio della sussidiarietà.
All’attuazione del principio di sussidiarietà corrispondono: il rispetto e la promozione
effettiva del primato della persona e della famiglia; la valorizzazione delle associazioni e
delle organizzazioni intermedie, nelle proprie scelte fondamentali e in tutte quelle che non
possono essere delegate o assunte da altri; l’incoraggiamento offerto all’iniziativa privata, in
modo tale che ogni organismo sociale rimanga a servizio, con le proprie peculiarità, del bene
comune; l’articolazione pluralistica della società e la rappresentanza delle sue forze vitali; la
salvaguardia dei diritti umani e delle minoranze; il decentramento burocratico e
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amministrativo; l’equilibrio tra la sfera pubblica e quella privata, con il conseguente
riconoscimento della funzione sociale del privato; un’adeguata responsabilizzazione del
cittadino nel suo « essere parte » attiva della realtà politica e sociale del Paese.
188 Diverse circostanze possono consigliare che lo Stato eserciti una funzione di supplenza.
Si pensi, ad esempio, alle situazioni in cui è necessario che lo Stato stesso promuova
l’economia, a causa dell’impossibilità per la società civile di assumere autonomamente
l’iniziativa; si pensi anche alle realtà di grave squilibrio e ingiustizia sociale, in cui solo
l’intervento pubblico può creare condizioni di maggiore eguaglianza, di giustizia e di pace.
Alla luce del principio di sussidiarietà, tuttavia, questa supplenza istituzionale non deve
prolungarsi ed estendersi oltre lo stretto necessario, dal momento che trova giustificazione
soltanto nell’eccezionalità della situazione. In ogni caso, il bene comune correttamente
inteso, le cui esigenze non dovranno in alcun modo essere in contrasto con la tutela e la
promozione del primato della persona e delle sue principali espressioni sociali, dovrà
rimanere il criterio di discernimento circa l’applicazione del principio di sussidiarietà.
189 Caratteristica conseguenza della sussidiarietà è la partecipazione, che si esprime,
essenzialmente, in una serie di attività mediante le quali il cittadino, come singolo o in
associazione con altri, direttamente o a mezzo di propri rappresentanti, contribuisce alla
vita culturale, economica, sociale e politica della comunità civile cui appartiene. La
partecipazione è un dovere da esercitare consapevolmente da parte di tutti, in modo
responsabile e in vista del bene comune.
Essa non può essere delimitata o ristretta a qualche contenuto particolare della vita sociale,
data la sua importanza per la crescita, innanzi tutto umana, in ambiti quali il mondo del
lavoro e le attività economiche nelle loro dinamiche interne, l’informazione e la cultura e, in
massimo grado, la vita sociale e politica fino ai livelli più alti, quali sono quelli da cui
dipende la collaborazione di tutti i popoli per l’edificazione di una comunità internazionale
solidale. In tale prospettiva, diventa imprescindibile l’esigenza di favorire la partecipazione
soprattutto dei più svantaggiati e l’alternanza dei dirigenti politici, al fine di evitare che si
instaurino privilegi occulti; è necessaria inoltre una forte tensione morale, affinché la
gestione della vita pubblica sia il frutto della corresponsabilità di ognuno nei confronti del
bene comune.
PRINCIPIO DI SOLIDARIETÀ: essere con e per l’altro
Se la sussidiarietà tutela la singolarità della persona, la solidarietà ne tutela la socialità. Man mano il
concetto assume sempre più il significato di quello tradizionalmente attribuito alla giustizia, virtù
orientata al bene comune. Le principali attuazioni storiche sono la condivisione, la corresponsabilità
e la cooperazione.
La solidarietà ha un ruolo fondativo, concernente la totalità dei rapporti sociali, mentre la
sussidiarietà è per lo più un principio di ordine sociale tendente alla strutturazione e alla correzione
della dinamica sociale.
CDSC: 193 Le nuove relazioni di interdipendenza tra uomini e popoli, che sono, di fatto,
forme di solidarietà, devono trasformarsi in relazioni tese ad una vera e propria solidarietà
etico-sociale, che è l’esigenza morale insita in tutte le relazioni umane. La solidarietà si
presenta, dunque, sotto due aspetti complementari: quello di principio sociale e quello di
virtù morale.
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La solidarietà deve essere colta, innanzi tutto, nel suo valore di principio sociale ordinatore
delle istituzioni, in base al quale le «strutture di peccato», che dominano i rapporti tra le
persone e i popoli, devono essere superate e trasformate in strutture di solidarietà, mediante
la creazione o l’opportuna modifica di leggi, regole del mercato, ordinamenti.
La solidarietà è anche una vera e propria virtù morale, non un «sentimento di vaga
compassione o di superficiale intenerimento per i mali di tante persone, vicine o lontane. Al
contrario, è la determinazione ferma e perseverante di impegnarsi per il bene comune: ossia
per il bene di tutti e di ciascuno, perché tutti siamo veramente responsabili di tutti». La
solidarietà assurge al rango di virtù sociale fondamentale poiché si colloca nella dimensione
della giustizia, virtù orientata per eccellenza al bene comune, e nell’«impegno per il bene del
prossimo con la disponibilità, in senso evangelico, a “perdersi” a favore dell’altro invece di
sfruttarlo, e a “servirlo” invece di opprimerlo per il proprio tornaconto (cf. Mt 10,40-42;
20,25; Mc 10,42-45; Lc 22,25-27)».
