La dinastia Flavia Vespasiano - FDA Didattica per le materie letterarie

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La dinastia Flavia
Vespasiano
Tito Flavio Vespasiano, meglio conosciuto come Vespasiano (Titus Flavius Vespasianus; 9–79), governò
fra il 69 e il 79 col nome di Cesare Vespasiano Augusto; fondatore della dinastia flavia, fu il quarto a salire al trono
nel 69, ponendo fine a un periodo d'instabilità seguito alla morte di Nerone. Nell'anno così detto dei quattro
imperatori, a cavallo del 68/69 vennero eletti infatti quattro diversi imperatori da altrettante diverse zone
dell'impero: Galba in Spagna, Vitellio dalle legioni germaniche, Otone dalla guardia pretoriana e Vespasiano dalle
legioni siriane.
Il padre, Tito Flavio Sabino, apparteneva a una nobile e ricca famiglia equestre di Reate (odierna Rieti) con
molti possedimenti terrieri nell'alta Sabina; era esattore di imposte ed operatore finanziario; la madre Vespasia
Polla era sorella di un senatore.
Dopo aver servito nell'esercito in Tracia ed essere stato questore nella provincia di Creta e Cirene,
Vespasiano divenne edile e pretore; frattempo aveva sposato Flavia Domitilla, figlia di un cavaliere, da cui ebbe
due figli: Tito e Domiziano, in seguito imperatori, e una figlia, Domitilla. La moglie e la figlia morirono entrambe
prima che lasciasse la magistratura.
Dopo un perido passato in Germania, partecipò all'invasione romana della Britannia sotto l'Imperatore
Claudio, dove si distinse per le sue doti. Vespasiano sottomise l'Isola di Wight e penetrò fino ai confini del
Somerset, in Inghilterra. Nel 51 fu console; nel 63 andò come governatore in Africa dove, secondo Tacito, il suo
comportamento fu infame e odioso; secondo Svetonio, corretto e altamente onorevole. Certo è che la sua fama e
visibilità a Roma, crebbe. Fu infatti in Grecia al seguito di Nerone e, nel 66 fu incaricato della conduzione della
guerra in Giudea, che minacciava di espandersi a tutto l'oriente.
Nel 69 Vespasiano fu proclamato imperatore contro il regnante Vitellio dalle sue legioni, alle quali si unirono
quelle stanziate nelle regioni danubiane che, al comando di Antonio Primo, entrarono in Italia e, sconfitto l'esercito
di Vitellio a Bedriaco, presso Cremona, avanzarono verso Roma attestandosi a Otricoli in attesa di rinforzi dalla
Siria.
Vitellio abdicò il 18 dicembre ma i suoi veterani di Germania non accettarono la resa e presero d'assalto il
Campidoglio; il fratello di Vespasiano, Domiziano, scampò alla strage. Il 20 dicembre Antonio Primo entrava in
Roma, impadronendosene e uccidendo Vitellio; il giorno dopo il Senato proclamava Vespasiano imperatore e
console con il figlio Tito, mentre Domiziano era eletto pretore con potere consolare. Quando giunse a Roma,
Muciano, il legato della Siria che aveva appoggiato il pronunciamento di Vespasiano, presentò alle truppe
Domiziano come cesare e reggente fino all'arrivo di Vespasiano.
Vitellio, che occupava al momento il trono, aveva al fianco i veterani delle legioni della Gallia e della regione
del Reno, le migliori truppe di Roma. Ma il favore verso Vespasiano prese rapidamente a crescere e gli eserciti di
Tracia e Illirico presto lo acclamarono e di fatto lo fecero padrone di metà del mondo romano.
Le sue truppe entrarono in Italia nord orientale sotto il comando di Antonio Primo, sconfissero l'esercito di
Vitellio a Bedriaco, saccheggiarono Cremona e avanzarono su Roma, dove entrarono dopo furiosi combattimenti e
una tremenda confusione, durante la quale il Campidoglio venne distrutto dal fuoco.
Ricevendo notizia, ad Alessandria, del suo rivale sconfitto e ucciso, il nuovo imperatore inviò a Roma
forniture di grano urgentemente necessarie, e contemporaneamente emise un editto o dichiarazione di intenti, nel
quale dava assicurazione di un completo rovesciamento delle leggi di Nerone, specialmente di quelle relative al
tradimento.
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Lasciando la guerra in Giudea al figlio Tito, arrivò a Roma nel 70. Immediatamente consacrò le sue energie
a riparare i danni causati dalla guerra civile. Restaurò la disciplina nell'esercito che sotto Vitellio era stata piuttosto
trascurata, e con la cooperazione del senato, riportò il governo e le finanze su solide basi.
Ripristinò vecchie tasse e ne introdusse di nuove (fra le quali il fiscus iudaicus e quella sui così detti
vespasiani, servizi igienici pubblici), aumentò i tributi delle province, e tenne un occhio attento sulle finanze
pubbliche. Attraverso l'esempio della sua semplicità di vita, mise alla gogna il lusso e la stravaganza dei nobili
romani e iniziò sotto molti aspetti un marcato miglioramento del tono generale della società.
Uno dei provvedimenti maggiormente importanti di Vespasiano fu la promulgazione della lex de imperio
Vespasiani, in seguito alla quale egli e gli imperatori successivi governeranno in base alla legittimazione giuridica
e non più in base a poteri divini come avevano fatto i Giulio-Claudii. Questo provvedimento può essere riassunto
in due formule: «il principe è svincolato dalle leggi»; «quanto piace al principe ha vigore di legge»
Come censore Vespasiano riformò il Senato e l'ordine equestre, rimuovendone i membri inadatti e indegni e
promuovendo uomini abili e onesti, tra i quali Gneo Giulio Agricola. Allo stesso tempo, rese questi organismi più
dipendenti dall'imperatore, esercitando la sua influenza sulla loro composizione.
Cambiò lo statuto della guardia pretoriana, formata da nove coorti in cui, per aumentarne la fedeltà, furono
arruolati solo italici.
Nel 70 fu soffocata una formidabile rivolta in Gallia comandata da Giulio Civile e le frontiere in Germania
divennero sicure; la guerra in Giudea fu conclusa da Tito con la conquista di Gerusalemme nel 70, e negli anni
seguenti, dopo il trionfo congiunto di Vespasiano e Tito, memorabile come prima occasione in cui padre e figlio
furono associati nel trionfo, il Tempio di Giano fu chiuso, e il mondo romano fu in pace per i restanti nove anni del
regno di Vespasiano. La pace di Vespasiano divenne proverbiale.
