dossier neuroscienze ipnosi emozioni e dolore

DOSSIER
NEUROSCIENZE IPNOSI EMOZIONI E
DOLORE
ANGELICO BRUGNOLI
Definizione di ipnosi
L'ipnosi è definita come uno stato di coscienza alterato, che comporta delle
modificazioni fenomenologiche oggettive e soggettive distinguibili da quelle
esperibili nello stato di veglia e durante il sonno. Più propriamente non può
essere considerata uno stato stabile, ma un processo dinamico e mutevole
dello stato di coscienza.
Dal punto di vista psicoanalitico ortodosso è definita come una regressione
adattativa al servizio dell'Io, in cui il soggetto ipnotizzato sottoporrebbe un
sottosistema del suo Io al temporaneo controllo dell'ipnotista per un interesse
terapeutico, pur mantenendo la capacità di riassumere al bisogno lo stato di
veglia.
Sarbin ed al. ritengono l'ipnosi una forma di "investimento in ruolo", quindi una
forma di recitazione, nella quale l'attore può dimenticare la sua identità e il
pubblico presente, immedesimandosi nella parte.
Secondo la teoria neo-dissociativa elaborata da Hilgard nel 1977 è postulata la
presenza di un sistema cognitivo multiplo coordinato da un Ego-Executive cui
sarebbero subordinati dei sottosistemi di controllo cognitivo organizzati
gerarchicamente. L'ipnosi, come da un altro punto di vista il sonno fisiologico,
sarebbe in grado di modificare l'assetto gerarchico di questi sottosistemi,
riducendo la dominanza dell'Ego-Executive e permettendo cosi il manifestarsi
di una non ordinaria fenomenologia.
Una definizione operativa di ipnosi è di uno stato di coscienza determinato da
una particolare relazione che passa attraverso il corpo.
IPNOSI = Stato / Relazione x corpo
Nella clinica l'ipnosi è una relazione circolare tra terapeuta e paziente tramite
una tecnica, si parla anche di sincronia interattiva fra soggetto e ipnotista.
(vedi note introduttive)
La parte che segue è stata tratta, modificata e adattata da:
Antonelli C. , Luchetti M.
DALLA LATERALITA' EMISFERICA AI NEURONI SPECCHIO,
UN NUOVO PARADIGMA PER LA NUOVA IPNOSI
ACTA ANAESTHESIOLOGICA ITALICA VOL.58 n. 4, 2007
editrice La Garangola - Padova (pag.376 - 400)
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Riassunto.
– Introduzione. Con la scoperta dei neuroni specchio si apre una forte evidenza
su quanto l'ipnosi clinica moderna ha da tempo acquisito: l'importanza
terapeutica della relazione
- Scopo. La relazione terapeutica, mediata dall'osservazione e quindi dal
rispetto si pone nella medicina moderna ed in particolare nella terapia del
dolore con un'evidenza di valore inconfutabile.
Per l'operatore può rappresentare il mezzo per riconcigliare le esigenze di
attivismo, di tecnicismo ed efficienza con i valori profondi della cura, senza
ricorrere a complessi modelli teoretici applicabili solo da pochi scienziati della
mente.
- Metodo. Analisi e commento dei lavori pubblicati sull'argomento (tratti da
Medline, Pubmed, Embase), Testi monografici, Confronto fra esperti.
- Conclusioni. La scoperta dei neuroni specchio ci aiuta a comprendere oltre
l'anedottico una possibilità di fare ed essere terapia attraverso la relazione. I
paradigmi dello stato speciale di coscienza ratificano in qualche misura
l'esistenza dell'ipnosi stessa, il paradigma offertoci dal sistema specchio ci
fornisce il pieno diritto a riappropriarci di una forma di medicina
antropologicamente più corretta, basata sulla mediazione di istanze umane
prima che tecniche, mediazione che non si genera fuori dall'uomo secondo
definizioni astratte e generiche ma all'interno dell'uomo nel contesto
relazionale con i suoi simili.
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INTRODUZIONE
In una precedente review (1) è stato sottolineato come l'ipnosi sia ormai
accettata dalla medicina dell'evidenza come strumento utile in particolare nella
gestione e controllo del dolore sia degli adulti che dei bambini.
E' stata proposta una formula di sintesi: Ipnosi = Stato / Relazione x corpo
come costrutto unificante le varie teorie.
Recentemente Carnevale sottolinea che questo schema per dire ciò che dice,
deve necessariamente non dire, implicare, omettere molti aspetti ai quali pure
allude, in particolare, quando si parla di ipnosi si fa riferimento tanto alle
tecniche e alle procedure attraverso le quali si ottiene la condizione di trance,
quanto alla condizione stessa (2).
I differenti punti di vista o “lenti” che emergono dalla semplice lettura della
formula, se assolutizzati possono portare a interpretazioni diverse dello stesso
fenomeno e della terapia con ricerca di autoconferma attraverso propri
paradigmi.
Le neuroscienze hanno sviluppato negli ultimi anni una tecnologia sofisticata
per lo studio dell'attività cerebrale che ha permesso di affrontare problemi
considerati classicamente di pertinenza filosofica. Hanno consentito un
aumento delle conoscenze sul funzionamento del sistema nervoso centrale in
stati ordinari e speciali di coscienza fra cui l'ipnosi.
Sono un esempio la risonanza magnetica funzionale per immagini (fRMI)
tecnica in grado di rilevare le aree cerebrali in attività e l'intensità del loro
lavoro in tempo reale, la stimolazione magnetica transcranica (TMS), metodica
con la quale, posizionando una bobina in corrispondenza della corteccia
cerebrale, è possibile stimolare soprattutto i corpi cellulari dei neuroni corticali
(Walsh e Cowey, 1998) e in senso opposto disattivare per un breve intervallo
di tempo le funzioni cerebrali di specifiche aree, per verificare il ruolo di altre
parti della corteccia cerebrale.
Ovviamente le tecniche utilizzate nell'uomo e nell'animale sono diverse:
mentre nell'animale è possibile effettuare una registrazione del singolo neurone
tramite l'inserzione intracorticale di elettrodi, nei soggetti umani si utilizzano
esclusivamente metodi non invasivi di imaging cerebrale come la fRMI o la
tomografia a emissione di positroni (PET).
Simmetricamente anche l'ipnosi viene sempre più impiegata quale strumento
fisiologico appropriato per lo studio della coscienza, della percezione delle
emozioni, della motricità dell'attenzione e della memoria.
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PARADIGMI DI STATO
Ancora oggi molti medici sono portati a vedere l'ipnosi clinica come ad una
anestesia: poniamo in essere alcune manovre, somministriamo alcuni principi
terapeutici ed otteniamo un nuovo stato di coscienza: lo chiamiamo coma per
la narcosi e trance per l'ipnosi. I paradigmi neurofisiologici volti a dimostrare
l'esistenza di un diverso funzionamento del nostro cervello in trance, se da un
lato hanno permesso di evidenziare il fenomeno ipnosi e di obiettivarlo,
dall'altro hanno lasciato in ombra altri aspetti non facilmente misurabili ma con
risvolti pragmatici sul paziente più importanti.
Queste brevi considerazioni sul concetto attuale di ipnosi, integrano come
evidenziato nella formula punti di vista o lenti che se assolutizzati conducono a
interpretazioni diverse dello stesso fenomeno e della terapia con ricerca di
autoconferma attraverso paradigmi neurofisiologici.
PARADIGMA DELLA LATERALITA' EMISFERICA
In tempi recenti sono stati sviluppati disegni sperimentali per identificare un
correlato neurofisiologico dello stato di coscienza ipnotico o di trance, e sono
stati proposti diversi modelli speculativi, ma persiste notevole difficoltà ad
ottenere elementi che evidenzino univocamente questo stato come
caratteristico e specifico della condizione di trance. Il paradigma maggiormente
accreditato è quello dell'asimmetria funzionale degli emisferi cerebrali.
Sintetizzando le specializzazioni emisferiche, si possono individuare le seguenti
caratteristiche per l'emisfero dominante (sinistro nel destrimane e in buona
parte dei mancini): maggiore abilità per i compiti analitico verbali, analitico
spaziali e temporali, aritmetici, ideazionali, maggiore competenza a cogliere gli
aspetti rilevanti degli stimoli elaborando l'informazione in modo sequenziale,
attraverso l'analisi delle singole parti. Utilizzando un termine informatico
possiamo definire la modalità di elaborazione come digitale. Essa risulta
estremamente efficiente per operazioni matematiche, linguistiche e per la
formulazione di concetti astratti.
Lo stile cognitivo di questo emisfero coincide con i cosiddetti processi secondari
della psicoanalisi. Esiste inoltre un collegamento con lo stato di coscienza
ordinario e una maggiore performance per le emozioni positive. L'emisfero non
dominante (destro, nel destrimane) sembra specializzato per compiti visuospaziali, musicali, geometrici, sintetici spaziali e temporali.
Lo stile cognitivo è in grado di integrare diversi stimoli simultaneamente con
un comportamento analogico-sintetico, quasi non verbale, olistico, molto
efficace per le attività visivo-spaziali, la coordinazione motoria nello spazio, la
comprensione della tonalità musicale. Il suo stile cognitivo coincide con i
"processi primari" della psicoanalisi. Non esiste un collegamento con lo stato di
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coscienza ordinario, la performance è maggiore per le emozioni negative e per
quelle attività che richiedono una percezione simultanea del tutto (percezione
olistica), per la creatività artistica e scientifica, quindi per le intuizioni. Esistono
evidenti analogie fra la fenomenologia della trance ipnotica e le funzioni
dell'emisfero destro gia sottolineate da Erickson e Rossi.
In contrapposizione allo stato di veglia, nello stato di trance si svilupperebbe
una prevalenza emisferica destra (nel destrimane).
Lo studio elettroencefalografico di soggetti in ipnosi comparato con quello di
soggetti allo stato di veglia ha permesso di identificare e comprendere alcuni
meccanismi neurofisiologici sottesi allo stato ipnotico.
Già Hilgard nel 1970 sottolineava che una teoria esaustiva dell'ipnosi non
poteva prescindere dalla comprensione di questi eventi interni al sistema
nervoso centrale.
Gran parte degli studi hanno focalizzato l'attenzione su una particolare onda
dell'EEG: il ritmo alfa, questo ritmo (8-12 Hz), presenta un comportamento di
tipo paradosso, in quanto tende a scomparire e desincronizzarsi nel soggetto
sveglio ad occhi aperti, intento in attività cognitive, ma anche all'estremo
opposto nel soggetto rilassato mentre tende a diventare più sonnolento.
Un'elevata attività di fondo alfa è stata invece riscontrata nei soggetti in
condizioni di particolare rilassamento e in alcune forme di meditazione e perciò
almeno storicamente questo ritmo è associato ad una condizione di relativa
inattività funzionale del sistema nervoso.
Attraverso analisi spettrale di frequenza dell' EEG, è stato evidenziato che nello
stato di riposo vigile, la maggior parte dei soggetti destrimani presenta una
maggior quantità di ritmo alfa nell'emisfero destro rispetto al sinistro. In
condizioni di trance ipnotica, almeno nei soggetti altamente ipnotizzabili si ha
un'inversione del profilo spettrale del ritmo alfa con una sua predominanza
all'emisfero sinistro.
Con l'assunto che l'attività alfa sia inversamente proporzionale all'attivazione
funzionale dell'emisfero si può concludere che durante la condizione ipnotica si
assiste ad una riduzione relativa dell'attività funzionale emisferica sinistra e ad
una prevalenza emisferica destra.
Altri autori non hanno confermato questi risultati e tuttavia è stata evidenziata
in ipnosi, a differenza di quanto si osserva allo stato di veglia, una attività
EEGrafica apparentemente non congrua con il compito richiesto (ad es.
matematico o visuo-spaziale).
Questa incongruenza è attribuita all'azione inibitoria in ipnosi, di strutture
sottocorticali diencefaliche sull'attivazione corticale compito specifica.
Studi di De Benedittis e Sironi in pazienti epilettici hanno dimostrato che la
condizione ipnotica determina una riduzione dell'attività lenta patologica e
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dell'attività irritativa intercritica rispetto allo stato di veglia e a maggior ragione
rispetto al sonno che in questi pazienti si comporta come un attivatore della
soglia epilettogena.
Studi elettrofisiologici hanno identificato due aree del sistema nervoso
implicate nei fenomeni ipnotici, queste aree appartenenti al sistema limbico
sono l'ippocampo che sembra responsabile del mantenimento della condizione
ipnotica e l'amigdala che sembra svolgere un ruolo primario nei meccanismi di
risveglio dall'ipnosi.
Lo stato ipnotico sarebbe mediato dall'attività combinata di queste due
strutture, attraverso una inibizione funzionale dell'amigdala, responsabile del
senso di calma, dell'ipoattività e dell'insensibilità all'ambiente e una attivazione
funzionale delle strutture ippocampali.
L'analisi dei potenziali evocati corticali somatosensoriali non ha rilevato
significative differenze nella latenza e nell'ampiezza delle componenti nelle
condizioni di trance e di veglia, una diminuzione d'ampiezza della componente
lenta è stata riferita in un esperimento di ipnoanalgesia.
Per quanto riguarda i potenziali evocati corticali visivi, uditivi e olfattori
esistono risultati contraddittori.
Per confermare il paradigma dell'emisfericità destra sono state sviluppate altre
metodiche come l'ascolto dicotico, che hanno permesso di accumulare una
notevole evidenza empirica.
E' stato sperimentalmente osservato che soggetti altamente ipnotizzabili a cui
venivano somministrate suggestioni di analgesia durante la trance non
presentavano la risposta motoria tardiva a latenza più lunga (circa 120 msec)
a seguito dello stimolo algico, mentre rimaneva inalterata la risposta motoria
precoce, a breve latenza (circa 70 msec).
L'abolizione del riflesso di difesa tardivo è espressione di una attività di
modulazione sopraspinale.
Nel tentativo di identificare un diverso funzionamento del sistema nervoso
centrale in ipnosi, Gruzelier ed al., in uno studio di imaging con la fRMI hanno
evidenziato una attività neuronale quali-quantitativamente diversa in condizioni
di veglia e di trance ipnotica in soggetti altamente ipnotizzabili.
Un gruppo di volontari metà dei quali molto e metà poco suscettibili all'ipnosi
sono stati sottoposti a un test cognitivo (Stroop test) in condizioni di veglia e
ipnosi.
Tutti i volontari risolvevano l'esercizio e il loro cervello non mostrava
discrepanze di attività durante lo svolgimento della prova.
Durante l'ipnosi, invece, le persone più suscettibili mostravano un'intensa
attività a livello della corteccia prefrontale sinistra nelle regioni del giro
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cingolato anteriore, regioni implicate nell'elaborazione di funzioni cognitive
complesse e nella risposta agli errori e agli stimoli emotivi. Le persone poco
suscettibili all'ipnosi, invece, non mostravano differenze significative
nell'attività cerebrale in questa seconda fase dell'esperimento.
Gli individui altamente ipnotizzabili presentano una abilità naturale nel
focalizzare l'attenzione, ma il loro controllo attentivo risulta compromesso in
seguito all'ipnosi a causa di una dissociazione fra i processi di monitoraggio del
conflitto e quelli cognitivi di controllo del lobo frontale. Secondo Gruzelier
questo mostra che nello stato di ipnosi è richiesto uno sforzo notevolmente
superiore per risolvere compiti cognitivi.
Paradigma unificante della ipofrontalità transitoria degli stati
speciali di coscienza
Questa teoria sebbene non esclusiva per la condizione d'ipnosi, identifica un
nuovo assetto funzionale del sistema nervoso centrale che potrebbe
rappresentare il comune denominatore neurofisiologico di diversi stati alterati o
speciali di coscienza.
La corteccia prefrontale costituisce più della metà del lobo frontale ed è
particolarmente sviluppata nell'uomo. Ha connessioni reciproche con
virtualmente tutti i sistemi sensoriali e motori, sia corticali che sottocorticali. È
connessa con le strutture mesencefaliche e limbiche. Non ha connessioni
dirette con le aree motorie e sensoriali primarie, ma solo con aree associative.
In sintesi ha accesso ad una ampia varietà di informazioni interne ed esterne
all'organismo ed opera una sintesi allo scopo di regolare numerosi processi
mentali e comportamentali.
Dietrich A. nel 2003 ha sviluppato una ipotesi secondo cui gli stati mentali
definiti comunemente come stati alterati di coscienza, fra cui l'ipnosi, sono
determinati principalmente da una disregolazione transitoria dell'attività della
corteccia prefrontale.
L'evidenza appoggia su studi psicologici e neurofisiologici del sogno, della
meditazione, dell' ipnosi e delle varie condizioni di trance naturalistica
quotidiana nonchè di alcuni stati indotti da farmaci. È proposto che la riduzione
transitoria dell'attività corticale prefrontale sia la caratteristica che unifica tutti
gli stati alterati (o speciali) di coscienza e che l'unicità fenomenologica di ogni
singolo stato sia il risultato dell'autosufficienza differenziale di vari circuiti
frontali. Usando un approccio evolutivo, la coscienza è concettulizzata come
funzione conoscitiva e gerarchicamente ordinata.
Strutture di alto ordine compiono funzioni integrative in modo
progressivamente crescente e così offrono un contenuto più sofisticato. Tale
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gerarchia funzionale circoscrive gli stati più sofisticati di coscienza nelle
strutture di alto ordine.
GERARCHICA FUNZIONALE
corteccia prefrontale dorso laterale
Funzioni comportamentali e conoscitive: sede dei guardiani della coscienza:
IO - QUI - ORA
Avviene una rappresentazione dei contesti per i compiti cognitivi, ed i ruoli
dell'inibizione e della memoria di lavoro sono fondamentali per il supporto di
tale contesto, per la selezione dei processi più rilevanti, per il mantenimento
temporale dell'attenzione contro le inferenze esterne e la conseguente
esecuzione di azioni complesse finalizzate ai compiti.
corteccia prefrontale ventro mediale o orbito mediale e altre aree della
corteccia prefrontale
Livello limbico
Il Sistema Limbico è una formazione filogeneticamente antica. Pur essendo
differente la sua estensione nelle varie specie dei mammiferi, il suo sviluppo e
la sua organizzazione sono simili. Tali osservazioni fanno ritenere che le basi
fisiologiche dell'emotività e del comportamento siano simili in tutti i mammiferi
(Valzelli 1970).
Il sistema limbico comprende una serie di formazioni nervose che influiscono
sulla vita affettiva ed emozionale, sulla memoria a breve termine e sulla
regolazione di risposte viscerali, in particolare quelle immediate (da stress),
modulazione delle risposte di aggressività e di riconoscimento della paura. In
parte interviene anche nei comportamenti più elaborati.
talamo
tronco cerebrale
In ipnosi si assisterebbe ad una specie di diaschisi (una alterazione cerebrale
funzionale che può produrre cambiamenti in aree cerebrali distanti da quella di
partenza) con emersione funzionale delle strutture gerarchicamente inferiori.
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I NEURONI SPECCHIO
La scoperta dei neuroni specchio si impone impetuosa nel mondo scientifico,
ma come un valore aggiunto, non particolarmente interessato all'ipnosi e ai
suoi fenomeni. È il mondo dell'ipnosi che coglie dalle sorprendenti analogie con
i riscontri neurofisiologici una possibilità di sviluppo dei suoi paradigmi.
Senza voler eccedere in un semplicistico riduzionismo, forse, il ponte offertoci
da queste scoperte sembra più vicino all'aspetto relazionale di una ipnosi
naturalistica, proprio come vissuta e trasmessa da Erickson, in altre parole una
ratifica scientifica della nuova ipnosi.
Introduzione
I primi studi a supporto dell'esistenza di un sistema specchio nell'uomo
possono essere considerati quelli di Gastaut H. e Bert nella prima metà degli
anni cinquanta che analizzavano le modificazioni elettroencefalografiche
durante una presentazione cinematografica, successivamente confermati da
Cochin ed al. attraverso lavori sulla percezione del movimento con analisi
spettrale elettroencefalografica.
Le ricerche neurofisiologiche che hanno portato alla identificazione dei neuroni
specchio iniziano però negli anni novanta, con una osservazione quasi casuale
sui macachi fatta dei ricercatori dell'Università di Parma diretti dal prof.
Giacomo Rizzolatti.
Registrando l'attività di singoli neuroni nella corteccia premotoria del macaco,
osservano come molte cellule di quest'area si attivavano non solo quando
l'animale esegue una determinata azione ma anche quando vede lo
sperimentatore (o un'altra scimmia) compierla.
Inizialmente si ipotizza un artefatto motorio: in qualche modo la scimmia
compie l'azione osservata per imitazione, ma esperimenti successivi
dimostrano che la scimmia resta perfettamente immobile, inoltre gli etologi
confermano che i macachi non sanno imitare.
Successivamente si ipotizza che la scimmia possa prepararsi al movimento
senza compierlo, ma in questo caso i neuroni implicati avrebbero dovuto
attivarsi anche quando la scimmia si prepara a compiere altri movimenti senza
osservarli, ad esempio si prepara per avvicinarsi al cibo che le viene offerto.
All'inizio del 2000 le ricerche iniziano a pubblicarsi trasversalmente su
numerose riviste scientifiche.
Lo stesso anno Vilyanur Ramachandran scriveva: - i neuroni specchio saranno
per la psicologia quello che il DNA è stato per la biologia -.
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Prima di questa scoperta alle aree motorie della corteccia cerebrale veniva
assegnato un ruolo essenzialmente esecutivo, quello di tradurre in movimenti
le informazioni che il cervello elaborava, integrando gli stimoli sensoriali e le
rappresentazioni mentali. Ora percezione, azione e cognizione non possano più
essere concepite come funzioni separate.
La scoperta dei neuroni specchio nella scimmia ha stimolato la ricerca di un
meccanismo analogo nell'uomo.
Sono stati così identificati anche nel cervello umano questi neuroni, dotati di
una gamma di funzioni ancora più ricca e diversificata.
Nella nostra specie il sistema dei neuroni specchio, oltre alla comprensione
delle azioni e delle intenzioni degli altri, è anche alla base della capacità di
replicare intenzionalmente le azioni osservate o di impararne di nuove. Si
tratta di una conoscenza sensoriale e motoria, diversa da quella concettuale e
linguistica e tuttavia non meno importante, in quanto su di essa poggiano
molte delle nostre capacità cognitive.
Nell'animale i neuroni specchio potrebbero permettere di capire cosa fanno gli
altri individui senza un complesso processo cognitivo, ma semplicemente
attraverso l'incontro tra azione osservata e azione codificata.
Quando si attivano passivamente segnalano all'organismo la stessa azione di
quando la compiono permettendo così all'osservatore di ottenere una
esperienza analoga a quella dell'attore dell'azione.
Nell'uomo possono aiutare a comprendere le basi neuronali dell'empatia,
dell'altruismo, dell'apprendimento, della comprensione dell'intenzionalità, della
comunicazione e dello sviluppo del linguaggio, ponendosi come collegamento
fra scienze biologiche e psicologiche,
tra filosofia, sociologia, pedagogia e antropologia.
Aspetti anatomici
Gli studi di neuroscienze hanno stabilito che ogni comportamento è
espressione di una funzione del cervello. Secondo questo principio la mente va
considerata come il prodotto di un gruppo di funzioni cerebrali.
L'attività elettrica e soprattutto l'attività chimica del cervello stanno quindi alla
base anche di complesse manifestazioni cognitive e affettive come il pensiero,
la memoria, i sentimenti, il linguaggio, le emozioni, ecc..
All'inizio di questo secolo si svilupparono due teorie contrastanti: quella dei
campi cerebrali associati e quella del connessionismo cellulare. La prima
sosteneva che non esiste una localizzazione precisa delle funzioni mentali nel
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cervello, ma che la corteccia determina in modo unitario le funzioni cerebrali e
qualsiasi area corticale è in grado di eseguire ogni funzione.
L'altra teoria sosteneva che le manifestazioni del comportamento sono mediate
da regioni cerebrali specifiche attraverso circuiti nervosi ben determinati.
Nel suo insieme il lobo frontale è prevalentemente specializzato nella
programmazione ed esecuzione dei movimenti, nella definizione della
personalità e del comportamento emozionale.
Si trovano: l'area motoria primaria, l'area premotoria e l'area motoria
supplementare, i campi oculari frontali.
Oggi sembra sempre più evidente che ogni area del cervello è specifica per
date funzioni, anche se ogni funzione motoria, sensitiva e mentale segue più di
una via nervosa.
Possiamo dire approssimativamente che il lobo frontale è più specializzato per
programmare ed eseguire il movimento, quello parietale per la percezione delle
sensazioni somatiche, quello occipitale per la visione, quello temporale per
l'udito, l'apprendimento e la memoria.
Ogni emisfero è in rapporto con la metà controlaterale del corpo e i due
emisferi non sono simmetrici e completamente equivalenti.
Penfied dimostrò che anche la stimolazione dell'area 6 provoca movimenti
(aree premotorie). Le aree premotorie possono in prima istanza essere distinte
in area motoria supplementare SMA (dorsale a 6) e corteccia premotoria
(laterale a 4). La loro stimolazione evoca movimenti più complessi, anche per
queste aree esiste una rappresentazione somatotopica.
All'inizio del secolo Brodman localizzò sulla superficie corticale circa 50 aree
divise in tre grandi gruppi: motorie, sensitive, associative. Questa suddivisione
classica anatomico funzionale dell'emisfero umano è ancora in uso. Il settore
caudale del lobo frontale era suddiviso classicamente in due aree
citoarchitettoniche, area 4 ed area 6 di Brodmann, entrambe prive di cellule
granulari.
L'area 4 e la maggior parte dell'area 6 localizzate sulla convessità laterale
erano considerate come una sola grande area funzionale: la corteccia motoria
primaria o M1. L'area 6, mesiale, era considerata area motoria secondaria o
supplementare.
Studi di anatomici e funzionali hanno mostrato che questa visione è
semplicistica e hanno suddiviso la corteccia agranulare frontale della scimmia
in base alle proprietà funzionali e ai dati istochimici e citoarchitettonici.
La corteccia motoria è formata da un mosaico di aree indipendenti, implicate in
specifici aspetti della pianificazione ed esecuzione motoria, caratterizzate da
uno specifico gruppo di connessioni con la corteccia parietale, prefrontale e
cingolata.
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Organizzazione del sistema nervoso nella scimmia
F5: base anatomica per la codifica a singolo livello neuronale di specifici atti
motori finalizzati in particolare eseguiti con mani e bocca, ad esempio
afferramento e prensione, strappamento o manipolazione di oggetti. La scarica
dei neuroni è correlata con l'esecuzione dell'azione e non con i singoli
movimenti che la formano
F2 (parte ventrorostrale) e F4 : implicati nelle azioni motorie, movimenti
prossimali delle braccia, ad esempio distensione delle braccia.
La trasformazione sensomotoria è il risultato di una stretta collaborazione tra le
aree parietali e motorie legate da forti connessioni reciproche.
Ogni circuito è deputato ad uno specifico aspetto della trasformazione
sensomotoria nel quale le informazioni motorie e sensoriali sono integrate ad
entrambi i livelli parietale e motorio e possono essere considerate unità
funzionali del sistema motorio corticale.
Dal punto di vista citoarchitettonico l'area prefrontale F5 della scimmia sembra
essere l'analogo umano dell'area 44 di Brodman. La parte dorso caudale di
quest'ultima appartiene all'area di Broca, una regione tradizionalmente
implicata nel processamento del linguaggio
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Aree motorie frontali
Caudali: elaborano con le aree parietali l'informazione sensoriale e la
trasformano in una rappresentazione motoria
Rostrali: Inviano gli input alle aree caudali stesse riguardanti motivazione,
piano a lungo termine e memoria dell'azione passata.
Connessioni parieto frontali
- Intrinseche: connessioni con altre aree motorie
- Estrinseche: connessioni con aree corticali al di fuori della corteccia
agranulare
- Connessioni discendenti: origine delle proiezioni ai centri sottocorticali e al
midollo spinale
Sono altamente specifiche: ciascuna area motoria frontale è il bersaglio di
differenti terminazioni di aree parietali e riceve tipicamente maggiori afferenze
da una sola. Viceversa ciascuna area parietale tende a inviare proiezioni
massive a una singola area motoria.
Sembra quindi che ogni circuito sia dedicato ad una specifica trasformazione
sensomotoria attraverso la quale le caratteristiche di uno stimolo sensoriale
vengono trasformate nel loro correlato descrittivo motorio.
Essendo stata evidenziata una attività neuronale associata all'azione motoria in
molte aree della corteccia parietale posteriore, questa dovrebbe essere
considerata una parte del sistema motorio e di conseguenza l'intera unità che
costituisce il circuito parieto-frontale dovrebbe essere considerata come una
unità funzionale del sistema motorio corticale.
Il tratto corticospinale
Il tratto corticospinale origina da un ampio territorio frontoparietale,
comprendente nel lobo frontale l'area 4 e la parte caudale dell'area 6.
In particolare secondo le recenti rivisitazioni origina dalle aree motorie caudali
F1, F2, F3 e parte di F4 e F5, per terminare in vari segmenti del midollo spinale
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La corteccia motoria controlla i motoneuroni direttamente attraverso il tratto
corticospinale ed indirettamente attraverso vie che prendono origine dal tronco
dell'encefalo. Tutti i movimenti fini e gli atti motori complessi dipendono dal
controllo delle aree corticali attraverso i tratti corticobulbari e corticospinali.
Nella filogenesi il controllo corticale diretto del movimento si sviluppa solo
tardivamente.
Nell'uomo esiste un rapporto privilegiato tra corteccia motoria e motoneurone,
nei non primati nemmeno una fibra del fascio piramidale termina direttamente
su un motoneurone.
Proprietà dei neuroni specchio
il sistema specchio umano è molto più complesso rispetto al modello animale
ed è maggiormente esteso. Codifica atti motori transitivi e intransitivi, codifica
la sequenza dei movimenti che compongono l'atto, si attiva anche quando
l'azione è mimata e coinvolge molteplici regioni cerebrali, incluse le aree del
linguaggio, e sembra intervenire, oltre che nella comprensione delle azioni e
delle emozioni altrui, anche nella capacità di apprendimento per imitazione.
L'apprendimento comporta l'osservazione, la codifica dei gesti con il sistema
specchio e poi una complessa rielaborazione, ancora sconosciuta, da parte del
lobo frontale.
Studi di imaging nell'uomo hanno mostrato che il sistema specchio è formato
da una serie di circuiti parietali-premotori paralleli che mostrano una
organizzazione di tipo somatotopico (Buccino, Binkofski ed al. 2001).
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Tecniche di analisi neurofisiolgica, fino a livello cellulare, hanno permesso di
scoprire e studiare l'attività di questi neuroni negli animali.
Metodi di visualizzazione dell'attività cerebrale rendono possibili analoghe
indagini nell'uomo. Si è osservato che questi gruppi di cellule si attivano
quando le scimmie compiono un'azione, ad esempio afferrare un oggetto e in
maniera simile quando l'animale vede un altro individuo fare lo stesso gesto.
Anche se c'è una induzione all'azione non segue movimento, in quanto esiste
un sistema di inibizione motoria che lo impedisce.
L'azione però può comparire in alcune patologie con un comportamento
d'imitazione involontario.
Una semplice azione, come quella di prendere del cibo da un tavolo e portarlo
alla bocca per mangiarlo, è una catena di atti semplici, ognuno comandato da
un neurone motorio nella corteccia del lobo parietale.
Nei macachi studiati, la catena di atti cambia, anche se poco dal primo gesto
se l'intenzione dell'azione varia: il neurone motorio che per primo si accende è
diverso se la scimmia afferra il cibo per mangiarlo o se lo afferra per posarlo in
un contenitore e diversa è la catena dei neuroni specchio che si attivano
nell'osservatore di tali gesti. Il sistema specchio sembra possedere la capacità
di attribuire intenzioni anche prima che il gesto altrui sia messo
completamente in atto.
Gallese, Rizzolati ed al. hanno proposto una teoria neurofisiologica unificante
sulla capacità di comprensione delle emozioni e delle azioni altrui. Questa
abilità presente nella nostra specie e in misura diversa in altri primati,
assolverebbe ad una funzione critica per la sopravvivenza dell'individuo e il suo
successo in situazioni sociali complesse.
Il meccanismo fondamentale che consente di afferrare l'esperienza mentale
dell'altro, non è un ragionamento concettuale mediato da una riflessione
esplicita, ma una simulazione interna che riproduce attraverso il sistema
specchio gli eventi osservati, in altre parole la capacità cerebrale di unire
direttamente l'esperienza di questi fenomeni in prima e terza persona.
Maggiori evidenze sperimentali
Esperimento 1
- La scimmia osserva una azione finalizzata: afferrare un oggetto
- La scimmia osserva la stessa azione finalizzata precedente, ma non la parte
finale dell'interazione con l'oggetto : uno schermo opaco nasconde la mano che
afferra l'oggetto, tuttavia la scimmia sa che dietro lo schermo era presente
l'oggetto
15
Risultato : I neuroni si attivano con l'osservazione del movimento finalizzato ad
afferrare l'oggetto, ma oltre il 50% dei neuroni registrati risponde anche
quando la parte finale dell'azione non è più accessibile alla vista.
Esperimento 2
- La scimmia vedeva e sentiva eseguire una azione rumorosa da parte di un
altro individuo (p.e. sgusciare una arachide)
- La scimmia poteva solo vedere la stessa azione
- La scimmia poteva solo ascoltare la stessa azione
Risultato: Circa il 15% dei neuroni specchio che rispondevano all'azione
accompagnata dal suono rispondeva anche alla presentazione del solo suono.
Questi neuroni specchio audiovisivi rappresentano l'azione indipendentemente
dal fatto che sia udita o vista.
Esperimento 3
- Azione simulata senza oggetto: L'azione di presa viene mimata, con
l'esecuzione degli stessi movimenti di quando la mano afferra l'oggetto, che
tuttavia non è presente.
- L'azione viene mimata come sopra oscurando la parte finale del movimento
Risultato : Risposta virtualmente assente del sistema specchio nella scimmia
Conclusioni: L'attività dei neuroni specchio è correlata con la comprensione del
significato dell'azione. Una azione vista parzialmente o solo udita, può attivare
i neuroni specchio, attraverso l'innesco di una rappresentazione motoria delle
stesse azioni all'interno del cervello dell'osservatore o ascoltatore.
Il neurone motorio che si attiva per primo è diverso se la scimmia afferra il
cibo per mangiarlo o per posarlo in un contenitore e anche nell'osservatore è
diversa fin dall'inizio la catena di neuroni specchio che si attiva.