194 Il messaggio della dottrina sociale circa la solidarietà mette in evidenza il fatto che
esistono stretti vincoli tra solidarietà e bene comune, solidarietà e destinazione universale
dei beni, solidarietà e uguaglianza tra gli uomini e i popoli, solidarietà e pace nel mondo. Il
termine «solidarietà », ampiamente impiegato dal Magistero, esprime in sintesi l’esigenza di
riconoscere nell’insieme dei legami che uniscono gli uomini e i gruppi sociali tra loro, lo
spazio offerto alla libertà umana per provvedere alla crescita comune, condivisa da tutti.
L’impegno in questa direzione si traduce nell’apporto positivo da non far mancare alla causa
comune e nella ricerca dei punti di possibile intesa anche là dove prevale una logica di
spartizione e frammentazione, nella disponibilità a spendersi per il bene dell’altro al di là di
ogni individualismo e particolarismo.
195 Il principio della solidarietà comporta che gli uomini del nostro tempo coltivino
maggiormente la consapevolezza del debito che hanno nei confronti della società entro la
quale sono inseriti: sono debitori di quelle condizioni che rendono vivibile l’umana
esistenza, come pure di quel patrimonio, indivisibile e indispensabile, costituito dalla
cultura, dalla conoscenza scientifica e tecnologica, dai beni materiali e immateriali, da tutto
ciò che la vicenda umana ha prodotto. Un simile debito va onorato nelle varie manifestazioni
dell’agire sociale, così che il cammino degli uomini non si interrompa, ma resti aperto alle
generazioni presenti e a quelle future, chiamate insieme, le une e le altre, a condividere,
nella solidarietà, lo stesso dono.
Cfr. anche CDSC 196, intitolato: “La solidarietà nella vita e nel messaggio di Gesù Cristo”.
PRINCIPIO DEL BENE COMUNE: senso e fine della vita sociale
Esistono diverse concezioni riduttive del concetto di “bene comune”. Le due principali sono:
1. Il bene comune è la somma dei singoli beni individuali (visione liberale classica)
2. Il bene comune riassorbe in sé ogni finalità sociale e ignora il carattere personale
(collettivismo)
Nella DSC il bene comune si intende non solo dal punto di vista dei beni e delle condizioni
materiali (pur indispensabili) ma anche dal punto di vista di altri beni: arte, cultura, educazione,
dimensione spirituale e religiosa… Il carattere è ben più qualitativo che quantitativo.
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Una definizione potrebbe essere “creare le condizioni di possibilità di un vivere comune pacifico e
ordinato al bene di ciascuno e di tutti, inscindibilmente”.
Si oppone pertanto alla ricerca di un “bene particolare” in contrasto con quello comune. È la
classica differenza che si compie in teologia morale tra il “bene per me” e il “bene in sé”.
CDSC 164 Dalla dignità, unità e uguaglianza di tutte le persone deriva innanzi tutto il
principio del bene comune, al quale ogni aspetto della vita sociale deve riferirsi per trovare
pienezza di senso. Secondo una prima e vasta accezione, per bene comune s’intende
«l’insieme di quelle condizioni della vita sociale che permettono sia alle collettività sia ai
singoli membri, di raggiungere la propria perfezione più pienamente e più celermente».
Il bene comune non consiste nella semplice somma dei beni particolari di ciascun soggetto
del corpo sociale. Essendo di tutti e di ciascuno è e rimane comune, perché indivisibile e
perché soltanto insieme è possibile raggiungerlo, accrescerlo e custodirlo, anche in vista
del futuro. Come l’agire morale del singolo si realizza nel compiere il bene, così l’agire
sociale giunge a pienezza realizzando il bene comune. Il bene comune, infatti, può essere
inteso come la dimensione sociale e comunitaria del bene morale.
165 Una società che, a tutti i livelli, vuole intenzionalmente rimanere al servizio dell’essere
umano è quella che si propone come meta prioritaria il bene comune, in quanto bene di tutti
gli uomini e di tutto l’uomo. La persona non può trovare compimento solo in se stessa, a
prescindere cioè dal suo essere «con» e «per» gli altri. Tale verità le impone non una
semplice convivenza ai vari livelli della vita sociale e relazionale, ma la ricerca senza posa,
in forma pratica e non soltanto ideale, del bene ovvero del senso e della verità rintracciabili
nelle forme di vita sociale esistenti. Nessuna forma espressiva della socialità — dalla
famiglia, al gruppo sociale intermedio, all’associazione, all’impresa di carattere economico,
alla città, alla regione, allo Stato, fino alla comunità dei popoli e delle Nazioni — può
eludere l’interrogativo circa il proprio bene comune, che è costitutivo del suo significato e
autentica ragion d’essere della sua stessa sussistenza.
Cfr. anche CDSC nn. 166-170.
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