Nel 78 Agricola andò in Britannia ed estese e consolidò la presenza di Roma nella provincia, spingendosi in
armi fino al Galles settentrionale. L'anno seguente,il 23 giugno, Vespasiano morì.
L'avarizia con cui Tacito e Svetonio stigmatizzano Vespasiano, sembra essere stata in realtà una illuminata
economia, che, nello stato disordinato delle finanze di Roma, era una necessità assoluta.
Vespasiano fu generoso verso senatori e cavalieri impoveriti, verso città e borghi devastati da calamità, e
specialmente verso uomini di lettere e filosofi, molti dei quali ricevettero un vitalizio di più di mille pezzi d'oro
all'anno. Si dice che Marco Fabio Quintiliano fosse il primo pubblico insegnante a godere del favore imperiale.
La grande opera di Plinio il Vecchio, Naturalis historia, fu scritta durante il regno di Vespasiano e dedicata a
suo figlio Tito. Alcuni filosofi, avendo parlato con rimpianto dei tempi d'oro della Repubblica, e quindi
indirettamente incoraggiato cospirazioni, indussero Vespasiano a rimettere in vigore le leggi penali precedenti.
Molto danaro fu speso in lavori pubblici e in restauri e abbellimenti di Roma: un nuovo e funzionale Foro, lo
splendido Tempio della Pace, molti bagni pubblici e la realizzazione dell'immenso Colosseo. Inoltre Vespasiano
fece potenziare e manutenere i più importanti tratti viari della Penisola e in particolare le vie Appia, Salaria e
Flaminia.
Come soldato Vespasiano non fu eccellente, ma dimostrò forza di carattere e abilità, ebbe un continuo desiderio di
stabilire ordine e sicurezza sociale per i suoi sudditi. Fu puntuale e regolare nelle sue abitudini, occupandosi dei
suoi uffici la mattina di buon'ora e godendosi poi il riposo. Temprato dal rigore dei legionari, di fatto non fu incline
ad alcuna forma di vizio.
Egli praticamente non ebbe le caratteristiche attese in un imperatore, ma questo fu apprezzato da tutti, sia
plebe che patriziato senatorio. Fu libero nella conversazione e nella battuta, di cui era estimatore, e aveva il gusto
di atteggiarsi a buffone. Fu capace di scherzare anche nei suoi ultimi momenti. "Purtroppo temo che mi stia
trasformando in un Dio", si lamentava con chi gli era intorno. Morì nella sua villa presso le terme di Cotilia,
nell'attuale provincia di Rieti.
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Un celebre aneddoto riferisce che egli mise una tassa sul prelievo di urina (usata dai tintori di panni) dai
gabinetti pubblici. Rimproverato dal figlio Tito, che riteneva la cosa sconveniente, rispose: Pecunia non olet ("il
denaro non ha odore", quale che ne sia la provenienza).
Vespasiano fu dunque il fautore di un ristabilimento economico e sociale in tutto l'Impero che godette,
grazie al suo governo, di una pax che rimarrà proverbiale. Di fatto per questo fu uno degli imperatori più amati
della storia romana.
Tito
Tito Flavio Vespasiano (Titus Flavius Vespasianus; 39–81), figlio di Vespasiano, fu il secondo imperatore
della dinastia dei Flavi.
Prima di salire al trono, Tito fu un abile e stimato generale che si distinse per la repressione della ribellione
in Giudea del 70, durante la quale venne distrutto il secondo tempio di Gerusalemme. Fu considerato un buon
imperatore da Tacito e da altri storici contemporanei; è noto per il suo programma di opere pubbliche a Roma e
per la sua generosità nel soccorrere la popolazione in seguito a due eventi disastrosi: l’eruzione del Vesuvio del
79 e l’incendio di Roma dell’80. Celebre è la definizione che diede di lui lo storico Svetonio: Amor ac deliciae
generis humani, ossia "amore e delizia del genere umano", per celebrare i vari meriti di Tito e del suo governo.
La famiglia di Tito, la gens Flavia, apparteneva a quella nobiltà italica che, nella prima metà del I secolo,
stava via via sostituendo la più antica aristocrazia romana, indebolita dai decenni di guerre civili combattuti nel I
secolo a.C. La gens Flavia, ad esempio, salì da origini umili all'onore della porpora nel giro di appena tre
generazioni. Il bisnonno paterno di Tito, il reatino Tito Flavio Petrone, aveva combattuto come centurione
nell'esercito di Gneo Pompeo Magno durante la guerra civile tra Cesare e Pompeo (49-45 a.C.), ponendo fine
ignominiosamente alla propria carriera con la fuga dal campo di battaglia durante la battaglia di Farsalo (48 a.C.);
perdonato da Cesare, divenne esattore delle tasse delle vendite all'asta e sposò la ricca Tertulla. Il figlio di Petrone
e Tertulla, Tito Flavio Sabino, fu un ricco esattore delle tasse in Asia e un prestatore ad interessi in Helvetia e
sposò Vespasia Polla, figlia del tribuno militare Vespasio Pollione; grazie a questo matrimonio, Sabino si
imparentò con l'aristocratica gens Vespasia, garantendo ai propri figli, Tito Flavio Sabino e Tito Flavio Vespasiano,
il rango senatoriale.
Il figlio minore di Sabino, Vespasiano, sposò Flavia Domitilla maggiore, da cui ebbe Tito Flavio Vespasiano,
nato a Roma il 30 dicembre 39; la coppia ebbe anche una figlia nata nel 45, Flavia Domitilla minore, e un altro
figlio nato nel 51, Tito Flavio Domiziano. Mentre il padre percorreva la carriera militare partecipando all'invasione
romana della Britannia, Tito era educato a corte assieme al figlio dell'imperatore Claudio, Britannico, di cui era
grande amico: quando Britannico morì avvelenato, Tito rimase a lungo infermo per aver bevuto dello stesso
veleno. Durante la sua adolescenza, Tito ricevette un'educazione militare e una letteraria, che gli permise di
diventare abile nell'esercizio delle armi e nel cavalcare, oltre ad essere un buon poeta e oratore sia in greco che in
latino.
Tra il 58 e il 60 fu prima tribuno militare in Germania, dove ebbe per collega Plinio il Vecchio, poi in
Britannia.
Attorno al 63 fece ritorno a Roma per intraprendere con successo la carriera forense, raggiungendo la
carica di questore. In questo periodo sposò Arrecina Tertulla, figlia di un ex Prefetto del pretorio di Caligola, Marco
Arrecino Clemente. Tertulla morì nel 65 e Tito si risposò con Marcia Furnilla, da cui ebbe una figlia, ma dalla quale
divorziò senza risposarsi più.