16
Evidenze nell'uomo
Dimostrazione dell'attivazione del sistema specchio con l'osservazione di azioni
intransitive, cioè senza oggetto e azioni mimate.
I potenziali motori evocati registrati dalla muscolatura di un osservatore sono
facilitati quando l'individuo osserva azioni intransitive senza senso con le mani
e le braccia così come quando osserva azioni transitive (con oggetto).
Nell'uomo il sistema di neuroni specchio risuona per una più ampia varietà di
azioni ed inoltre le evidenze sperimentali dimostrano che il sistema motorio
umano codifica sia l'azione osservata finalizzata a un obiettivo, sia la modalità
con la quale l'azione osservata è compiuta.
In uno studio sull'uomo con fMRI di Iacoboni, Galese ed al. sono stati
sottoposti ai soggetti tre tipi di stimolo, attraverso l'osservazione di diverse
azioni:
Una mano che afferra un oggetto senza nessun contesto (senza nessuna scena
di accompagnamento)
Solo un contesto (tavolo apparecchiato)
Una mano che afferra la tazza in due contesti diversi che suggeriscono le
finalità dell'azione: bere o pulire la tazza.
I soggetti osservavano in sequenza i tre fotogrammi: contesto, azione,
intenzione, intervallati da uno schermo bianco. Si assiste ad un notevole
incremento di segnale, indice dell'attività neurale durante l'osservazione
dell'esecuzione dell'azione con il movimento delle dita (sistema dei neuroni
specchio). L'immagine è organizzata in tre colonne, ciascuna delle quali
corrisponde ad una condizione sperimentale.
L'osservazione delle immagini di contesto portava all'attivazione più uniforme
delle stesse aree corticali con eccezione delle regioni del solco temporale
superiore e del lobo parietale inferiore.
I risultati sono stati rielaborati con tecniche di sottrazione di immagine e
successivamente sono stati eseguiti test complementari con formulazione di
ipotesi che spiegano i risultati ottenuti:
- Presenza di neuroni che sono attivati durante l'osservazione di immagini
motorie, ma scaricano non durante l'osservazione dello stesso atto motorio ma
di un altro movimento funzionalmente correlato con quello osservato (neuroni
specchio logicamente correlati).
Questi studi mostrerebbero che l'intenzione sottostante l'azione di altre
persone può essere riconosciuta dal sistema motorio usando un meccanismo a
17
specchio, attraverso l'accoppiamento dell'azione osservata con la controparte
motoria codificata negli stessi neuroni.
La codifica dell'intenzione associata con l'azione di altri dipende dall'attivazione
di una catena neurale basata su neuroni specchio che codificano l'atto motorio
osservato e dai neuroni specchio logicamente correlati che codificano per gli
atti motori che più facilmente seguono l'osservazione in un dato contesto.
Crucialmente i circuiti fronto parietali sono attivati solo quando l'azione
osservata appartiene al repertorio motorio dell'osservatore (per esempio
l'azione che l'osservatore stesso può eseguire)
L'azione osservata o il suono prodotto dalla stessa non sono le uniche
condizioni in grado di avviare l'attivazione del sistema specchio nell'uomo, ma
anche l'ascolto di frasi correlate ad azioni.
L'ascolto di frasi legate ad una azione modula l'attività del sistema motorio
Uno studio con fMRI di Tettamanti, Buccino ed al. del 2005, dimostra una
attivazione del sistema fronto-parieto-temporale lateralizzata a sinistra durante
l'ascolto di frasi contenenti azioni motorie così come durante l'esecuzione
dell'azione o la sua osservazione.
L'ascolto di frasi descriventi azioni con le mani (afferro il coltello), con la bocca
(mordo la mela), con i piedi (calcio il pallone), comparate con frasi astratte
dalla sintassi simile (apprezzo la sincerità), mostra che l'ascolto di frasi
correlate a una azione attiva una rete neurale fronto-temporo-parietale sinistra
inclusa la parte operculare del giro frontale inferiore (area di Broca), cioè quei
settori della corteccia premotoria dove le azioni descritte sono codificate dal
punto di vista motorio (rappresentazione motoria), così come il lobulo parietale
inferiore, il solco intraparietale e la parte mediale del giro temporale
posteriore.
L'area di Broca evidenzia un ruolo cruciale in quanto è la sola regione cerebrale
attivata indipendentemente dalla parte del corpo interessata dall'azione. Essa
sembra codificare per l'azione ad un livello astratto che risulta importante per
l'accesso a rappresentazioni di azioni astratte.
Il fatto che il sistema specchio può localizzarsi anche nell'area di Broca apre la
possibilità che il sistema specchio medi la comprensione di azioni non solo
durante l'osservazione ma anche durante i compiti linguistici.
Questo studio fornisce la prima evidenza diretta che l'ascolto di frasi che
descrivono azioni impegna i circuiti visuo-motori che sottostanno all'azione e
all'esecuzione. La comprensione delle frasi dipenderebbe quindi dalle strutture
motorie implicate nell'esecuzione di azioni molto simili.
18
Immaginazione
L'immaginazione motoria volontaria è caratterizzata dall'attivazione delle aree
motorie primaria, premotoria, motoria mesiale (Ehrsson ed al. 2003, Gerardin
ed al. 2000). Le strutture sottocorticali come i gangli della base e il cervelletto
sono state trovate attivarsi in seguito a compiti di immaginazione volontaria.
Nello studio fMRI sopra riportato, la mancata attivazione della corteccia
motoria primaria, motoria mesiale e delle aree sottocorticali, insieme
all'assenza di una richiesta a sviluppare una immaginazione motoria, permette
di escludere la possibilità che i risultati ottenuti siano ascrivibili anche in parte
ad una immaginazione motoria volontaria.
Uno studio del 2005 di Buccino, Riggio ed al. con stimolazione magnetica
transcranica e indagini complementari comportamentali, evidenzia chiaramente
la presenza di una modulazione dell'attività del sistema motorio durante
l'ascolto di frasi contenenti azioni eseguite con piedi e gambe o con mani e
braccia.
è dimostrato che l'elaborazione di una azione presentata verbalmente attiva
differenti settori del sistema nervoso motorio subordinati all'effettore usato
nell'azione ascoltata.
L'ascolto di una azione eseguita con le mani (cuciva la gonna, girava la chiave,
lavava i vetri) portava a un riduzione dell'ampiezza dei potenziali motori
evocati registrati a livello della muscolatura delle mani.
Similmente l'ascolto di una frase con azione correlata ai piedi (marciava sul
posto, calciava la palla, pestava l'erba) portava a una riduzione dell'ampiezza
dei potenziali evocati della muscolatura dei piedi.
L'ascolto di frasi a contenuto astratto (amava la moglie, amava la patria,
gradiva la mela) portava a risultati simili a quelli ottenuti dall'ascolto di azioni
riguardanti un effettore diverso da quello rappresentato nell'area stimolata.
Il processamento del linguaggio, almeno per quanto riguarda le espressioni
concrete a contenuto motorio, modula l'attività del sistema motorio e questa
modulazione interessa specificamente quei settori dove l'effettore impegnato
nell'elaborazione della frase è rappresentato dal punto di vista motorio.
Come negli studi con fMRI durante la lettura di testo riguardante azioni
eseguite con il viso, le mani o i piedi, si evidenzia l'attivazione di diversi settori
nelle aree premotorie dipendenti dal significato assegnato all'azione trovata nel
testo letto.
19
Questi studi confermano che il sistema di neuroni specchio non è implicato solo
nella comprensione dell'azione presentata visivamente, ma anche nella
codificazione di una presentazione acustica, di frasi correlate ad una azione.
Insula: selettività per particolari emozioni
Attraverso studi sui macachi sostanzialmente confermati per l'uomo è stato
possibile dimostrare l'attivazione dell'insula anteriore in risposta a stimoli
olfattivi e gustativi, in particolare un'area sembra essere selettivamente
attivata dalla esposizione a sostanze dall'odore disgustoso.
Studi di brain imaging dimostrano che lo stesso settore della parte anteriore
dell'insula è attivato dalla vista di espressioni facciali di disgusto e che
l'ampiezza di tale attivazione dipende dall'intensità espressiva dell'espressione
facciale osservata
In modo simile al sistema specchio motorio, anche l'insula contiene popolazioni
neuronali che si attivano sia durante l'esperienza diretta di esposizione allo
stimolo odoroso, sia quando capiscono il significato attraverso l'osservazione
dell'espressione facciale altrui.
Alcune strutture insuari sembrano anche responsabili attraverso un
meccanismo specchio dell'empatia per il dolore osservato.
Riflesso spinale H
L'inibizione del riflesso H è stata descritta da Baldissera e al. come strumento
per la valutazione della inibizione disinaptica e presinaptica nei muscoli rilassati
degli arti superiori.
Baldissera ha studiato l'eccitabilità del midollo spinale nell'uomo durante
l'osservazione di una azione attraverso l'intensità del riflesso H registrato dai
muscoli flessori delle dita. Esso rapidamente aumenta durante l'osservazione
dell'estensione delle dita (apertura mano) e si riduce durante l'osservazione
della flessione delle dita (chiusura mano)
Siccome la modulazione dell'eccitabilità corticale varia in sintonia con il
movimento osservato, l'eccitabilità del midollo spinale varia in direzione
opposta. L'assenza di ripetizione del movimento osservato potrebbe dipendere
in parte da questo meccanismo inibitorio spinale.
Imitazione
Secondo queste ricerche il circuito fondamentale o nucleare dell'imitazione è
costituito dalle aree del solco temporale superiore e dal sistema di neuroni
specchio (Giro frontale infero posteriore, adiacente corteccia premotoria
ventrale e parte rostrale del lobo parietale inferiore).
20
- L'apprendimento per imitazione avverrebbe attraverso connessioni di questo
circuito nucleare con la corteccia prefrontale dorsolaterale e forse altre aree
premotorie.
- L'imitazione come forma di rispecchiamento sociale avverrebbe attraverso
connessioni di questo circuito nucleare con il sistema limbico.
Simulazione
Aspetto cruciale per la comprensione in prima e terza persona del
comportamento sociale è l'attivazione di centri motori o viscero motori
corticali.
Quando segue anche l'attivazione di centri a valle, si ha lo sviluppo di uno
specifico comportamento che può essere una azione o uno stato emotivo.
Solo quando i centri corticali sono attivi ma disaccoppiati dai loro effetti
periferici, l'azione o l'emozione osservata è simulata e con ciò compresa.
Gallese, Goldman ed al. definiscono quindi questa simulazione come la capacità
cerebrale, basata sulle peculiarità del sistema dei neuroni specchio, di unire
direttamente l'esperienza personale e quella osservata
(prima e terza persona).
Azioni senza carica emotiva possono anche essere comprese senza elicitare la
loro corrispettiva rappresentazione motoria, così come possono essere
riconosciute le emozioni.
Il riconoscimento dell'emozione altrui è fondamentalmente diverso da quello
basato sulla simulazione interna, perché non genera una conoscenza
esperienziale.
Il senso di questa simulazione positiva è sicuramente più vicino al significato
latino di simulare: come se, insieme, simile , e in un certo senso imitare,
rappresentare, darsi l'aspetto .
Può essere considerato un processo finalizzato alla conoscenza, attraverso la
capacità di essere simili all'altro per ottenere una migliore comprensione di una
situazione o di uno stato di cose.
Risulta evidente il nesso con l'empatia.
21
Neuroni specchio e autismo
Nei pazienti autistici, soprattutto nei bambini, il sistema specchio è
ipofunzionante. Non si può ancora concludere se questa sia la base
fisiopatologica dell'autismo o se sia un correlato, come tanti altri disturbi
presenti in questi pazienti.
Questa alterazione neurofisiologica potrebbe spiegare perché le persone
autistiche non partecipino alla vita di tutti gli altri. Non riescono a entrare in
sintonia con il mondo che le circonda, perché non capiscono i gesti altrui.
Secondo Rossi e Rossi Le basi neurologiche dell'empatia trovano riscontro
proprio nelle ricerche sulle disfunzioni del sistema specchio nell'autismo.
Neuroni specchio ed empatia
L'empatia è il processo con cui rappresentiamo il comportamento degli altri
dentro noi stessi, è uno strumento di comprensione del vissuto estraneo,
teoricamente anche a fini machiavellici di difesa.
Il concetto di empatia implica l'integrazione di diversi aspetti, quali percezioni,
esperienze, emozioni, comunicazione non verbale e linguaggio, relazioni,
visione del mondo, storia ed è quindi molto più ampio del semplice concetto di
simpatia che implica la capacità, come modo di vivere, di gioire e soffrire
insieme.
Secondo la definizione iniziale di Edith Stein, designa un genere di atti, nei
quali si coglie l'esperienza vissuta altrui. l'em-patia (Ein- Fühlung ) indica un
atto conoscitivo oppure la somma di atti percettivi, che è rivolto alla
percezione soggettiva dell'altro, alla sua esperienza interiore e perciò anche
alla sua stessa personalità .
"Sentire (fühlen), e in particolare em -patizzare ( ein -fühlen), è un altro
particolare penetrare nel mondo che la persona si rappresenta come tale.
Principali componenti e sinonimi di empatia sono: condividere, partecipare,
comprendere, immedesimarsi, identificarsi, entrare in contatto, comunicare. È
evidente che la vera comunicazione esiste solo quando c'è volontà da parte del
soggetto di scambiare qualcosa ovvero mettere in comune qualcosa.
Empatia per il dolore
Uno studio sperimentale del 2004 con fMRI di Singer ed al. mostra come
alcune strutture dell'insula anteriore e della parte rostrale della corteccia
cingolata anteriore (strutture coinvolte anche nella percezione del dolore e
delle reazioni viscero motorie correlate) implicate nella esperienza e percezione
del disgusto sembrano anche mediare l'empatia per il dolore.
22
Il substrato neurale per l'esperienza empatica del dolore non coinvolge l'intera
neuromatrice del dolore, ma solo una parte della rete neurale, quella associata
alle qualità affettive dell'esperienza, non alle qualità sensoriali.
Danziger ed al. nel 2006 hanno studiato pazienti con insensibilità congenita al
dolore che sono privati dell'esperienza di una comune stimolazione dolorosa,
per capire se queste persone sono in grado di accorgersi del dolore degli altri.
Il grado di immaginazione di situazioni dolorose presentato verbalmente da
questi pazienti mostra che essi hanno una conoscenza semantica riguardo al
dolore delle altre persone che non differisce dai soggetti di controllo e anche la
tendenza a dedurre il dolore dalle espressioni facciali è simile a quella dei
soggetti di controllo.
D'altra parte quando viene loro richiesto di valutare situazioni che inducono
dolore attraverso immagini video prive di qualsiasi comportamento visibile o
udibile correlato al dolore, mostrano una maggiore variabilità di risposta e un
indice di stima del dolore significativamente più basso, così come una riduzione
delle risposte emozionali avverssative, rispetto ai soggetti di controllo.
Nei pazienti con insensibilità congenita al dolore il giudizio del dolore desunto
sia dalle espressioni facciali che dagli eventi che possono causarlo è fortemente
legato a differenze interindividuali nella sensibilità empatica, mentre questa
correlazione fra giudizio del dolore ed empatia non era stata trovata nei
soggetti di controllo.
Il risultato suggerisce che una normale esperienza personale di dolore non è
necessariamente richiesta per percepire e provare empatia per il dolore degli
altri. In assenza di un meccanismo fisiologico di risonanza corporea formato
dalle precedenti esperienze algogene, il dolore di altri potrebbe essere
fortemente sottostimato, specialmente quando i segni emotivi sono mancanti,
tranne nel caso in cui l'osservatore è fornito di sufficiente abilità empatica per
riconoscere completamente negli altri l'esperienza di sofferenza.
Empatia secondo Erickson
Sembra di trovare in ogni aspetto principale del suo pensiero una connessione
ormai non più metaforica con le evidenze neurofisiologiche del sistema a
specchio.
L'alleanza terapeutica che è il fattore aspecifico più importante per il risultato
della terapia poggia sull'esperienza di essere pienamente visti e pienamente
compresi e questo da la percezione di appartenere.
L'osservazione dell'altro anche vista sotto il mero profilo neurologico attiva di
per sè il sistema specchio
23
Rispetto sia in senso etimologico come guardare e ri-guardare, sia nel senso di
accettazione della natura del paziente al quale non viene chiesto di cambiare o
di inserire un nuovo programma neurobiologico.
In questa prospettiva l'empatia è già una terapia e analogamente l'ipnosi.
La vera empatia richiede in senso terapeutico solo interventi autentici
(genuinità, onestà, sincerità) e usata consapevolmente è una operazione da
adulto che permette di cogliere pienamente la presenza dello stato d'animo di
un altro e di stabilire un contatto.
L'osservazione dell'osservazione permette di immedesimarsi e differenziarsi per
mantenere la propria identità. Richiede il superamento del narcisismo.
In senso opposto il sistema specchio potrebbe spiegare perché comportamenti
di commiserazione, consolazione, incoraggiamento o stimolazione,
rassicurazione o una ridefinizione in positivo non sentita, non siano utili a fini
terapeutici, se non francamente dannosi, in quanto risultano artefatti.
Altri aspetti correlati secondo la prospettiva ericksoniana sono: l'accettazione
delle resistenze del soggetto come dono (scambio), utilizzo del vocabolario del
paziente, attenzione ai minimal cues, ricalco, utilizzazione, rispecchiamento,
rapport, tailoring, attenzione focalizzata.
Anche la lettura del pensiero può trovare un substrato esplicativo nel sistema
specchio.
CONCLUSIONI
Un paradigma non necessariamente sostituisce un altro e se la lateralità
emisferica ha perso molta della sua importanza fornisce sempre una metafora
scientifica della mente conscia e inconscia.
In qualche modo un ponte verso lo stato, un riferimento rassicurante per chi,
come me non si sarebbe mai accosto allo studio di una ipnosi che non esiste, di
una ipnosi senza trance. E' facile comprendere, ora che disponiamo di analisi
più sofisticate, che un emisfero (mezzo cervello) è una unità troppo grande per
poter assolvere ad un ruolo funzionale omogeneo, tuttavia resta valida la
dimostrazione che qualcosa cambia tra il prima e il dopo ed è proprio questa
discontinuità che attualmente viene riconosciuta come elemento cruciale
dell'ipnosi.
Dei neuroni specchio si parla molto e l'importanza per il mondo dell' ipnosi è
sicuramente grande. Si vedono ridurre progressivamente le distanze fra le
nostre certezze empiriche e le evidenze biologiche e si aprono nuove
prospettive di comprensione dell'uomo e del pensiero.
24
Probabilmente anche il problema della differenziazione dell'io nel bambino può
trovare una ipotesi esplicativa nella risoluzione del quesito: agisco io o sono gli
altri ad agire? In base al fatto che esistono due attività neuronali praticamente
identiche per l'azione in prima e in terza persona.
Il sistema specchio, infine, sembra unificare nello stesso meccanismo
neuronale un ampia varietà di fenomeni, da comportamenti elementari come
una risposta facilitatoria a funzioni cognitive alte come l'apprendimento per
imitazione, la comprensione dell'azione o altre funzioni cognitive quali la
comprensione del linguaggio.
La domanda iniziale nel lavoro di Danziger: è il dolore il prezzo dell'empatia, si
conclude con l'evidenza che è l'empatia il prezzo per accorgersi del dolore degli
altri, ma questo lo aveva già dimostrato Erickson che con limitazioni fisiche e
sensoriali poteva comprendere e aiutare a sviluppare negli altri ciò che lui
stesso non avrebbe potuto compiere.
Questi studi possono aprire un'opportunità a chi si occupa di ipnosi per
riflettere insieme su un nuovo paradigma, forse più unificante dei precedenti,
basato sul naturale funzionamento dell'essere umano.
Una traccia non nuova ma fino ad ora di difficile obiettivazione, un paradigma
che sottolinea la relazione e il movimento.
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Pain Involves the Affective but not Sensory Components of Pain. Science 303
n. 5661: 1157 - 1162, 2004
29
Sono avvolto nel bozzolo di plastica di una macchina MRI, uno
strumento che misura l’attività di diverse zone del cervello.
Mentre provo a stare fermo, la rumorosa macchina effettua
una scansione strutturale per individuare la corteccia
cingolata anteriore e l’insula, le aree cerebrali coinvolte nello
sviluppo del dolore.
Un computer trasforma il segnale MRI in
tre piccoli fuochi animati, rappresentanti i livelli d’attività della
corteccia cingolata e delle parti destra e sinistra dell’insula,
che vengono proiettati su uno schermo di fronte a me.
Io mi concentro per alimentare o far scemare questi fuochi,
usando solo il mio pensiero. Mentre lo faccio, la MRI misura i
cambiamenti del flusso sanguigno in determinate parti del mio
cervello. Gli schemi di flusso ematico dicono al computer
come si modifica l’attività neurale.
Nel tentativo di controllare
le dimensioni dei fuochi sto in ogni caso cercando di
condizionare l’attività cerebrale nella corteccia cingolata
anteriore e nell’insula e indirettamente di eliminare i continui
dolori alla schiena che mi affliggono da diversi anni.
A verificare i miei progressi è presente Christopher
deCharms, neuroscienziato e fondatore di Omneuron, una
startup di Menlo Park, in California. DeCharms ha trascorso
gli ultimi cinque anni a sviluppare tecniche di imaging da
utilizzare per insegnare ai pazienti a tenere sotto controllo le
loro attività cerebrali.
I cambiamenti dell’attività neurale in
genere avvengono in modo inconscio, mentre diverse aree
del cervello sono impegnate a eseguire compiti o a elaborare
stimoli. I neuroni nel circuito linguistico iniziano ad attivarsi,
per esempio, quando si ha una conversazione con un amico.
Quando si guarda un film che mette paura, i neuroni
nell’amigdala, una zona coinvolta nelle emozioni, si attivano
con maggiore frequenza.
In ogni caso riuscire a controllare
coscientemente questi cambiamenti – rallentando l’attività in
specifiche aree cerebrali – potrebbe teoricamente rivelarsi
utile per il trattamento non solo del dolore, ma anche di
malattie come la depressione o persino l’ictus.
30
L’applicazione
di questo tipo di controllo è complessa, anche se appare
un’alternativa ai farmaci più avanzata e meno legata a effetti
collaterali.
Fino a qualche anno fa, il controllo selettivo dell’attività
cerebrale era solo un’idea provocatoria. Ma la fMRI, una
nuova versione di risonanza magnetica funzionale, ha per la
prima volta reso visibile in tempo reale l’attività cerebrale. La
tecnologia era esattamente ciò di cui aveva bisogno
deCharms.
Il neuroscienziato e il suo collaboratore Sean
Mackey, condirettore della Pain Management Division alla
Stanford University, hanno già dimostrato che la loro tecnica
funziona, almeno nel breve periodo.
A dicembre del 2005,
hanno pubblicato i risultati del loro primo studio nella
rivista ‹‹Proceedings of the National Academy of Sciences››,
mostrando che soggetti sani e pazienti con dolori cronici
possono imparare a controllare l’attività cerebrale – e il
dolore – usando la fMRI in tempo reale.
‹‹Esistono potenzialmente decine di malattie del cervello e del
sistema nervoso provocate da un livello inappropriato di
attivazione cerebrale in aree differenti››, sostiene deCharms.
Egli avverte che il feedback fMRI non è ancora pronto per
l’uso clinico, in quanto sono in attesa della conferma dei loro
risultati nelle sperimentazioni a lungo termine.
Ma anche se il
suo obiettivo finale è una efficace terapia del dolore,
deCharms sta applicando la sua tecnica a pazienti con disturbi
d’ansia. Altri scienziati hanno predisposto o stanno
pianificando studi pilota di feedback fMRI per curare la
depressione, l’ictus, la sindrome da deficit di attenzione e
iperattività (ADHD, attention deficit hyperactivity disorder) e i
disturbi da stress post traumatico.
La gestione del dolore
Negli anni 1990 DeCharms era ancora uno studente
dell’Università della California, a San Francisco, quando
cominciò a studiare come le connessioni neurali nel cervello
crescessero e si modificassero con l’esperienza: un fenomeno
definito neuroplasticità.
31
I neuroscienziati sapevano che
allenando costantemente alcune aree cerebrali si potevano
ottenere cambiamenti permanenti nei complessi circuiti
neurali responsabili, per esempio, dell’udito o della visione.
DeCharms ha ipotizzato che rafforzando o rallentando
coscientemente l’attività neurale in specifiche zone del
cervello coinvolte nella malattia, i pazienti potrebbero
controllare alcuni dei loro sintomi e forse introdurre
cambiamenti positivi nelle loro menti.
DeCharms ritiene che i
pazienti che soffrono di depressione potrebbero, per esempio,
essere in grado di usare il feedback fMRI per imparare a
controllare i neuroni che rilasciano la molecola segnale
serotonina e probabilmente le cellule su cui agisce la
serotonina.
Si potrebbero conseguire gli stessi effetti di
farmaci come il Prozac – l’aumento della quantità di
serotonina disponibile nel cervello – ma senza produrre effetti
collaterali.
‹‹Se si sta imparando un nuovo tipo di danza, la prima cosa
da fare è capire come muoversi nel modo migliore. Si utilizza
il sistema muscolare, che diventa man mano più forte››,
afferma deCharms. ‹‹Infine il corpo subisce una modifica. Si
tratta di un effetto che permane nel tempo, anche quando
non si sta provando coscientemente››.
Un elemento decisivo
per rafforzare con accuratezza la muscolatura per la danza è,
naturalmente, avere un feedback sulla propria prestazione:
nei corsi di danza si trovano sempre specchi sulle pareti.
DeCharms ha ritenuto che lo stesso processo potesse
funzionare nel cervello, nel caso egli avesse trovato un
sistema per misurare l’attività cerebrale in modi
sufficientemente rapidi e precisi per permettere ai pazienti di
imparare a controllarla e ottenere i risultati desiderati.
L’idea di usare il feedback mentale non è nuova. Per 30 anni
gli scienziati hanno usato gli elettroencefalogrammi (EEG) –
una tecnologia che misura l’attività elettrica del cervello – per
indurre le persone a eliminare o mantenere un particolare
tipo di schema elettrico.
32
I risultati di alcuni studi preliminari
indicano che questo allenamento è alquanto efficace per la
cura dell’ADHD e dell’abuso di sostanze, anche se
sperimentazioni estese e placebo controllate non sono ancora
state completate.
Ma considerato che la tecnologia EEG
raccoglie l’attività elettrica su diverse aree cerebrali, la sua
utilità per il feedback specifico è limitata. DeCharms aveva
come obiettivo quelle strutture cerebrali anatomicamente
minuscole coinvolte nella malattia e nelle sensazioni come il
dolore.
A differenza dell’EEG, la fMRI misura il flusso ematico in
precise aree del cervello, consentendo una risoluzione
spaziale molto più accurata.
La tecnologia di imaging mostra
quali aree stanno lavorando maggiormente durante lo
svolgimento di un compito specifico e può anche evidenziare
quali zone del cervello funzionano in modo anormale in
determinate malattie.
Ma per deCharms è stato lo sviluppo
della fMRI in tempo reale a rappresentare il punto di svolta.
La fMRI genera una quantità enorme di dati, che potevano
richiedere giorni o settimane per l’analisi e l’interpretazione.
Nuovi algoritmi e una maggiore potenza di calcolo hanno
abbattuto i tempi di elaborazione a qualche millisecondo. Ciò
significa che gli scienziati – e chi si sottopone all’analisi –
possono vedere l’attività cerebrale in tempo reale.
Per deCharms e i suoi collaboratori questo tipo di fMRI
rappresenta uno strumento formidabile, in quanto hanno
teorizzato che le persone con disturbi psicologici o neurologici
possono effettuare esercizi mentali per modulare l’attività in
sistemi neurali specifici che non funzionano bene e ricevere
un feedback immediato sulle strategie che si dimostrano più
efficaci, utilizzandole successivamente per sentirsi meglio.
Le tigri e il dolore
Ho sofferto di dolori cronici alla schiena per cinque anni, con
sintomi persistenti malgrado una serie di terapie: grandi
quantità di ibuprofen con rischio per lo stomaco, prescrizioni
di antidolorifici che procuravano giramenti di testa e
stordimento, lunghi incontri di carattere ergonomico e mesi di
terapia fisica e agopuntura.
33
Il mio problema non è fuori del
comune. Circa 50 milioni di americani soffrono di dolori
cronici e per una larga parte di questi pazienti le terapie
esistenti sono inadeguate.
Il dolore è un fenomeno complesso.
Esso dipende sia da segnali neurali che si
generano durante il danneggiamento dei tessuti, come
quando si impugna un piatto bollente, sia da un sistema di
livello superiore che interpreta questi segnali sotto forma di
esperienza dolorosa; un’interpretazione che può essere
alterata dalle emozioni e dal livello di attenzione.
Per
esempio, i soldati feriti sul campo di battaglia spesso non
comprendono l’entità delle loro ferite fino a che non sono
fuori pericolo. Pertanto, mentre il dolore è una forma di
adattamento che si è evoluta per aiutarci a evitare i danni
fisici, le nostre menti hanno sviluppato un sistema sofisticato
per evitarlo.
‹‹È necessario saper sfuggire a una tigre, anche
se si è feriti››, spiega deCharms.
Il fondatore di Omneuron ha scelto il dolore per sperimentare
la tecnologia fMRI in tempo reale, in parte perché è un tema
di larga popolarità e in parte perché il circuito neurologico
sottostante è ben conosciuto.
I farmaci oppioidi, come la
morfina, bersagliano chimicamente questi neuroni. Gli
stimolatori impiantabili, che possono rappresentare una
barriera efficace per il dolore, prendono di mira il circuito con
piccole scosse elettriche. In realtà deCharms voleva provare
a intervenire sul sistema in modo cosciente, attraverso i
processi cognitivi.
In un articolo dello scorso dicembre apparso sulla rivista della
National Academy, deCharms, Mackey e i loro collaboratori
hanno descritto una sperimentazione in cui i partecipanti
apprendevano una serie di esercizi mentali derivati da
strategie utilizzate nelle cliniche del dolore.
Per esempio,
veniva chiesto loro di immaginare la sensazione del rilascio
delle loro menti di composti analgesici nella area sofferente o
di immaginare che i loro tessuti doloranti fossero sani come
una qualsiasi parte dell’organismo priva di dolore.
34
I soggetti
sottoposti agli scanner MRI indossavano occhiali speciali per
la realtà virtuale che mostravano l’attività nella corteccia
cingolata anteriore, la parte di cervello coinvolta nella
sensazione dolorosa. Le istruzioni chiedevano loro di
aumentare o diminuire l’attività eseguendo gli esercizi
previsti. I dati della MRI fornivano loro un feedback diretto sul
livello di funzionamento delle loro strategie mentali,
consentendo ai soggetti di operare aggiustamenti progressivi
della loro tecnica. Alcuni partecipanti hanno appreso
velocemente i ‹‹trucchi››, mentre altri hanno avuto bisogno di
diverse sessioni per mettere a punto metodi di controllo
appropriati.
Otto pazienti con dolori cronici che non subivano
miglioramenti con le terapie tradizionali hanno registrato,
dopo il periodo di formazione, una diminuzione del dolore dal
44 al 64 per cento, ossia tre volte la riduzione di dolore
conseguita dal gruppo di controllo.
Coloro che hanno
esercitato il controllo maggiore sull’attività mentale hanno
ottenuto i vantaggi più grandi.
I ricercatori hanno anche previsto una elaborata serie di
controlli per mostrare che i risultati non riflettevano
semplicemente l’effetto placebo o un sottoprodotto del
processo sperimentale.
Per esempio, i soggetti che non
utilizzavano il feedback fMRI, ma venivano istruiti a
concentrare (e a distogliere) la loro attenzione sui loro dolori
non hanno provato alcuna sensazione di sollievo.
Né i pazienti
che hanno sperimentato il feedback fMRI in un'altra parte del
cervello, né quelli che lo hanno esercitato sulla corteccia
cingolata anteriore di un’altra persona hanno ottenuto
vantaggi. ‹‹Se l’aspettativa o l’essere sottoposti a una
scansione esercitavano un condizionamento … allora i gruppi
di controllo avrebbero dovuto mostrare un risultato simile››,
sostiene deCharms.
I ricercatori hanno anche condotto test in
cui ai pazienti con dolori cronici venivano forniti dati di
biofeedback più tradizionali, come il battito cardiaco o la
pressione del sangue. Solo i pazienti che hanno ricevuto il
feedback fMRI hanno avuto una riduzione significativa del
dolore.
35
Comunque, alcuni scienziati dicono che non è ancora chiaro
che tipo di ruolo giochi l’attenzione o persino
l’emozione. ‹‹L’esperienza ci insegna che le persone sono
talmente coinvolte nel compito da non sapere neanche quanto
tempo rimangono nella [MRI]››, spiega Seung-Schik Yoo, un
neuroscienziato della Harvard University che si occupa della
fMRI in tempo reale. ‹‹Se qualcuno è così assorbito in quello
che sta facendo, può anche dimenticare di prestare
attenzione al dolore››. Inoltre, il successo nel controllo dei
livelli d’attività mostrati sugli schermi potrebbe ulteriormente
distrarre il paziente dal dolore.
‹‹Se funziona bene, il tempo
vola››, continua Yoo. ‹‹Se non va bene, subentra un senso di
frustrazione››.
Egli aggiunge che il modo migliore per stabilire
se i soggetti del test stanno permanentemente agendo sulle
loro menti saranno le sperimentazioni cliniche a lungo
termine, come quelle in svolgimento di deCharms e Mackey.
In ogni caso, conclude Yoo, ‹‹il loro lavoro ha spianato la
strada al controllo del dolore con l’uso della nuova tecnica››.
Il potere è nella nostra mente
Quando ho parlato a mio padre del mio viaggio a Omneuron,
egli mi ha fatto una domanda che deCharms ha sempre avuto
ben chiara. Se la mente può esercitare un controllo sul
dolore, che necessità c’è del feedback MRI?
Non dovrebbe la
presenza o l’assenza del dolore essere un feedback
sufficiente?
La risposta più sintetica è no. ‹‹Nessuna altra tecnica che
coinvolge il feedback è riuscita a fare bene questo tipo di
operazione››, sostiene Peter A. Bandettini, direttore
dell’impianto centrale per l’fMRI ai National Institutes of
Health, a Bethesda, in Maryland. Secondo Bandettini,
comprendere l’efficacia del feedback fMRI è uno dei grandi
compiti da svolgere.
