Investire in innovazione e ricerca. Intervista a Riccardo Montesi

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Francesca Romana Capone
»Investire
in innovazione
e ricerca«
[
Intervista a Riccardo Montesi,
presidente Commissione relazioni internazionali Confapi
Dottor Montesi,
dell’Europa a 25?
come
vede
il
futuro
“Come imprenditore, sono scettico su un futuro
di facili rapporti con i dieci paesi in adesione e
con quelli che entreranno nel 2007. Senza dubbio,
dal 2004, avremo un’Europa a due velocità: i paesi
che entreranno non hanno avuto il tempo di
allinearsi in pieno, c’è il rischio che sia un’Europa
molto litigiosa”.
Quando parla di difficoltà di allineamento, a
cosa si riferisce in particolare?
“Innanzitutto alla normativa. In molti di questi
paesi la legge viene applicata con grande rigidità
agli stranieri, mentre per le loro imprese sono
decisamente più morbidi. Questo crea grossi
problemi alla competitività delle nostre aziende.
Quindi sarà necessario percorrere la strada dei
partenariati con le realtà locali, in modo da
superare il vincolo delle rigidità verso gli
stranieri”.
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Per quali imprese italiane esiste uno spazio nei
paesi in adesione?
“Per quelle che utilizzano le materie prime e la
manodopera locali. Sono le realtà che sfruttano i
bassi costi per produzioni ad alta intensità di lavoro.
Restano fuori quelle più innovative e dove pesa di
più la qualità. Queste imprese continueranno a
produrre in Italia, magari importando manodopera
e materie prime dai nuovi stati europei”.
Per sfruttare i nuovi mercati, il sistema imprenditoriale italiano dovrà modificare le sue
strategie?
“L’Italia è diventata una potenza industriale importando le materie prime. Oggi può crescere ancora
importando manodopera specializzata e investendo
nell’innovazione. Le aziende italiane che vanno
bene, quelle che assumono, che reggono a oscillazioni occupazionali fino al 20%, sono quelle che
vanno dai 10 ai 250 dipendenti. Al di sotto di questa
Intervista a Riccardo Montesi
soglia, le piccole imprese artigianali non reggono
alle fluttuazioni del mercato internazionale e
finiscono per chiudersi nel piccolo mercato locale.
Un prodotto artigianale di questo tipo costa circa il
20% in più. All’altro estremo, le aziende sopra i 250
dipendenti battono continuamente cassa con lo
Stato. In passato hanno sempre trovato ascolto, oggi
un po’ meno. Resta il fatto che le grandi aziende
assorbono il 95% dei fondi statali e non sono
comunque competitive sul piano internazionale.
Nella stessa forbice tra i 10 e i 250 dipendenti,
reggono solo le imprese che hanno fatto investimenti per internazionalizzarsi. È un momento
propizio: il costo del denaro non è mai stato così
basso, è il momento di prendere finanziamenti e di
investire in innovazione e ricerca”.
mercati dell’est, che oggi offrono grandi vantaggi
in termini di costo del lavoro e delle materie prime,
tra dieci anni si normalizzeranno e occorrerà
spostarsi altrove”.
Rispetto alla manodopera, crede che sia utile
avere il modo di preselezionarla nel paese
d’origine?
“Penso che sia fondamentale. Già oggi, con i paesi
in adesione, esistono moltissimi accordi bilaterali
per la preselezione. I problemi sorgono a un altro
livello: mancano le strutture italiane all’estero. Le
istituzioni italiane dovrebbero unirsi e fungere da
‘antenna’ per il sistema imprenditoriale. Essere in
grado di segnalare alle imprese le opportunità e i
rischi del mercato locale. In Romania ci sono 89mila aziende italiane e non esiste un’istituzione
commerciale. Le ambasciate italiane hanno pochissimo personale e sono oberate di lavoro. Serve
una cabina di regia istituzionale, altrimenti
corriamo il rischio di perdere il treno. Siamo già
indietro di 15 anni rispetto alla Francia”.
Crede che sia possibile recuperare questo
ritardo rispetto agli altri paesi della Ue
attuale?
Volendo sintetizzare le chiavi del successo di
un’impresa italiana nell’Europa a 25, quali
elementi sarebbero necessari?
“Bisogna investire nella ricerca nel nostro paese.
Utilizzare, sempre in Italia, manodopera specializzata che venga anche dall’estero. Acquistare
materie prime e semilavorati dove conviene: oggi
possono essere i paesi dell’est, domani la Cina o
l’India. Questo non significa aprire unità produttive poniamo in Romania, anzi. Bisogna avere mano
libera per spostarsi a seconda della convenienza.