Nel 67, Vespasiano fu incaricato dall'imperatore Nerone di assumere il comando delle forze romane
impegnate a sedare la ribellione dei Giudei (prima guerra giudaica, 66-74). Tito, che all'epoca aveva 28 anni circa,
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ricevette il comando della Legio XV Apollinaris, che andò a prelevare ad Alessandria d'Egitto e che portò poi in
Giudea.
I meriti di Tito nella guerra giudaica sono difficili da soppesare, in quanto la principale fonte della guerra, La
Guerra giudaica di Giuseppe Flavio, fu scritta dal comandante giudeo della fortezza di Iotapata, assediata e
conquistata da Tito nel 67, che strinse poi rapporti di clientela con la dinastia flavia. Nelle descrizioni di Giuseppe,
Tito è l'eroico comandante che assediò e conquistò cinque centri nemici, ma, una volta considerato il punto di vista
dell'autore, appare chiaro che all'inizio della campagna Tito, che non aveva avuto precedenti esperienze di
comando, non fu così brillante.
Tito fu incaricato da Vespasiano di recarsi ad Antiochia a mediare con Gaio Licinio Muciano, governatore di
Siria e come tale responsabile della Giudea, affinché i due generali giungessero a dividersi proficuamente le
competenze: Tito riuscì nel compito, protrattosi fino alla fine del 67, e si unì al padre nella guerra. Nel 67 Tito
partecipò agli assedi di altre città della regione.
Nel 69, l'anno dei quattro imperatori, Vespasiano rientrò a Roma per reclamare il trono, lasciando il figlio in
Giudea a porre fine alla rivolta, cosa che Tito fece l’anno successivo: Gerusalemme fu saccheggiata, il Tempio
distrutto, e gran parte della popolazione uccisa o costretta a fuggire dalla città. Al suo ritorno a Roma nel 71 fu
accolto in trionfo.
Fu più volte console durante il regno del padre, e fu anche prefetto della Guardia pretoriana, assicurandone
la fedeltà all'imperatore.
Tito succedette al padre Vespasiano nel 79, imponendo così, per breve tempo, il ritorno al regime dinastico
nella trasmissione del potere imperiale. Svetonio scrisse come allora molti temettero che Tito si sarebbe
comportato come un novello Nerone, a causa dei numerosi vizi che gli venivano attribuiti. Al contrario, egli fu un
valido e stimato imperatore, amato dal popolo, che fu pronto a riconoscere le sue virtù. Pose fine ai processi per
tradimento, punì i delatores, e organizzò sontuosi giochi gladiatòrii senza che il loro costo si ripercuotesse sulle
tasche dei cittadini. Completò la costruzione del Colosseo e fece costruire delle Terme nel sito dove si trovava la
Domus Aurea, restituendo l’area alla città.
L'eruzione del Vesuvio del 79 – che causò la distruzione di Pompei ed Ercolano e gravissimi danni nelle
città e comunità attorno al golfo di Napoli – ed un rovinoso incendio divampato a Roma l'anno successivo, diedero
modo a Tito di mostrare la propria generosità: in entrambi i casi egli contribuì con le proprie ricchezze a riparare i
danni e ad alleviare le sofferenze della popolazione. Questi episodi, ed il fatto che durante il suo principato non fu
emessa nessuna sentenza di condanna a morte, gli valsero la stima di molti.
Dopo appena due anni di regno, Tito morì per una forte febbre. Secondo Svetonio, potrebbe essere stato
colpito dalla malaria assistendo i malati, oppure avvelenato dal suo medico personale Valeno su ordine del fratello
Domiziano. Il Talmud, il cui testo lo ritrae con un carattere presuntuoso e crudele, narra in dettaglio le origini della
sua malattia e il suo epilogo. Alla sua morte fu deificato dal Senato, e un arco trionfale fu eretto nel Foro Romano
dallo stesso Domiziano per celebrare le sue imprese militari. La sua reputazione rimase intatta negli anni, tanto da
essere poi eletto a modello dai migliori imperatori del II secolo (Nerva, Traiano, Adriano, Antonino Pio e Marco
Aurelio).
Ancor oggi, si usa una frase a lui attribuita ("Ecco una giornata perduta!") che avrebbe pronunciato al
tramonto di una giornata in cui non aveva avuto occasione di fare del bene.
Domiziano
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Tito Flavio Domiziano (Titus Flavius Domitianus; 51-96) governò l’impero dal 14 settembre 81 alla sua
morte, con il nome di Cesare Domiziano Augusto Germanico.
Buon amministratore, cercò di migliorare le condizioni economiche dei sudditi e abbellì Roma con una
lunga stagione di lavori pubblici. Non mirò all'espansione dell'impero ma a difendere i confini costituendo gli agri
decumates, territori colonizzati alle frontiere del Reno e della Rezia, rafforzandone le difese. Si appoggiò sulla
popolazione urbana, sui piccoli coltivatori e sull'esercito, comprendendo i difetti della diarchia di un governo diviso
tra l'autorità dell'imperatore e quella di un senato aristocratico geloso delle proprie prerogative ma incapace di
governare.
Si proclamò signore e dio, ma rimase nel solco della tradizionale cultura romana e non riuscì o non volle
sciogliere il nodo della divisione dei poteri, pur ingaggiando un'aperta lotta con l'aristocrazia. Dopo la fallita
insurrezione di Lucio Antonio Saturnino accentuò la repressione, instaurando un regime di terrore posto fine dal
suo assassinio in un complotto del Senato.
Domiziano ricevette l'educazione riservata ai giovani della classe senatoriale: studiò retorica, letteratura
(pubblicando anche qualche scritto), legge e amministrazione. Nella sua biografia Svetonio lo descrive come un
adolescente istruito ed educato, dalla conversazione elegante.
Gli storici dell'epoca sostengono che il diciottenne Domiziano fu preso da questo momento dall'ambizione
del potere, ma nei fatti il governo fu comunque esercitato da Muciano. Domiziano fece una buona impressione ai
senatori per la modestia e la grazia del comportamento e la moderazione delle iniziative: propose la riabilitazione
di Galba e rifiutò di rivelare i nomi dei delatori del precedente regime, invocando la necessità di sopire gli odi e le
vendette. Si limitò a revocare i consoli ordinati da Vitellio ma, per evitare disordini, mantenne al pretorio i suoi
legionari, congedandoli con onore solo in un secondo tempo.