Egli ritiene che la risposta è parzialmente
legata al modo in cui l’fMRI individua alcune aree precise del
cervello. Ma anche in questo caso rimane ugualmente aperto
un serio problema: come fa il paziente a manipolare
realmente le attività di queste aree?
36
Come controlla i livelli di
attività? ‹‹Le persone riescono a intervenire sui meccanismi di
attivazione, ma non sanno esattamente cosa fanno››, egli
spiega. ‹‹Credo che con una migliore comprensione del
funzionamento di questo tipo di controllo, la tecnica diventerà
applicabile su larga scala››.
Mackey spera di scoprire i sistemi neurali responsabili degli
effetti antidolorifici. È possibile che l’attivazione della corteccia
cingolata anteriore porti al rilascio di sostanze chimiche come
le endorfine, un analgesico naturale prodotto dal cervello. In
realtà il processo potrebbe essere simile a quello che causa
l’effetto placebo.
La somministrazione del placebo può avere
un effetto profondo sul dolore e su determinate malattie,
particolarmente la depressione, arrivando a indurre
cambiamenti nel cervello.
Alcuni studi recenti mostrano che
finti analgesici possono stimolare il rilascio di endorfine e
attivare la corteccia cingolata anteriore, la stessa area
cerebrale in esame nelle ricerche sul feedback. Secondo
deCharms, il feedback fMRI è un modo per controllare
coscientemente questo processo.
Anche se sono incerti sui meccanismi che si celano dietro il
feedback fMRI, i ricercatori biomedici sono decisamente
impegnati a esplorarne le potenzialità. ‹‹I risultati
dell’esperimento di deCharms sono talmente incoraggianti
che molti vorranno immediatamente unirsi al carro della
ricerca››, dice Bandettini.
Tom Wager, uno psicologi della
Columbia University, aggiunge: ‹‹il settore del neurofeedback
è aperto a tutti i contributi… abbiamo bisogno di più studi per
esplorare fino a che punto le persone possono sfruttare le
loro potenzialità››.
I possibili sviluppi subiranno un ulteriore
impulso quando i neuroscienziati si concentreranno sulle aree
cerebrali responsabili delle diverse funzioni e delle anormalità
specifiche legate a malattie differenti.
Molti esperti sostengono comunque che è ancora troppo
presto per stabilire il reale potenziale terapeutico. ‹‹Saranno
gli studi a indicare se il feedback agisce positivamente››,
afferma John Gabrieli, un neuroscienziato del MIT che ha
collaborato con deCharms e sta ora pianificando alcune
37
sperimentazioni del feedback fMRI per l’ADHD.
‹‹Dobbiamo
definire quali malattie sono aggredibili con questa tecnica,
quanto a lungo durano gli effetti e il contesto che consente di
agire nel modo migliore››. Ovviamente, come in qualsiasi
sperimentazione di una nuova tecnologia, i risultati devono
essere replicati in altri laboratori.
È possibile che alcune parti del cervello siano più sensibili al
controllo cosciente di altre e queste differenze potrebbero
limitare il numero di aree che rispondono al feedback fMRI.
La corteccia cingolata anteriore, per esempio, potrebbe
risultare più semplice da controllare perché è coinvolta
nell’attenzione, un processo che moduliamo attivamente
durante il giorno, quando lavoriamo o sogniamo a occhi
aperti, leggiamo o guardiamo la televisione.
Malattie come la
depressione o le fobie sociali, che possono efficacemente
essere curate con terapie comportamentali, si presentano
come buoni candidati per il feedback fMRI, dice Gabrieli.
Yoo spera invece di dimostrare che il feedback fMRI favorisce
la riabilitazione in caso di ictus o altri danni cerebrali. I
pazienti perdono spesso l’uso di una particolare funzione,
come il linguaggio o parte della visione, quando una lesione
distrugge un gruppo di neuroni.
Qualche volta il cervello
rimedia da solo, spontaneamente o attraverso l’esercizio,
sostituendo i neuroni mancanti con quelli vicini. In genere
questo processo avviene in modo incosciente, ma Yoo
sostiene che il feedback fMRI potrebbe insegnare al paziente
come attivare coscientemente le aree da rigenerare.
Tra le possibilità terapeutiche più stimolanti spicca la
combinazione del feedback fMRI con la terapia cognitiva
comportamentale, una forma popolare di terapia colloquiale
in cui il paziente apprende come modificare atteggiamenti di
pensiero negativi.
Durante una sessione standard, un
paziente parla al terapista di un evento che gli provoca ansia
e poi fa uso di esercizi mentali specifici per ritrovare la calma.
38
Nella versione che deCharms e collaboratori stanno
sperimentando, un paziente si ritrova nella macchina di
scansione e comunica con un terapista nella stanza accanto
attraverso un microfono.
Durante l’incontro, il terapista e il
paziente possono entrambi vedere l’attività cerebrale del
paziente. Usando questa informazione, il paziente può
provare coscientemente a intervenire sui picchi d’attività che
subiscono i ‹‹fuochi› in presenza di crisi d’ansia.
Una lezione dolorosa
Prima di sottopormi alla fMRI nel laboratorio di deCharms, mi
alleno con alcuni esercizi mentali che in genere egli insegna a
chi effettua la scansione.
Immagino il mio cervello che rilascia
endorfine, i loro segnali antidolorifici che viaggiano lungo il
mio midollo spinale per raggiungere il fondo della mia
schiena. Per aumentare il mio dolore, immagino di essermi
ustionato alla schiena (cercare di aumentare il proprio dolore
può sembrare controproducente, ma deCharms teorizza che
riuscire a modulare il dolore in entrambe le direzioni
garantisce ai pazienti un controllo maggiore sull’attività
mentale).
Sono stupefatto di quanto rapidamente possa far
crescere le mie sensazioni dolorose.
Ora che sono all’interno dello scanner, lo schermo mi indica di
provare ad aumentare o diminuire la grandezza dei fuochi
che rappresentano la mia attività cerebrale.
Faccio quello che
mi viene detto, tentando di prestare contemporaneamente
attenzione al mio dolore e allo schermo sulla mia testa.
I fuochi crescono e scemano leggermente, a volte covando
sotto la cenere, a volte bruciando a un ritmo costante. Il mio
dolore è lieve e non è semplice dire se i fuochi guizzano
casualmente o seguendo la mia volontà.
Per quanto mi sforzi
a spengere le fiamme o ad alimentarle, per la maggior parte
del tempo il fuoco brucia lentamente.
Dopo circa 15 minuti, la voce del tecnico prorompe attraverso
l’altoparlante e mi comunica che la mia prima sessione è
finita; con mia sorpresa, ho raggiunto una qualche forma di
controllo.
39
Sullo schermo viene proiettato un semplice grafico
che mette a confronto l’attività nella corteccia cingolata
anteriore nei periodi in cui ho cercato di alimentare il fuoco e
di limitarlo. La differenza tra le linee appare evidente.
Quando il tecnico mi domanda se voglio partecipare a un’altra
sessione, rispondo di sì, determinato a fare ancora meglio.
Durante questa prova adotto nuove strategie mentali, come
suggerito da deCharms come metodo per scoprire la tecnica
più funzionale. Invece di immaginare le endorfine rilasciate
dal mio cervello, mi concentro sul tessuto sano della mia
mano e provo a pensare che la mia schiena sia priva di
dolore. I fuochi sullo schermo tremolano e brillano, mentre io
sono convinto di avere acquisito un maggior controllo sulla
mia attività neurale.
Qualche settimana dopo, alla vista dei
risultati ufficiali ho scoperto che la mia sensazione era giusta.
Ho avuto una prestazione migliore nella seconda sessione,
controllando con successo l’attività nelle regioni destra e
sinistra dell’insula.
DeCharms vuole ora mettere a punto i sistemi più avanzati
per insegnare il feedback fMRI; se le sperimentazioni a lungo
termine confermeranno i risultati iniziali del suo gruppo e la
FDA statunitense approverà la terapia, egli prevede di aprire
delle cliniche apposite.
Come un ballo complesso, la tecnica
non è facile da apprendere e alcune persone sono
naturalmente più predisposte di altre.
‹‹È importante capire
chi ha questa predisposizione e come rendere tutto più
semplice››, sostiene deCharms. Il suo gruppo sta lavorando a
nuovi sistemi per raffigurare l’attività mentale e rendere
quindi il feedback più efficace.
Il grafico dei fuochi utilizzato
nella mia sessione, per esempio, è un’aggiunta relativamente
recente. I ricercatori stanno anche conducendo estesi
screening psicologici per valutare se le persone che
apprendono facilmente come controllare la loro attività
mentale possiedono caratteristiche particolari.
40
Uno dei fattori
principali sarà probabilmente la motivazione. Il feedback in
qualche modo assomiglia a un esercizio, sebbene in una
singolare versione mentale, e richiede pertanto volontà e
impegno.
Il mio esame è durato solo un pomeriggio e non sono in
grado di dire se il mio dolore ne abbia tratto giovamento.
Ma ho avuto la sensazione di controllare alcune parti del mio
cervello.
E al di là dei risultati più o meno positivi, dopo due
ore nello scanner, sono perfettamente cosciente della mia
schiena.
41
IL DOLORE
•
Per cominciare
Il dolore viene definito come una spiacevole esperienza sensitiva o emotiva
associata ad un danno tissutale attuale o potenziale o che può essere descritta
in termini di tale danno.
Molto di ciò che si sa sui meccanismi del dolore deriva da ricerche effettuate su
animali, dove le componenti affettive sono poco chiare; per questa ragione si
preferisce, in fisiologia, parlare di nocicezione, che si definisce come il processo
per cui le informazioni relative ad un danno tissutale vengono trattate dal
sistema nervoso fino a raggiungere la coscienza, probabilmente a livello
corticale.
Si tratta di una distinzione importante, in quanto il danno tissutale, almeno
nell'uomo, non è inevitabilmente collegato a dolore, come si verifica quando
esso si instaura in situazioni stressanti, come durante lo svolgimento di
un'attività sportiva o in guerra.
Il danno tissutale
provoca la liberazione di
varie molecole e ioni che
attivano i nocicettori.
Questi, tramite riflessi
asso-assonici,
determinano la
liberazione di sostanza P.
Questa provoca
vasodilatazione ed
edema e induce la
liberazione di istamina
da parte dei mastociti.
Modificato da "Principi di Neuroscienze". Ambrosiana, L'istamina stimola i
nocicettori creando, così,
1994.
un circolo chiuso.
42
Meccanismo di controllo spinale della
trasmissione delle informazioni nocicettive
da parte di quelle somatiche non
nocicettive.
Le fibre C (nocicettive) agiscono sul
neurone di ritrasmissione talamica sia
direttamente che inibendo un interneurone
inibitorio, con la conseguente dis-inibizione
del neurone spino-talamico ed incremento
della sua scarica. Questo sistema amplifica
la trasmissione dell'informazione
nocicettiva.
Le fibre non nocicettive, invece, stimolano
l'interneurone inibitorio che, così attivato,
inibisce il neurone di ritrasmissione, che
riduce la sua scarica. Questo sistema riduce
l'entità della trasmissione spino-talamica.
Se l'attivazione delle fibre non nocicettive
Modificato da "Neuroscienze.
Esplorando il Cervello". Zanichelli, (stimoli meccanici, ad esempio: tatto,
pressione, sfregamento, massaggio)
1999.
avviene quando le fibre C sono attive, si
può avere riduzione della trasmissione
spino-talamica, con conseguente
alleviamento della sensazione nocicettiva.
Sindrome dell'arto fantasma.
A: sul volto di questo paziente
cui è stata amputata una
mano, sono stati riportati i siti
cutanei la cui stimolazione
evocava sensazioni localizzate
ben delimitate che venivano
riferite alle dita dell'arto
mancante (fantasma). 4
settimane dopo l'amputazione.
B: in questo caso, le
sensazioni riferite
compongono due mappe
distinte, una in corrispondenza
della linea di amputazione e
Modificato da "Fondamenti delle Neuroscienze e l'altra al di sopra della piega
43
del Comportamento". Casa Editrice
Ambrosiana, 1999
del gomito. Nella mappa
superiore manca l'estremità
delle dita.
Veduta d'insieme dei sistemi motori
•
Organizzazione e ri-organizzazione corticale del movimento dopo lesioni
spinali
La corteccia motoria primaria è la regione corticocerebrale attraverso la quale i
sistemi sensoriali superiori e quelli "associativi" influenzano il movimento.
I gangli della base ed il cervelletto sono le principali componenti dei due più
importanti circuiti sottocorticali dei sistemi motori. Entrambi ricevono forti
proiezioni dalla corteccia cerebrale e vi riproiettano attraverso il talamo.
Le due strutture, però, si differenziano sostanzialmente per:
I gangli della base ricevono afferenze da tutta la corteccia cerebrale, mentre il
cervelletto le riceve solo dalle regioni che svolgono funzioni sensitivo-motorie e
ne riceve anche dalla periferia corporea.
Il cervelletto proietta, tramite il talamo, alla corteccia premotoria ed alla
corteccia motoria, mentre i gangli della base proiettano anche alla corteccia
associativa prefrontale.
Il cervelletto riceve informazioni somatosensitive direttamente dal midollo
spinale ed ha connessioni con molti nuclei del tronco dell'encefalo, mentre i
gangli della base non hanno connessioni col midollo spinale e ne hanno di
molto scarse col tronco dell'encefalo.
Gangli della base
I Gangli della base sono un insieme di nuclei di sostanza grigia costituiti da:
nucleo caudato e putamen (striato dorsale o neostriato -NS), il segmento
interno e quello esterno del globus pallidus (GPi e GPe), la pars reticulata e
quella compacta della substantia nigra (SNr e SNc) ed il nucleo subtalamico.
Il neostriato è la principale porta di ingresso dei gangli della base e riceve fibre
da tutta la corteccia cerebrale e dai nuclei intralaminari del talamo. La
principale uscita dai gangli della base si ha dal segmento interno del globus
pallidus e dalla pars reticulata della substantia nigra verso i nucleo ventrale
anteriore e ventrale laterale del talamo (VA e VL), che a loro volta proiettano
alla corteccia premotoria (PMC), all'area motoria supplementare (SMA) ed alla
corteccia prefrontale Vi è, inoltre, una proiezione al tronco dell'encefalo,
specialmente al nucleo peduncolo-pontino (PPN), coinvolta nella locomozione
ed al collicolo superiore, coinvolta nei movimenti oculari.
44
I gangli della base hanno anche numerosi circuiti, al loro interno, che sono
importanti per varie funzioni. Uno di questi è un circuito striato-nigro-striatale
con l'ultimo segmento dopaminergico. Quando questa via degenera si ha il
Morbo di Parkinson.
Principali circuiti
cortico-striatocorticali ed intrastriatali.
Modificato da "Fondamenti delle Neuroscienze e del
Comportamento". Casa Editrice Ambrosiana, 1999
Sistema Nervoso Autonomo
Il Sistema Nervoso Autonomo (SNA) comprende l'insieme di cellule e fibre che
innervano gli organi interni e le ghiandole, svolgendo funzioni che
generalmente sono al fuori del controllo volontario.
La vie efferente (dal Sistema Nervoso Centrale agli organi innervati) è sempre
costituita da due neuroni (mentre quella del Sistema Nervoso Somatico è
costituita da un neurone solo: il motoneurone): un neurone pregangliare con il
corpo cellulare nel SIstema Nervoso Centrale ed un neurone postgangliare, con
45
il corpo cellulare al di fuori di esso, in un ganglio o nella parete stessa del
viscere innervato. Il Sistema Nervoso Autonomo è suddiviso in tre branche:
ortosimpatico, parasimpatico ed enterico, e le ultime due hanno generalemte
un'qazione antogonista rispetto alla prima, quando innervano lo stesso organo.
Il controllo che il Sistema Nervoso Centrale esercita su quello Autonomo è
complesso e coinvolge numerose strutture troncoencefaliche e l'ipotalamo. Le
principali regioni ipotalamiche coinvolte nel controllo del SNA sono l'area
ventromediale perl l'ortisimpatico e quella laterale per il parasimpatico. Il
controllo ipotalamico si esercita tramite diverse strutture troncoencefaliche tra
cui la sostanza grigia periacqueduttale e parte della formazione reticolare.
Organizzazione del
Sistema Ortosimpatico
Modificato da "Principi di Neuroscienze". Ambrosiana,
1994.
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Schema del Sis
Potenziamento a lungo termine
(Long Term Potentiation: LTP)
Il potenziamento a lungo termine (Long Term Potentiation: LTP) è un aumento
della forza della trasmissione sinaptica che si verifica con l'uso ripetitivo della
stessa e che può durare fino ad alcuni minuti. Nell'ippocampo può essere
attivata da meno di 1 secondo di intensa attività sinaptica e può durare ore o
anche molto di più. Può essere indotta in vari luoghi del cervello, ma
soprattutto nell'ippocampo ed è stato quindi suggerito che possa essere
coinvolta nella memoria. Anche se meccanismi diversi possono essere
responsabili della LTP in sinapsi diverse, la maggior parte del lavoro
sperimentale è basato sulle sinapsi eccitatorie (glutammato) nel campo CA1
dell'ippocampo che contengono i recettori NMDA (N-metil-D-aspartato).
Il modello coorente della LTP prevede le seguenti fasi:
1) una scarica di potenziali d'azione porta a liberazione di glutammato dalla
terminazione presinaptica
2) il glutammato liberato si lega a recettori sia NMDA che non-NMDA (AMPA:
Alpha amino-3-hydroxy-5-Mehyl-4-isoxazole proprionic acid) della membrana
postsinaptica. Questi ultimi determinano un ingresso di ioni Na
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3) che depolarizzano la membrana postsinaptica
4) la depolarizzazione della membrana post-sinaptica porta non solo ad un
EPSP, ma anche ad una uscita degli ioni Mg attraverso i canali ionici associati ai
recettori NMDA
5) Normalmente, gli ioni Mg bloccano i canali ionici associati ai recettori NMDA,
così la loro rimozione consente un ulteriore ingresso di ioni Na e Ca nella
terminazione post-sinaptica
6) l'ingresso di ioni Ca porta alla attivazione di una protein-chinasi
postsinaptica, che è responsabile della induzione iniziale della LTP, che è quindi
un evento post-sinaptico
7) Il mantenimento della LTP, oltre a richiedere la persistente attivazione della
protein-chinasi, necessita probabilmente di una modifica della liberazione del
neurotrasmettitore: cioè un aumento della sua liberazione in risposta ad un
dato impulso afferente. Se si ammette l'esistenza di una modifica presinaptica,
bisogna anche ammettere che la terminazione post-sinaptica produca un
messaggero diffusibile che agisca sul terminale presinaptico. Candidati a
svolgere questo ruolo sono i metaboliti dell'acido arachidonico, l'ossido nitrico,
il monossido di carbonio ed il fattore di aggregazione piastrinica.
Il alcune circostanze è anche possibile evocare, nelle sinapsi delle fibre
rampicanti del campo CA3 una depressione a lungo termine (Long Term
Depression: LTD), probabilmente mediata da recettori metabotropici
presinaptici del glutammato.
Plasticità e fattori neurotrofici: sistema nervoso periferico
Il danneggiamento di un nervo periferico, se sufficientemente grave, causa
danni permanenti che consistono in perdita della sensibilità, ipotrofia e
debolezza muscolare. In molti casi, però, il nervo è in grado di ripararsi, in
quanto gli assoni periferici sono in grado di ricrescere, sotto l'influenza
dell'ambiente favorfevole determinato dalla presenza delle cellule di Schwann.
Ciò non si verifica nel Sistema Nervoso Centrale dove la glia (astrociti e
oligodendrociti) esercitano generalmente un'azione inibitoria sulla crescita
assonica, pur se la maggior parte dei neuroni del Sistema Nervoso Centrale
sarebbe capace di generare nuovi assoni.
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RIFLESSIONI SUL DOLORE
di Andrea Bolognesi
Come in altri casi anche nella definizione del DOLORE, i Greci hanno due
"parole-chiave" che racchiudono mirabilmente il senso profondo di questo
concetto,che è prima di tutto un'ESPERIENZA; le parole sono ALGOS e
PATHOS.
La prima ci riporta a una dimensione fisica e percettiva del dolore e,sul piano
neurologico,al sistema efferente e al concetto di SOGLIA ALGICA;la seconda
invece allarga il senso alla sofferenza emotiva e psichica,rimandandoci alla
neocorteccia e al talamo. Il dolore ci appare come "prezioso alleato" dell'uomo,
in quanto meccanismo di difesa PRIMARIO nei confronti dell'ambiente
interno/esterno.
Pensiamo al dramma dei bambini (fortunatamente rarissimi) che nascono con
la Sindrome da Analgesia Congenita e quasi mai superano i 10 anni di
vita,proprio perchè privati del meccanismo di Difesa/Dolore, e quanto invece
sia meno grave la condizione opposta,cioè l'Iperalgesia o Allodinia, compatibile
con la vita.
Dicevo il DOLORE come ESPERIENZA,che non si lascia facilmente DEFINIRE per
le innumerevoli sfumature di carattere antropologico,socioculturale,storico,religioso di cui questa esperienza si è andata arricchendo nelle
varie epoche e nei vari popoli. Qualche esempio per chiarire:
-In certe popolazioni dell'India, quando una donna deve partorire, il suo uomo
viene trattato come partoriente e la donna continua a lavorare nei campi, non
sentendo alcun dolore.Ciò smentisce l'acquisizione del dolore da parto come il
più intenso dei dolori possibili.
dolore del martire religioso che canta mentre è crocifisso o del torturato che
non versa una lacrima,non sarebbero certo sopportati senza quell'anelito ideale
che rende queste esperienze ESTREME di PATHOS come "DOLOREPARTECIPAZIONE" o "DOLORE-COMUNIONE" nel sacrificio, sganciandole
completamente da ogni meccanismo neurofisiologico.
Dolore come RITO DI INIZIAZIONE nel passaggio all'età adulta o in uno stato
sociale particolare (la circoncisione negli ebrei, la castrazione per gli eunuchi
dell'Impero Ottomano, i samurai giapponesi, i riti tribali africani).
Questa modalità esperienziale non può certo rientrare nel concetto di
Dolore/Malattia,poichè è un dolore provocato e investito di potente pregnanza
simbolica. Questi esempi, e se ne potrebbero citare tantissimi altri, bastano da
soli a rendere malferme le strutture categoriali che l'Occidente si è dato per
definire e classificare il dolore,e ci dimostrano quanto sia minoritario un
approccio riduzionistico, se confrontato con l'estrema complessità di cui il tema
del Dolore si arricchisce nel resto del pianeta.
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Il DOLORE/MALATTIA, di cui noi medici in definitiva ci occupiamo, tende
invece, ad un primo approccio, ad azzerare le sfumature etniche o socioculturali e non può essere affrontato se non da TECNICHE, che nella loro
operatività saranno magiche, rituali, sciamaniche, farmacologiche o
chirurgiche, riattingendo cos di nuovo a matrici culturali.
La STORIA del Dolore e della sua terapia nasce all'interno di concezioni
MAGICHE (Egizi,Assiri,Babilonesi,Grecia Arcaica),secondo le quali ilDolore era
dovuto alla penetrazione del corpo da parte di un demonio, un fluido o un
oggetto malefico, che quindi andava estirpato praticando spesso delle piccole
ferite al malato per far fuoriuscire lo "spirito maligno". Tali concezioni vennero
messe in crisi intorno al 400 a.C. da IPPOCRATE, primo vero "desacralizzatore"
della sofferenza. La sua interpretazione della MALATTIA in termini
NATURALISTICI come SQUILIBRIO dovuto a fattori esterni (Clima, Regime
Alimentare) e interni (i quattro Umori dell'organismo), sanciva di fatto la
nascita della Medicina Occidentale.
Successivamente PLATONE e ancor più ARISTOTELE rafforzano e arricchiscono
questo approccio razionalistico, cercando di spiegare i meccanismi del dolore
per poterlo curare; si fermano comunque a considerarlo un'EMOZIONE
percepita dal Cuore. Con GALENO si fa un primo salto qualitativo localizzando il
dolore nel Cervello e "promuovendolo" dal rango di Emozione a quello di
SENSAZIONE, trasmessa dal Sistema Nervoso. Contemporaneamente c'è una
particolare attenzione alla ricerca di metodi medici e chirurgici per lenire il
dolore.
Nel MEDIOEVO c'è un silenzio pressochè totale della Scienza e l'enfasi è tutta
sulla dimensione Spirituale del Dolore, inteso come ESPIAZIONE, mutuata dalla
tradizione Giudaico-Cristiana.
Solo in Oriente con AVICENNA il Dolore Fisico conserva dignità e importanza e
compaiono le prime sostanze analgesiche (oppio, mandragora, edera,ecc..). Il
RINASCIMENTO riporta prepotentemente l'attenzione sul CORPO e,sulla fervida
scia degli studi anatomici di VESALIO e dello stesso LEONARDO, il Dolore viene
fatto risiedere nel Sistema Nervoso e viene trasmesso al suo interno.
Contemporaneamente PARACELSO inizierà ad utilizzare,in modo empirico,
l'Etere per le anestesie. CARTESIO e tutta la speculazione a lui succesiva, fino
alla fine del XVIII Secolo, considerano il Dolore come una esacerbazione della
Sensazione Tattile, dovuta alla circolazione dello "spirito" attraverso i nervi.
Solo nel XX secolo,con la scoperta della NATURA ELETTRICA della
TRASMISSIONE NERVOSA, avremo il superamento di queste concezioni e la
nascita della moderna NEUROFISIOLOGIA. Parallelamente assistiamo, sul
piano della terapia, alla scoperta dell'Ipnosi(1810), dei vari ANESTETICI:
Protossido d'azoto (1828), Cloroformio (1831), Etere (1864), e degli
ANALGESICI: Aspirina (1894), BARBITURICI (1903), che modificheranno
RADICALMENTE l'approccio al Dolore, sia chirurgico che medico.
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E' curioso notare come all'apparire di questi farmaci sia i chirurghi (con più
veemenza) che i medici erano contrari e si opponevano alla loro diffusione, i
primi perchè consideravano "innaturale" un intervento chirurgico senza dolore,
i secondi temendo di veder scomparire uno dei più importanti segni diagnostici.
Nel corso del XX Secolo, accanto allo sviluppo della Neurofisiologia e della
Neurochimica del Sistema nervoso Centrale, con l'identificazione dei
NEUROTRASMETTITORI (molecole incaricate di trasferire gli impulsi elettrici da
un neurone all'altro), si arriva nel 1974 alla scoperta più rivoluzionaria della
Storia del Dolore, che segna realmente il nascere di un NUOVO PARADIGMA:
LE ENDORFINE.
Tali sostanze naturali, col loro duplice ruolo antidolorifico e
comportamentale/emozionale hanno permesso, in qualche modo, di "chiudere"
la millenaria diatriba tra l'idea di ARISTOTELE del DOLORE COME EMOZIONE
che invade la Coscienza e quella di GALENO, che lo considerava PURA
SENSAZIONE trasmessa dal Sistema Nervoso.
In realtà l'una è inseparabile dall'altra e varia notevolmente da individuo a
individuo,dando al Dolore quella connotazione di ESPERIENZA SOGGETTIVA
non trasferibile nè comunicabile ad altri. Fondamentali sono anche la
personalità premorbosa e il Temperamento del paziente nella manifestazione
soggettiva del dolore, perchè "moduleranno" nettamente le reazioni sia al
fenomeno stesso che alla terapia.
Tutti noi del settore sappiamo quanto sia difficile curare un dolore cronico in un
depresso piuttosto che in un soggetto senza disturbi dell'umore; nel primo caso
infatti riterremo necessari gli antidepressivi di cui sfrutteremo l'azione
analgesica e modulatrice del vissuto psichico, nel secondo caso invece (come
anche nel dolore acuto o subacuto), useremo solo analgesici.
A proposito della RISPOSTA alle terapie molto interessante è l'esperienza fatta
dal Prof.Zucchi a Firenze con dei pazienti affetti da Dolore Cronico. I pazienti
sono stati divisi in due gruppi: uno trattato con Terapia Farmacologica da sola,
l'altro con Terapia Farmacologica + TERAPIA ETICA.
La TERAPIA ETICA consisteva nell'esperienza di LETTURA e COMMENTO di un
Brano Evangelico e PREGHIERA.
Ebbene la risposta alle Terapie in termini di diminuzione del Dolore è stata
nettamente superiore nel secondo gruppo e, cosa ancora più sorprendente,
anche gli agnostici sottoposti a Terapia Etica hanno visto salire la loro Soglia
Algica e aumentare il livello delle loro Endorfine!
Inutile sottolineare che nei Credenti la Soglia Algica è di per sè più elevata,e
che le recenti acquisizioni scientifiche giunte dagli Stati Uniti sulla validità della
PREGHIERA COME TERAPIA, sono state confermate dall'esperienza del
Prof.Zucchi.
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Questo esempio ci deve far riflettere sulla COMPLESSITA' del fenomeno
DOLORE simile alla COMPLESSITA' dell'UOMO.
Ho invece l'impressione che sia nella ricerca che nella terapia ci si occupi
troppo dell'ALGOS, troppo poco del PATHOS e poco e male dell'UOMO.
Per concludere e onde evitare naufragi terapeutici noi medici, di qualunque
disciplina o orientamento, abbiamo sì il dovere di curare il Dolore ma avendo
sempre presente che davanti a noi c'è un UOMO CHE SOFFRE nella sua
interezza e unicità di PERSONA.
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Basi neurofisiologiche della percezione
Andrea Peru
Medico Neurologo, Dottore di Ricerca in Neuroscienze Dipartimento di Scienze
Neurologiche e della Visione - Sezione Fisiologia Umana Università di Verona
Riabilitazione Oggi, 10-1999
Pur senza abbracciare le posizioni degli empiristi, secondo cui il cervello alla
nascita è una tabula rasa che si plasma via via sulla base delle esperienze
sensoriali, non si può in alcun modo negare il contributo che queste arrecano
alla conoscenza ed alla genesi del pensiero, come incisivamente sottolineato da
San Tommaso: "Nihil est in intellectu quod non fuerit in sensu".
Volendo ora analizzare i meccanismi ed i substrati neurofisiologici sottesi
all'esperienza sensoriale, si deve innanzi tutto riconoscere che essa non
costituisce un fenomeno semplice ed unitario, ma rappresenta il culmine di una
serie di processi che, partendo dalla stimolazione recettoriale, si concludono a
livello corticale, realizzando l'esperienza percettiva vera e propria secondo un
processo di natura prettamente inferenziale.
La conoscenza dell'oggetto non rappresenta mai, infatti, la semplice
registrazione delle sue proprietà fisiche, quanto, piuttosto, il prodotto
dell'interazione tra le suddette proprietà e l'esperienza pregressa del soggetto,
in un attivo, reiterato, processo di ipotesi e verifica.
I sistemi sensoriali sono, quindi, concepiti per analizzare le proprietà
fondamentali degli stimoli (qualità, intensità, durata e posizione nello spazio) e
sintetizzarle in una rappresentazione coerente che permetta, infine, una
precisa conoscenza dello stimolo stesso. Stante la comune finalità, non deve
stupire che tutti i sistemi sensoriali siano organizzati in maniera simile.
Elemento cardine e primo motore del processo percettivo, è il recettore, sia
esso rappresentato dalle terminazioni periferiche dei neuroni sensoriali
(recettori di I tipo, da essi origina il potenziale generatore, tipico potenziale
post-sinaptico propagabile elettronicamente; se superiore ad una certa
ampiezza soglia, determina la comparsa del potenziale d'azione nella fibra
sensoriale) o da neuroni specificatamente differenziatisi (recettori di II e III
tipo, da essi origina il potenziale dei recettori che determina la liberazione di un
mediatore chimico, il quale, fondendosi con la membrana post-sinaptica dei
terminali delle fibre afferenti, ne provoca la depolarizzazione, inducendo la
comparsa di un potenziale post-sinaptico).
Indipendentemente dalla sua natura e dai meccanismi implicati, il recettore
svolge la propria funzione trasducendo la forma di energia propria dello stimolo
(meccanica, chimica, luminosa, etc.) in un segnale nervoso trasmissibile ai
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centri superiori. A loro volta, i centri nervosi preposti all'analisi sensoriale
prevedono un'organizzazione in serie, per cui man mano che l'informazione
procede nel suo percorso all'interno del Sistema Nervoso Centrale (SNC), è
sottoposta ad un'elaborazione sempre più complessa ed un'organizzazione in
parallelo, per cui le informazioni concernenti le varie proprietà dello stimolo
viaggiano segregate per gran parte del loro percorso, per essere poi
sintetizzate solo ai livelli più alti, dove la sorgente di stimolazione viene
finalmente percepita come un tutt'uno.
Esaminando più in dettaglio gli elementi che partecipano al processo
percettivo, lo stimolo da una parte, le strutture del sistema nervoso dall'altro,
emerge chiaro il rapporto di complementarietà che intercorre tra di essi.
II concetto stesso di stimolo è chiarificatore in proposito: un quid energetico
diventa stimolo solo in quanto capace di eccitare un recettore ed indurre la
genesi di un potenziale d'azione nelle fibre nervose afferenti al SNC. In altre
parole, è la percepibilità la connotazione essenziale di uno stimolo; una
radiazione luminosa nella gamma dell'infrarosso, un suono della banda degli
ultrasuoni, non essendo percepibili in quanto l'organismo umano non possiede
recettori adatti alla loro detezione, non possono innescare alcun processo
percettivo e, in definitiva, evocare alcuna esperienza cosciente. D'altra parte,
la natura dello stimolo individua il recettore e la via nervosa deputati alla sua
elaborazione.
Pur se è teoricamente possibile, e qualche volta avviene che un particolare
recettore sia eccitato da uno stimolo improprio (si pensi alla tipica situazione
vignettistica del pugno in un occhio che fa vedere le stelle), in linea di massima
ogni tipo di stimolo eccita uno specifico recettore (che è poi quello più sensibile
a quella forma di energia) ed una specifica via nervosa.
La legge delle energie specifiche di Muller, secondo cui "La modalità sensoriale
non dipende dalla natura dello stimolo, ma dall'organo stimolato", ben illustra il
concetto suddetto. In realtà, la qualità sensoriale di uno stimolo, la sua natura,
sono determinate, più ancora che dall'organo recettoriale stimolato, dalle aree
corticali attivate (codice della linea attivata). Se, per assurdo, la via gustativa
raggiungesse le aree visive, e la via olfattiva le aree uditive, sarebbe possibile
vedere i gusti e sentire gli odori in un'inebriante sinestesia psichedelica "...la
nota nella gamma che è insieme di colore e sapore e odore e morbidezza...".