In questo modo è possibile salvare l’azienda
italiana. Entro cinque anni, si calcola che il 20-30%
delle imprese italiane in Romania torneranno in
Italia, dove però hanno chiuso le loro aziende. I
“È difficile. Abbiamo perso il treno delle privatizzazioni. In quasi tutti i paesi dell’est, in vista
dell’adesione alla Ue, sono stati avviati massicci
processi di privatizzazione. Mentre Germania,
Francia e, in minor misura, Olanda ne hanno
approfittato largamente, l’Italia non è stata in grado
di farsi trovare pronta, soprattutto per colpa delle
banche: se voglio un prestito di mille euro da una
banca italiana in Bulgaria, devo essere cliente in
Italia e devo depositare garanzie reali pari o
superiori all’importo che ho chiesto”.
L’ingresso dei nuovi paesi e i legami che
questi hanno già creato con altri stati dell’attuale Ue, rischiano di tagliare fuori l’Italia?
Insomma, quale sarà il mercato territoriale
futuro delle imprese del nostro Paese?
“La Ue a 25, per certi versi ci ha già tagliato fuori.
Si sta creando un’Europa del nord est, con al centro
la Germania. Insomma, la vecchia area del marco.
Le vere opportunità per il nostro sistema imprenditoriale sono nel Mediterraneo. Oggi c’è una grande
attenzione verso questa area. Oltre all’Italia, ci sono
Grecia, Spagna, Portogallo e tra poco anche Cipro
e Turchia che si affacciano sul bacino Mediterraneo.
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Intervista a Riccardo Montesi
È l’Europa del sud e in questa area l’Italia non può
perdere l’opportunità. Certo, ci sono state le
guerre, i problemi legati all’integralismo religioso.
Ma per gli imprenditori del sud Italia, i paesi che si
affacciano sul Mediterraneo sono essenziali per lo
sviluppo del commercio e del turismo”.
Che peso avrà lo sviluppo delle infrastrutture,
la realizzazione dei cosiddetti ‘corridoi europei’,
nella Ue allargata e che rischi corre in questo
senso l’Italia?
“Il problema dei corridoi non è immediato, perché
saranno realizzati nel giro di vent’anni. Di qui ad
allora ogni paese – anche i nuovi – avrà la sua collocazione geopolitica in Europa. È inutile, poi, parlare
del rafforzamento del trasporto su strada. C’è un
forte ostruzionismo da parte degli ambientalisti e sarà
quindi necessario trovare soluzioni diverse. Bisogna
piuttosto rafforzare il corridoio adriatico in Italia.”.
Con la legge Biagi – sul fronte dei servizi per
l’impiego – e con i regolamenti attuativi della
Bossi-Fini per la formazione e selezione di
personale straniero, crede che sarà più
semplice utilizzare la manodopera proveniente
dai paesi in adesione?
“Le nuove normative, se avranno effetti positivi, li
avranno tra dieci anni. Mi sembra che si vada verso
una generale liberalizzazione, che noi accogliamo
positivamente. Ma per il momento non cambia
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niente. In Italia non manca la manodopera,
mancano le professionalità: nel centro nord
mancano circa mille esperti a provincia”.
Nell’immediato, quali saranno i problemi più
forti che la Ue allargata si troverà ad affrontare?
“Uno dei problemi più grossi – e che ci vede in
prima linea come Paese – sarà quello della gestione
delle frontiere, che avrà costi enormi e difficilmente
sostenibili. I fondi strutturali europei dovranno
come minimo raddoppiare. E proprio sui fondi, si
pone il problema della gestione non corretta che
alcuni paesi fanno. In questo modo le risorse si
assottigliano per tutti”.
Quali, invece, i vantaggi per le piccole e medie
imprese nell’Europa a 25?
“Per i nostri prodotti di qualità si aprono prospettive di mercato molto allettanti, specialmente in
paesi come la Repubblica Ceca, l’Ungheria, la
Polonia. Ma sarà necessario realizzare accordi per la
distribuzione e la vendita. E tutelare il made in Italy:
in alcuni di questi paesi il lavoro nero supera il 40%
e il 60% dei prodotti è falsificato. In più non è accettabile che chi produce in Romania, con le materie
prime e la manodopera di quel paese, possa apporre
il marchio made in Italy, come oggi succede. Anche
questa è una forma di tutela per la qualità dei
prodotti del nostro Paese, perché c’è una reale differenza tra i primi e i secondi”.
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