Si dice che Domiziano sia stato insofferente del predomino esercitato da Muciano e per questo motivo
divenisse amico dei suoi avversari politici, Antonio Primo, il vincitore di Vitellio, e il prefetto del pretorio Arrio Varo.
Muciano fece quest'ultimo prefetto all'annona, concedendo il comando del pretorio a un amico di Vespasiano,
Arrecino Clemente.
Intanto, una coalizione di tribù germaniche si erano uniti alla rivolta di Giulio Civile, mentre altre popolazioni
sottraevano in Gallia vasti territori al dominio romano. Fu l'armata di Petilio Ceriale a schiacciare quest'ultima
rivolta, senza bisogno dell'intervento di Domiziano che, sperando di dimostrare le sue capacità di cesare, dall'Italia
aveva superato le Alpi insieme con Muciano: poiché la rivolta di Civile non destava particolari timori Muciano,
molto dubbioso delle capacità militari del giovane principe, si fermò a Lione con Domiziano e insieme tornarono, di
lì a poco, a Roma.
Nel 70 Domiziano fece in modo di provocare il divorzio di Domizia Longina allo scopo di sposarla. Il marito
Lucio Elio Lamia non riuscì a contrastare i desideri del principe, e così Domizia divenne nuora dell'imperatore. A
dispetto dell'avventatezza iniziale, questa alleanza fu vantaggiosa per entrambe le parti. Domizia Longina era
l'unica figlia del generale Gneo Domizio Corbulone, una della vittime del terrore neroniano, ricordato come
valoroso comandante e politico onorato. Essi ebbero un figlio nel 71 e una figlia nel 74, ma entrambi morirono
giovani.
Con l'arrivo in ottobre di Vespasiano, Domiziano dovette rinunciare a ogni impegno di governo e si dedicò
agli otia letterari, diversamente dal fratello Tito che, più anziano e con una ormai lunga esperienza nel campo
politico e militare – aveva appena concluso la repressione della rivolta giudaica – fu associato dal padre all'impero.
Tuttavia Vespasiano era intenzionato a lasciare l'impero alla sua discendenza e poiché Tito non aveva figli
maschi, dovette prendere in considerazione la possibilità che Domiziano succedesse un giorno a Tito. Domiziano
fece parte dei collegi sacerdotali, dal 72 poté essere effigiato nelle monete, dal 74 battere anche moneta, portare
la corona d'alloro e ottenere l'incisione del suo nome nei monumenti pubblici accanto a quelli del padre e del
fratello.
Durante il regno di Vespasiano, Domiziano fu console per sei volte. Con tutto ciò, rimase escluso
dall'attività politica e militare. Vespasiano non accettò, malgrado le insistenze di Domiziano, l'invito di Vologase, re
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dei Parti, di inviargli come alleato un esercito comandato da uno dei suoi figli. Domiziano ripiegò allora sulla
poesia, forse scrivendo sulla recente battaglia avvenuta in Campidoglio e sulla presa di Gerusalemme.
Alla morte di Vespasiano, il 23 giugno 79, Tito rimase unico imperatore e, come il padre, escluse Domiziano
dagli affari di Stato, non associandolo all'Impero né concedendogli l'imperium proconsulare né la potestas
tribunicia, ma lo dichiarò suo successore, gli fece ottenere il consolato ordinario nell'80 e gli propose anche di
sposare la sua unica figlia Giulia. Domiziano rifiutò tuttavia di separarsi da Domizia ma Giulia, dopo aver sposato il
cugino Tito Flavio Sabino, divenne sua amante.
Tito morì di febbri malariche ad Aquae Cutiliae il 13 settembre 81, quando con lui si trovava Domiziano:
partito subito per Roma, Domiziano si fece acclamare imperatore dai pretoriani, ai quali distribuì, come tradizione,
la stessa somma che essi avevano ricevuto da Tito. Il giorno dopo il senato gli concesse il titolo di Augusto e di
padre della patria, e poi vennero il pontificato, la potestas tribunicia e il consolato.
Come nel caso di Tiberio, Domiziano è stato in parte riabilitato dall'odierna storiografia, sfumandone almeno
i connotati più negativi. Infatti, la dinastia Flavia, provenendo dal ceto medio-basso, era sempre stata vista con
diffidenza dall'aristocrazia, che per dodici anni era stata controllata dall'accorta diplomazia di Vespasiano e del
figlio maggiore Tito. Domiziano decise invece di tornare alla politica popolare dei Giulio-Claudi, rafforzando i propri
privilegi per contrastare l'opposizione dei patrizi, ammantandosi di un'aureola divina e pretendendo di essere
chiamato «signore e dio nostro».
Durante la guerra contro gli invasori daci, alcune legioni al comando di Saturnino, governatore della
Germania, si ribellarono, costringendolo a firmare una pace affrettata e sfavorevole ai romani. Sentendosi tradito,
Domiziano fu portato a vedere congiure ovunque, anche oltre la loro reale esistenza, e a difendere ulteriormente il
culto della sua personalità. Questa situazione esacerbò il carattere già diffidente dell'Imperatore, che si isolò dal
suo ambiente. Gli storici dell'epoca lo ricordano come un uomo sfuggente, di cui restano poche informazioni
personali nonostante i quindici anni del suo regno. Plinio il Giovane scrive che «era sempre alla ricerca di
isolamento, senza mai uscire dalla sua solitudine se non per crearne un'altra», mentre Svetonio ricorda che
«cenava da solo e fino all'ora di coricarsi altro non faceva se non passeggiare in disparte».
Riflessivo e dotato di spirito, sembra aver amato la cultura e le tradizioni greche: citava volentieri Omero, fu
nominato arconte di Atene e concesse privilegi a Corinto, istituì a Roma giochi ellenici a cui assisteva vestito alla
greca ed era devoto soprattutto di Atena. Rinunciò a ogni attività letteraria per dedicarsi interamente al governo,
studiando gli atti amministrativi di Tiberio.
Gli storici del tempo lo dipingono così orgoglioso da aver sempre pensato di aver meritato di governare più
del padre e del fratello, verso il quale avrebbe mostrato risentimento anche dopo la morte, criticandone gli atti e
abolendo le feste in onore dell'anniversario della nascita. Misantropo e collerico, era diffidente anche delle lodi
ricevute.
Domiziano fu accusato di mollezza, di non amare la vita militare e di essere un dissoluto. La moglie
Domizia lo tradì con Paride, un famoso pantomimo che egli fece uccidere, dopo averla ripudiata, si riconciliò con
lei. Ebbe però numerose amanti, tra le quali la nipote Giulia, figlia del fratello Tito e moglie di Tito Flavio Sabino.