Del perchè e del come determinate aree corticali riescano ad evocare specifiche
sensazioni sensoriali, è ancora lungi dall'essere compreso.
Altro parametro fondamentale dello stimolo è la sua intensità: pur di natura
idonea, uno stimolo non induce risposta se al di sotto di una certa intensità,
perciò detta soglia è definita statisticamente come l'intensità che evoca
risposta nel 50% dei casi. L'intensità soglia è, dunque, l'intensità necessaria
perchè una variazione di energia della gamma percepibile dai recettori venga
effettivamente percepita. Pure al di sopra dell'intensità soglia, la capacità di
risoluzione dei sistemi sensoriali ha limiti ben precisi: perchè due stimoli siano
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percepiti come differenti, occorre che presentino una minima differenza di
intensità detta soglia differenziale e stimabile in una variazione, in più o in
meno, di circa il 3% del valore originario.
L'intensità dello stimolo è codificata dal SNC in primis in termini di frequenza di
scarica del recettore e dei neuroni ad esso collegati, ed in un secondo tempo
come numero di neuroni attivati. Quindi, mentre la modalità sensoriale è
indicata dal codice della linea attivata, l'intensità è definita dal codice della
frequenza di scarica.
Terzo parametro fondamentale dello stimolo è la sua durata, indicata dal
tempo di scarica dei recettori e delle strutture ad essi collegate. A tal proposito
è cruciale una specifica proprietà delle cellule nervose: l'adattamento. Con
questo termine si indica quel fenomeno per cui i neuroni, dopo un certo tempo
dalla loro eccitazione, ritornano ad essere silenti o, comunque, ad un livello di
attività propria dello stato di quiescienza.
Questa proprietà è particolarmente spiccata a livello recettoriale, distinguendo
recettori a rapido adattamento, che si eccitano solo in corrispondenza delle fasi
dinamiche, per cui segnalano i transienti dell'inizio e della fine della
stimolazione (on ed off dello stimolo), e recettori a lento adattamento, deputati
alla codifica della fase statica e, quindi, attivi per tutta la durata di applicazione
dello stimolo.
Se ne deduce che i recettori a rapido adattamento sono particolarmente
efficaci nel segnalare le proprietà temporali dello stimolo, mentre quelli a lento
adattamento sono indicati all'estrazione delle caratteristiche spaziali, cioè
all'identificazione della forma dello stimolo.
Una volta determinati il tipo, l'intensità e la durata della stimolazione, l'ultimo,
ma non certo meno importante, parametro che resta da definire è la posizione
dello spazio da cui detto stimolo proviene.
Per comprendere come tale parametro venga codificato, occorre far riferimento
al concetto di campo recettivo: porzione di spazio, corporeo od extrapersonale,
in cui l'applicazione di uno stimolo di qualità, intensità e durata sufficienti,
determina l'eccitazione di una struttura nervosa sia essa un recettore od un
altro neurone del SNC.
Sulla base dei campi recettivi si fonda l'organizzazione somato-topica del SNC:
dalle radici del midollo spinale alle aree corticali, i neuroni che codificano
porzioni di spazio adiacenti, occupano posizioni adiacenti nel tessuto nervoso.
Tale è l'importanza ecologica del poter individuare con precisione la
provenienza di uno stimolo, che i campi recettivi dei neuroni sensoriali
presentano solitamente un centro eccitatorio (on) fiancheggiato da bande
inibitorie (off), con il compito di dare maggiore contrasto e far meglio risaltare
la porzione di spazio stimolato.
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D'altra parte, la dimensione e la forma dei campi recettivi dei neuroni posti
lungo una determinata via sensoriale, assumono gradi sempre maggiori di
complessità, per cui, ad ogni livello, ogni cellula ha una capacità di
elaborazione maggiore di quella delle cellule dei livelli inferiori (si veda, in
proposito, la descrizione delle proprietà dei neuroni delle aree visive corticali).
Avendo completato una sommaria disamina delle proprietà comuni ai diversi
sistemi sensoriali, e volendo ora fare esclusivo riferimento al sistema somatosensoriale, si deve per prima cosa rilevare la peculiarità della sua
organizzazione recettoriale: i recettori non sono, infatti, raccolti in un unico
organo, come avviene per le altre modalità sensoriali (retina per i fotocettori,
coclea per i recettori uditivi, bulbo olfattivo per i recettori olfattivi, papille
gustative per i recettori del gusto, glomo carotideo per i pressocettori, etc.),
bensì distribuiti su tutta la superficie cutanea, seppur in maniera
estremamente irregolare e disomogenea.
Accanto alle più evidenti funzioni di protezione e rivestimento, la cute assume,
quindi, la funzione di organo recettoriale, primo per estensione e per varietà di
modalità sensoriali rappresentate, così avvalorando l'aforisma di Oscar Wilde
secondo cui "La cosa più profonda dell'uomo è l'epidermide.
Al suo interno, sparsi nei vari strati che la compongono, si trovano vari tipi di
recettori: terminazioni libere e terminazioni avvolte da strutture accessorie di
varia foggia e dimensione (corpuscoli di Pacini, dischi di Mekel, corpi di Ruffini,
etc.).
Un primo elemento da mettere in chiaro è che, anche per questo tipo di
recettori, il processo di trasduzione è svolto dalle terminazioni nervose, che
rappresentano, pertanto, i recettori veri e propri; le strutture accessorie che le
circondano ne condizionano le proprietà funzionali, ma non ne alterano la
natura.
In particolare, la presenza di strutture accessorie influenza in maniera
determinante la rapidità d'adattamento, trasformando le terminazioni libere, di
per sè recettori a lento adattamento, in recettori a rapido adattamento,
ognuno con proprietà peculiari a seconda della conformazione della struttura
accessoria stessa.
La messe di recettori che ne risulta, trova la sua ragion d'essere nel fatto che il
sistema somato-sensoriale non media un'unica modalità sensoriale, bensì una
molteplicità di submodalità: tatto-pressione, temperatura, propriocezione
(statica: senso di posizione e dinamica: cinestesia), dolore e prurito, ciascuna
delle quali richiede recettori e vie nervose specifici.
Prescindendo dalla natura dei singoli recettori e dal tipo di submodalità
sensoriale implicata, tutte le informazioni provenienti dalla periferia somatica
sono veicolate dalle branche afferenti dei neuroni oppositopolari (cellule a T), il
cui corpo cellulare si trova nei gangli spinali e la cui branca efferente
costituisce le radici dorsali del midollo spinale. Da qui in avanti il percorso varia
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a seconda della modalità presa in esame e del distretto corporeo da cui
l'informazione proviene. In altre parole, ogni submodalità si distingue dalle
altre per le proprietà anatomo-funzionali delle fibre e dei nuclei di relais che
compongono la sua via.
La prima distinzione riguarda il tipo di fibra che veicola l'informazione
sensoriale dalla cute al midollo spinale. Secondo la classificazione di Lloyd e
Hunt, si distinguono 4 gruppi di fibre nervose afferenti: gruppo I (diametro 1220 µ, corrispondente all'Aa della classificazione di Erlanger e Gasser; assente
nei nervi cutanei, si trova solo nei nervi muscolari, lungo cui veicola
informazioni propriocettive originate dai recettori articolari e muscolari),
gruppo II (diametro 6-12 µ, Aß di Erlanger e Gasser), gruppo III (diametro 1-6
µ, Aa di Erlanger e Gasser) ed, infine, gruppo IV, ben riconoscibile dai
precedenti per l'assenza di guaina mielinica (gruppo C di Erlanger e Gasser).
A questa distinzione istologica corrispondono precise differenze funzionali: in
particolare tanto più grande è il diametro, tanto più elevata la velocità di
conduzione della fibra secondo un coefficiente variabile a seconda del tipo di
fibra considerato (es. gruppo I -diametro 12 µ - coefficiente 6 - velocità = 72
m/sec.).
Se ne deduce che le fibre amieliniche, di per sè penalizzate dall'assenza della
guaina mielinica che consente una conduzione saltatoria da un nodo di Ranvier
all'altro, sono ulteriormente sfavorite dal loro minor diametro, risultando le più
lente dell'intero lotto.
La presenza di una guaina mielinica più o meno spessa, non condiziona solo la
velocità di conduzione delle fibre, ma anche la loro suscettibilità alle noxæ
patogene.
In particolare, mentre l'iniezione di un anestetico locale blocca per prime le
fibre amieliniche, meno protette, poi le mieliniche di piccolo calibro ed, infine,
le mieliniche di calibro maggiore, la compressione ischemica paralizza prima le
fibre più grandi, che hanno un metabolismo aerobico più elevato, e per ultime
le fibre amieliniche.
Sfruttando le proprietà suddette, sono stati effettuati esperimenti di blocco
selettivo delle fibre di vario diametro, i cui riscontri hanno permesso di stabilire
una precisa correlazione tra tipo di fibra e modalità veicolata.
Si è così visto che le fibre mieliniche di diametro maggiore trasportano
informazioni inerenti gli aspetti discriminativi del tatto (tatto epicritico) e del
senso di posizione, mentre quelle di calibro minore mediano gli aspetti più
grossolani del tatto (tatto protopatico), la sensibilità termica ed il dolore
puntorio (dolore privo di coloritura emotiva) ed, infine, le fibre amieliniche
permettono di percepire il dolore urente (dolore emozionale), il prurito ed i
gradi estremi della temperatura.
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Così veicolate, le informazioni provenienti dalla periferia somatica raggiungono
il midollo spinale per il tramite delle radici dorsali. Si noti che già a questo
livello è presente una rigida organizzazione somatotopica, per cui le fibre
mieliniche di calibro maggiore occupano la porzione mediale della radice,
mentre le fibre mieliniche di piccolo calibro e quelle amieliniche sono disposte
nella porzione laterale.
La dicotomia presente nelle radici dorsali è destinata a persistere per tutto il
percorso dei due gruppi di fibre afferenti, dando origine ai due grandi sistemi
della sensibilità somatica: sistema colonne dorsali - lemnisco mediale (d'ora in
avanti sistema lemniscale, per brevità) e sistema anterolaterale (spinotalamico, nella vecchia definizione), chiaramente distinti sia sul piano delle
connessioni anatomiche che su quello delle proprietà funzionali, tanto che, una
volta penetrati nel midollo, il loro percorso diverge nettamente.
Per quanto attiene il sistema lemniscale, solo una quota minoritaria delle sue
fibre contrae sinapsi con i neuroni di senso delle corna dorsali: la maggior
parte, infatti, ascende senza interruzioni nei cordoni posteriori del midollo
spinale fino ai nuclei bulbari gracile e cuneato (nuclei delle colonne dorsali) da
cui prende poi origine il lemnisco mediale, che decussa la linea mediana e
attraversa il tronco dell'encefalo per terminare nel talamo controlaterale.
Delle fibre di II ordine originate dai neuroni delle corna dorsali, la più parte
segue lo stesso decorso nei cordoni posteriori, mentre una significativa
eccezione è costituita dalle fibre deputate al trasporto del senso di posizione
degli arti inferiori, che compiono il tragitto midollare nella porzione più dorsale
dei cordoni laterali, per poi ricongiungersi con le loro omologhe solo a livello
dei nuclei gracile e cuneato.
Riassumendo, i nuclei gracile e cuneato ricevono tre tipi di afferenze, tutte
ipsilaterali: fibre dirette (assone centripeto delle cellule oppositopolari dei
gangli spinali), che decorrono nei cordoni posteriori e fibre indirette di II ordine
(originate dalle cellule delle corna dorsali) che ascendono in parte nei cordoni
posteriori ed in parte in quelli dorsolaterali.
Esaminando le proprietà delle cellule dei nuclei delle colonne dorsali, emerge
chiaramente il tipo di informazione veicolata dal sistema lemniscale e ben si
comprende come, per il suo tramite, avvenga la mediazione degli aspetti
discriminativi del tatto e del senso di posizione.
La maggior parte di questi neuroni sono, infatti, unimodali, rispondono cioè ad
una sola modalità sensoriale ed in modo così selettivo che, se attivati da
recettori della cute glabra, restano silenti alla stimolazione dei peli della zona
adiacente, hanno una bassa soglia di attivazione e campi recettivi piccoli,
soprattutto se localizzati nelle porzioni distali del corpo; inoltre, sono neuroni a
lento adattamento, restando attivi per tutta la durata dell'applicazione dello
stimolo.
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Queste proprietà sono riscontrabili anche nei nuclei talamici cui il lemnisco
mediale afferisce e nelle aree corticali cui i nuclei talamici a loro volta
proiettano, conferendo l'indispensabile coerenza al percorso dell'informazione
sensoriale dalla periferia somatica ai vertici del SNC, dove avviene la
percezione cosciente della forma e struttura de-gli stimoli e della posizione dei
vari segmenti del corpo nello spazio.
II percorso delle fibre che costituiscono il sistema antero-laterale, è
decisamente più semplice ed omogeneo. Innanzi tutto, nessuna fibra ascende
direttamente lungo il midollo, ma tutte contraggono sinapsi con i neuroni di
senso situati nelle lamine profonde (I e V soprattutto) delle corna dorsali.
In un secondo tempo, gli assoni di questi neuroni (fibre di II ordine) decussano
la linea mediana all'interno dello stesso metamero midollare, per salire poi
verso i centri superiori lungo la porzione anterolaterale del cordone laterale.
Sulla base delle stazioni di arrivo, si distinguono tre vie all'interno del sistema
antero-laterale: tratto spinotalamico, spinoreticolare e spinomesencefalico.
II primo si suddivide a sua volta in una porzione filogeneticamente più recente
(tratto neo-spino-talamico), che proietta ai nuclei sensoriali specifici del talamo
ed interviene nell'elaborazione cosciente delle sensazioni termiche e
dolorifiche, ed in una porzio-e più antica (tratto paleo-spino-talamico),
afferente ai nuclei talamici aspecifici e, quindi, funzionalmente connessa al
sistema reticolare. Lo stesso sistema comprende anche il tratto spinoreticolare,
che contrae sinapsi con i neuroni della formazione reticolare del bulbo e del
ponte, che poi ritrasmettono diffusamente al talamo ed alle altre strutture del
mesencefalo.
Infine, il tratto spinomesencefalico termina per lo più nel tetto del mesencefalo
e nella sostanza grigia periacqueduttale; dato che da quest'area discendono
fibre del sistema antinocicettivo, si ritiene che anche il tratto
spinomesencefalico intervenga nel trasporto delle informazioni dolorifiche,
peraltro secondo meccanismi ancora da chiarire.
Stante la comune origine di tutte le fibre del sistema antero-laterale dalle
corna grigie posteriori, le proprietà di questo sistema sono desumibili dallo
studio di singole unità midollari.
E' stato così visto che, accanto a pochi neuroni unimodali con campi recettivi
piccoli da cui prende probabilmente origine il tratto neo-spino-talamico, i
neuroni sensoriali del midollo hanno per lo più campi recettivi di ampie
dimensioni e sono spesso polimodali, vale a dire su di essi convergono più
modalità sensoriali, per cui tali neuroni rispondono sia a stimoli tattili, che a
stimoli termici e dolorifici.
Le proprietà testè descritte ben si addicono ad un sistema che, fatta eccezione
per il tratto neo-spino-talamico, non è preposto alla fine analisi qualitativa
59
degli stimoli, quanto, piuttosto, all'attivazione globale e, per certi versi
aspecifica dei centri superiori.
In definitiva, indipendentemente dal livello della loro decussazione,
esclusivamente midollare per il sistema antero-laterale, prevalentemente
bulbare per il sistema lemniscale, tutte (quasi tutte: alcuni assoni del tratto
spinoreticolare raggiungono il talamo ipsilaterale) le vie della sensibilità
somatica terminano nel talamo controlaterale.
Struttura complessa dove trovano sede numerosi nuclei di sostanza grigia
separati in tre gruppi principali (nuclei anteriori, mediali e laterali) da una
lamina di sostanza bianca (lamina midollare interna) in cui, per complicare
ancora un po' la faccenda, sono situati altri nuclei di sostanza grigia (nuclei
intralaminari), il talamo rappresenta il principale nucleo di relais sensoriale
delle sensibilità somatica, uditiva e visiva.
Su di esso convergono, infatti, la maggior parte delle afferenze sensoriali e da
esso partono tutte le proiezioni dirette alle aree corticali primarie.
Considerando solo i nuclei talamici connessi alle vie della sensibilità somatica,
va in primo luogo citato il nucleo ventro-postero-laterale (VPL), stazione di
arrivo del lemnisco mediale e del tratto neo-spino-talamico.
Date queste afferenze, non deve stupire che anche i neuroni di questo nucleo
presentino spiccate proprietà lemniscali (unimodalità, bassa soglia; lento
adattamento, campi recettivi piccoli) e siano spazialmente segregati a seconda
della submodalità sensoriale mediata.
Oltre al nucleo VPL, il tratto neo-spino-talamico proietta estesamente anche al
gruppo nucleare posteriore, il quale riceve ulteriori afferenze di natura visiva
ed uditiva per poi proiettare in corteccia nella profondità del solco di Silvio.
Molti neuroni di questo eterogeneo gruppo nucleare, in realtà composto da più
nuclei distinti, rispondono a stimoli dolorifici; questa evidenza, unitamente alle
sue connessioni anatomiche, suggerisce che il gruppo nucleare posteriore
svolga un importante ruolo nella mediazione della sensibilità dolorifica. Infine,
come già ricordato, un cospicuo contingente di fibre del sistema antero-laterale
raggiunge i nuclei intralaminari del talamo, assolvendo a quelle funzioni di
regolazione dell'attivazione corticale proprie del sistema reticolare.
Si noti che a livello del talamo, come già nel midollo spinale e nel tronco
dell'encefalo, le informazioni inerenti le varie modalità somato-sensoriali sono
rigidamente segregate le une dalle altre, ed è solo a livello delle aree corticali
che avviene la sintesi tra le diverse modalità.
Le aree corticali preposte all'elaborazione delle informazioni somato-sensoriali
sono essenzialmente due: la corteccia somatosensitiva primaria (S I) situata
nel giro postcentrale e nella profondità del solco di Rolando, e la corteccia
somatosensitiva secondaria (S II) indovata nel labbro superiore del solco di
60
Silvio. Come indicato dal nome, la corteccia S I è la principale sede di arrivo
delle proiezioni talamiche, mentre la corteccia SII, riceve la maggior parte delle
sue afferenze dalla corteccia S I stessa. Le aree S I e S II non sono, tuttavia,
le sole destinatarie delle informazioni somato-sensoriali; un nutrito contingente
di afferenze somatiche raggiunge, infatti, la corteccia parietale posteriore,
centro di integrazione sensoriale strettamente connesso con la
programmazione motoria (vedi più avanti).
Esaminando più nel dettaglio l'organizzazione anatomo-funzionale delle aree
corticali, il primo elemento che si deve notare è la presenza dei moduli
colonnari: dalla superficie corticale alla sostanza bianca, i neuroni di tutti e 6
gli strati corticali hanno comuni proprietà funzionali, rispondono cioè allo stesso
tipo di recettori e ricevono afferenze dalle stesse zone cutanee.
La colonna costituisce, quindi, il modulo elementare dell'organizzazione
corticale. Al suo interno, poi, i neuroni dei vari strati presentano precise
specializzazioni: il IV strato (strato dei granuli) riceve la maggior parte delle
proiezioni talamo-corticali specifiche, mentre al I strato arrivano le afferenze
dai nuclei talamici aspecifici; le fibre associative, che uniscono aree corticali di
uno stesso emisfero, e commissurali, che connettono aree omologhe di
emisferi differenti, nascono e terminano nel II e III strato; infine, le fibre
efferenti originano principalmente dal V strato (strato piramidale esterno) se
dirette ai gangli della base, al tronco dell'encefalo ed al midollo, e dal VI strato
se dirette al talamo.
La corteccia cerebrale non presenta, tuttavia, una struttura omogenea per
tutta la sua estensione; al contrario, i vari strati sono rappresentati in modo
differente nelle diverse aree a seconda della funzione dell'area stessa.
Pertanto, nella corteccia motoria è massimamente rappresentato lo strato V,
strato efferente per eccellenza e, viceversa, manca lo strato IV, tanto che la
corteccia è detta agranulare, mentre nelle aree sensoriali è proprio lo strato IV
a presentare il maggiore sviluppo, per cui si parla di corteccia granulare o
koniocortex.
Applicando i concetti funzionali e citoarchitettonici sopra descritti all'area S I, è
possibile distinguere al suo interno 4 diverse aree, indicate, procedendo in
senso rostro-caudale e seguendo la classificazione di Broadman, come aree 3a,
3b, 1 e 2.
In ognuna di queste aree è contenuta una rappresentazione completa
dell'emisoma controlaterale, secondo una delle massime espressioni
dell'organizzazione in parallelo.
Nell'area 3b, principale sede di terminazione delle proiezioni del nucleo VPL del
talamo, predominano le afferenze dai recettori cutanei che veicolano
informazioni circa la forma, la dimensione e la superficie degli oggetti, facendo
di quest'area il centro dell'elaborazione degli aspetti discriminativi del tatto.
61
L'altra principale afferenza delle fibre talamo-corticali è rappresentata dall'area
3a, i cui neuroni rispondono soprattutto alla stimolazione dei recettori di
stiramento muscolari, contribuendo in maniera determinante alla percezione
cosciente del senso di posizione.
Decisamente meno rilevanti sono le afferenze talamiche alle aree 2 e 1,
ricevendo queste aree soprattutto dalle aree 3b e 3a. L'area 2 risponde a
stimoli propriocettivi e può essere apparentata funzionalmente all'area 3a,
mentre l'area 1 è attivata in maniera preferenziale dai recettori cutanei a
rapido adattamento per cui si ritiene concorra, unitamente all'area 3b,
all'analisi delle caratteristiche della superficie degli oggetti.
L'area S II, pur ricevendo un contingente di fibre talamo-corticali dirette, deve
le sue principali afferenze all'area S I, ed in particolare all'area 3b, mentre
meno rappresentate sono le afferenze propriocettive dalle aree 3a e 2. Nella S
II sono numerosi i neuroni con proprietà complesse su cui convergono modalità
diverse; si ritiene, quindi, che quest'area sia un centro di integrazione
dell'informazione tattile che viene poi trasmessa al lobo limbico ed alle aree
associative motorie.
La rappresentazione della superficie corporea contenuta nell'area S II, unita
alle quattro della S I, porta a cinque il totale delle rappresentazioni corticali,
della superficie corporea.
Questo apparente spreco di tessuto corticale, trova la sua principale
giustificazione nelle necessità dell'organizzazione in parallelo che prevede la
segregazione dei differenti attributi dello stimolo e la loro analisi in aree
corticali diverse, ma risponde anche ad un ulteriore criterio che sovraintende
all'ontogenesi del SNC: la ridondanza.
Con questo termine si indica la moltiplicazione di un determinato sistema
funzionale ai fini di assicurarne l'attività anche quando l'integrità anatomica
viene meno. II fatto che le quattro aree di S I presentino una specializzazione
preferenziale, ma non esclusiva, per una determinata modalità, costituisce un
emblematico esempio di ridondanza.
Allo stesso modo, la presenza di una seconda area somatosensoriale assicura
un certo livello di elaborazione dell'informazione somato-sensoriale anche dopo
la lesione completa dell'area primaria.
Un'ultima considerazione riguarda la distorsione delle dimensioni delle varie
regioni somatiche nelle rappresentazioni corticali sopra citate.
In analogia con i dati ottenuti nella scimmia ed in altre specie animali, anche la
mappatura della corteccia somatosensitiva nell'uomo, eseguita in corso di
interventi neurochirurgici, ha dimostrato che la rappresentazione corticale della
superficie corporea (homunculus) non è una copia fedele del soma, ma una
sua distorsione caricaturale con la faccia, specie la zona orale, enorme rispetto
al corpo e l'indice gigantesco in confronto al pollice.
62
Tali distorsioni riflettono in modo coerente la relativa importanza delle varie
regioni somatiche ai fini delle discriminazioni tattili e basta pensare alle
capacità esplorative della mano e della lingua, confrontate con quelle di
distretti corporei pure molto più estesi, per convincersi della logicità di una
simile rappresentazione.
L'homunculus è, dunque, il risultato di quel processo di magnitudine corticale,
per cui la quantità di tessuto nervoso corticale preposta a ricevere afferenze da
un determinato distretto corporeo non è in relazione con l'estensione di tale
distretto, bensì con la densità dei recettori ed, in ultima analisi, con la
ricchezza e la complessità delle informazioni che quel determinato distretto è in
grado di trasmettere.
Espressione fenomenica di tale processo è la diversa acuità tattile (minima
distanza cui due punti sono percepiti come distinti) dei vari distretti somatici:
massima sul volto e sui polpastrelli delle dita, minima su schiena e torace.
La rappresentazione cosciente delle varie forme di sensibilità somatica non
esaurisce il ruolo funzionale del sistema somatosensoriale.
Oltre a portare un fondamentale contributo alla conoscenza dell'ambiente che
ci circonda, i sistemi percettivi in generale ed il sistema somato-sensoriale in
modo particolare, concorrono, infatti, a due altre funzioni estremamente
importanti: il mantenimento di un adeguato livello di vigilanza e la
programmazione e l'esecuzione dell'attività motoria.
Va da sè che per poter espletare le più elementari attività percettivo-motorie è
necessario un minimo livello di vigilanza.
Non ci si deve, quindi, stupire del fatto che all'interno del SNC trovino ampio
spazio sistemi a proiezione diffusa e scarsamente differenziata, genericamente
accomunati sotto il nome di sistema reticolare, cui spetta il compito di
assicurare, nel rispetto delle fluttuazioni circadiane, un adeguato livello di
attivazione a tutte le strutture del SNC.
Se ne deduce che la corteccia cerebrale, vertice indiscusso nella gerarchia del
sistema nervoso, può svolgere le sue meravigliose funzioni solo se
opportunamente attivata dal meno nobile e raffinato sistema reticolare. Per
altro, non sono mai state dimostrate connessioni dirette tra la Sostanza
Reticolare Mesencefalica (SRM), principale struttura attivante, e la corteccia
cerebrale.
L'attivazione della corteccia avviene, dunque, per via indiretta, tramite due vie
a diversa mediazione neurotrasmettitoriale.
63
La prima via, monoaminergica, prevede la proiezione eccitatoria dalla SRM ai
nuclei aspecifici del talamo che, a loro volta, riproiettano diffusamente alla
corteccia e pure al caudato.
La seconda via, colinergica, prevede, invece, la proiezione inibitoria della SRM
sui nuclei reticolari del talamo con conseguente disinibizione dei nuclei
sensoriali primari. In condizioni basali, infatti, i nuclei reticolari del talamo
esercitano un'azione inibitoria, di filtro, sui nuclei sensoriali primari.
La SRM inibendo i nuclei reticolari inibitori finisce, pertanto, col facilitare il
passaggio del messaggio attraverso i nuclei sensoriali primari del talamo, che a
loro volta proiettano alle aree sensoriali primarie della corteccia cerebrale.
Si capisce, quindi, come l'aumento del livello di responsività generale del
sistema nervoso (arousal secondo l'efficace dizione anglosassone) prodotto
dalla SRM svolga un'azione facilitante sull'elaborazione percettiva delle aree
sensoriali primarie, abbassando la soglia di detezione dello stimolo e
addirittura modulando la dimensione dei campi recettivi di alcune popolazioni
neuronali.
Per meglio rendersi conto di quanto sopra esposto, si pensi alle oscillazioni
fisiologiche dell'arousal nell'arco della giornata, notte compresa, e alla gravità
delle sue perturbazioni patologiche fimo allo stato di coma, in cui il soggetto
diviene del tutto incapace di rispondere alle sollecitazioni esterne.
Se, da un lato, le fluttuazioni dell'arousal influenzano in maniera determinante
l'accuratezza e la velocità dell'analisi sensoriale, è anche vero che,
reciprocamente, la stimolazione sensoriale condiziona il livello di vigilanza. In
effetti, qualsiasi stimolazione sensoriale, oltre ad attivare una via specifica
deputata alla percezione cosciente dell'informazione, provoca anche, per il
tramite delle sue connessioni con il sistema reticolare, un'attivazione aspecifica
dell'intero SNC.
Si consideri, ad esempio, la "reazione di arresto" eseguita di routine in tutte le
registrazioni elettroencefalografiche, ancor'oggi l'indice più sensibile del livello
di arousal del cervello in toto: basta la semplice apertura degli occhi, con la
stimolazione visiva che ne consegue, per provocare una clamorosa variazione
del tracciato EEG in termini di aumento della frequenza e di riduzione
dell'ampiezza delle onde.
Analogamente alla modalità visiva, anche le informazioni somato-sensoriali
concorrono in modo determinante a tale funzione di attivazione per il tramite
dei tratti spinoreticolare e paleo-spino-talamico e delle loro connessioni con le
strutture del tronco dell'encefalo e del talamo.
Infine, si consideri il contributo che il sistema somato-sensoriale fornisce alla
programmazione ed all'esecuzione dell'attività motoria, dalla semplice motilità
riflessa propria del midollo spinale, ai più complessi atti motori volontari
64
elaborati dalle aree corticali con la cooperazione del cervelletto e dei gangli
della base.
Le informazioni provenienti dalla periferia somatica, da un lato innescano una
serie di risposte riflesse che svolgono cruciali funzioni protettive e posturali,
dall'altro, forniscono ai centri superiori un continuo aggiornamento sulla
posizione degli arti, del corpo e sul grado di contrazione dei muscoli,
indispensabile per l'esecuzione di una fine attività motoria, come dimostrato
dai gravi deficit motori in corso di neuropatie sensoriali.
Per poter adeguare in modo ottimale i propri comportamenti motori alle
mutevoli ed imprevedibili richieste ambientali, il SNC necessita, infatti, di un
flusso costante di informazioni sensoriali.
Agli esterocettori cutanei ed ai telecettori (vista, udito, olfatto) spetta il
compito di provvedere un dettagliato sistema di coordinate visuo-spaziali
all'interno delle quali si esprimerà il movimento, mentre i propriocettori dei
muscoli e delle articolazioni, unitamente al sistema vestibolare, forniscono
continui ragguagli sullo stato del sistema effettore.
L'utilizzo delle informazioni sensoriali per gli aggiustamenti motori avviene
secondo due meccanismi fondamentali definiti, rispettivamente, a feed-back ed
a feed-forward. Il meccanismo a feed-back implica la presenza di un sistema
comparatore che, previo confronto tra il valore di un parametro in uscita ed il
valore di riferimento desiderato, agisce su un sistema operatore per modificare
il valore del parametro in uscita fino a farlo coincidere con il valore desiderato.
Nell'ambito del sistema motorio, il meccanismo a feed-back interviene in tutti
quei casi in cui bisogna mantenere una variabile (la posizione di
un'articolazione o la forza di un muscolo) ad un valore prestabilito - processo di
regolazione - come, ad esempio, nel mantenimento della postura e nel
controllo dei movimenti lenti.
Se ne deduce che il sistema a feed-back richiede tempo per poter analizzare i
vari segnali, per cui è inefficace quando le variabili ambientali mutano troppo
velocemente (si pensi al gesto di afferrare una palla in corsa).
In questi casi le informazioni sensoriali devono essere utilizzate per
programmare il movimento corretto prima che gli eventi che innescano il
movimento stesso si realizzino (nell'esempio della palla, prima che essa
attraversi lo spazio di afferramento); si parla, quindi, di controllo anticipatorio
od a feed-forward.
Nel meccanismo a feed-forward, le informazioni sensoriali condizionano il
programma motorio prevedendo una data successione di eventi (traiettoria e
velocità della palla, per restare in argomento); ne consegue che tutto funziona
fino a quando gli eventi si realizzano secondo la sequenza prevista, ma non
quando interviene una variazione imprevista (si pensi alla più frustrante
esperienza calcistica: l'autogol; per intervento del difensore, la palla subisce
65
un'improvvisa deviazione e, per quanto agile, il portiere non riesce più a
cambiare la direzione del proprio intervento restando mesta-mente impotente
a guardare la palla che finisce in rete...).
Meccanismi a feed-back ed a feed-forward non sono mutualmente esclusivi;
anzi, intervengono spesso in successione per assicurare la perfetta riuscita
dell'atto motorio (dopo aver afferrato la palla grazie al meccanismo a feedforward, si riesce a mantenere la presa grazie agli aggiustamenti della forza
resi possibili dai meccanismi a feed-back).
Si comprende, quindi, come pazienti con deficit sensoriali presentino alterazioni
di entrambi i tipi di meccanismi, con grave compromissione sulle loro capacità
motorie.
Qualsiasi intervento riabilitativo non può, pertanto, prescindere dall'evidenza
che il corretto funzionamento dei sistemi motori dipende dalla disponibilità di
appropriate informazioni sensoriali, secondo un intimo rapporto di
interconnessione che dimostra l'unitarietà del sistema nervoso.
RILASSAMENTO E IPNOSI NEL CONTROLLO
DELLA SOFFERENZA DEL PAZIENTE TERMINALE
(dott.ssa Maria Paola Brugnoli)
IL TRATTAMENTO DEL PAZIENTE TERMINALE
Hinton nella sua monografia sulla morte (Dying), sostiene che alla maggior
parte delle persone non interessa tanto il momento della morte, quanto il
modo, e che la paura le fa soffrire più della malattia stessa.
Il trattamento del paziente morente solleva molti problemi di carattere etico,
che vengono affrontati da ciascuno attraverso il filtro del personale retroterra
culturale e dell’atteggiamento verso la vita.
Il trattamento del paziente morente, oltre ad implicare una notevole dose di
esperienza, abilità e giudizio, richiede da parte del medico anche una notevole
dose di umanità, non solo nel rapporto con il malato, ma anche nella gestione
dei rapporti umani con i parenti.
Dal punto di vista clinico e farmacologico, il medico deve a volte affrontare il
dilemma dell’opportunità di trattare o non trattare del tutto una particolare
malattia, in quanto le terapie non sempre prolungano la vita, ma a volte
determinano solamente una morte più lenta.
66
Si dovranno sempre e comunque attuare tutte le misure terapeutiche atte a
limitare le sofferenze, sia esse fisiche che psichiche.
In un paziente cosciente e consapevole, lo staff assistenziale può fare molto
per supportare ed alleviare le sofferenze fisiche e psichiche del malato
terminale, non solo per mezzo di una terapia farmacologia, ma anche
attraverso altri supporti terapeutici adeguati, offrendogli una migliore qualità di
vita.
Generalmente la sofferenza del paziente terminale è data dal dolore fisico se
non sufficientemente controllato farmacologicamente, unito all’ansia, fonte in
questo caso di sofferenza psichica e spirituale.