Non nascose una così scandalosa relazione e si limitò a non volere figli da lei, imponendole più volte di abortire,
così che Giulia morì di aborto. Ebbe anche relazioni omosessuali, come del resto il fratello Tito. Questi suoi
comportamenti erano in contraddizione con la sua conclamata volontà di restaurare gli antichi costumi e con la
sua condotta di censore severo.
Domiziano fu console ininterrottamente dall'anno 82 all'88 e poi nel 90, nel 92 e nel 95: in tutta la sua vita
ottenne 17 consolati; nell'85 si fece attribuire la censura perpetua, carica particolarmente importante perché
consentiva di condizionare l'attribuzione delle magistrature e la composizione stessa del Senato. Un'iscrizione del
93 lo ricorda «Imperator Caesar, Divi Vespasiani filius, Domitianus Augustus Germanicus, pontifex maximus,
tribunicia potestate XII, imperator XXII, consul XVI, censor perpetuus, pater patriae». Da parte sua, la moglie
Domizia Longina ottenne il titolo di Augusta.
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Essendo entrato, già con la dinastia giulio-claudia, l'uso della divinizzazione post mortem degli imperatori e
dei loro diretti famigliari, il culto dei Flavi fu curato da un collegio di quindici sacerdoti, i Sodales Flaviales Titiales,
celebrato in un tempio appositamente fatto costruire da Domiziano e dedicato alla dinastia flavia. Non avendo figli
da Giulia Flavia né da Domizia Longina, Domiziano decise che fossero Vespasiano e Domiziano, i figli del cugino
Flavio Clemente e della nipote Domitilla, a succedergli, facendoli appositamente educare dal famoso retore
Quintiliano.
La maggior parte dei senatori gli era ostile per principio: la decadenza, iniziata nel I secolo a.C., del
tradizionale sistema clientelare radicato intorno agli aristocratici, a causa del sorgere e dello sviluppo di un nuovo
tipo di clientela, militare e provinciale, che si organizzava intorno al principe, patrono e capo militare, favoriva
l'ostilità nei confronti dell'istituto imperiale. Questo sottraeva l'assegnamento al patriziato delle magistrature, fonti
di enormi arricchimenti, che ora andavano a favore degli homines novi prevenienti dalle file dell'esercito e
dall'apparato burocratico legato al principe, e relegava sempre di più il senato aristocratico, progressivamente
svuotato di potere, a una funzione di ratifica di decisioni prese nel palazzo imperiale.
Tuttavia l'atteggiamento dei senatori non poteva essere apertamente ostile: al contrario, benché accadesse
che complottassero segretamente, essi mostravano spesso un'apparente ammirazione che si manifestava in
concreti omaggi, come l'ordinazione di giochi, la celebrazione di sacrifici, la commissione di statue, la costruzione
di archi trionfali. Il comportamento dell'aristocrazia senatoria era imitato da una corte di letterati, che dalle loro
lusinghe speravano di ricavare protezione e privilegi: si distinsero per cortigianeria verso Domiziano intellettuali del
valore di Marziale, di Quintiliano, di Silio Italico e di Stazio. Si comprende come lo scetticismo, la diffidenza e il
disprezzo dell'imperatore nei confronti dei cortigiani e dell'ambiente senatorio, che una storiografia
immediatamente posteriore attribuirà a patologie della sua personalità, potessero avere altre e più reali
motivazioni.
Domiziano rifiutò di rinunciare al diritto di condannare a morte i senatori responsabili di gravi reati, annullò
la legge di Roscio Cepio che prevedeva il pagamento di un'indennità a favore dei senatori di nuova nomina,e
ripristinò l'onere, imposto da Claudio ai questori entrati in carica, di offrire al popolo giochi gladiatori. Intenzionato a
non ricorrere al consulto del Senato, si rivolse a un gruppo di personalità di provata esperienza, pratica già
sperimentata da Vespasiano e Tito, per riceverne consigli e indicazioni di amministrazione e di governo..
Si circondò di segretari – i procuratores – tanto aristocratici quanto cavalieri o di più oscura origine, che così
accumulavano ingenti fortune, come il liberto Claudio, procurator a rationibus (o procurator fisci), cioè alle finanze,
gestite, dopo la sua caduta in disgrazia verso l'85, da un certo Fortunato Attico; il procurator ab epistulis Ottavio
Titinio Capitone era il vero e proprio segretario particolare del principe, che esaminava la corrispondenza
intrattenuta con i maggiori funzionari e disponeva le risposte; vi era anche il segretario a cognitionibus, preposto a
istruire i processi giudicati dall'imperatore; Entello fu il suo segretario a libellis, che si occupava delle petizioni
rivolte all'imperatore, mentre un segretario a studiis si occupava degli archivi.
Tuttavia il suo regno rimase ancora una diarchia perché, se Domiziano ostentò indifferenza o disprezzo
riguardo alle prerogative del Senato, non osò nemmeno diminuirne i poteri, conoscendo la forza e il prestigio di cui
quell'istituzione ancora godeva; della carica di censore si avvalse solo per escludervi per indegnità un unico
senatore, un certo Cecilio Rufo, e fece consoli personaggi aristocratici.
Come tutti gli imperatori, rivestendo la carica di pontefice massimo, Domiziano dovette occuparsi del culto,
della costruzione e del restauro dei templi. Nella tradizione di Augusto e del padre Vespasiano, egli si mostrò
seguace dell'antica religione romana, da lui privilegiata rispetto ai culti orientali che, incentrati sulla dea Iside,
conoscevano una crescente diffusione a Roma.
Fece sontuosamente restaurare il Tempio di Giove Capitolino che, già danneggiato nel 70 al tempo della
guerre contro Vitellio, era bruciato ancora nell'80.
A fianco del tempio di Giove Capitolino fece erigere un santuario dedicato a Giove Custode che trasformò
poi in tempio, nel cui altare erano rappresentate in bassorilievo le sue gesta, mentre la sua immagine era
impressa nella statua stessa del dio.
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Altri templi furono da lui dedicati ad Iside e Serapide, affiancandovi un tempio dedicato a Minerva, la dea
alla quale egli fu particolarmente devoto. Un altro santuario dedicato alla dea fu costruito accanto al restaurato
tempio di Castore, sotto il Palatino e, soprattutto, fu edificato un grande tempio dedicato a Minerva nel cosiddetto
Foro transitorio o Foro di Nerva, del quale sono visibili ancora resti dell'elegante portico e un rilievo con l'immagine
della dea.