Il dolore della fase terminale spesso riguarda un individuo già depresso,
ansioso, spossato e debilitato e, a differenza del dolore delle malattie acute, di
cui si intravede la conclusione, deve essere sopportato a lungo senza
prospettiva di miglioramento. Pertanto il livello di soglia di questo tipo di
paziente, quando egli giunge alla nostra osservazione, è in genere molto
basso.
La depressione abbassa la soglia del dolore, e se l’individuo è turbato per la
malattia o per cause non a essa direttamente connesse, risolvendo questi
fattori di angustia, possiamo diminuire anche il bisogno di analgesici.
L’esigenza più pressante è quella di considerare il paziente nel contesto della
sua situazione globale, fisica, mentale, sociale e spirituale e di individuare gli
elementi di disturbo che possono essere risolti. Il sollievo psichico e spirituale
spesso aumenta il grado di benessere fisico. E’ dunque fondamentale lottare in
modo ragionato contro il dolore e l’ansia, e il paziente si trova rassicurato
proprio dal fatto che si interviene a suo favore in modo positivo in tempi
possibilmente brevi.
Fatte queste premesse vorrei entrare nel vivo dell’argomento ricordando le
basi fisiopsicopatologiche dell’ansia e del dolore e come si possa aiutare il
paziente terminale, quando cosciente, a gestirli anche con l’aiuto di tecniche di
rilassamento in ipnosi.
Il dolore cronico è quasi sempre accompagnato da atteggiamenti esagerati nel
campo della sensibilità somatica ed autonoma, con anomalie di sensibilità
affettiva, le quali possono disorganizzare la personalità del paziente (Bonica
J.J.).
Spesso il dolore è accompagnato segni di iperattività simpatica manifestata da
vasocostrizione, ipotermia, sudorazione e lesioni trofiche nelle regioni del corpo
colpite da dolore, in altri casi possono invece coesistere sintomi di iperfunzione
parasimpatica, quali sudorazione, vasodilatazione, ipertermia cutanea (Bonica
J.J.).
67
Il dolore riveste uno speciale significato di grande importanza per il medico, in
quanto è uno dei più comuni motivi di lamento per il paziente.
Nel problema dolore vanno valutate attentamente le componenti emozionali ed
intellettuali, in quanto fattori capaci di modificare notevolmente
l’interpretazione del dolore stesso.
68
Il cervello esercita una considerevole azione integrativa nella
69
interpretazioneppa corticale una immagine mentale del corpo; su di essa il
cervello proietta i vari segnali che danno forma e consistenza al dolore.
L’esperienza clinica ci insegna che la suscettibilità al dolore è un fenomeno
altamente soggettivo, individuale, e va di pari passo con la labilità emotiva del
70
singolo.
71
Non solo esiste questa proporzionalità, ma anche un’interscambiabilità dei due
72
fenomeni, per cui esperienze ansiose finiscono come per esempio
nell’ipocondria, con l’essere scotomizzate dalla coscienza e trasposte in
73
sensazioni dolorifiche. E’ questa un’esperienza comune non solo a psicologi e
74
psicoterapeuti, ma anche a neurologi (Ritchie Russel: Brain, memory, learning.
Oxford University Press,1961).
75
Agli psicoterapeuti è poi noto un fenomeno particolare, che sfugge all’analisi
clinica anche se accuratamente ripetuta, perché osservabile solo al
“microscopio” della psicoterapia e nell’ambito particolare delle sue coordinate
temporali: il fatto cioè che determinati dolori psicosomatici scompaiono
attraverso una fase di transizione, in cui l’esperienza del dolore come tale non
76
è più presente, o non lo è in misura simile alla precedente,, mentre una certa
77
quantità di ansia prende il suo posto.
78
Tale affinità tra i due fenomeni, è spiegabile neurofisiologicamente in maniera
79
diversa: come parziale sovrapposizione delle aree centrali di proiezione, e
80
come sensibilità della soglia dolorifica ad esperienze emotive, che regolano il
flusso delle informazioni percepite. Solo così comprendiamo la teoria secondo
81
la quale la sensibilità psichica al dolore è un fatto “aquisito” dall’individuo nel
corso del suo sviluppo ontogenetico (Ritchie Russel: Brain,memory, learning.
Oxford University Press,1961).
82
Come accade che un fenomeno neurochimico come il dolore, si traduca in un
83
fatto di coscienza? Qual è il ponte tra la percezione del dolore e l’esperienza
dell’ansia? Anche se le nostre conoscenze neurofisiologiche dovessero un
giorno progredire a tal punto da permetterci di stabilire l’esatto correlato
neurochimico di un dato fenomeno psichico, rimarrà il fatto che la relazione tra
questi due ordini di fenomeni,
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WFöæöÖÖVçFR–âVæÖ potrà essere espressa solo attraverso la
neurochimica, che in se non può esprimere un’esperienza soggettiva.
APPROCCIO PSICOLOGICO AL MALATO TERMINALE
Il termine “approccio” esprime in se la profonda umanità che deve legare il
medico all’ammalato: esso mentre permette al primo di svelare gli aspetti
psicosomatici della malattia, rende il secondo più fiducioso nelle capacità
diagnostiche e terapeutiche del medico che egli ha scelto (Melchionda).
Sostanzialmente, approccio significa cercare e sentire nel paziente un’entità
umana e spirituale che si nasconde ma che mai scompare dietro l’aridità dei
dati semeiologici e strumentali di una cartella clinica; significa inserire l’evento
malattia nel contesto di un’esperienza, nell’economia di una vita, in un vissuto
che ha dimensioni ben più vaste di quelle indicate dai sintomi obbiettivi o
soggettivi; significa avvicinarsi al malato con un sentimento che non è solo
l’umanitaria simpatia, ma che è empatia: con questo termine si intende un
processo di immedesimazione o identificazione per cui un individuo si mette
nello stesso angolo visuale per vivere determinate sue situazioni emotive o
almeno per percepirle in maniera esatta (Antonelli F.).
E’ difficilissimo stabilire la normalità e la salute mentale. Il medico deve abolire
ogni concetto di colpa, accettare il malato com’è senza nessuna pregiudiziale
critica, ascoltarlo: qualità estremamente difficile, perché invece di ascoltare si
è indotti ad interpretare le parole; capire, non giudicare.
Secondo Ippocrate il medico ha il dovere morale, non solo di essere sempre più
capace come medico, ma di migliorare come persona; se non riesce a
comunicare con l’ammalato, l’insufficienza è del medico.
Il problema del rapporto tra medico e paziente, e della sua rilevanza dal punto
di vista diagnostico e soprattutto terapeutico, tende di diventare di competenza
non più di una sola branca specialistica, ma di tutta la medicina.
Il medico d’oggi, se da un lato è portato ad avere interessi scientifici sempre
più specialistici, dall’altro è costretto nell’interesse stesso del malato, a non
perderne di vista l’unità psicosomatica che, se al limite in alcune forme
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morbose assume la prevalenza nel quadro clinico, in ogni caso fa sentire il suo
peso come modo di reagire del paziente alla situazione di malattia con tutta la
sua personalità (Balint M.: Medico, paziente e malattia. Ed. Feltrinelli,1961).
L’IPNOSI NEL DOLORE E NELL’ANSIA
L’ipnosi può essere considerata come un processo di apprendimento a
sviluppare, in conformità con determinati principi e ad opera di adeguati stimoli
,molteplici capacità che ampliando le dimensioni dell’uomo concepito come
inscindibile unità psicosomatica, in condizioni di salute o di malattia, sono
variamente ed ampiamente utilizzabili a fini sperimentali, profilattici diagnostici
e terapeutici (Guantieri G.: L’Ipnosi. Ed. Rizzoli, 1973).
Si è definita terapia ipnotica la possibilità di indurre in un soggetto un
particolare stato psicofisico, che permette d’influire sulle condizioni psichiche,
somatiche e viscerali del soggetto stesso per mezzo del rapporto
interpersonale stabilitosi tra il paziente e il terapeuta. Nella terapia ipnotica si
rilevano spontanee modificazioni neurovegetative diverse secondo i vari
soggetti (Antonelli F.).
L’ipnoterapia è un metodo di indagine che permette di esplorare la possibilità
di influire sulla patologia psicosomatica di un organo o apparato, per mezzo del
rapporto interpersonale stabilitosi tra il paziente ed il terapeuta; ha la
possibilità di servirsi dei comandi postipnotici per potenziare una eventuale
psicoterapia di sostegno e rieducativa (Granone F.: Trattato di Ipnosi. Ed.
UTET).
L’ipnoterapia agisce psicoterapeuticamente attraverso un duplice meccanismo:
produzione di materiale psicodinamico significativo, e miglioramento (o almeno
mutamento) immediato della cenestesi (Guantieri G.).
IPNOSI, RILASSAMENTO ED ANALGESIA DEL DOLORE
I meccanismi che stanno alla base dell’analgesia ipnotica, non appaiono ancora
chiari, come d’altronde oscuri rimangono tutt’ora molti aspetti del processo che
è alla base del dolore. Secondo Kroger con l’analgesia ipnotica, gli impulsi
dolorosi, verrebbero effettivamente bloccati, quindi non avvertiti, a livello di
determinate strutture (tratti corticospinotalamici); a tale blocco non sarebbero
estranee anche altre formazioni:sistema limbico e reticolare attivatore. Si
verificherebbe così una “ablazione sinaptica” o una “lobotomia psicologica”
(Rosen): il soggetto è cioè cosciente dello stimolo, che però non raggiunge i
recettori corticali.
Viene a mancare così l’effetto: il dolore non è così percepito come dolore, bensì
come stimolo tattile o pressorio. Secondo Wall l’ipnosi può modificare la
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conduzione del dolore anche a livello spinale. Per Marmar l’ipnosi eleva la
soglia del dolore e riduce la risposta allo stimolo algogeno, in quanto rende il
soggetto indifferente ad esso.
Per Raginsky l’analgesia ipnotica sarebbe da riferire all’amnesia che segue
spontaneamente all’ipnosi, o a specifici suggerimenti; per Shor alla riduzione o
eliminazione dell’ansia che si accompagna al dolore, contribuendo
generalmente a sostenerlo. Pinelli, il quale riferisce immodificata nell’analgesia
ipnotica la soglia della sensibilità epicritica, prospetta come ipotesi di lavoro,
che tale assenza di ansietà possa venire riferita ad una relativa esclusione della
diffusione degli impulsi delle vie paleospinotalamiche.
Infine, considerando l’ipotesi di lavoro di Melzack e Loeser , detta della
“neuromatrice” (Lancet,Sett.1999)
sulla percezione del dolore possiamo ulteriormente provare a dare una
spiegazione all’analgesia in ipnosi: secondo gli Autori nella corteccia ha sede la
neuromatrice, che dovrebbe essere composta da una fitta rete di neuroni, che
genera nel corso del tempo autonomamente, in una mappa corticale, una
immagine mentale del corpo.
Su di essa il cervello proietta i vari segnali che danno forma e consistenza al
dolore; questo modello potrebbe spiegare perché la sensazione di dolore sia
strettamente e squisitamente individuale e modificabile in ipnosi.
CONCLUSIONI
Davanti a certe sofferenze fisiche e psichiche, che nessuna terapia riesce a
lenire completamente, o alla inesorabilità di alcune malattie delle quali
rimangono ancora sconosciute le cause, l’uomo riconosce la propria fragilità e
la propria incapacità a capire e a trovare un rimedio efficace.
In questo caso il medico oltre che a curare il corpo e la mente, deve anche
saper lenire le sofferenze dello spirito del malato. Non esiste in questo caso
una terapia farmacologica adeguata di supporto.
La malattia grave e terminale fa sperimentare, non solo al malato e ai suoi
famigliari, ma anche al medico, con una intensità inesprimibile il dramma della
rottura, dell’impotenza, e spesso della lontananza e della incomunicabilità.
Il dialogo con la persona sofferente può avere una forza effusiva, cioè spingere
il malato ad espandere il proprio spirito in un desiderio di incontro con gli altri
e quindi di consolazione.
Dialogare significa stabilire un rapporto con l’altra persona per conoscerla,
comprenderla e poterla aiutare. La ricerca di dialogo tende a superare i limiti
della solitudine e dell’individualismo nella malattia. Per fare un dialogo vero
non basta parlare, occorre mettersi in ascolto dell’altro e che il medico sia
100
convinto di poter essere interiormente arricchito dall’altro e quindi aperto ad
accoglierlo spiritualmente.
Questa ricerca personale nasce dalla constatazione che spesso nel rapporto
medico-paziente nonostante la frequenza delle relazioni e l’abuso della parola,
ci si arresta ad un livello comunicativo di estrema superficialità, che nel caso
del paziente terminale non porta quest’ultimo a nessun beneficio.
Dialogare insieme in questo caso è dunque un incontrarsi in profondità per
aiutarsi a crescere umanamente e spiritualmente. Il medico dovrebbe quindi
rinunciare a quelle forme e a quei mezzi che lo metterebbero in posizione di
prestigio e di superiorità; sa quindi essere paziente di fronte alle difficoltà che
via via si presentano nel rapporto con il malato, e sa incontrarsi fraternamente
sullo stesso piano di colui che soffre.
Basandosi sulla sincerità, sulla semplicità e sull’umiltà vera, il medico
attraverso il dialogo con il paziente, non può che produrre un frutto di serenità
e pace interiore per il malato e per se stesso.
Il medico può arrivare a questo cammino attraverso la visione spirituale della
vita, per mezzo di un percorso di sviluppo di una autocoscienza spirituale, data
dalla osservazione attenta, disinteressata e rispettosa di tutta la vita in noi e
negli altri.
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103
Il dolore nei bambini
C.Blengini Medico Generale - Dogliani (Cuneo)
E. Pugno Medico Chirurgo - Torino
Il dolore è un’esperienza frequente nella maggior parte dei bambini affetti da
cancro. Esso è differente da quello degli adulti, come differente è in questi
piccoli pazienti la progressione della malattia. In questi soggetti, infatti, la sua
evoluzione dopo la diagnosi risponde spesso in breve tempo alla terapia, e il
dolore legato alla malattia scompare frequentemente in modo rapido.
Se però la malattia recidiva e risulta resistente al trattamento, la progressione
verso la morte è altrettanto rapida, e in questa fase il dolore ritorna a farsi
sentire. Non bisogna dimenticare però che il dolore nei bambini è legato più di
frequente al trattamento che alla malattia stessa.
I protocolli aggressivi, che coniugano trattamenti farmacologici e chirurgici con
quelli strumentali, hanno notevolmente incrementato il tasso di sopravvivenza
di questi pazienti, comportando però, come conseguenza, una tossicità
maggiore legata al trattamento stesso.
Questa determina la comparsa di condizioni notevolmente dolorose (es: la
comparsa di mucosite da raggi o da chemioterapia, di patologie infettive, o di
neuropatie periferiche).
Questi piccoli soggetti sono spesso sottoposti a tecniche di trattamento
altamente invasive e dolorose che vanno dalla "semplice" iniezione
endovenosa, all’aspirato midollare fino alle biopsie. I protocolli aggressivi
comportano spesso più iniezioni endovenose giornaliere, e sovente frequenti
controlli midollari (agospirati con cadenza anche mensile).
Un fatto non secondario, che va qui sottolineato, è che i bambini, a differenza
degli adulti, non danno il loro consenso all’attuazione di questi interventi,
spesso non ne capiscono lo scopo, oppure pensano, almeno nella fase iniziale,
che esse siano di breve durata.
C’è quindi la necessità per tutti i malati, ma in particolare per questi piccoli
soggetti, di una preparazione adeguata alla comprensione di quanto dovrà
avvenire, di un sostegno nei momenti difficili e di un trattamento efficace del
dolore per tutte quelle procedure genericamente dette "invasive".
Tutto questo non accade nella maggioranza delle situazioni, nonostante sia
sostanziale o, se accade, è frutto più del caso o di una attenzione
squisitamente personale dovuta alla soggettiva sensibilità di alcuni curanti, che
di una precisa strategia di approccio codificata per queste situazioni.
Il riuscire a fornire un trattamento ottimale del dolore nei bambini richiede a
monte una comprensione di tutti i fattori che concorrono a dare forma
104
all’esperienza dolore in questi pazienti. Tra questi sono essenziali il livello di
sviluppo psicofisico del bambino, la sua capacità cognitiva ed emozionale, i
tratti fondamentali della sua personalità e le sue passate esperienze che hanno
informato la sua personale conoscenza del sintomo dolore.
Non meno importanti sono anche lo stadio della malattia, le paure e le
preoccupazioni inerenti la patologia, il suo decorso e la morte, come pure i
problemi, gli atteggiamenti e le reazioni della famiglia alla malattia, la
situazione ambientale e il retroterra culturale.
I medici curanti devono essere coscienti che i bambini con neoplasia soffrono di
molti sintomi spiacevoli oltre al dolore quali, ad esempio, ansia, paura,
depressione, ma anche stanchezza, prurito, dispnea, insonnia e infine paura di
abbandono e di morte.
La conoscenza del bambino, così come dei modelli di sviluppo e delle modalità
di comportamento risultano elementi essenziali e irrinunciabili per valutare in
modo adeguato e trattare efficacemente il dolore.
Il suo trattamento in questi soggetti deve essere altamente individualizzato. Le
strategie messe in opera per gestirlo devono tenere conto del livello di sviluppo
del bambino, delle sue capacità di comprensione, della sua sensibilità, delle
caratteristiche di personalità e delle modalità con cui affronta le situazioni
problematiche.
L’individualizzazione del trattamento diventa una risorsa indispensabile in caso
di bambini con ritardo di sviluppo, difficoltà di apprendimento, disturbi emotivi
o difficoltà di linguaggio.
Una valutazione approfondita del dolore è utile non solo per la diagnosi, ma
anche per prendere decisioni sulle strategie di trattamento. Si deve definire
quanto questo sintomo influisce sulle attività quotidiane e sull’umore, cercando
di capire come esso viene vissuto dal piccolo paziente e dalla sua famiglia.
L’informarsi attentamente di tutto questo, esprime l’interesse del medico al
problema, insieme alla sua volontà di "capire per porvi rimedio" e getta le basi
per un’alleanza strategica, che risulta già di per sé terapeutica.
È evidente come sia più facile per il medico prefigurasi l’esperienza soggettiva
del vissuto del dolore se il paziente è in grado di esprimersi, ma sono molte le
difficoltà da affrontare per ottenere una comprensione adeguata del sintomo
nei soggetti in cui ci siano difficoltà di verbalizzazione, dovute ad uno sviluppo
ancora insufficiente, o per difficoltà o incapacità a comunicare.
I bambini più grandi hanno mezzi più efficaci per comunicare il dolore, mentre i
più piccoli non hanno la memoria di esperienze precedenti e la capacità di
capire il significato dell’esperienza dolorosa.
105
C’è quindi la necessità, nel comprendere e trattare questi piccoli pazienti, di
andare oltre alla mera apparenza (valutando a priori quelle situazioni che
possono essere potenzialmente dolorose) e di osservare con attenzione segni e
sintomi non usuali, che possono fungere da spia e da guida per la valutazione
della presenza di un dolore o di una sofferenza inespressa.
C’è il bisogno di una comunicazione aperta e franca, con parole semplici e
chiare sulla percezione del dolore, nei confronti del bambino e della sua
famiglia, sia in ospedale che a casa del paziente.
Bisogna spendere del tempo per capire con quali gesti, parole o verbalizzazioni
il bambino esprime il dolore e a quali persone della famiglia ne parli più
facilmente. È necessario tenere conto delle esperienze precedenti e delle
aspettative relative al trattamento di questo sintomo.
La valutazione dell’efficacia terapeutica deve essere fatta di frequente, ma
deve tenere conto dei desideri del paziente e dalla famiglia a questo proposito.
È molto utile fare uso di scale visive per bambini al fine di indagare l’intensità
del sintomo.
Queste riducono i tempi del colloquio su un argomento spiacevole e risentono
meno dell’influenza più o meno conscia dei famigliari sulla percezione del
sintomo.
Ci sono anche molto metodi non farmacologici per alleviare il dolore nei
bambini, quali l’ipnosi, il massaggio terapeutico, la musica, la pittura, le
immagini mentali; queste ultime sono una metodica dolce ma efficace per
rendere meno angoscioso il dolore e l’approssimarsi della morte.
Queste tecniche possono essere di conforto e sostegno durante la malattia;
sono anche utili per il senso di autocontrollo e sicurezza che infondono al
bambino in un momento in cui il controllo e la sicurezza sono molto scarsi.
La valutazione del dolore deve essere fatta utilizzando strumenti adatti,
preferibilmente direttamente con il piccolo paziente. In caso di mancata
collaborazione, ci si può giovare, oltre che dell’osservazione comportamentale,
della collaborazione dei familiari; deve essere chiaro, però, che la loro
valutazione sarà sempre e comunque inesatta.
Anche indicatori indiretti quali la frequenza cardiaca o respiratoria, la pressione
arteriosa o la sudorazione, devono essere valutati con cautela in questo
contesto, in quanto sono molti gli elementi ambientali stressanti che possono
concorrere a influenzarli. Essi vanno quindi impiegati in appoggio ad altre
metodiche di valutazione o insieme ad altri indicatori clinici.
La valutazione del dolore dovrebbe avvenire, per quanto possibile in un
ambiente familiare al bambino. E’ quindi preferibile che sia fatta, se la
situazione lo consente, a casa e non in ospedale.
106
Nessun metodo di indagine è di per sé in grado di fornire una valutazione
completa del dolore. Il racconto fatto in prima persona dal piccolo paziente
sembra essere tra tutti, per i bambini con età superiore a quattro anni e con
capacità di verbalizzare, quello più efficace nel valutare l’intensità e la
localizzazione.
Raramente i bambini con tumore inventano il proprio dolore.
È molto più frequente che essi tendano a ridurne l’entità o a rimuoverlo per
paura di doversi sottoporre a trattamenti dolorosi per controllarlo.
La paura della terapia iniettiva, insieme alla convinzione che non ci sia niente
fare, o l’intenzione di non procurare affanno ai genitori segnalando
un’evoluzione della malattia, o il desiderio di comportarsi "bene" e di non
"disturbare", sono alla base della minimizzazione o della negazione del dolore
nel racconto di molti bambini.
L’osservazione del comportamento è un elemento fondamentale della
valutazione del dolore nei bambini che non parlano ancora, o che non possono
parlare ed una valutazione aggiuntiva da farsi anche per quelli in grado di
comunicare.
Si deve prestare molta attenzione a grida, piagnucolii, lamenti, gemiti, come
pure alla tensione muscolare, alla rigidità, alla possibilità di riuscire a
consolare, ad atteggiamenti di "protezione-difesa" di determinate parti del
corpo, al movimento e infine all’aspetto generale.
L’interpretazione di tutti questi atteggiamenti non può, per ora, che essere
approssimativa (e di seconda mano) in quanto mancano modelli validati.
Molte risposte comportamentali, inoltre, non sono specifiche del dolore ma si
manifestano anche in presenza, di ansia, paura, solitudine e disagio.
È quindi fondamentale porre molta attenzione al contesto in cui vengono
rilevati questi dati.
La gestione del dolore in questi piccoli paziente è sempre il frutto di una
alleanza terapeutica tra il bambino, la sua famiglia e l’équipe dei curanti.
I desideri e le preferenze del bambino e dei suoi familiari devono essere
indagati, rispettati e valutati con attenzione.
La terapia antalgica è spesso sottovalutata negli adulti; lo stesso trattamento,
purtroppo, è riservato ai bambini.
Tuttavia, nella maggior parte dei casi, i bambini ricevono nella pratica
quotidiana dosi di analgesici proporzionalmente ancora più ridotte rispetto a
quelle riservate agli adulti.
107
Diversamente da quanto si pensa in genere, in base ad errate argomentazioni
pseudoscientifiche, la percezione del dolore nel bambino è ben sviluppata, anzi
amplificata a causa del rapido sviluppo delle vie sensitive eccitatorie: il
bambino può essere troppo piccolo per lamentare dolore e per ribellarsi al suo
stato di malessere.
A sei mesi, infatti, il feto presenta già le vie sensitive del dolore formate ed
attive; queste vie sono funzionali anche nei nati prematuri.
La memoria conscia si sviluppa verso i due anni, ma ciò non implica che nei
primi mesi di vita il neonato sia incapace di provare dolore.
Nelle terapie oncologiche, le numerose manovre invasive che si devono
attuare, come punture lombari e biopsie ossee, dovrebbero essere
accompagnate da adeguata terapia antalgica.
Per superare la paura delle iniezioni o di piccoli interventi chirurgici sono in
commercio pomate anestetizzanti — (ndr: EMLA, Eutectic Mixture of Local
Anesthetics, topical lidocain-prilocaine cream 5%) e sarebbe bene che
venissero usate con maggiore frequenza visto la loro dimostrata efficacia
analgesica.
La terapia antalgica è opportuna nella circoncisione, nel varicocele, nel
risveglio post-operatorio, nella preparazione di un intervento chirurgico. Molto
frequentemente invece, nel bambino non viene praticata.
Un recente editoriale apparso sul BMJ dal significativo titolo "Il controllo del
dolore nel bambino. Fare le cose semplici meglio" sottolinea come, negli ultimi
decenni, siano stati fatti notevoli passi per la comprensione e trattamento del
dolore in età pediatrica, nonostante esista il problema di una rilevazione
oggettiva dell’intensità del sintomo.
Una cosa però è certa, al di là di ogni ragionevole dubbio: gli operatori sanitari
tendono a sottostimare in modo significativo il dolore in questi piccoli pazienti.
Sono stati sperimentati e applicati metodi sofisticati per la gestione del dolore
in questi soggetti, che sono risultati efficaci in ambiente specialistico.
L’obiettivo più importante, però, nella cura questi pazienti, è quello di
ottimizzare l’uso di analgesici semplici che possano essere usati facilmente su
larga scala da familiari e medici di famiglia.
Un passo avanti su questa strada è stato il recente riconoscimento che il più
semplice e il più utile degli analgesici, il paracetamolo, è stato usato in passato
a dosaggi subterapeutici.
Il dosaggio raccomandato in precedenza (10 mg/kg quattro volte al giorno)
non permetteva di raggiungere concentrazioni ematiche terapeutiche. Dati
recenti di farmacocinetica suggeriscono che può essere necessaria una dose
iniziale di carico di 40 mg/kg per via rettale. Il dosaggio massimo giornaliero
108
nel bambino rimane invece controverso. Sta diventando largamente accettata,
come limite massimo, la dose di 90 mg/kg al giorno con una dose di carico di
30 mg/kg.
Invece dosi superiori a 150 mg/kg al dì causano tossicità epatica severa e
vanno evitate. È evidente come anche per questi piccoli pazienti la limitazione
imposta dal dosaggio massimo somministrabile di paracetamolo, senza
incorrere in effetti tossici, ha stimolato l’attenzione al suo uso in associazione
con oppiacei deboli quali la codeina, dimostrando una maggiore efficacia
analgesica dell’associazione.
Parimenti si è data maggior attenzione all’impiego nel trattamento di FANS.
L’ibuprofene e il diclofenac sono stati studiati nei bambini, in particolare dopo
interventi chirurgici, e hanno dimostrato una buona efficacia analgesica e
minori effetti collaterali di analgesici più potenti.
Anche nei bambini, quando è possibile, gli oppiacei impiegati per il controllo del
dolore grave, andrebbero somministrati per via orale (vedi Tabella I).
Il trattamento del dolore severo in fase di acuzie necessita di una rapida
titolazione dei dosaggi analgesici per ottenere un controllo del sintomo nel giro
di poche ore.
Per fare questo bisogna eseguire frequenti aggiustamenti posologici. Poiché la
morfina somministrata per via endovenosa ha un picco di efficacia a 15 minuti
dalla sua iniezione in vena, per un paziente di cui non si conosce il dosaggio di
farmaco necessario al controllo del dolore si può iniziare ad infondere morfina
alla dose di 0,1 mg/kg e controllarne il risultato ogni 15 minuti.
Si potrà quindi incrementare il dosaggio di 0,05 mg/kg, ad intervalli regolari, in
caso di mancata efficacia fino al raggiungimento di un buon controllo del
dolore.
La morfina può anche essere somministrata a boli intermittenti secondo uno
schema prefissato partendo da un dosaggio iniziale di 0,1 mg/kg. Anche
l’infusione continua di morfina a dosi da 0,02 a 0,04 mg/kg all’ora, nei bambini
sopra i 6 mesi di età, è stata ben studiata per il trattamento del dolore
postoperatorio e descritta nel trattamento del dolore neoplastico.
È evidente che l’infusione continua del farmaco evita il rischio delle notevoli
variazioni di concentrazione ematica e quindi di efficacia dovute alla sua
somministrazione intermittente.
Il farmaco giusto è quello che controlla con dosi adeguate il dolore del
paziente.
109
Negli adolescenti, l’analgesia autocontrollata (PCA, patient controlled
analgesia) sembra efficace nel controllo del dolore, in particolare quello
postchirurgico.
Si utilizzano apparecchi specifici programmati per somministrare dosi
prestabilite di analgesico richieste dallo stesso paziente e seguite da un periodo
di blocco (lock-out), durante il quale la pompa per infusione non può essere
riattivata.
È un metodo accettato dagli adolescenti, i quali, a quella età, aspirano alla
propria indipendenza nella gestione della loro esistenza e della loro malattia. Si
può associare l’uso della PCA alla neuromodulazione spinale epidurale.
È tempo quindi di modificare il luogo comune che la terapia antalgica, ed in
particolare i farmaci ad azione centrale come gli oppiacei, possano rendere
dipendenti dalla droga i bambini. Solo cambiando questa mentalità potremo
essere sicuri che il dolore, in particolare quello severo, sarà trattato in modo
efficace anche in questi piccoli pazienti.
Tabella 1. Dosi orali di morfina nel bambino Età (anni) mg pro dose mg pro die
2-5 2,5 – 5 mg 15-30 mg
6-12 5 – 10 30 – 60
13-16 10 - 20 60 – 120
> 16 10 – 60 fino a 360 mg
Se formulazione retard:
>16 anni
30 – 60 mg
fino a 180 mg
Bibliografia
1. Schmidt, M. "Morphin-pflanzlich, hilfreich, unheimlich". PTA heute, 10, 96772, 1997
2. Zacharias, M., Watts, D. "Pain relief in children". BMJ, 316, 1552-1560,
1998
3. Clinical Practice Guideline, "Management of Cancer Pain, U.S. Department of
Health and Human Service, Public Health Service", Agency for Health Care
Policy and Research, 1994
48° Congresso Nazionale della Società Italiana di Gerontologia e Geriatria:
echi dal congresso
110
L'analgesia nel paziente anziano
Sebastiano Mercadante
Direttore dell'Unità di Anestesia e Terapia Intensiva e dell'Unità di Terapia del
Dolore e Cure Palliative Dipartimento Oncologico La Maddalena, Palermo
È noto tra gli epidemiologi come la prevalenza e le caratteristiche della
popolazione con dolore siano molto difficili da accertare; inoltre spesso la
comparazione di studi differenti vede risultare complicate valutazioni.
D'altra parte la maggior parte degli studi, per esempio di prevalenza crosssectional, non è in grado di valutare tutti gli elementi che sono invece
necessari per ottenere delle appropriate conclusioni che escludano eventi di
rapida risoluzione o quelli legati alla mortalità a breve termine.
È noto, tuttavia, come il dolore nell'anziano presenti delle caratteristiche
completamente differenti dal soggetto adulto giovane. Mancano, però, i dati
che permettano di definire questa specifica esperienza di dolore cronico,
individuando:
la sede del dolore
le caratteristiche temporali di continuità o intermittenza
la durata
la qualità e la severità
i fattori in grado di alleviare o indurre la sintomatologia
i trattamenti eseguiti e la loro efficacia
il livello di efficacia auspicabile in rapporto ai possibili effetti collaterali di una
terapia farmacologica.
A questa mancanza d’informazioni si aggiungono i luoghi comuni sul dolore
nell’anziano.
Luoghi comuni sul dolore nel paziente anziano
Il fatto che l’età avanzata venga troppo spesso considerata un analgesico
naturale: l’anziano non avrebbe bisogno di analgesici per via di una stoica
capacità di sopportare il dolore (diapositiva 10).
La sottostima della loro sensibilità al dolore.
111
Le aspettative su un maggiore livello di tollerabilità del dolore dovuto all’età.
Il giudizio erroneo sulla capacità di trarre beneficio dall’impiego di una terapia
analgesica a base di oppioidi (diapositiva 6).
La scarsa conoscenza di questo tipo di terapie.
Inoltre, si somma il fatto che l'età avanzata comporta alterazioni di ordine
fisiologico che riguardano aspetti farmacocinetici e farmacodinamici in funzione
dei quali si restringe l'indice terapeutico di ogni farmaco e aumenta il rischio di
sviluppare tossicità, specialmente a fronte dei numerosi casi di multiterapia
(diapositiva 46).
Nella maggior parte delle condizioni di dolore nel paziente geriatrico, dunque,
l’inadeguatezza dell’assessment (diapositiva 11) si lega all’inadeguatezza del
trattamento, con il risultato che questo tipo di pazienti è esposto ad un rischio
alto di insufficiente trattamento del disturbo. Il risultato di una corretta
valutazione (diapositiva 13) sarebbe, d’altro canto, un insieme di dati
fondamentali per indurre un appropriato interesse socio-assistenziale e
un'allocazione di risorse specifiche per un problema che rischia di rimanere
un'epidemia silenziosa.
Barriere del paziente nei confronti del dolore
Le barriere (diapositiva 21) interposte da parte del paziente ad un adeguato
controllo del dolore sono legate tra l’altro a fattori quali:
- senso di fatalismo e di negazione
- desiderio di essere un buon paziente
- problemi socio-culturali o finanziari
Numerose sono le evidenze disponibili per sfatare questa serie di luoghi comuni
sul dolore e l’anziano. Non è vero, infatti, che il paziente anziano non ha
percezione del dolore, piuttosto sono sufficienti in questo caso dosaggi
farmacologici inferiori, in particolare nel caso degli oppioidi, per il controllo del
dolore (diapositiva 7); dosaggi motivati anche da un'eliminazione ritardata dei
farmaci.
Approfondimenti
Se il cancro è una delle cause principali di dolore nell'anziano; ad essa si
affiancano un’altra serie di situazioni cliniche tipiche per le età più avanzate:
112
- patologie articolari
- polimialgie
- neuropatie
- malattie vascolari periferiche e coronariche.
Situazioni di dolore cronico non controllato nell'anziano possono essere, altresì,
fonte di alterazioni cognitive (diapositiva 27), depressione, alterazioni
dell'umore e riduzione delle attività quotidiane; a cui si somma il fatto che le
alterazioni cognitive eventualmente già presenti aumentano il rischio di
delirium.
A questo proposito un recente studio di Manfredi e coll. rileva come, in
situazioni di preesistente demenza, la mancata valutazione dell’entità del
dolore, a causa dell’incapacità espressiva dei pazienti, può contribuire
all’aumento degli stati di agitazione; in questi casi una terapia del dolore a
basso dosaggio di oppioidi potrebbe contribuire a ridurre sia il dolore sia le
situazioni di agitazione (diapositiva 28).
Tuttavia un’analisi della qualità, effettuata controllando indicatori quali la bassa
utilizzazione di farmaci benefici, lo scarso monitoraggio e utilizzazione di
farmaci non necessari, ha rilevato come il trattamento medico nelle strutture di
lungo degenza risulti inadeguato.
Aspetti farmacologici
Naturalmente esistono dei principi di base per un adeguato trattamento:
è opportuno seguire la prescrizione di un farmaco alla volta
avere la consapevolezza dei possibili effetti additivi con una multiterapia
fare uso di dosi relativamente basse
perseverare nei tentativi farmacologici per un adeguato periodo di tempo con
dosi basse e lentamente incrementate.
L’Oms suggerisce un approccio terapeutico di tipo sequenziale. Si parte
scegliendo il farmaco più appropriato tra una prima fascia di farmaci, gli
antiinfiammatori; nella scelta è necessario tenere presente la situazione
specifica del paziente anziano, la relazione dose-risposta e la presenza di
possibili effetti collaterali (diapositive 15-16-17-18) fattori che possono portare
alla sostituzione del farmaco se inefficace. I passaggi successivi prevedono
l’uso di oppioidi analgesici “deboli” (diapositiva 30) o “forti” (diapositiva 31),
sottoponendo la terapia ad analoghi criteri di valutazione (diapositiva 19). Si
113
tratta di una tipologia di farmaci meglio tollerati rispetto agli antiinfiammatori,
nel lungo periodo, per le minori ripercussioni su sistemi ed apparati; dove gli
effetti collaterali da oppioidi (diapositiva 29), comunque esistenti, possono
essere sicuramente minimizzati, seguendo scrupolosamente i principi
fondamentali di questo tipo di terapia nella situazione del paziente anziano
(diapositiva 45).
Se l’uso degli oppioidi è diffuso nella terapia del dolore da cancro, più
controverso è l’uso in altri casi. Risultati positivi, come mostrano numerosi
studi (diapositive 34-35-36-37), possono essere ottenuti attraverso un uso
corretto del farmaco, nella cura del dolore cronico nel paziente geriatrico
(diapositiva 44).
In molti casi nella somministrazione opportuna di questo tipo di terapia sono
stati ottenuti risultati positivi anche in relazione ad end-point diversi dal
trattamento del dolore (diapositiva 27). Sia nel caso di prodotti a lento rilascio
sia nel caso di prodotti a lentissimo rilascio.
La conoscenza delle dosi equi analgesiche è essenziale qualora si debba
modificare il tipo di oppioide per una risposta sfavorevole in termini di bilancio
analgesia-effetti collaterali. Tali effetti dovranno essere prevenuti e trattati.
Inoltre, se l’uso degli oppioidi è ritenuto un parametro fondamentale dall’Oms
è molto importante che sia ben conosciuta la realtà intorno ad alcuni luoghi
comuni quali le questioni relative alla dipendenza (diapositiva 23) da oppioidi,
che difficilmente si collocano nel contesto del dolore cronico; così come la
presunta influenza sulle capacità di guida (diapositive 26 e 40).
114
Interviste ad esperti
"Analgesia del dolore acuto e persistente"
-------------------------------------------------------------------------------Intervista a Sebastiano Mercadante (Unità di Terapia del Dolore e Cure
Palliative Dipartimento Oncologico "La Maddalena", Palermo)
La maggior parte dei pazienti con cancro presentano sindromi dolorose che
richiedono l'uso degli oppioidi.
Le linee-guida internazionali raccomandano un approccio farmacologico
sequenziale, come quello a tre gradini proposto dall’Organizzazione Mondiale
della Sanità (OMS).
Ritiene imprescindibile questa sequenzialità, o in taluni casi è possibile – per
dir così – saltare il secondo gradino?
Sicuramente questa scala ha un carattere didattico-divulgativo ed è rivolta
prevalentemente ai medici di medicina generale. In realtà, in un ambiente più
specialistico e di fronte a situazioni cliniche complicate soprattutto per intensità
di dolore, questa scala viene spesso sovvertita.
Questo significa che esistono delle emergenze dolorose che prevedono
strategie terapeutiche diverse, attraverso l’utilizzo di farmaci molto forti, anche
impiegati per vie di somministrazione più rapide, come quella endovenosa, fino
a che il dolore non venga controllato.
Per esempio, nel nostro ospedale in alcuni casi si utilizza una titolazione rapida
del dosaggio di morfina, per via endovenosa che permette di raggiungere nel
giro di dieci minuti un controllo totale del dolore; poi si passa al dosaggio per
via orale. Si tratta naturalmente di un uso clinico degli oppioidi, ma rimane
senza dubbio importante il valore didattico-divulgativo dell’approccio dei tre
gradini proposti dall’OMS che prevede l’uso sequenziale secondo rapporti di
potenza di questi farmaci: FANS, Oppiodi deboli, Oppioidi forti.
Il dolore è una malattia, più che un sintomo, che però, del sintomo, mantiene
tutta la soggettività. Esistono standard e scale efficaci ed universalmente
riconosciuti per misurare il dolore?
È molto difficile classificare in maniera standardizzata il dolore. Basta pensare
alla tipica soggettività dell’espressione stessa del dolore: stimoli di identica
intensità che producono anche sperimentalmente risposte completamente
differenti.
Se poi si aggiunge che, a sua volta, a parità di stimolo, una quantità di
analgesico produce effetti completamente differenti in un soggetto piuttosto
115
che un altro, è possibile capire come il fenomeno dolore sia soggettivo non solo
nell’espressione, ma anche nella risposta ai farmaci analgesici.
Esistono, tuttavia, delle scale che consentono di misurare nello stesso soggetto
i cambiamenti del dolore nel tempo o in seguito ad un trattamento.
Si va dalle scale verbali, in cui si adoperano aggettivi come lieve, moderato,
forte, fortissimo, a scale più complicate come quelle numeriche o, ancora, a
quelle analogico-visive in cui si localizza il dolore su una linea immaginaria che
va dall’assenza di dolore al dolore acuto.
In quest’ultimo caso si tratta di scale molto più difficili da accettare, perché di
più ostica comprensione, soprattutto, per i pazienti anziani. Nella misurazione
del dolore si tratta soprattutto di individualizzare la scala secondo la tipologia
di paziente e l’intensità di dolore a cui si fa riferimento.
Tornando al paziente anziano, che può avere dei problemi di tipo cognitivo o
educazionale, si deve chiaramente adoperare una scala che sia il più semplice
possibile, ad esempio, quella di tipo verbale.
La responsività agli oppiodi nei pazienti con sintomatologia dolorosa da cancro
è una fenomenologia complessa ed individuale, variabile nel tempo, in ragione
di fattori non sempre facilmente identificabili. Sembrerebbe però che dolore
neuropatico e fenomeni della tolleranza abbiano meccanismi biochimici comuni.
Ci sono prospettive al riguardo?
Il dolore da cancro evidentemente non può essere considerato come una forza
che richiede un aumento del dosaggio proporzionale alla massa neoplastica:
non si tratta, infatti, della quantità di massa che comprime un organo,
provocando dolore.
Il problema cancro è molto più complesso, perché al di là degli aspetti
psicologici, quindi, della soggettività, deve essere visto in relazione alla
malattia stessa e alla tendenza che questa ha ad influenzare anche
l’espressione di alcuni recettori.
I recettori degli oppioidi, ad esempio, sono essenziali al dolore. Infatti, gli
stessi fattori neoplastici che sono presenti nel sangue del paziente, che ha il
cancro, sono in grado di modificare l’espressione e la responsività di questi
recettori. Ciò si traduce nella capacità d’indurre una tolleranza a questi
farmaci, quindi, nel richiedere quantità maggiori di farmaci per ottenere lo
stesso effetto.
È necessario ragionare al di là della quantità di malattia: modo in cui, invece, il
tumore normalmente viene concepito dall’oncologo. Bisogna tenere presente,
inoltre, un altro dato che emerge sia da studi sperimentali sia da osservazioni
cliniche: la somministrazione di oppiodi di per se può produrre una strana
sintomatologia ipereccitatoria. In alcuni casi, infatti, la somministrazione
prolungata, soprattutto ad alte dosi, di oppioidi, in condizioni dove esistono
116
fattori di base neoplastici favorenti, si produce un aumento del dolore che
molto spesso è confuso con la tolleranza; da qui viene la necessità di
aumentare il dosaggio.
Ci spieghi meglio…
Il tutto in realtà si traduce in un complesso meccanismo vizioso in base al
quale è come se l’effetto producesse la causa. Un ulteriore incremento di dose,
nel tentativo di ricomporre la situazione precedente di analgesia, alimenta un
circolo in cui il dolore è trattato con la propria causa: si somministrano gli
oppioidi perché è aumentata la necessità, ma lo stesso aumento del dosaggio
si traduce nell’aumentare la necessità.
L’analgesico, invece di essere tale, diventa iperalgesico. È evidente come in
questi casi sia necessario intervenire con un altro tipo di farmaci secondo
strategie di tipo preventivo o di accompagnamento che possano ridurre i
fenomeni di eccitazione neuronale indotti dagli stessi oppioidi che,
contrariamente a quanto si ritiene, possono essi stessi causare il dolore. È
fondamentale, quindi, identificare quello che sta accadendo perché altrimenti il
trattamento stesso può diventare la causa.
D’altra parte però, purtroppo, la diffusione di numerosi preconcetti e la
complessità delle normative che regolano la prescrizione degli oppioidi, fanno
dell’Italia uno degli ultimi paesi al mondo per consumo di morfina nel controllo
del dolore oncologico, ancora il 50% dei pazienti sofferenti non riceve
un’adeguata e specifica terapia antalgica.
Come sfatare i preconcetti che ne condizionano l’uso? Cosa si può fare per
diffondere una cultura del dolore e del suo trattamento in Italia?
Naturalmente le osservazioni precedenti non si devono tradurre nel limitare
l’uso degli oppiodi in quanto si tratta di casi eccezionali: i fenomeni di
ipereccitazione sono rarissimi.
Nella maggior parte delle situazioni cliniche, infatti, il dolore da cancro risponde
molto bene agli oppioidi.
Al contrario altri preconcetti, come quelli della dipendenza, sono assolutamente
fasulli. Gli oppiodi nella cura del dolore da cancro non producono dipendenza,
perché la motivazione che è alla base dell’assunzione è completamente
differente, non è la stessa cosa di ciò che accade nel tossicodipendente.
Molto spesso, infatti, se è stata rimossa la causa del dolore è possibile ridurre o
addirittura interrompere la somministrazione degli oppioidi senza indurre alcun
effetto particolare che invece si può osservare con i tossicodipendenti. Sono
questi i preconcetti che vanno sfatati: l’uso clinico-medico degli oppioidi è
abbastanza sicuro, più di quello degli antinfiammatori: un altro preconcetto.
117
A proposito di antinfiammatori ed oppioidi, cosa emerge dal confronto tra gli
effetti collaterali?
Siamo di fronte ad un dato molto semplice, cioè che gli effetti prodotti dagli
oppiodi sono immediatamente visibili: sonnolenza, confusione, costipazione e
vomito; al confronto, gli effetti degli antinfiammatori non sono
immediatamente visibili, spesso si vedono quando il danno è già avvenuto, ad
esempio, quando è avvenuto il decesso.
Di fronte ad un’emorragia gastrointestinale, ad esempio, non ci sono sintomi
che permettono di prevederla, non c’è nessun segno correlato. Da questo
punto di vista è molto più rischioso l’uso degli antinfiammatori.
E quali sono le evidenze disponibili?
L’uso centennale degli oppiodi ha permesso di dimostrare quali siano i rischi e
gli effetti collaterali, e, soprattutto, di rendersi conto che sono tutti molto
evidenti. Nella maggior parte dei casi, infatti, si tratta di segni controllabili non
nascosti.
Gli effetti collaterali degli antinfiammatori, invece, purtroppo non sono visibili:
il paziente svilupperà un’insufficienza renale; aumenterà l’ipertensione in
pazienti che sono ipertesi; in alcuni soggetti provocheranno lesioni allo
stomaco. Il tutto senza che sia possibile accorgersene. Il paziente arriverà al
pronto soccorso quando la complicanza è già avvenuta, con delle lesioni gravi.
Con gli oppioidi è diverso perché ci si trova di fronte a segni premonitori chiari,
come sonnolenza o confusione, che indicano il bisogno d’intervenire sul
dosaggio.
Se la sospensione del farmaco oppioide non produce nessun danno - al più
sono ben visibili, ma non distruttivi, degli effetti durante l’uso – diversa è la
situazione con gli antinfiammatori dove possono verificarsi lesioni tessutali al
rene, allo stomaco, etc …
Inoltre, non si può dimenticare che molti analgesici sono epatotossici. Ad
esempio, il paracetamolo, notoriamente il più innocuo, è il farmaco più quotato
nelle lesioni acute tossiche che portano al trapianto di fegato.
I ricoveri in rianimazione che richiedono trapianto di fegato urgente per necrosi
acuta epatica, sono provocati, infatti, da funghi o paracetamolo, nonostante
quest’ultimo sia ritenuto per altri versi - come per le lesioni allo stomaco - un
farmaco più innocuo rispetto agli antinfiammatori.
118
Fisiopatologia del dolore in età geriatrica
di Pierluigi Dal Santo
Definizione di dolore - Anatomia e fisiologia del sistema algico (pain system).
In termini fisiopatologici moderni il dolore corrisponde ad una "sensazione
spiacevole e ad una esperienza emozionale ed affettiva associata a danno dei
tessuti o descritto nei termini di tale danno" (1).
Non si tratta quindi solo della semplice attivazione di un sistema nervoso
complesso, ma corrisponde sempre ad uno stato psicologico sul quale giocano
le loro influenze lo stato emozionale e precedenti esperienze spiacevoli. Più
precisamente, dal concetto di dolore (o meglio di nocicezione) andrebbe
distinto quello di sofferenza che comprende soprattutto la risposta emotiva ed
affettiva ad una stimolazione dolorosa o anche ad altri eventi quali paura,
minaccia e presentimenti.
Da un punto di vista anatomo-fisiologico il sistema algico può essere definito
come un sistema neuro-ormonale complesso, a proiezione diffusa, in cui si
possono riconoscere tre sottosistemi (2-5):
1. un sistema afferenziale che conduce gli impulsi nocicettivi dalla periferia ai
centri superiori;
2. un sistema di riconoscimento che "decodifica" e interpreta l'informazione
valutandone la pericolosità e predisponendo la strategia della risposta motoria,
neurovegetativa, endocrina e psicoemotiva;
3. un sistema di "modulazione" e controllo che provvede ad inviare impulsi
inibitori al midollo spinale allo scopo di ridurre la potenza degli impulsi
nocicettivi afferenti.
I sottosistemi 1 e 2 costituiscono il sistema "nocicettivo", il 3 il sistema
antinocicettivo. Questa suddivisione funzionale trova una diretta
corrispondenza nella terapia antalgica che può appunto realizzarsi in due modi
fondamentali: interrompendo le vie del sistema nocicettivo ovvero rinforzando
il sistema antinocicettivo
Le strutture nervose che costituiscono il sistema nocicettivo "afferente"
comprendono:
— I recettori: terminazioni nervose libere in grado di rispondere a vari tipi di
stimolazione: termica, pressoria, variazione di pH, riduzione della tensione di
O2, contatto con sostanze algogene liberate da tessuti lesi (potassio, istamina,
serotonina, prostaglandine), provenienti dal circolo sanguigno, (bradichinine) o
dalle stesse terminazioni nervose, come la sostanza P che, possedendo varie
attività biologiche (vasodilatazione, chemiotassi per i leucociti, degranulazione
dei mastociti), trasforma i recettori in veri e propri "neuroeffettori".
119
— Il neurone primario afferente sensoriale: ha la cellula di origine posta nel
ganglio spinale e due assoni di cui uno si dirige in senso centrifugo terminando
con un recettore nelle strutture tessutali periferiche (cute, strutture somatiche
e viscerali) e uno si dirige in senso centripeto raggiungendo il corno posteriore
del midollo spinale.
Le fibre afferenti primarie in grado di condurre lo stimolo dolorifico sono di due
tipi: fibre mieliniche di piccolo diametro (A-d) che conducono ad una velocità di
10-30 m/sec. sensazioni dolorose di tipo puntorio, ben localizzate e con la
stessa durata dello stimolo applicato (dolore "epicritico"), e fibre amieliniche di
piccolo diametro ( C ), con velocità di conduzione di 1-10 m/sec. responsabili
della trasmissione di dolore poco localizzato, di tipo "urente", e che ha una
durata maggiore dell'applicazione dello stimolo stesso (dolore "protopatico"). Il
dolore viscerale profondo e riferito ha caratteristiche simili a quelle del dolore
"protopatico" piuttosto che di quello "epicritico".
— Le corna dorsali: i neuroni delle corna posteriori che contraggono sinapsi con
gli assoni provenienti dai neuroni dei gangli spinali, si organizzano in una serie
di "lamine" sulla base della morfologia e della disposizione delle cellule stesse:
in tal modo l'informazione nocicettiva viene sottoposta ad una prima
elaborazione grazie alla modulazione (equilibrio fra azione eccitatoria ed
inibitoria) fornita dai vari neurotrasmettitori (sostanza P, colecistochinina,
somatostatina).
E' importante ricordare che sui neuroni spinali convergono input provenienti sia
dalla cute che dai visceri profondi, per cui, grazie tale convergenza, si realizza
il cosiddetto "dolore riferito": in tal modo l'attività indotta nei neuroni spinali da
stimoli provenienti da strutture profonde viene erroneamente riferita in un'area
che è grossomodo sovrapponibile alla regione cutanea innervata dal medesimo
segmento spinale.
— Il sistema spino-talamico e talamo-corticale: il sistema spino-talamico può
essere concettualmente diviso in una parte diretta, che trasmette
l'informazione sensitiva discriminativa del dolore a livelli talamici, e una parte
spino-reticolo-talamica, filogeneticamente più antica, che termina più
diffusamente nei nuclei reticolari del tronco encefalico. Il sistema spinotalamico diretto è importante per la percezione cosciente delle sensazioni
nocicettive e termina ordinatamente entro il nucleo ventro-postero-laterale del
talamo (VPL) ove afferiscono anche le vie nervose provenienti dalle colonne
dorsali che trasmettono la sensibilità tattile superficiale e la sensazione
articolare: ciò consente di discriminare aspetti sensitivi del dolore in merito alla
sua localizzazione, natura ed intensità.
A loro volta le cellule del VPL proiettano alla corteccia somato-sensoriale
primaria (1^ e 2^ area somato-sensitiva della corteccia parietale). Il sistema
spino-reticolo-talamico lungo il suo decorso ascendente invia collaterali ai
nuclei della sostanza reticolare bulbo-mesencefalica formando parte di un
sistema polisinaptico che termina nei nuclei talamici mediali: questo sistema
polisinaptico può mediare alcuni aspetti delle reazioni autonomiche e affettive
120
del dolore (p. es. reazione di allerta e di orientamento agli stimoli dolorosi),
mentre non sembra importante per la discriminazione e la localizzazione
sensoriale. Ricordiamo infine che dal sistema limbico afferiscono al talamo
neuroni provenienti dall'amigdala e dall'ippocampo: queste connessioni e le
loro implicazioni funzionali sono importanti per il tono cognitivo e psicoemotivo
che viene impresso all'evento dolore.
Il sistema di modulazione "antinocicettivo" comprende impulsi discendenti
provenienti dalla corteccia frontale e dall'ipotalamo che vanno ad attivare
neuroni mesencefalici e del bulbo.
Numerose prove testimoniano che questo sistema di modulazione contribuisce
all'effetto analgesico dei farmaci oppioidi, in quanto sono presenti recettori per
gli oppioidi stessi; inoltre, i nuclei che compongono il sistema di modulazione
del dolore contengono peptidi endogeni, come le endorfine.
Le condizioni in grado di attivare questo sistema di modulazione in modo più
costante sono il dolore e/o la paura che persistono per un periodo prolungato
ed infatti è stato dimostrato che sostanze endogene analgesiche vengono
rilasciate a seguito di interventi chirurgici.
La modulazione del dolore è a doppio senso e quindi si può avere sia
produzione di analgesia, sia intensificazione della sensazione dolorosa; infatti è
esperienza comune come stati psicologici particolari (stress e depressione)
siano in grado di automantenere le sensazioni dolorose croniche.
Lo stress è un fattore di importante variazione della percezione del dolore
secondo un processo "bifasico" che registra un innalzamento della soglia
(Analgesia da Stress - Stress Induced Analgesia, SIA), seguito, con perdurare
nel tempo della stimolazione, da un abbassamento a livello patologico, ovvero
di gran lunga minore del livello primitivo o di controllo. In questa seconda fase
possono essere coinvolti diversi peptidi come l'1-24 ACTH e la colecistochinina
(CCK) che assume il ruolo di "naloxone endogeno" (6, 7).
Per quanto riguarda la depressione, è tuttora controverso il significato della
sua concomitanza con il dolore, per cui se in alcuni pazienti i disturbi depressivi
sembrano essere solo secondari all'insorgenza del dolore, in altri il dolore
rappresenta una dei sintomi di depressione endogena.
Molti aspetti neurochimici sembrano comunque accomunare dolore e
depressione: il sistema monoaminergico, nella sua componente
serotoninergica, gioca un ruolo rilevante nella modulazione endogena del
dolore in quanto una sua diminuzione (a vantaggio della componente
noradrenergica), è in grado di aumentare la sensibilità e la reattività allo
stimolo nocicettivo, di diminuire la risposta analgesica agli oppiacei esogeni e
di evocare sintomi di tipo depressivo (4, 5, 8-11).
Gli antidepressivi triciclici, cui va riconosciuta una particolare efficacia
teapeutica nei due quadri, agirebbero diminuendo l'attività noradrenergica ed
121
aumentando quella serotoninergica. Nel paziente anziano tutta questa
problematica appare ancor più importante, se si considera che fattori psicosociali, con il conseguente stato di stress cronico, possono interagire con il
processo di invecchiamento cerebrale che sembra alterare la trasmissione
serotoninergica.
Classificazione del dolore
Una prima suddivisione del dolore (12, 13), tiene conto del tempo di
insorgenza, per cui si riconosce un dolore acuto, che di solito ha una causa
facilmente identificabile e che si associa ad uno stato emotivo di tipo ansioso
con attivazione del sistema simpatico, e un dolore cronico, che ha durata
maggiore di sei mesi. Diversamente da quello acuto, il dolore cronico perde la
sua funzione biologica di adattamento e, specialmente in età geriatrica, si
accompagna facilmente a depressione.
Il dolore cronico può essere suddiviso in nocicettivo (proporzionato alla
continua attivazione delle fibre nervose della sensibilità dolorifica), neurogeno,
(causato da un processo patologico organico interessante le vie nervose
afferenti) e psicogeno.
Il dolore di tipo nocicettivo può essere sia somatico che viscerale e nel paziente
anziano la maggior parte dei dolori cronici è di tipo nocicettivo somatico (p. es.
artrite, cancro, dolore muscolo-fasciale): in questo caso per alleviare il dolore
bisogno rimuovere la causa periferica (p. es. riduzione della flogosi), mentre
solo in un secondo momento si potrà ricorrere all'interruzione delle vie nervose
afferenti.
Il dolore da neuropatia deriva da un danno diretto alle vie nervose centrali e/o
periferiche causato da patologie molto frequenti in età geriatrica come per
esempio il diabete e l'herpes zoster.
Esso ha un carattere urente, tipo "scossa elettrica" o "formicolio" e può essere
scatenato anche soltanto da una lieve stimolazione tattile. I meccanismi del
dolore da neuropatia sono di vario tipo: le fibre afferenti primarie interessate
da una lesione, inclusi i nocicettori, divengono estremamente sensibili alla
stimolazione meccanica e iniziano a generare impulsi anche in assenza di
stimolazione, attivandosi spontaneamente.
La successiva elaborazione delle informazioni a livello del SNC può persistere
anche in assenza di un'attivazione continua delle fibre nervose sensitive e ciò
sta alla base della cosiddetta sindrome da deafferentazione, tipica del dolore
da arto fantasma. Le fibre nervose sensitive lese possono anche sviluppare una
ipersensibilità alla noradrenalina rilasciata da neuroni simpatici post-gangliari e
ciò determina un dolore urente o di tipo "bruciore" o "pugnalata" poco sensibile
ai farmaci analgesici, ma che risponde elettivamente al blocco del sistema
122
simpatico; questo dolore si manifesta con una latenza di ore, giorni o anche
settimane rispetto all'applicazione del danno nervoso (causato da fratture
ossee, traumi dei tessuti molli, infarto miocardico), e si accompagna a
tumefazione delle estremità, osteoporosi nelle aree periarticolari e
modificazioni artrosiche delle articolazioni distali (distrofia simpatica riflessa).
Il dolore psicogeno si presenta con intensità ed invalidità sproporzionate
rispetto alla causa somatica identificabile ed è correlato ad una tendenza più
profonda al comportamento anomalo da malattia (sindrome dolorosa cronica di
origine non neoplastica). Alcuni di questi pazienti non presentano alcuna
malattia organica ed i loro disturbi possono pertanto essere classificati fra le
cosiddette forme di somatizzazione.
Le definizioni sopra riportate sono riassunte nella seguente tabella.
TABELLA - Classificazione del dolore.
Acuto: causa facilmente identificabile, stato ansioso associato, attivazione del
sistema simpatico.
Cronico: durata maggiore di sei mesi, perdita della funzione biologica di
adattamento, associato facilmente a depressione.
Nocicettivo: proporzionato alla continua attivazione delle fibre nervose della
sensibilità
dolorifica, può essere somatico o viscerale.
Neurogeno: dovuto a processo patologico organico interessante le vie nervose
afferenti.
Psicogeno: intensità e invalidità sproporzionate alla causa somatica supposta
responsabile.
Le alterazioni della sensibilità dolorifica in età geriatrica: esiste una
"presbialgia"?
Per capire se con l'invecchiamento si determinano delle alterazioni della
percezione e dell'elaborazione del dolore, al pari di altre perdite di funzione,
dobbiamo valutare i seguenti "punti focali":
1. effetti dell'invecchiamento sul dolore "acuto": analisi dei risultati
sperimentali, aspetti fisiopatologici della percezione "atipica" di eventi dolorosi
acuti di particolare rilevanza clinica;
2. effetti dell'invecchiamento sul dolore "cronico";
3. influenza del deficit cognitivo sulla percezione del dolore.
123
1. Invecchiamento e dolore acuto
Il dolore acuto può essere sperimentalmente riprodotto e ciò comporta
teoricamente un'oggettiva analisi dei rapporti tra la percezione del dolore e
l'invecchiamento. Gli studi sperimentali che si sono succeduti fin dagli anni '40
si sono avvalsi per la maggior parte di stimolazioni termiche ed elettriche; in
qualche caso si sono analizzate le sensazioni dolorose da pinzamento del
tendine achilleo o da stimolazione elettrica dentaria.
I parametri presi in considerazione sono stati:
— la soglia del dolore, cioè la minima quantità di stimolazione per cui il soggetto
dichiara verbalmente di provare dolore;
— la soglia comportamentale al dolore, definita come la minima stimolazione
sufficiente a provocare la contrazione del muscolo orbicolare dell'occhio;
— la soglia della tolleranza al dolore, cioè la minima quantità di stimolazione che
provoca nel soggetto un dolore di intensità tale da non poter essere più
ulteriormente sopportato.
I risultati degli studi sperimentali che hanno valutato le variazioni età
dipendenti della soglia del dolore sono contrastanti, in quanto sono stati
riscontrati sia aumento (14-17) che assenza di modificazioni (18-19) dei
parametri considerati.
Analoghi, contrastanti risultati si sono ottenuti analizzando la soglia
comportamentale del dolore (15-18), mentre per quanto riguarda la soglia di
tolleranza al dolore sembra esservi una diminuzione con l'avanzare dell'età
accompagnata da un minimo aumento del tempo in cui si manifesta lo stesso
fenomeno, rilevabile però solo nei soggetti di sesso femminile (20-21).
Questi dati sperimentali così contradditori possono essere stati determinati da
varie condizioni. In primo luogo, la quasi totalità degli studi sperimentali
analizzava il dolore superficiale evocato da brevi stimolazioni cutanee: non è
chiaro come cambiamenti, correlati all'età, di questo tipo di dolore dovuto alla
stimolazione di fibre afferenti di tipo A-d, correli con il dolore clinicamente più
rilevante (viscerale e profondo), mediato da fibre amieliniche di tipo C.
In secondo luogo, mancano in letteratura studi longitudinali sull'effetto dell'età
sulla percezione del dolore, per cui i dati disponibili derivano da studi
trasversali che, come tali, introducono potenziali bias (drop out di selezione,
effetto coorte, precedente storia di dolore). Dobbiamo infine tenere presente
che i parametri "soglia del dolore" e "tolleranza" sono assai poco collegabili al
dolore acuto della pratica clinica o al dolore cronico, tanto è vero che entrambi
i parametri non sembrano essere influenzati dai trattamenti analgesici.
Rifacendoci alla definizione fisio-patologica di "dolore", è logico attendersi che
sulla sua percezione vadano ad interagire fattori emozionali e cognitivi
124
particolari: è esperienza comune il fatto che un intervento chirurgico d'urgenza
(specie se seguito da prolungata immobilizzazione) determina un'apparente
diminuzione della soglia del dolore negli anziani e contemporaneamente può
causare episodi di "delirium".
E' stato dimostrato che nei soggetti anziani sottoposti ad intervento per
frattura dell'anca il contesto e la natura dell'esperienza influenzano
grandemente le percezioni dolorose, ed il dolore acuto ed il comportamento
delirante sono molto meno frequenti nei soggetti che hanno potuto ricevere
un'adeguata informazione sulle procedure, ovviamente a parità di condizioni
cliniche pre- e post-operatorie (22).
Ciò che ha una particolare rilevanza nell'analisi della fisiopatologia del dolore
acuto è invece la presentazione spesso atipica dello stesso in alcune gravi
condizioni patologiche: è assodato che l'infarto miocardico silente è più
frequente nei vecchi che nei giovani (23-25), e la malattia ulcerosa anche
complicata è frequentemente priva di sintomatologia dolorosa nei pazienti di
età geriatrica (26-27).
La sensazione dolorosa in queste patologie viscerali acute origina quando
vengono raggiunti livelli sufficienti di impulsi afferenti e quando si ha
un'appropriata attivazione delle vie centrali ascendenti (28).
Negli anziani asintomatici questi livelli di stimolazione potrebbero non essere
raggiunti, a causa di una insufficiente stimolazione tessutale o di una diminuita
capacità di trasmissione cefalica, e ciò può essere all'origine di una supposta
"ipoalgesia" del paziente anziano (29).
Tuttavia questi dati non tengono conto del fatto che con l'invecchiamento si ha
un aumento dell'incidenza e della prevalenza di angina da sforzo (30-31) e che
in giovani adulti si verificano frequenti episodi di ischemia silente (con
depressione del tratto ST) indotta da stress (32).
Una possibile conclusione è che l'invecchiamento "di per sé" non diminuisca o
alteri il sistema complesso coinvolto nella trasmissione e nell'elaborazione del
dolore acuto rilevabile clinicamente anche se, in mancanza di dati sperimentali
che correlino
il dolore atipico con quello superficiale indotto sperimentalmente, è del tutto
giustificato e prudente considerare la presentazione dolorosa atipica come
manifestazione di malattia acuta dell'anziano.
2. Invecchiamento e dolore cronico.
Numerosi studi epidemiologici sembrano indicare che il dolore acuto, di recente
insorgenza, diminuisca con l'avanzare dell'età mentre aumenti quello di non
recente osservazione (11, 31).
125
Più precisamente, le visite per dolore di recente insorgenza raggiungono un
picco tra la prima e la seconda metà della 5^ decade di vita, mentre le visite
ambulatoriali per dolore cronico aumentano linearmente fino ai 65 anni per poi
decrescere leggermente dai 65 anni in avanti (32).
E' interessante notare come le condizioni cliniche che più frequentemente
determinano dolore cronico nell'età giovane-adulta (emicrania, cefalea, cefalea
muscolo-tensiva, malattia ulcerosa, dolore addominale, dolore dorsale)
diminuiscano nell'età avanzata, mentre aumentino quelle associate a processi
degenerativi muscolo-scheletrici, alle fratture ossee, al sistema cardiovascolare
ed all'herpes zoster (11, 33).
Il dolore cronico e la disabilità conseguente sono fra le cause più importanti di
scadente qualità di vita, ridotto benessere e depressione nei pazienti anziani
(34, 35). Inoltre, in uno studio condotto su 1306 anziani istituzionalizzati, è
stato condotto come il dolore cronico muscolo-scheletrico costituisca un
importante fattore di disabilità (36).
Per quanto riguarda il dolore neoplastico, non sembrano emergere significative
differenze per intensità e possibile presenza di dolore di tipo neuropatico o
acuto incidentale nelle diverse classi d'età; gli anziani tuttavia, come
recentemente messo in luce, sembrano richiedere minori quantitativi di
oppioidi, definiti come MEDD, cioè [(parenteral) morphine equivalent daily dose
(MEDD)], rispetto ai pazienti giovani-adulti per ottenere l'analgesia (37).
3. Influenza del deficit cognitivo sulla percezione del dolore.
I deficit cognitivi dipendenti da varie affezioni del SNC (demenza di Alzheimer,
demenza multi-infartuale, morbo di Parkinson, ecc..), aumentano
considerevolmente con l'avanzare dell'età (38), tanto che il rischio di
sviluppare una demenza sembra raddoppiare ogni 5 anni dopo i 65 anni (39).
Nonostante che demenza e dolore cronico siano molto frequenti in età
geriatrica, allo stato attuale non si hanno dati sufficienti in letteratura sulla
prevalenza, la definizione delle caratteristiche peculiari ed il management del
dolore negli anziani dementi.