Ad Albano, con l'inizio della primavera, venivano celebrate le feste, istituite dall'imperatore in onore di
Minerva, presiedute dai sacerdoti della dea, durante le quali si svolgevano rappresentazioni teatrali, concorsi
poetici e musicali, e giochi del circo.
Nella sua funzione di pontefice massimo Domiziano fu responsabile, verso l'83, della condanna a morte di
tre vestali, per violazione del voto di castità, mentre i loro seduttori furono esiliati: la grande sacerdotessa Cornelia,
già assolta, fu nuovamente giudicata e condannata nell'89 a essere sepolta viva, malgrado le sue proteste
d'innocenza.
Come censore, egli aveva il dovere di vigilare sulla moralità dei cittadini. Espulse dal senato l'ex-questore
Cecilio Rufino a causa della sua eccessiva passione per la danza, vietò agli attori di pantomime, considerate gli
spettacoli teatrali più immorali fra tutti, di mostrarsi in pubblico, permettendo le recite solo in locali privati. Si
conosce qualche nome di questi attori, alcuni dei quali furono del resto apprezzati dallo stesso Domiziano.
Domiziano fece distruggere i numerosi libelli che circolavano contro i personaggi più in vista della città,
proibì alle prostitute l'uso della lettiga e il diritto di ereditare, vietò la castrazione degli schiavi, applicò con rigore la
lex Scantinia contro l'omosessualità e la lex Julia contro l'adulterio e il concubinato.
Stabilì che, secondo antiche usanze, si dovesse assistere agli spettacoli pubblici indossando la toga
bianca, non fossero più dati giochi, come era ormai abitudine concedere dai magistrati in favore della plebe o dai
patroni ai loro clienti, ma che, come in tempi più antichi, fossero distribuiti unicamente dei viveri. A volte si occupò
personalmente di cause giudiziarie, modificò sentenze che ritenne ingiuste e perseguì i magistrati corrotti. Non
accettò beni in eredità da chi avesse lasciato dei figli, fissò in cinque anni la prescrizione in materia di evasione
fiscale e stabilì un'amnistia per gli scrivani dei questori che, contro la lex Clodia, avessero praticato un'attività
commerciale.
La sua amministrazione fu lodata persino dallo Svetonio: Domiziano «si occupò assiduamente e
accuratamente della procedura giudiziaria ... punendo i giudici venali ... i magistrati della capitale e delle province
furono tenuti così a freno che mai, come ai suoi tempi, vi furono tanti funzionari onorati e giusti».
L'intensa attività edilizia di Domiziano non si spiega soltanto con una presunta mania di grandezza
dell'imperatore, ma anche per la necessità di completare costruzioni già avviate dai suoi predecessori e di porre
rimedio al grande incendio che, dopo quello celebre avvenuto sotto Nerone, devastò ancora Roma nell'anno 80.
Quando non abitava a Roma, Domiziano amava risiedere sia nella monumentale villa che si fece costruire
sui Colli Albani, sia in altre residenze.
Fece costruire la via che porta il suo nome, la via Domiziana, che si raccordava alla via Appia a Sinuessa,
dove un arco trionfale indicava l'inizio della strada che giungeva fino a Cuma, unendo così Roma con il golfo di
Napoli e fece anche restaurare l'antica via Latina.
Di molti lavori pubblici eseguiti nelle provincie non si hanno notizie probabilmente a causa della damnatio
memoriae decretata dal senato dopo la sua morte, che portò alla distruzione delle iscrizioni che lo riguardavano.
Diede incarico di costruire a Roma un teatro musicale nel quale si svolgevano i Giochi Capitolini.
Questi furono istituiti nell'86, a imitazione delle Neroneae abolite alla morte di Nerone. Si tenevano ogni
cinque anni e includevano gare di atletica e corse di carri, ma anche competizioni di poesia, oratoria, musica e
recitazione. Erano presenziati dallo stesso imperatore, rivestito della toga bordata di porpora e incoronato con le
immagini di Giove, Giunone e Minerva. Domiziano invitava i concorrenti che provenivano da tutte le località
dell'impero e attribuiva premi privi di valore venale ma molto ambiti per la fama che conferivano.
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Come il padre e il fratello – e come, anni prima, Nerone - Domiziano comprendeva che le feste e i giochi
erano un mezzo per ingraziarsi il popolo e sembra, del resto, che egli stesso ne fosse appassionato, tanto da far
costruire uno stadio ad Albano e uno sul Palatino. Nel Colosseo, che fu terminato sotto il suo regno, si tennero
numerosi i combattimenti di gladiatori, cacce, un combattimento navale e le più diverse invenzioni.
Durante il suo regno, continuarono le distribuzioni gratuite di grano alla popolazione romana, unitamente a
un donativo particolare di 300 sesterzi a ciascuno dei 200.000 aventi diritto.
Tra le iniziative di carattere sociale ed economico, va ricordato che Domiziano intervenne per risolvere la
questione delle terre d'Italia rimaste di proprietà del demanio, ma occupate dai contadini dopo la loro divisione tra i
veterani di Augusto alla fine delle guerre civili, riconoscendone l'usucapione o il pieno diritto di proprietà, se questi
ne erano da tempo usufruttuari, attraverso un apposito editto. La gestione della spesa pubblica sembra essere
stata equilibrata: all'inizio del regno rivalutò la moneta del 12% salvo doverla svalutare nell'85 riportandone il
valore al livello stabilito da Nerone nel 65. Si è stimato che le entrate fiscali raggiungessero i 1.200 milioni di
sesterzi, un terzo delle quali destinate al mantenimento dell'esercito.
Durante le guerre di Dacia, negli anni 86-89, la Mesia fu divisa nelle due province della Mesia Superiore e
Inferiore. Alla fine del regno di Domiziano furono invece unite le province di Galazia e Cappadocia.
Domiziano rese ufficiale l'istituzione delle due province della Germania Superiore e Inferiore, territori già
così chiamati e amministrati anche civilmente da due comandanti militari, i legati pro praetore dell'esercito della
Germania Inferiore e Superiore.
Dopo una vittoria sui Catti, Domiziano ottenne il trionfo a Roma nell'autunno dell'83 ricevendo il titolo di
Germanicus, con il diritto di comparire in Senato con la stola triumphalis e di mostrarsi in pubblico accompagnato
da ventiquattro littori. Si celebrarono giochi, furono coniate monete e Domiziano fu celebrato dai poeti. Gli storici a
lui ostili misero in ridicolo quella campagna militare e il trionfo che gli fu concesso. Ma Domiziano aveva ottenuto di
allontanare i Catti dalle frontiere e le nuove annessioni favorirono i collegamenti delle legioni tra il corso medio del
Reno e il Danubio.