Probabilmente, la causa di questa situazione è da ricercarsi nella difficoltà di
valutare oggettivamente, con appropriati test, il dolore riportato dai pazienti
con deficit cognitivo, per cui solo pochi studi in letteratura esaminano la
prevalenza del dolore come funzione dello stato cognitivo.
Ferrel esaminò la prevalenza di sintomatologia dolorosa cronica in 217 pazienti
istituzionalizzati con un punteggio medio al Mini Mental State Examination Test
(MMSE), di 12.1 (indicativo di grave deterioramento cognitivo), registrando che
circa il 60% dei pazienti accusavano dolore cronico di tipo osteo-articolare, in
rapporto ad una diagnosi certa di osteoartrite nel 70% degli stessi (40).
Marzinski riscontrò che il 43.3% dei ricoverati di uno speciale reparto per
126
malati di Alzheimer riferivano ed avevano condizioni potenzialmente algogene
(41).
Quindi, non v'è ragione per credere che con la demenza non si manifestino le
condizioni dolorose e non si attivino conseguentemente le vie afferenti
sensoriali.
Tuttavia, è stato chiaramente dimostrato che la percentuale di pazienti
dementi che esprimono almeno un dolore cronico diminuisce con l'aumentare
del deficit cognitivo, anche dopo avere controllato la disabilità fisica (42), per
cui è più probabile che il dolore riferito da pazienti dementi sia in verità
sottostimato.
E' ovvio che la principale difficoltà che si incontra nella valutazione della
presenza di sintomatologia dolorosa nei pazienti con deficit cognitivo è
rappresentata dal deficit di espressione verbale.
Quindi è necessario sostituire tale modalità espressiva con altre, altrettanto
significative: per esempio, la presenza di un familiare attento può essere
indispensabile per la registrazione di tutte le manifestazioni che siano
potenziali indicatori di dolore fisico. Infatti la valutazione del dolore mediante
indicatori non verbali (espressione del viso, atteggiamenti motori generali) è
ben documentata per pazienti con stato cognitivo integro e sembra conservare
la propria validità anche nei pazienti con grado molto avanzato di decadimento
cognitivo e di immobilizzazione (43).
In tal senso altri Autori hanno concentrato i loro sforzi per la strutturazione di
una scala di valutazione del disagio facilmente applicabile anche a pazienti
affetti da demenza; tale scala potrebbe essere facilmente applicata dagli
abituali "caregivers" e analizza varie aree: respirazione difficoltosa, assenza di
reazione verbale, impossibilità di essere tranquillizzato, atteggiamento di paura
o di tristezza, espressione corrucciata, ipertono muscolare in diverse posture,
irrequietezza, tensione (44, 45).
Conclusioni
Da quanto sopra esposto possiamo trarre le seguenti conclusioni:
Ø i dati della letteratura non sembrano indicare un sicuro effetto
dell'invecchiamento sulla percezione del dolore acuto, sperimentalmente
indotto, almeno per quanto attiene al soggetto "young old", rispetto a quello di
età giovane-adulta.
Non esistono allo stato attuale studi sistematici che affrontino il problema nel
soggetto "old-old" o affetto da polipatologie ("frail elderly"). La mancanza di
studi longitudinali limita ancor più le nostre consoscenze sull'argomento;
Ø le sensazioni nocicettive acute provenienti da strutture profonde sono ridotte
nel paziente anziano, ma nel contempo appare aumentata la frequenza del
127
dolore cronico proveniente dalle stesse strutture (per esempio alta frequenza
di infarto miocardico acuto silente ed aumento dell'incidenza di angina da
sforzo);
Ø l'intensità e la frequenza del dolore cronico sembrano aumentare con l'età;
Ø le differenze età dipendenti nella percezione del dolore non sono
probabilmente espressione di un danno recettoriale (come nella presbiacusia),
o di un'alterata accomodazione dello stimolo (presbiopia), ma sono
conseguenza di un processo più complesso che coinvolge le vie nervose di
trasmissione, le valutazioni e rappresentazioni cognitive, lo stato sociale e la
storia stessa di dolore;
Ø non vi è ragione per ritenere che i soggetti anziani affetti da decadimento
cognitivo siano meno a rischio di avere condizioni patologiche dolorose rispetto
ai soggetti di pari età non dementi.
E' piuttosto da ritenere che i pazienti con demenza non siano in grado di
esprimere le proprie sensazioni dolorose, per cui è necessario sostituire la
registrazione delle modalità espressive verbali con altre, altrettanto
significative (espressione del viso, respirazione difficoltosa, ipertono muscolare,
irrequietezza, ecc..).
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131
EDITORIALE
Dolore cronico e psicogeriatria
Chronic pain and psychogeriatrics
Ennio Cocco
Servizio Universitario di Psicogeriatria, Losanna (CH)
Divisione di Psichiatria, Ospedale S. Gerardo, Monza
Introduzione
Le ragioni di un interesse per il problema del dolore cronico in psicogeriatria
hanno a che vedere sia con dimensioni di tipo teorico e dottrinario sia con
aspetti di tipo epidemiologico e medico-sociale.
Sul piano dottrinario, entrato definitivamente in crisi il pregiudizio di un declino
"parafisiologico" della sensibilità nocicettiva nella tarda età, pregiudizio che si
basava su una indebita analogia con quanto osservato per altre sensibilità
(vista, udito, vibrestesia eccetera), ha acquisito rilevanza crescente per i
ricercatori il problema - multidisciplinare - delle specifiche modalità di
percezione e di integrazione del dolore nel paziente anziano, in relazione non
solo con le differenti patologie, ma anche con gli specifici stati di disabilità
funzionale che ne possono conseguire e con i possibili correlati di tipo
psicosociale, tra i quali va sicuramente menzionato il contesto assistenziale di
cura.
Se si vuole, il noto schema dell'Organizzazione Mondiale della Sanità che invita
a distinguere, per ogni entità nosografica, quattro differenti livelli di impatto
con la salute della persona (malattia o disturbo, danno o menomazione,
disabilità e handicap) trova nel campo del dolore in psicogeriatria
un'applicazione particolarmente convincente.
D'altro lato, in una prospettiva di sanità pubblica (come usa dire oggigiorno
con espressione forse un po' inflazionata) il fatto che il problema del dolore
cronico giochi, come sarà detto oltre, un ruolo di rilievo nelle due principali
patologie psicogeriatriche, la demenza e la depressione, comporta
conseguentemente un suo impatto estremamente rilevante sul piano
epidemiologico.
Si tenga conto del fatto che, non solo a causa del noto trend demografico, ma
anche della differente velocità di progressione delle conoscenze in altri terreni
132
della medicina (quali l'oncologia e la chirurgia vascolare) il peso della
psicogeriatria, e della dementologia in particolare, nell'ambito delle cure
palliative diventerà nel prossimo futuro preponderante.
Con dementologia non ci si vuole riferire tanto all'oggetto scientifico di -più o
meno raffinate- diagnosi differenziali da parte dei cultori di neuroscienze, ma
piuttosto a quella sorta di terra di nessuno rappresentata dalle diverse forme
decadimento cognitivo (di "incompetenza ecologica") quali si incontrano nella
every day life dei medici e degli operatori sanitari, ove il quadro clinico
neuropsicologico "puro" è complicato molto spesso da sintomi strettamente
psichiatrici, da episodi confusionali acuti intercorrenti, da comorbilità organica
e da conseguente polifarmacoterapia, da problematiche sociali quasi sempre
sottovalutate (i cosiddetti unreported needs della letteratura anglosassone),
tra cui va menzionata innanzitutto la solitudine al domicilio.
Una terra di nessuno che perde via via i connotati rigorosi della scientificità per
assumere quelli molto meno definiti del "declino di vita aspecifico
medicalizzato" che nella storia della medicina geriatrica ha preso tanti nomi,
dalle diagnosi-cestino (come sono state autorevolmente chiamate) quali
marasma senile o arteriosclerosi cerebrale, a definizioni più recenti e più
eleganti ma egualmente vaghe come quella di "sindrome di scivolamento glissement" dei geriatri di scuola franco-svizzera.
Aspetti clinici
E nell'area psicogeriatrica o meglio nell'ambito delle due patologie chiave di
questa area, la demenza e la depressione, il dolore cronico nonmalignant,
quale che ne sia l'esatta origine (del resto non di rado poco definibile)
rappresenta un elemento clinico di capitale importanza.
Per lungo tempo la attitudine rinunciataria nei confronti della demenza ha
portato a trascurare una clinica adeguata al di là di specifici e isolati motivi di
interesse scientifico neuropsicologico.
Ci si limitava ad assumere, abbastanza apoditticamente, che il demente, in
quanto compromesso sul piano della capacità di integrare le informazioni, non
fosse in grado di sperimentare il dolore.
Conseguenza ancora attuale di questa sottovalutazione del problema è che,
come evidenziano diversi contributi della letteratura gerontologica, una elevata
quota di anziani affetti da decadimento cognitivo sperimenta, in particolare
nell'ultimo periodo di vita, una sintomatologia dolorosa che rimane non trattata
(cfr. Moss MS. Powell Lawton M & Glicksman A. The Role of Pain in the Last
Year of Life of Older Persons. Journal of Gerontology 1991; Vol. 46, P51-57).
Questa inadeguata gestione del problema è da ricondurre innanzitutto al
mancato riconoscimento della sintomatologia dolorosa stessa, dovuto tanto alla
133
incapacità del paziente demente a segnalarla quanto alla incapacità del medico
e dello staff di cura a riconoscerla.
A tale insufficiente detection si aggiungono poi altri fattori quali la riluttanza a
somministrare antidolorifici a soggetti spesso in precarie condizioni generali di
salute e la insufficiente formazione degli operatori sanitari alla gestione del
dolore cronico.
E' probabile che molti pazienti affetti da demenza in stadio molto avanzato
(equivalente al grado 7d, 7e e 7f della scala FAST - Functional Assessment
Staging- di Barry Reisberg) concludano la loro vita in condizioni di dyscomfort
estremo, conseguente a una sintomatologia a tipo dolore cronico non
oncologico importante che essi non sono in grado di segnalare (se non
indirettamente attraverso manifestazioni di agitazione psicomotoria, grida,
eccetera) e che perciò non viene adeguatamenta trattata. Per dare un'idea
delle dimensioni epidemiologiche del problema, si consideri che nelle istituzioni
geriatriche residenziali dal 50% al 75% degli anziani ricoverati è affetto da
demenza.
Il discorso non perde certo di spessore passando alla seconda area cardine
della psicogeriatria, e cioé la depressione, che interessa (includendo la
famigerata distimia) circa il 10-15% della popolazione generale degli
ultrasessantacinquenni. Se ci si concentra sugli anziani istituzionalizzati, tale
percentuale sale, secondo le stime di prevalenza più prudenti, ad almeno il
30%.
La relazione dolore-depressione nell'anziano è complessa per almeno tre
distinti motivi. Innanzitutto perché il depresso avverte di più il dolore. Occorre
precisare che il depresso avverte di più il dolore reale, non si tratta di banale
"lamentosità" come molti clinici psichiatri ancora oggi credono (cfr. Parmelee
PA, Katz IR & Powell Lawton M. The relation of pain to depression among
instituzionalized aged. Journal of Gerontology, 1991; Vol 46, 15-21).
In secondo luogo perché una depressione può manifestarsi, nell'adulto e
ancora di più nell'anziano, esclusivamente attraverso una sintomatologia
dolorosa, ciò che ha portato recentemente a rivalutare il vecchio concetto di
depressione mascherata. Dunque un dolore cronico - da non ritenersi fittizio può essere considerato l'espressione di una depressione altrimenti silente
(alessitimia).
Infine, la presenza di una sintomatologia dolorosa cronica può indurre
depressione.
Si tratta dell'inquadramento schematico proposto da Romano & Turner
(Chronic pain and depression: does the evidence support a relationship?
Psychological Bulletin, 1985; Vol. 97, 18-34) che individuano due grandi
categorie di pazienti: coloro per i quali il dolore cronico va considerato un
sintomo di depressione (talvolta il solo) e coloro che conseguentemente a un
dolore cronico sviluppano una depressione.
134
Un ulteriore elemento di complessità e di difficoltà nell'ambito della valutazione
e della gestione del paziente anziano che soffre sul piano emotivo-affettivo e
che lamenta una sintomatologia dolorosa è rappresentato dalla possibilità,
paradossale, che il paziente non segnali o segnali insufficientemente la
presenza di dolore a causa di sintomi depressivi quali l'apatia e la sfiducia nella
possibilità di ricevere un aiuto (la cosiddetta helplessness), e questo
indipendentemente dalla presenza di una comorbilità cognitiva.
Nuovi scenari...per vecchi problemi
Come si può vedere anche solo da questi sommari accenni, quello del dolore in
psicogeriatria è un terreno di riflessione tanto complesso sul piano della pratica
quanto stimolante sul piano della ricerca (e si sono tralasciati qui diversi altri
aspetti clinici, meno rilevanti ma non secondari; tra i tanti, la correlazione tra
trattamento analgesico e insorgenza di episodi confusionali acuti).
Terreno tuttavia abbastanza trascurato, se si tiene conto del fatto che, almeno
fino all'epoca della review della Cook (Cook AKR, Niven CA & Downs MG.
Assessing the pain of people with cognitive impairment. International Journal
of Geriatric Psychiatry 1999; Vol.14, 421-425) non erano disponibili in
letteratura studi dedicati alla valutazione delle capacità dello staff di cura di
riconoscere la presenza di sintomatologia dolorosa in pazienti deteriorati
cognitivamente.
La sottovalutazione del problema sembra essere maggiore, secondo la stessa
autrice, a livello dell'ospedale generale, dove la capacità di riconoscere e
gestire il dolore è modesta, probabilmente inferiore a quella presente in altri
contesti residenziali di cura di tipo lungo-degenziale, dove il contatto
prolungato nel tempo con individui affetti da decadimento cognitivo renderebbe
i curanti più allenati a riconoscere i pain behaviour.
Una constatazione particolarmente interessante qualora venga fatta
cortocircuitare con quelle ricerche (Cocco E. et al, in preparazione) che
segnalano come le divisioni di geriatria dell'ospedale generale rappresentino un
contesto di elevata esposizione al burnout.
Queste evidenze supportano l'ipotesi di una possibile associazione tra
sottoriconoscimento del dolore cronico nei pazienti geriatrici in ospedale
generale e insorgenza di burnout negli operatori.
Conclusioni
Se questi dati sul burnout enfatizzano la necessità di prendersi cura di chi cura
anche (e forse soprattutto) in geriatria e anche (e forse soprattutto)
nell'ospedale generale, nondimeno è chiaro che la sfida del dolore cronico in
psicogeriatria si gioca e si giocherà sempre di più sul terreno delle istituzioni
lungo-degenziali, nell'ambito di quegli scenari che potremmo chiamare sulla
135
scia di Nachemson i luoghi del welfare impossibile (Nachemson AL. Chronic
pain: the end of the welfare state? Qual Life Res Supp 1994; 1, 11-117).
Ci si riferisce del tutto genericamente a reparti più o meno speciali di Case di
Riposo e R.S.A., quale che ne sia lo statuto (Unità Alzheimer, I.D.R., N.A.P.,
hospices ecc.), a Istituti di lungodegenza e riabilitazione e ancora a reparti di
degenza ospedaliera medica o psichiatrica più o meno surrettiziamente abilitati
o autoabilitati ad accogliere cronici.
Si potrebbe dire a tutti quei luoghi deputati ad accogliere ciò che la
onnipotenza della medicina scientifica, o se si preferisce la società dalle
aspettative crescenti e del diritto alla salute, allontana da sé come ingestibile o
antieconomico (assistenziale appunto).
Luoghi deputati a drenare un referral sempre più rappresentato dalla (sempre
minore) soglia di tolleranza dei caregivers informali e formali per quanto si
configura come "problema" sul piano del comportamento e della gestione del
paziente.
In questa situazione di sfida tanto necessaria quanto impossibile (se si accetta,
con Jaspers e Gadamer tra gli altri, che è impossibile - in ultima analisi rispondere al bisogno di salute dell'uomo così come è impossibile fare della
morte qualcosa di diverso dall'assoluto negativo del filosofo) la tolleranza e la
accettazione del dolore passano (e neanche tanto paradossalmente) attraverso
l'impegno a cercare di studiarlo, riconoscerlo e trattarlo adeguatamente.
136
Una riflessione sul dolore…
Una riflessione sul dolore fisico prodotto dalla meditazione
Eric Rommeluère
L’apprendimento della meditazione riscopre uno spazio di libertà interiore. Ci si
trova - ci si ritrova ? – in uno stato profondo di calma e di tranquillità. Questi
stessi termini, infatti, non sono assolutamente adeguati, poiché parlare di
calma o di tranquillità rimanda ancora a termini opposti come l’agitazione o la
lotta. Nella meditazione si opera una trasformazione dove tutte le opposizioni
diventano caduche: non ci si percepisce più come agitato o non agitato e si
diventa completamente “a proprio agio”.
Coloro che praticano la meditazione, particolarmente i principianti, tuttavia
spesso si confrontano con un altro modo di essere della meditazione dove non
si trovano assolutamente a proprio agio. Voglio parlare del dolore. Il soggetto è
poco trattato dai praticanti.
Per gli insegnanti, spesso discepoli di uno Zen giapponese dal temperamento
marziale, la sofferenza fisica rimane percepita come normale, addirittura come
necessaria.
Questa questione del dolore deve pertanto essere chiarita; perché io stesso
sono convinto che lo stato di intensa sofferenza fisica che si può alle volte
sperimentare ai corsi di meditazione rimane antinomica allo stato tranquillo del
samadhi.
Sono stupito che non si parli quasi mai di questa esperienza del dolore.
La letteratura Zen oggi disponibile è immensa, si trovano numerosi manuali di
meditazione ma nessuno tratta il vissuto dei praticanti con tutto il suo corteo di
difficoltà.
Tutt’al più ci si sofferma sulle allucinazioni che, tutto sommato, non riguardano
che poche persone. Ma niente sulla sofferenza fisica.
C’è quasi una disistima del vissuto interiore che non manca di stupirmi.
Pertanto chiunque abbia sperimentato dei ritiri Zen nello stile giapponese, per
esempio, sa che il dolore è un compagno abituale durante tutte le sedute di
meditazione.
Nei numerosi centri Zen occidentali, i praticanti vivono spesso la meditazione
come una prova, Per molti, le lunghe serie di meditazioni creano uno stato
d’ipersensibilità e di invasione dolorosa dell’essere. Appena si domanda loro di
non muoversi, i più fra loro devono venire a patti con la loro sofferenza: per
uno, un leggero movimento del corpo, per l’altro un raschiamento di gola.
137
Quando si fa troppo pressante, devono inventarsi degli stratagemmi e dei
derivativi mentali per ornare il tempo (e smobilitare il dolore). Georges Frey
(alias Taikan Jyoji) che visse molti anni nel monastero di Shofukuji a Kobe , lo
spiega bene:”Ci sono due possibilità di fuggire le difficoltà durante lo zazen: la
prima consiste nel concentrarsi sul koan o la respirazione.
Si dimentica la realtà, si oltrepassa il dolore. Così il tempo passa in fretta. Ma
mi è impossibile rimanere concentrato più di una mezz’ora al giorno. Allora
pratico la seconda possibilità, quella che consiste nel farsi del cinema mentale.”
Lo spirito è allora sul chi vive, preso in un vai e vieni continuo tra posso
resistere o non posso resistere?
Si spia il più piccolo rumore che indicherà l’approssimarsi della fine della
meditazione. I previdenti prendono degli antidolorifici e altri dei balsami per le
articolazioni. Perché ogni praticante lo sa: può fare male!
Non bisogna negoziare con il dolore, bisogna oltrepassarlo, si sente spesso
dire. Un discorso ricorrente vuole in effetti che abbia un valore positivo.
Sarebbe addirittura necessario: il dolore permetterebbe una migliore
concentrazione anche per eludere le trappole dell’”ego”. Discorso paradossale,
poiché il fine del buddismo rimane pur lo sradicamento della sofferenza:
soffrendo voi non soffrirete più. Leggiamo il diario di Georges Frey: “Io prendo,
la prima sera, la ferma risoluzione di non muovermi più, qualsiasi cosa capiti.
Anche se le mie gambe dovessero staccarsi dal mio corpo, col rischio di
crepare sul mio cuscino, io non cambierò di posizione. Così ho modificato il mio
approccio al dolore. Non tento più di fuggirlo. Aspetto a piè fermo. E’ il solo
mezzo perché la mia meditazione possa approfondirsi. Malgrado la sofferenza,
inevitabile, io non mi muovo. Bisogna che io la oltrepassi, senza questo essa
avrà sempre l’ultima parola. So che io devi dominare il dolore o restare
dominato da lui. Non c’è altra scelta che mettermi in perpetua alta tensione
spirituale, di dominare per non essere dominato”.
Dominare per non essere dominato: C’è nello Zen giapponese, una certa
cultura della violenza e della virilità. I principianti ne fanno esperienza nei
monasteri subendovi, non soltanto i dolori fisici della meditazione, ma anche la
sofferenza morale, la frustrazione e l’umiliazione da parte degli anziani.
Se è vero che il dolore modifica il nostro rapporto con il mondo – si potrebbe
qualificarlo di sottrazione, sottrazione al proprio essere, alle percezioni – non
può condurre allo stato di samadhi. Parlo ben inteso di un dolore totale ,
invadente, non dei semplici crampi che si sentono talvolta.
La confusione psico-corporale (che cosa è il tempo, che cosa è lo spazio per
l’uomo che soffre?) che induce un corpo dolorante è il contrario di uno stato di
tranquillità e di appagamento.
138
La meditazione ci introduce ad un nuovo rapporto con noi stessi,
essenzialmente non violento.
Il dolore, invece, è interamente fatto di violenza. Violenza contro sé, violenza
contro altri . Nei numerosi centri, è infatti segno di un obbligo, quello della
sottomissione al gruppo.
Un obbligo che s’infligge ma soprattutto, poiché è accettato, che il gruppo
infligge: implica il praticante in una relazione interattiva. Il dolore non è solo
una sensazione, è prima di tutto significato.
Questo punto è raramente spiegato. Segnando la carne il dolore materializza
l’appartenenza dei corpi.
Questa dimensione interpersonale del dolore si rivela nei sesshin (i ritiri Zen
alla giapponese) dove di seduta in seduta, questa diventa poco a poco
l’esperienza centrale della meditazione. Si dovrebbe scrivere una
fenomenologia del sesshin.
Dopo otto –quattordici ore di meditazione quotidiana, per i corpi poco temprati,
il sesshin si muta in prova dove il dolore prende quasi un valore iniziatico… La
leggerezza o il brio descritti da quelli che escono da uno di tali ritiri sono
misurati alle difficoltà che avranno incontrato.
Lo zendo, il dojo, diventano l’arena, il luogo recintato, dove ciascuno, nello
stesso tempo testimone ed attore, partecipa ad un dolore collettivo. I limiti tra
me e gli altri si dissolvono: Cosa ne può il mio vicino dell’irriducibilità della mia
sofferenza, soffre anche lui?
Pertanto alle volte io arrivo a percepire un movimento impercettibile, il suo
pianto silenzioso.
Così lontano e così vicino agli altri, ecco tutto il paradosso di questo luogo.
Questa esperienza è simile presso gli Orientali?
Non dimentichiamo che il dolore non è che una semplice reazione fisiologica.
Le percezioni, le reazioni, le manifestazioni del dolore si modificano secondo la
storia personale, relazionale e culturale.
“Anche se la soglia della sensibilità è simile per l’insieme della società umana,
la soglia del dolore alla quale reagisce l’individuo e l’attitudine che adotta da
quel momento sono legati essenzialmente al tessuto sociale e culturale”.
Che io sappia, non esiste uno studio comparato sull’esperienza meditativa degli
orientali e degli occidentali, ma si può supporre che l’acutezza, la valutazione e
l’integrazione del dolore in un contesto giapponese sia molto differente dal
nostro.
139
Ho citato, per esempio, Georges Frey, svizzero educato in una cultura europea.
Se un giapponese soffre altrettanto, quale sarà la percezione del suo proprio
dolore? Il fatto stesso che ne scriva (che non impregni semplicemente la sua
carne ma ugualmente i suoi discorsi) è significativo, Un giapponese potrebbe
solamente parlarne?
Nello Zen estremo-orientale, la rohatsu sesshin occupa una parte particolare.
Commemora l’illuminazione del Buddha e dura dal 1° al 8 del dodicesimo mese
lunare (oggi dal 1° al 8 di dicembre nel Giappone che adotta il nostro
calendario).
E’ praticato in Giappone, in Cina e in Corea. Si tratta di meditare in una
maniera quasi ininterrotta per una settimana. Tradizionalmente non si dorme
seduti che qualche ora.
Questo sesshin è vissuto dai suoi stessi partecipanti, in base alle testimonianze
che si possono leggere qui e là, come una prova fisica intensa dove la
privazione del sonno si aggiunge al dolore….
Assomiglia ad un rito di iniziazione: si tratta di morire e di rinascere. Nel
monastero giapponese di Tenryuji, il ritiro è spostato per farlo terminare
simbolicamente al solstizio d’inverno.
Secondo le parole di Omori Sogen.”On crossing the threshold rebirth of the
winter solstice, yin( darkness) turns into yang (light), symbolizing rebirth to
one’s original self-nature after one’s experience of Great Death.”. La funzione
del sesshin come rito di passaggio, dove la sofferenza fisica e psichica è
centrale, appare particolarmente nella scuola Zen Sambo Kyodan fondata da
Hakuun Yasutani (1885-1973) .
L’illuminazione sembra il prezzo di questa sofferenza. Del primo sesshin gestito
da Yasutani ad Hawaii nel 1962, Eido Stimano, che insegna attualmente lo Zen
negli Stati Uniti, riferisce che fu:”Tanto isterico che storico. Esso si caratterizzò
per il fatto che Yasutani roshi lo considerò come cinque esperienze di kensho
(illuminazione).”Non so da quando esista la pratica di questi ritiri intensivi che
sembra tardiva nella storia dello Zen.
Non è menzionata, per esempio, da Dogen.( 1200-1253).
Allora,bisogna fare l’elogio del dolore?
Costringersi, soffrire? Bisogna credere che: ”il dolore non è un fine in sé, ma
che obbliga a sforzi di oltrepassare i propri limiti: sforzi necessari per cogliere
l’esperienza Zen”; che” le austerità ascetiche Zen sono sempre praticate nel
limite delle possibilità umane.
Se dal 1°all’8 dicembre, durante rohatsu, si pratica zazen quasi senza
interruzione, è la prova che l’essere umano può non dormire per otto giorni.”
140
Non avendo sperimentato il satori, non so se il laceramento interiore provocato
dal dolore si confonda o permetta il laceramento dell’illuminazione.
Tuttavia mi sembra chiaramente che ogni dolore grande paralizzi il samadhi.
Il dolore è chiusura.
Ci richiude su noi stessi.
Il corpo non è più quel compagno silenzioso, egli grida, e le sue grida coprono
tutti i suoni del mondo. All’opposto la meditazione è tutta in apertura. Il dolore
è una prigione, la meditazione è una liberazione.
Non voglio dire che bisogna essere lassisti o diminuire i tempi della
meditazione. La vera domanda da porsi è questa: facciamo meditazione o
facciamo finta di praticare?
Leggiamo ancora Georges Frey: ”Con la coda dell’’occhio, vedo entrare il
Maestro. Ha un corto bastone piatto. Avanza, lentamente, scruta e misura
ciascun bonzo come un colonnello che passi in rivista le sue truppe. Noi siamo
sull’attenti, nella posizione seduta, facendo finta di essere in samadhi.” Il
paragone è da sottolineare.
Per un giapponese, l’addestramento militare e l’addestramento Zen quasi si
confondono. Si conoscono le influenze reciproche delle arti marziali e dello Zen.
Il bushido, la via del guerriero, è stato considerato come uno Zen in azione.
D’altronde lo Zen giapponese non è un’arte marziale dove si combatte, non un
nemico esterno, ma un demone interiore: Mara.
In questo contesto, l’abnegazione fu reinterpretata in misura della vacuità.
Vincere è essenziale: “Durante la meditazione della sera, ieri, soffrivo talmente
da avere le lacrime agli occhi. Dolore, freddo e fatica sono le tre cose che mi
prostrano.
Non sono ancora capace di superarle, malgrado i progressi che ho fatto nel mio
zazen. Quanti sforzi per così poca realizzazione! Se il mio desiderio di vincere
queste difficoltà è incrollabile, allora posso riuscire. Dare il meglio di me stesso
tutto il tempo, ecco il mio scopo, ma come è difficile!
Non lasciarmi mai abbattere è essenziale, sempre volere vincere, senza
pensare ad altra cosa che concentrarmi sul koan.”
E’ questo lo Zen che bisogna praticare? Io credo in un altro modo di imparare
la meditazione, in una maniera non violenta, quasi femminile,rispettosa del
proprio corpo, all’opposto della meditazione virile dello Zen giapponese. Non
c’è niente da vincere nella meditazione.
I praticanti non hanno record da battere. In alcuni centri Zen, la meditazione
diventa l’oggetto di una competizione invisibile (contro di sé, contro gli altri):
141
bisogna resistere! Per molti disincrociare le gambe a pochi minuti dal fatidico
gong, sarà vissuto come uno smacco.
Pertanto ogni persona ha la sua propria storia corporale. Io rimango persuaso
che ognuno può e deve imparare a gestire la propria meditazione, non
confondersi in un modello ieratico dove la serenità non sarà che apparente.
Ciò non vuole dire che bisogna smettere di meditare al minimo crampo, si
tratta piuttosto di imparare a gestire le proprie difficoltà. Lo sforzo necessario
deve trovare il suo giusto mezzo.
Lo Zen coreano propone un modello di gestione del dolore originale che
potrebbe essere ripreso. Proprio come in Giappone, i monaci coreani meditano
molto. Per loro, l’anno è diviso in quattro periodi di tre mesi, due ritiri formali e
due periodi intermedi. Durante i ritiri, il programma quotidiano comprende
generalmente 14 ore di meditazione in blocchi di 3 ore dove alternano 50
minuti di meditazione seduta seguita da 10 minuti di meditazione in piedi. Nei
periodi intermedi si pratica un po’ meno “a piacere”.
Ciò significa che durante ogni blocco di tre ore, ciascuno è libero di gestire la
propria meditazione a suo piacimento. Le tre ore non sono rigidamente
codificate tutte le volte, ciascuno può praticare alternativamente le
meditazione sedute e in piedi con il suo proprio ritmo.
Si può anche uscire dopo una mezz’ora di meditazione seduta e praticare
un’ora di meditazione in piedi. Vi è là un’astuta combinazione tra una pratica
rigorosa e ciò nonostante adattata alle possibilità di ognuno.
Non è neanche il caso di dirlo che questo metodo più flessibile ha la preferenza
dei monaci. Esiste una tradizione orale nello Zen Soto giapponese: all’epoca di
Dogen si poteva praticare la meditazione in piedi” a piacere “, quando lo si
desiderava. Bastava alzarsi dal proprio posto di meditazione. Ma non ho
trovato dei testi dell’epoca che confermino questa tradizione.
Nel mio gruppo ho scelto di diminuire la durata dei periodi di meditazione. Non
più 40( come in Giappone ) ma 30 minuti.
Questo non è anodino. Per molti occidentali la soglia del difficilmente
sopportabile o dell’insopportabile si colloca intorno ai 30 minuti.
E’ meglio fare una sequenza composta di tre volte 30 minuti di meditazione
seduta intervallata da qualche minuto di meditazione “in cammino” che
permette di entrare in uno stato di profonda concentrazione senza essere
disturbato dai dolori fisici, piuttosto che fare due volte 40 o 45 minuti di
meditazione seduta.
Le soglie del dolore non sono universali.
142
In una stanza di meditazione, ogni violenza contro di sé o di un altro deve
essere proibita. Ho scelto di animare le sedute di meditazione nel modo con cui
praticava il monaco Ryotan Tokuda durante i primi anni del suo soggiorno in
Francia: Sto faccia al muro come qualsiasi altro, non mi alzo, non utilizzo il
bastone e non parlo.
Si tratta per me di rispettare totalmente lo spazio meditativo di ciascuno. Non
imporre nulla,non sovrimporre nulla, non immischiarsi in questo spazio. In
cinque anni di pratica quasi quotidiana con Ryotan Tokuda , io non l’ho visto
forse alzarsi che tre o quattro volte durante la meditazione, il più sovente per
osservare la postura.
Una volta l’ho sentito alzarsi vicino a me. Ma si era appena alzato che subito si
è riseduto. Alla fine della seduta, gli ho chiesto il perché di questo suo
comportamento. Egli mi diede questa disarmante risposta:” Quando mi sono
alzato mi sono accorto che il pavimento scricchiolava. Ho avuto paura di
disturbarvi.”
Queste semplici parole mi hanno sconvolto. Fino ad allora non avevo mai visto
o sentito qualcuno reagire in questo modo. Esse mostrano il suo totale rispetto
per la meditazione di ciascuno. Questa è diventata per me una linea di
condotta . Ben inteso, non si può abbandonare totalmente le persone. Certune
hanno delle difficoltà.
Ma bisogna spesso trovare il momento in cui queste potranno accettare e
integrare delle osservazioni o delle correzioni. Questo non è per forza nel
quadro della meditazione stessa. Correggerli perché corrispondano al modello
di una postura ideale, senza tener conto della loro storia corporale o fisica è ,
al meglio inutile, al peggio nocivo.
143
LE TERRIBILI CIFRE RELATIVE AL DOLORE CRONICO
IN EUROPA
Introduzione
Non sono oggi disponibili indagini epidemiologiche esaurienti a livello
paneuropeo, in grado di definire la portata del problema del dolore. Un certo
numero di ricerche più limitate è tuttavia sufficiente per dimostrare oltre ogni
dubbio che in Europa il dolore è uno dei principali problemi sanitari. Benché
tutti i tipi di dolore siano importanti, il presente sommario si concentra sul
dolore cronico, che rimane uno dei problemi medici meno conosciuti e meno
affrontati del ventesimo secolo.
Le statistiche dimostrano il terribile impatto negativo del dolore cronico,
evidenziano le dimensioni del problema, compresi i relativi costi economici per
la società, e identificano la grave riduzione della qualità della vita dei milioni di
persone affette da dolore cronico. Dati i costi associati al dolore cronico e il
diritto di chi ne soffre di godere di una qualità della vita ragionevole, è
imperativo che la portata del problema del dolore venga riconosciuta e
affrontata a livello più ampio.