Quando Domiziano divenne imperatore nell'81, il generale Agricola, dal 77 governatore della Britannia,
aveva già iniziato l'invasione della Caledonia, l'attuale Scozia, e progettato la conquista dell'Hibernia, l'Irlanda.
Nell'83 colse l'importante vittoria di Monte Graupio ma non la sfruttò, contando di riprendere le operazioni dopo la
fine dell'inverno. In quel frangente si trovò però richiamato a Roma da Domiziano, senza aver potuto completare la
conquista dell'intera isola.
Tacito sostiene che l'imperatore fosse mosso da sentimenti d'invidia e di timore, causati dalla coscienza del
valore di Agricola, suo possibile rivale, e della propria pochezza. Quali che fossero i suoi sentimenti nei confronti di
Agricola, Domiziano gli aveva però concesso di rimanere legato imperiale in Britannia per sette anni anziché per i
tre canonici; considerava un errore l'occupazione di quei territori privi di ricchezze1 e difficilmente difendibili in
caso di rivolte, e aveva bisogno di garantire con nuove campagne in Germania e in Dacia la sicurezza dei confini
orientali dell'Impero.
Alla fine dell'85 i Daci varcarono il Danubio e invasero la Mesia: vinto e ucciso il legato Gaio Oppio Sabino,
saccheggiarono la regione. Domiziano accorse e, dopo aver respinto i Daci oltre il fiume, preparò una spedizione
in Dacia, affidandola a Cornelio Fusco. Fatto questo, tornò a Roma. Nell'86 Fusco, dipinto da Tacito come uomo
amante del pericolo, alla testa d'ingenti truppe attraversò il Danubio invadendo la Dacia. Il comandante dei Daci,
Decebalo, lasciò avanzare l'esercito nemico e lo attaccò dopo averlo circondato. Cornelio Fusco cadde ucciso e
l'esercito romano fu quasi interamente massacrato.
Dopo una sospensione delle ostilità per due anni, durante la quale Domiziano divise la Mesia in due parti,
ciascuna presidiata da due legioni, la guerra riprese nell'89. L'esercito fu affidato a Tettio Giuliano, che nel 69
aveva già combattuto vittoriosamente in Mesia contro i Roxolani. Raggiunta Tapae, vi sconfisse i Daci, senza però
ottenere una vittoria decisiva, mentre Domiziano conduceva una campagna in Germania contro i Quadi e i
Marcomanni, che lo sconfissero, costringendolo alla ritirata. Tenuto conto delle difficoltà incontrate da Giuliano a
continuare l'avanzata verso la capitale Sarmizegetusa, Domiziano dovette accettare le offerte di pace di Decebalo.
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Benché la campagna militare si fosse conclusa con un nulla di fatto, Domiziano ottenne a Roma il trionfo, il titolo di
Dacicus e l'erezione di una statua equestre nel Foro.
Anche la guerra condotta nel 92 contro i Sarmati e i Suevi si concluse senza risultati, e al suo ritorno a
Roma, nel 93, Domiziano non ottenne il trionfo, ma depose una corona d'alloro nel tempio di Giove Capitolino, offrì
sacrifici solenni e fece celebrare grandi feste.
L'opposizione interna contro Domiziano si manifestò a Roma soprattutto nelle forme dei conciliaboli privati e
degli epigrammi anonimi. Pubblicamente, si potevano recitare orazioni che, secondo un tema retorico collaudato e
tollerato, esaltavano genericamente la libertà e maledicevano la tirannide e nei teatri andavano in scena
personaggi i cui discorsi potevano contenere allusioni ben comprese da più di un ascoltatore.
Una prima cospirazione contro l'imperatore sarebbe stata concepita nell'anno 83, e Domiziano avrebbe
reagito mandando in esilio parecchi senatori e facendo giustiziare altri patrizi. Un'altra fu scoperta nell'87, e
Domiziano fece condannare parte dei congiurati dallo stesso Senato e altri accusò in loro assenza.
Verso la fine dell'anno successivo scoppiò al confine della Germania una pericolosa rivolta. Lucio Antonio
Saturnino, legato della Germania Superiore, si assicurò l'appoggio delle due legioni di stanza a Mogontiacum e di
tribù germaniche stanziate oltre il Reno, e si fece proclamare imperatore. Lucio Antonio era probabilmente
d’accordo con senatori romani. Discendente, sembra, del triumviro Marco Antonio, i suoi costumi erano poco
onorevoli, ed era disprezzato dallo stesso Domiziano. Domiziano reagì immediatamente partendo da Roma con la
guardia pretoriana e ordinando a Traiano di trasferire le sue due legioni dalla Spagna sul fronte del Reno. Ma non
ci fu bisogno del loro intervento, perché nel gennaio dell'89 Norbano Appio Massimo, allora governatore
dell'Aquitania o della Germania Inferiore, si portò rapidamente sui rivoltosi, rimasti privi dell'appoggio dei Germani
che non avevano potuto superare il Reno per il mancato congelamento delle acque.
La battaglia, combattura a Castellum, vide la completa vittoria di Norbano e la morte di Antonio Saturnino. Il
Senato si affrettò a offrire sacrifici di ringraziamento, mentre Domiziano, giunto sul posto, ordinò di torturare e
giustiziare un gran numero di ribelli sopravvissuti. La testa mozzata di Antonio fu inviata a Roma ed esposta nel
Foro.
Con la vittoria sui rivoltosi, che aveva dimostrato la sostanziale fedeltà dell'esercito all'imperatore, e una
repressione nei confronti di elementi patrizi nella capitale, sulla quale mancano particolari, l'aristocrazia, sapendo
di non essere in grado di rovesciare Domiziano né con un sollevamento militare, né tanto meno con un movimento
popolare, mantenne la speranza di eliminare Domiziano attraverso una cospirazione di palazzo. A sua volta
l'imperatore, consapevole che i suoi nemici agivano nell'ombra, raddoppiò la sua diffidenza e il suo odio nei
confronti del senato.
Domiziano continuò la politica dei donativi al popolo e degli alti salari all'esercito, finanziandola anche con le
spoliazioni dei suoi avversari. Otteneva così il duplice risultato di mantenere la fedeltà degli uni e di conseguire
l'indebolimento degli altri. Stabilì una rete di spie e di delatori che raccoglievano confidenze compromettenti e il
ricco signore poteva essere tradito dal proprio servo, dal cliente e perfino dall'amico, che ricevevano in cambio
libertà o denaro.
Accusati di lesa maestà per i loro atti o soltanto per le loro parole, gli indiziati erano giudicati dal Senato
che, per viltà e paura, li condannava regolarmente alla morte o all'esilio, confiscandone i beni: Alle sedute
Domiziano assisteva regolarmente.
Non era quello l'unico mezzo per impossessarsi dei beni dei cittadini facoltosi. A volte questi facevano
coerede l'imperatore, per timore che, diversamente, il loro testamento fosse dichiarato nullo. Per questo motivo
Agricola nominò suoi eredi la moglie, la figlia e Domiziano. Si poteva infatti fabbricare un falso testamento o era
anche sufficiente che un testimone prezzolato dichiarasse che il defunto aveva intenzione di nominare erede il
principe per annullare il testamento autentico.
Già sotto Vespasiano i maestri della filosofia stoica e scettica attivi in Roma erano stati perseguitati per la
loro opposizione al regime. Elvidio Prisco, che si era rifiutato di riconoscere Vespasiano quale imperatore, fu
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messo a morte. Il potere imperiale considerava intollerabile la loro indipendenza di giudizio e se essi generalmente
non erano politicamente attivi, erano però moralmente autorevoli e le loro critiche erano tanto più pericolose in
quanto venivano diffuse pubblicamente tra i loro allievi.
Ignorati o incompresi o disprezzati dal popolo, questi maestri erano però seguiti dagli aristocratici che
ascoltavano le loro lezioni, sollecitavano i loro consigli e gli affidavano i loro figli perché li istruissero e li
educassero. In tal modo, agli occhi di Domiziano, i filosofi divennero istigatori e complici dei suoi peggiori nemici.
Il processo, tenuto nel 93 contro un favorito di Domiziano, Baebio Massa, accusato di malversazione
durante il suo proconsolato in Betica, favorì la reazione imperiale. L'accusa fu tenuta da Plinio il Giovane e da
Erennio Senecione che ottennero dal senato la sentenza di colpevolezza di Baebio Massa e il sequestro dei suoi
beni. Il puntiglio particolaremesso nell'accusa da Senecione, senatore e filosofo stoico decisamente ostile a
Domiziano, e l'elogio che nello stesso tempo egli fece dello scomparso Elvidio Prisco gli procurò l'avversione di
Domiziano.
La sua biografia di Elvidio Prisco fu considerata un delitto di lesa maestà: accusato in senato da Mezio
Caro, alla fine del 93 fu condannato a morte e il libro fu pubblicamente bruciato. Il processo contro Senecione
coinvolse Fannia, la vedova di Elvidio Prisco, nipote di Caecinia Arria e Caecina Peto, e figlia di Trasea Peto, che
fu esiliata con la madre Arria per aver collaborato alla stesura del libro. Anche il figlio suo e di Elvidio, l'omonimo e
già console Elvidio Prisco, autore di una pantomima satirica contro Domiziano, fu condannato a morte in
quell'anno.
Anche un elogio di Trasea Peto, scritto da Giunio Aruleno Rustico, fu bruciato e il suo autore giustiziato.
Tribuno nel 66 e pretore nel 69, stoico, Aruleno Rustico aveva già rischiato la vita sotto Nerone a causa della sua
amicizia con Trasea. Il suo libro doveva contenere giudizi particolarmente severi contro l'imperatore, se gli costò
l'accusa di lesa maestà. La moglie Gratilla e il fratello Giunio Maurico furono esiliati. Subito dopo questi processi,
un decreto del Senato stabilì l'espulsione dei filosofi e degli astrologi.Il cinico Demetrio si stabilì a Pozzuoli,
Epitteto si ritirò a Nicopoli, Dione Crisostomo in Asia Minore.
Distrutto il tempio di Gerusalemme e dispersa la popolazione, gli ebrei non furono altrimenti perseguitati
sotto Vespasiano e Tito. Lo stesso re Agrippa II e le sorelle Berenice e Drusilla vivevano a Roma, intimi dei Flavi,
e una colonia di ebrei viveva nella capitale libera di praticare la propria religione, salvo essere tenuti a dichiararsi
alle autorità per pagare il fiscus judaicus, una tassa annua di due dracme.
Vi furono conversioni al giudaismo, per quanto i nuovi adepti non praticassero scrupolosamente gli obblighi
della legge mosaica e rifuggissero dalla circoncisione: piuttosto, essi potevano essere attratti dalla religione del dio
unico e dalla sua morale. Quanto ai cristiani, oltre a essere ancora generalmente giudaizzanti, essi erano
considerati dall'opinione pubblica soltanto una setta ebraica alla quale poteva essere egualmente indirizzata
l'accusa di «ateismo» - cioè di non credere nella religione romana e di rifiutarsi di sacrificare - e di seguire
«costumi ebraici». Questa circostanza rende difficile, se non impossibile, distinguere le conversioni al giudaismo
dalle conversioni al cristianesimo.
Non mancarono processi anche in questo ambito, ma non è chiaro se queste condanne fossero realmente
motivate dalla necessità di combattere religioni che potevano rappresentare un pericolo per lo Stato romano, se
invece fossero solo il capriccio di un tiranno, o se fossero un pretesto per colpire nemici personali di Domiziano.
La sorte di Domiziano fu segnata quando gli uomini a lui più vicini lo tradirono. Un complotto di senatori,
che garantirono a Marco Cocceio Nerva la successione all'impero, coinvolse la moglie Domizia e il procuratore
Stefano, i cortigiani Partenio e Sigerio, il segretario Entello e i prefetti del pretorio Norbano e Petronio.
Nel 96 Partenio annunciò all'imperatore che Stefano era latore di un importante messaggio. Fingendosi
ferito a un braccio, questi nascondeva nelle bende un pugnale. Il falso messaggio rivelava a Domiziano l'esistenza
di una congiura ai suoi danni. Mentre l'imperatore leggeva, Stefano lo colpì all'inguine: malgrado la ferita,
Domiziano reagì con grande energia, gettandosi su Stefano, ma intervennero altri congiurati, che lo finirono con
altre sette pugnalate. Richiamati dal tumulto, intervennero dei pretoriani ignari della congiura, che uccisero
Stefano.
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Il senato proclamò Nerva imperatore e decretò la damnatio memoriae di Domiziano, ordinando la
distruzione delle sue statue e la cancellazione del suo nome da ogni iscrizione. Furono richiamati gli esiliati,
riabilitate le vittime, puniti i delatori e proibiti i processi di lesa maestà. La popolazione non reagì, ma ci furono
tumulti tra i pretoriani, e alcune sollevazioni tra le legioni del Danubio e in Siria, presto rientrate.
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