Diffusione del dolore cronico
L'Associazione internazionale per lo studio del dolore ha definito quest'ultimo
"un'esperienza sensoriale o emotiva spiacevole che deriva da un danno reale o
potenziale a un tessuto...". Il dolore cronico può essere definito come un
dolore che si protrae oltre il normale decorso di una malattia acuta o al di là
del tempo di guarigione previsto. Tale dolore può perdurare indefinitamente. Il
dolore che non scompare malgrado trattamenti adeguati viene detto dolore
non trattabile.
Condizioni tipiche del dolore cronico
—Osteoartrite—
Artrite reumatoide —
Lombalgie e dolori delle spalle e del collo —
Cefalee, compresa l’emicrania —
Dolore neoplastico —
144
Sindromi da dolore delle fasce muscolari —
Dolori post-toracotomici —
Dolore neuropatico —
Herpes zoster (fuoco di Sant’Antonio) e nevralgie poste-erpetiche —
Nevralgie del trigemino —
Neuropatia diabetica —
Disturbi dell’articolazione temporo-mandibolare —
Dolori post-mastectomia—
Angina pectoris—
Dolori da arto fantasma.
Incidenza e costi del dolore cronico
Oltre a causare indicibili sofferenze a milioni di pazienti di tutto il mondo, il
dolore cronico lacera il tessuto sociale ed economico della nostra cultura. Non
esistono a tutt'oggi cifre esaurienti a livello paneuropeo che delineino
l'influenza delle varie sindromi da dolore cronico e il relativo costo per la
società.
Ricercatori di vari paesi hanno tuttavia iniziato a raccolgiere informazioni sulla
sua natura, illustrando l'entità della sofferenza dovuta al dolore cronico.
Occorre notare che le cifre variano in funzione della definizione di dolore
utilizzata e delle domande specifiche poste alle persone intervistate.
Quadro sinottico dei risultati degli studi disponibili
- In uno studio sulla diffusione del dolore persistente svolto in Danimarca, i
ricercatori hanno riscontrato che il 38% circa della popolazione soffre di dolore
cronico (Andersen e Worm-Pedersoen 1989).
- Nel 1995, uno studio mirato a quantificare il costo totale del dolore cronico
non di origine tumorale per l'economia irlandese ha stimato che un campione
di 95 pazienti aveva già comportato un onere di 1,9 milioni di sterline al
momento dell'invio a una clinica multidisciplinare di trattamento del dolore
(Sheenan et al.1996).
145
- Un'indagine epidemiologica svolta in Svezia ha riscontrato che il 45% di tutti
gli adulti ha provato forme di dolore ricorrente o persistente e l'8% dolore
grave e persistente (von Korff et al. 1990).
- Un'indagine svolta in Gran Bretagna ha rilevato che il 7% di un vasto gruppo
di adulti intervistati in un dato momento era soggetto a un livello di dolore
rilevante (Bowsher et al. 1991).
- In una recente analisi dei pazienti indirizzati a un centro danese per il
trattamento del dolore, quest'ultimo era pari in media a 7 su una scala fino a
10, la qualità della vita risultava gravemente ridotta, il 58% dei pazienti
presentava depressione o disturbi ansiosi, il 63% era soggetto a dolori
neuropatici e il 73% dei pazienti assumeva derivati dell'oppio al momento
dell'ingresso nel centro, benché essi non fornissero un sollievo adeguato dal
dolore. Lo studio ha mostrato che la qualità della vita dei pazienti affetti da
dolore cronico non di origine tumorale è fra le più basse riscontrate in tutte le
condizioni mediche.(Becker et al.1997)
- Il dolore neuropatico (definito in modo classico) affligge tra il 25 e il 50% dei
pazienti della maggior parte delle cliniche di trattamento del dolore (Bowsher
1991).
- Nel Regno Unito, iI costi annuali relativi (soltanto) al male di schiena e alla
sciatica ammontano attuallmente a 9 miliardi di Euro, mentre 1 miliardo di
Euro viene speso ogni anno per l'assistenza sanitaria diretta (Waddell 1996).
- Uno studio svolto nei Paesi Bassi ha rilevato che le patologie muscoloscheletriche rappresentano la quinta categoria in ordine di costo sotto il profilo
dell'assistenza ospedaliera e la più costosa dal punto di vista dell'assenteismo e
dell'invalidità lavorativi (1,7% del PIL) (van Tulder et al. 1995).
- Si riscontra dolore nel 50% dei pazienti affetti da tumori (a tutti gli stadi) e
nel 75% dei pazienti con neoplasie avanzate. Ogni anno in Inghilterra e nel
Galles oltre 100.000 provano dolore al momento del decesso (Higginson 1997).
- Uno studio condotto in Catalogna (Spagna) ha identificato una diffusione del
dolore pari al 78,6% in risposta a un'intervista telefonica che richiedeva se si
fossero lamentati dolori nei precedenti 6 mesi, indipendentemente dalla loro
intensità e durata (Bassols et al. 1999).
- Si stima che nei Paesi Bassi il costo totale del dolore al collo nel 1996 sia
stato pari a 686 milioni di dollari USA (Borghouts et al. 1999).
- Un sondaggio effettuato per posta in Svezia ha rilevato che riferiva di avere
provato dolore o fastidio, compresi problemi di breve durata, il 66% delle
persone coinvolte, mentre il 40% ha dichiarato di avere sofferto di 'chiari'
dolori di durata superiore a 6 mesi. (Brattberg et al. 1989).
146
Un vasto studio epidemiologico del dolore cronico svolto nella zona di
Grampian, in Gran Bretagna, ha riscontrato che il 50% delle persone coinvolte
ha dichiarato di provare dolore o fastidio cronici , per il 16% con male di
schiena e per il 16% con artrite. Nel 16% dei casi oggetto dell'indagine, il
dolore cronico era grave. (Elliott et al. 1999). Per lo studio della diffusione (o
dell'incidenza) del male di schiena occorrono metodologie più rigorose,
sistematiche e uniformi
- I dati di uno studio svolto in Svezia indicano che il dolore alla colonna
vertebrale è molto comune fra gli uomini e le donne di età compresa fra 35 e
45 anni, e che esso è associato a marcate limitazioni dello stile di vita per circa
un quarto di coloro che lo provano (Linton et al. 1998).
- Uno studio dei costi socioeconomici delle sindromi da dolore nel Regno Unito
stima che il costo per l'assistenza sanitaria diretta sia stato pari nel 1998 a 1,6
miliardi di sterline. Tale costo diretto è tuttavia insignificante rispetto al costo
delle cure informali e delle perdite di produzione ad esso associate, il cui
ammontare totale è pari a 10,7 miliardi di sterline. Nel complesso, il male di
schiena è una fra le condizioni mediche più costose (Maniadakis e Gray
A2000).
- Uno studio condotto di recente in Finlandia ha riscontrato che, su un
campione di 5646 visite di pazienti ai servizi sanitari di base , il dolore veniva
identificato come ragione della visita nel 40% dei casi. Un quinto dei pazienti
ha dichiarato di provare dolore da oltre sei mesi. Un quarto dei pazienti in età
lavorativa affetti da dolore usufruiva di mutua pagata (Mãntyselk? et al. 2001).
- I risultati di uno studio svolto nei Paesi Bassi indicano che il dolore cronico è
anche comune nell'infanzia e nell'adolescenza (Perquin et al. 2000).
L'impatto del dolore cronico, tuttavia, non deve essere esaminato soltanto in
termini economici. In Europa, il dolore cronico presenta gravi effetti negativi
sulla qualità della vita di milioni di persone che ne soffrono, nonché su quella
dei loro familiari. In mancanza di trattamenti adeguati , coloro che soffrono di
dolore cronico sono spesso inabili al lavoro o addirittura incapaci di svolgere i
compiti più semplici. Di conseguenza, i pazienti affetti da dolore cronico sono
spesso soggetti a privazioni psicosociali e fisiche, compresa una nutrizione
inadeguata con perdita di peso, una riduzione dell'attività, disturbi del sonno,
isolamento sociale, problemi coniugali, disoccupazione e problemi finanziari,
ansia, paura e depressione.
Associazione Italiana per lo Studio del Dolore - Tutti i diritti riservati - Young
Software 2005
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Friday, April 27, 2007
Controllare il dolore cronico
Promosso dalla sezione milanese di Donneuropee-Federcasalinghe, prenderà il
via martedì 24 aprile il ciclo "Percorsi di consapevolezza", sei appuntamenti
rivolti in particolare alle socie di Federcasalinghe, volti a sperimentare tecniche
di auto-aiuto per controllare il dolore cronico.
L'iniziativa è un ulteriore momento del progetto avviato dall'Associazione nel
2005, quando si è tenuto il primo incontro sul tema del dolore cronico, che ha
affrontato il significato di dolore, le dimensioni del problema, le terapie e
avviato il dibattito sul diritto di vivere senza dolori inutili . Il secondo
appuntamento, lo scorso anno, ha affrontato il tema emicrania, presentandone
le diverse manifestazioni patologiche, la componente invalidante, le possibili
cause e introducendo le diverse tecniche per sconfiggere o controllare il
problema.
I due incontri sono stati condotti da Paolo Mariconti, Dirigente Medico di
Anestesia e Terapia del Dolore presso la Fondazione Policlinico IRCCS di
Milano, e hanno visto la partecipazione di un rappresentante del Tribunale per i
Diritti del Malato, il primo anno, e di un rappresentante dell'Associazione
Italiana per la Lotta contro le Cefalee, il secondo.
Anche i 'percorsi di consapevolezza' saranno coordinati e condotti da Paolo
Mariconti che guiderà le partecipanti a cercare di aumentare sia la
consapevolezza e la sensibilità del proprio corpo, sia quella della propria
psiche, per imparare a controllare gli stati emotivi causa di stress (paura,
rabbia, ansia, ecc.).
Le tecniche proposte durante gli incontri, inoltre, svolgono un ruolo importante
anche per affrontare esigenze quali quella del recupero dopo esercizio fisico
intenso e quella di condurre un allenamento mentale in situazioni di semiimmobilità (conseguenti, per esempio, a infortunio o malattia).
"Acquisire maggiore consapevolezza e superare disorientamento e
rassegnazione di fronte ad un problema che affligge una gran parte della
popolazione", ha affermato Liliana Merlo, Presidente regionale Lombardia di
Donneuropee-Federcasalinghe, "è l'obiettivo della nostra iniziativa.
I dati sulla dimensione del problema nel nostro paese sono inquietanti: 12
milioni di pazienti soffrono ogni anno di dolore cronico e quindi occorre
affrontare questo problema con un approccio diverso da quello che, fino a poco
tempo fa, è stato adottato. Inoltre le donne, da sempre, sono le prime ad
occuparsi della salute della famiglia, spesso trascurando la propria.
Oggi, poi, il ruolo sociale della donna è cambiato e sono molte le donne che
devono fare i conti con ritmi frenetici derivanti da molteplici impegni, con la
conseguenza di un aumento di ansia, di stress e di disturbi correlati. Per
148
questo è necessario che i pazienti siano informati sia sulle modalità di
manifestazione e trattamento del dolore, sia sul loro diritto ad essere curati per
ridurre o controllare il dolore inutile".
Il dolore inutile è quel dolore che non svolge più il suo ruolo primario di
campanello d'allarme - segnalando, con il suo manifestarsi, una patologia o
avvertendo di un pericolo - ma diventa esso stesso malattia: in pratica, la
patologia che colpisce la persona provoca un¹infiammazione che,
sensibilizzando i recettori del dolore tanto da farli 'impazzire', arriva a generare
automaticamente dolore.
Ed è proprio la sproporzione tra processo patologico e dolore generato che,
coinvolgendo anche l¹emotività della persona, fa diventare il dolore talmente
imponente da renderlo una malattia.
"Il problema del dolore cronico benigno ha davvero dimensioni preoccupanti:
nei paesi occidentali investe almeno il 35,5 per cento della popolazione (fonte:
IASP - Associazione internazionale per lo studio del dolore) e mostra una
particolare inclinazione per il sesso femminile. I dati della IASP, infatti,
evidenziano che il dolore cronico colpisce il 39,6 per cento delle donne contro il
31 per cento degli uomini.
Le stesse percentuali, applicate alla popolazione definiscono un fenomeno che
colpisce più di 11 milioni e 600 mila donne, e "solo" 8 milioni e 500 mila
uomini", sottolinea Paolo Mariconti.
"Nonostante negli ultimi anni si stia dedicando maggiore attenzione a questo
problema sia da parte dei pazienti, sia da parte dei medici, occorre continuare
a sensibilizzare medici, pazienti, istituzioni e opinione pubblica su questo
problema: sulla formazione di medici del dolore, sulla creazione di reparti
dedicati negli ospedali, sul rimborso delle terapie - anche quelle più innovative
- e, non meno importante, sull'incidenza del dolore cronico nella popolazione
femminile, un dato significativo che richiede una nuova attenzione da parte
della ricerca medica e della medicina in generale".
Gli incontri sono aperti al pubblico e si svolgeranno presso il Centro Fitness
American Contourella di via Sanzio. Per informazioni sulla partecipazione:
Donneuropee Federcasalinghe, telefono 02 76 00 74 33 (lun-ven ore 15.0018.00). Il numero dei posti disponibili per questo primo ciclo di incontri è
limitato: si prega di chiamare per prenotazioni e informazioni.
Fonte: Ufficio stampa Donneuropee-Federcasalinghe 2007.
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Articoli di interesse generale > epidemiologia, statistica
149
[23/07/2008]
Lotta al dolore: l'Italia è ultima
Rilanciamo un articolo tratto da “Corriere Salute” online: alcuni dati
epidemiologici nazionali ed internazionali sul dolore cronico.
Se ogni anno in Italia 90 mila malati terminali non vengono curati, o lo sono
parzialmente, per la sofferenza fisica (22 milioni di dosi di morfina annui
bastano per curarne 60 mila su 150 mila), ancor peggio è la situazione per
quei 10-15 milioni di italiani che soffrono di dolore cronico non causato da
tumori.
Mal di schiena al primo posto. Un classico. La mattina ci si sveglia senza
riuscire a muoversi, anzi a distendere la schiena. Fitte atroci, piegati dal
dolore. Telefonata in ufficio per avvertire dell'assenza: «Colpo della strega».
Poi al medico di base. Un antinfiammatorio prescritto al telefono. Poi tutto
passa...
Le cause possono essere diverse, ma si calcola che almeno il 90 per cento della
popolazione mondiale almeno una volta nella vita abbia provato questa
lancinante sofferenza. E 9 volte su dieci passa da solo nel giro di qualche
giorno.
Quindi niente esami, nessuna diagnosi, causa ignota. Un dato che, con la
creazione di servizi multispecialistici (Pain center) in grado di affrontare il
dolore come malattia, è subito sceso a circa il 70 per cento.
Almeno è questa l'esperienza di New York, dove il mal di schiena è nell'hit
parade dei costi sociali come giorni di lavoro persi, costi sanitari, assistenza
domiciliare.
E negli Stati Uniti il dolore cronico (mal di schiena al primo posto) non
oncologico costa alla società circa 100 miliardi di dollari l'anno. Al secondo
posto, come impatto nelle assenze dal lavoro e nei costi socio-sanitari, c'è il
mal di testa, tante le classificazioni...
E anche in questo caso la terapia italiana è: anti-infiammatori. La pugnalata al
centro del capo non passa. Non può passare. Chi ne soffre si chiude al silenzio,
al buio (luce e suoni moltiplicano gli effetti)... A
ltro che andare al lavoro. Anche il mal di testa può trasformarsi in emergenza:
basti pensare che il 2-7% degli europei che si rivolgono alle strutture di pronto
soccorso si vede diagnosticare una cefalea acuta.
Lo ricorda Paolo Martelletti, responsabile del centro per le cefalee
dell'università La Sapienza di Roma. In Europa si registra una crescita per
questo tipo di disturbo e l'Italia non è da meno. «Il 51% degli italiani — spiega
Martelletti — soffre di cefalea acuta, mentre il 14% soffre di emicrania e il 4%
150
di cefalea cronica». Quei 10-15 milioni di italiani che soffrono di dolore cronico
forse sono molti di più.
Siamo un popolo di doloranti, almeno una volta nella vita.
E la severità dei sintomi spesso è tale da rendere dipendenti dai farmaci. «La
maggior parte dei pazienti con cefalea cronica — aggiunge Martelletti — abusa
quotidianamente di analgesici, senza sapere però che questi possono solo
peggiorare la situazione, scatenando una cefalea secondaria da abuso di
farmaci».
«È ora di dichiarare, su un fronte internazionale, la guerra all'ignoranza sul
dolore», ha detto Costantino Benedetti, terapista del dolore all'Ohio university,
in un intervento all'ultimo Sanit a Roma. Parlava della sua amata Italia. E sì,
perché nel nostro Paese è già complicato assicurare la terapia del dolore (è tra
le cure palliative) ai malati di tumore.
Per tutto il resto, ecco il quadro. Gli ospedali senza dolore sono una realtà
conquistata con difficoltà: tutti i degenti non dovrebbero nemmeno avvertire la
pur minima sofferenza.
E tutte le mattine l'infermiera, oltre a pressione del sangue e temperatura,
dovrebbe misurare il dolore e annotarlo in cartella clinica. Così è negli Stati
Uniti dal 2001, così dovrebbe essere in Italia. Ma spesso è il paziente che deve
chiederlo.
E la terapia? In ospedale c'è (anche se si eccede in dosi «rimbambenti» di
oppioidi o morfina: il degente dorme e non dà fastidio), ma non multi farmaco
e con dosaggi personalizzati come prescrivono le linee guida per un recupero
fisico più rapido: senza dolore un operato si alza e riacquista prima le sue
forze.
Fuori dell'ospedale, sul territorio, il nulla: fai da te o medici di famiglia
impreparati. Nel 1944, il padre della moderna terapia del dolore, John Bonica
(morto nel 1994, nato a Filicudi ma negli Stati Uniti dall'età di sette anni), oltre
a mettere a punto la peridurale per il parto indolore, comincia proprio dai
medici di famiglia e dagli infermieri a dare indicazioni su come curare il dolore.
In Italia però siamo sempre fermi all'epoca in cui Bonica cambiava le regole
oltre Oceano. Non esiste un piano di Pain clinic territoriali che si occupino di
diagnosi e cura di chi soffre, pur non avendo malattie terminali. Di chi ha una
banale mal di schiena o una feroce emicrania, dolori mestruali o reumatismi
vari, artrosi o psoriasi con complicanze dolorose, danni da diabete o neuropatie
di varia origine.
Si parla di 10-15 milioni di italiani (25 per cento) e di 70-80 milioni di
americani. Le poche realtà efficienti si sperdono nel vuoto. Ed è una delle
priorità per il sottosegretario al Welfare Ferruccio Fazio, scienziato, figlio di un
noto clinico, che per il 17 luglio ha convocato alcuni esperti per discutere di
151
come dare all'Italia un'organizzazione anti-dolore. In particolare ha chiamato
Guido Fanelli, terapista del dolore dell'università di Parma.
Qualcosa si deve fare.
Perché soffrire non è un obbligo, ma in Italia sembra che lo sia.
È l'Organizzazione mondiale della Sanità (Oms) a dirlo.
Con i numeri.
Uno degli indicatori della qualità della vita si basa sulle dosi annue di morfina
(e farmaci oppioidi) pro capite per curare il dolore (tutti i tipi di dolore). L'Italia
era, nel 2004, al pari dell'Etiopia e del Ruanda. Nel 2007 è salita in classifica,
ma di poco: ultimi in Europa, dopo Malta. Al ventiseiesimo posto.
Il Centro Studi Mundipharma, al Sanit di Roma, ha rincarato le accuse:
«Nonostante le raccomandazioni delle principali Linee guida internazionali, per
quanto riguarda l'impiego dei farmaci oppioidi il nostro Paese rimane all'ultimo
posto tra gli Stati dell'Ue, con una spesa media annua pro capite che non
arriva a un euro». Il confronto: 0,63 euro contro i 7,66 della Danimarca; i 7,29
della Germania; i 4 del Regno Unito; i 2,88 della Spagna; i 2,61 della Francia e
una media europea di 3,73 euro.
Aggiunge Benedetti: «Se il Canada usa 170 milligrammi di morfina ed
ossicodone pro capite all'anno e l'Italia solo 4, l'aumento dovrebbe essere di
circa 40 volte per andare alla pari dei Paesi più avanzati».
Il problema è soprattutto culturale: nel nostro Paese quando si parla di morfina
si pensa alla droga, mentre all'estero si pensa a un farmaco.
E quando si parla di dolore si pensa a un sintomo, quasi sempre esagerato dai
pazienti che soffrono...
Chissà poi perché?
Mario Pappagallo
152
Sanità
malati terminali
Curare il dolore per dare dignità alla fine della vita
SERGIO CANZANELLA*
Si è concluso il 14 novembre a Roma il Convegno Mondiale sugli Hospice
organizzato dall'Associazione Antea di Roma in collaborazione con l'Eapc, Ecpc,
il Ministero della Salute, la Fondazione Floriani e l'Associazione House Hospital
onlus.
Tra i temi discussi, la terapia del dolore, gli hospice, le cure palliative e
l'assistenza domiciliare. La Iasp (International association for the study of Pain
- 1986) definisce il dolore come un'esperienza sensoriale ed emozionale
spiacevole associata a danno tissutale, in atto o potenziale, o descritta in
termini di danno.
A livello clinico, il dolore è un sintomo trasversale e frequente: spesso segnale
importante per la diagnosi iniziale di malattia, fattore sensibile nell'indicarne
evoluzioni positive o negative durante il decorso, innegabile presenza in corso
di molteplici procedure diagnostiche e/o terapeutiche e costante riflesso di
paura e ansia per tutto quello che la malattia comporta.
E' fra tutti, il sintomo che più mina l'integrità fisica e psichica del paziente e più
angoscia e preoccupa i suoi familiari, con un notevole impatto sulla qualità
della vita.
In maniera molto sintetica, ma utile da un punto di vista clinico, si possono
distinguere, tre tipologie diverse di dolore, con caratteristiche
eziopatogenetiche, cliniche, di durata, e responsività terapeutica, specifiche.
Si parla infatti di Dolore acuto, Dolore cronico e Dolore procedurale.
Il dolore acuto ha la funzione di avvisare l'individuo della lesione tissutale in
corso ed è normalmente localizzato, dura per alcuni giorni, tende a diminuire
con la guarigione.
La sua causa è generalmente chiara: dolore legato all'intervento chirurgico, al
trauma, alla patologia infettiva intercorrente. Attualmente le opzioni
terapeutiche a disposizione per il controllo del dolore acuto, sono molteplici ed
efficaci nella stragrande maggioranza dei casi.
Il dolore cronico, è duraturo, spesso determinato dal persistere dello stimolo
dannoso e/o da fenomeni di automantenimento, che mantengono la
153
stimolazione nocicettiva anche quanto la causa iniziale si è limitata. Si
accompagna ad una importante componente emozionale e psicorelazionale, e
limita la performance fisica e sociale del paziente.
E' rappresentato soprattutto dal dolore che accompagna malattie ad
andamento cronico (reumatiche, ossee, oncologiche, metaboliche..). E' un
dolore difficile da curare: richiede un approccio globale e, richiede non
infrequentemente, interventi terapeutici multidisciplinari, gestiti con elevato
livello di competenza e specializzazione.
Il dolore da procedura, che accompagna molteplici indagini
diagnostiche/terapeutiche rappresenta in ogni setting, e situazione ed età, un
evento particolarmente temuto e stressante.
Il dolore si associa ad ansia e paura, e non infrequentemente la sua presenza
condiziona in maniera importante la qualità percepita di cura, nonché la qualità
di vita.
Attualmente sono a disposizione numerose possibilità d'intervento
(farmacologiche e non) e modelli organizzativi efficaci ed efficienti. Da un
punto di vista eziopatogenetico, il dolore può essere classificato in: nocicettivo
(attivazione diretta dei recettori della nocicezione), neuropatico (da
interessamento del sistema nervoso centrale e/o periferico), psichico (attivato
da stazioni psico-relazionali) e misto (con la presenza di tutte le componenti
precedenti).
Valutazione
Il dolore è un' esperienza soggettiva ed individuale, e questo rende ragione
della difficoltà che si incontrano nella definizione di metodiche di valutazione
efficaci.
La letteratura pone diverse proposte: autovalutazione, parametri fisiologici,
comportamentali e strumentali.
Una metodologia valida in assoluto non esiste, e i diversi metodi vengono
attualmente declinati, in rapporto al tipo di dolore, alle condizioni cliniche del
paziente, all'età ed alle possibilità di collaborazione. Il goal standard è la
valutazione del paziente stesso della quantità e della qualità del dolore
percepito (autovalutazione), ed attualmente molteplici sono le tecniche e gli
strumenti a disposizione (Visual Analogic Scale di Scott Huskisson, Facial
Scale, scala dei colori di Eland, Scala verbale..).
Terapia
Nella definizione di un programma antalgico , indipendentemente dal tipo e
dalla causa del dolore, è necessario un intervento globale che preveda il ricorso
a terapie farmacologiche e non.
154
Terapia Farmacologica
Attualmente i farmaci indicati nella gestione del dolore appartengono alle
seguenti categorie: analgesici non narcotici, analgesici narcotici, adiuvanti ed
anestetici locali Studi di farmacocinetica e farmacodinamica hanno
puntualizzato indicazioni e limiti di questi farmaci: l'OMS ha stabilito una scala
graduata d'interventi in base alle caratteristiche e all'entità del dolore; le paure
legate alla dipendenza ed alla tolleranza dei farmaci narcotici sono state
ridimensionate; le indicazione all'uso dei FANS sono state puntualizzate e la
positività dell'uso dei farmaci adiuvanti è stata confermata.
La strategia terapeutica utilizzata dipende da molti fattori, comprendenti
l'eziologia e l'entità del dolore, la durata prevista della terapia, le condizioni
cliniche generali del paziente e la sua capacità di adattamento ad un
determinato programma terapeutico.
Terapia non farmacologica: La terapia antalgica non farmacologica comprende
molti tipi d'intervento assai diversi fra loro.
Alcuni agiscono su altri sistemi sensitivi che bloccano la progressione dello
stimolo doloroso, altre attivano i meccanismi nervosi centrali e/o periferici che
inibiscono la nocicezione .In base alla metodologia d'intervento si possono
suddividere in metodi psicologici (di supporto, cognitive, comportamentali) e
fisici (agopuntura, massaggio, fisioterapia..).
Cure palliative
Nate circa 30 anni fa in Inghilterra, sono la cura globale e multidisciplinare per
i pazienti affetti da una malattia che non risponde più a trattamenti specifici e
di cui la morte è diretta conseguenza. Nelle cure palliative il controllo del
dolore, degli altri sintomi e dei problemi psicologici, sociali e spirituali è di
importanza fondamentale. Esse si propongono di migliorare il più possibile la
qualità di vita sia per i pazienti che per le loro famiglie.
Le cure palliative:
• affermano la vita e considerano la morte come un evento naturale;
• non accelerano né ritardano la vita;
• provvedono al sollievo dal dolore e dagli altri sintomi;
• integrano gli aspetti psicologici, sociali e spirituali dell'assistenza;
• offrono un sistema di supporto per aiutare la famiglia durante la malattia e
durante il lutto.
155
Le cure palliative sono state definite dall'Organizzazione mondiale della sanità
come "…un approccio che migliora la qualità della vita dei malati e delle loro
famiglie che si trovano ad affrontare le problematiche associate a malattie
inguaribili, attraverso la prevenzione e il sollievo della sofferenza per mezzo di
una identificazione precoce e di un ottimale trattamento del dolore e delle altre
problematiche di natura fisica, psicofisica e spirituale."
Le cure palliative si rivolgono a pazienti in fase terminale di ogni malattia
cronica ed evolutiva, in primo luogo malattie oncologiche ma anche
neurologiche, respiratorie, cardiologiche ed hanno lo scopo di dare al malato la
massima qualità di vita possibile, nel rispetto della sua volontà, aiutandolo a
vivere al meglio la fase terminale della malattia ed accompagnandolo verso
una morte dignitosa.
La fase terminale è quella condizione non più reversibile con le cure che,
nell'arco di poche settimane o qualche mese, evolve nella morte del paziente
ed è caratterizzata da una progressiva perdita di autonomia, dal manifestarsi di
sintomi fisici, come il dolore, e psichici che coinvolgono anche il nucleo
familiare e delle relazioni sociali.
L'assistenza domiciliare sanitaria e socio-sanitaria ai pazienti terminali,
l'assistenza territoriale residenziale e semi residenziale a favore dei pazienti
terminali, i trattamenti erogati nel corso del ricovero ospedaliero (quindi anche
per pazienti terminali) e gli interventi ospedalieri a domicilio costituiscono
Livelli Essenziali di Assistenza (Lea).
La rete assistenziale deve essere composta da un sistema di offerta nel quale
la persona malata e la sua famiglia, ove presente, possano essere guidati e
coadiuvati nel percorso assistenziale tra il proprio domicilio, sede di intervento
privilegiata ed in genere preferita dal malato e dal nucleo familiare nel 75-85
per cento dei casi e le strutture di degenza, specificamente dedicate al ricovero
dei malati non assistibili presso la propria abitazione.
La rete sanitaria e socio-sanitaria dovrà essere strettamente integrata con
quella socio-assistenziale, al fine di offrire un approccio completo alle esigenze
della persona malata, alla quale dovrà essere garantito, se richiesto, un
adeguato supporto religioso.
E' particolarmente stimolata e favorita l'integrazione nella rete delle numerose
Organizzazioni Non Profit, in particolare di quelle del volontariato, attive da
anni nel settore delle cure palliative, dell'assistenza domiciliare e negli hospice,
nel rispetto di standard di autorizzazione/accreditamento tecnologici, strutturali
e organizzativi precedentemente definiti a livello nazionale e regionale.
156
Assistenza domiciliare
Il modello organizzativo delle cure palliative è strutturato a diversi livelli:
ambulatoriale, domiciliare, residenziale. Nella seduta del 19 aprile 2001, la
Conferenza Stato-Regioni ha approvato le "Linee guida sulla realizzazione delle
attività assistenziali concernenti le cure palliative", pubblicate sulla Gazzetta
Ufficiale del 14 maggio 2001. La normativa citata definisce i requisiti
strutturali, tecnici ed organizzativi minimi per i centri residenziali e la rete delle
cure palliative.
L'attivazione del Servizio di cure domiciliari nelle Aziende sanitarie locali delle
diverse Regioni risulta necessario per assicurare il coordinamento delle
prestazioni erogate dal servizio di cure domiciliari con le prestazioni delle cure
palliative e garantire, di conseguenza, una gestione efficiente delle attività sul
territorio, fornendo risposte efficaci nei confronti delle persone malate, nella
fase terminale della loro vita Le nuove linee guida sulle cure palliative, infatti,
prevedono, nell'impostazione organizzativa, un'interazione costante con il
servizio di cure domiciliari ed indicano modalità e procedure attuative
all'interno del percorso tecnico-amministrativo delle cure domiciliari stesse.
Gli obiettivi che le linee-guida per lo sviluppo delle cure palliative si
propongono, sono:
• garantire il diritto di ogni persona che affronta la fase terminale della vita a
ricevere cure palliative appropriate, ovunque si trovi;
• promuovere l'attivazione di Reti locali di cure palliative, in grado di garantire
tutti i livelli assistenziali necessari all'assistenza dei malati alla fine della vita;
• garantire una continuità assistenziale che possa migliorare la qualità di vita
dei malati e fornire adeguato supporto psicologico e sociale ai familiari;
•?garantire la disponibilità di cure a domicilio di elevata qualità, che
permettano a chi lo desidera di essere assistito a casa fino alla morte, con una
riduzione significativa dei ricoveri ospedalieri impropri.
La complessità dei bisogni fisici, psicologici e sociali dei malati terminali, unita
all'esigenza e alla volontà di cure palliative a domicilio, richiede
l'organizzazione di risposte integrate, centrate sui bisogni dei pazienti e di chi li
assiste, unitarie nel modo in cui vengono erogate.
L'integrazione delle responsabilità ed anche di tutte le risorse disponibili sul
territorio, è la condizione essenziale per migliorare l'efficacia degli interventi,
riducendo l'autoreferenzialità e abituando tutti gli operatori coinvolti a lavorare
insieme, garantendo un'ottimale distribuzione delle risorse.
157
Gli obiettivi specifici delle cure palliative domiciliari sono:
• garantire ai pazienti che lo desiderano cure a casa che assicurino la migliore
qualità di vita possibile;
• realizzare un sistema integrato di risposte ai bisogni dei malati e dei loro
familiari;
• garantire continuità terapeutica e assistenziale fra ospedale e territorio;
• attivare piani di cura e gestire percorsi assistenziali complessi anche a
domicilio;
• monitorizzare i processi assistenziali e valutarne i risultati.
Le condizioni necessarie perché possano essere erogate le cure palliative a
domicilio sono:
• consenso alle cure domiciliari;
• indicazioni, in pazienti in fase avanzata di malattia, al trattamento di tipo
palliativo finalizzato al miglioramento della qualità di vita ed al controllo dei
sintomi;
• ambiente abitativo e familiare idoneo;
• livello di complessità ed intensività delle cure compatibili con l'ambiente
domestico;
• disponibilità della famiglia a collaborare.
*Manager European Cancer Patient Coalition
del 18-11-2008 num. 215
158
08 marzo 2008
"INTERVENTI PSICOLOGICI E DOLORE CRONICO"Sara COSTANZO
A differenza di quanto accade con le patologie tumorali, degli interventi
psicologici con pazienti non terminali affetti da dolore cronico si continua a
parlare poco.
Possono essere considerati “cure palliative”?
Il concetto di cure palliative è oggi in costante evoluzione e non sempre è facile
definirne i confini. In linea generale resta la centralità assegnata alle patologie
oncologiche, posizione che rischia di mettere in ombra forme di dolore di
diversa natura. E il cd criterio della terminalità (o comunque della inguaribilità
in fase avanzata di malattia), da molti considerato essenziale.
In questi casi si preferisce parlare di terapia del dolore, una terapia cioè tesa a
tenere sotto controllo il “dolore divenuto malattia”. In linea generale possiamo
dire che l’intervento psicologico di cui parliamo è rivolto a soggetti affetti da
una malattia organica (cronica o con prognosi incerta) in cui è predominante
l’aspetto doloroso (rispetto ad esempio a sindromi in cui prevalgono condizioni
di handicap o alcuni processi degenerativi) e relativamente alla quale la
condizione intrapsichica e relazionale del soggetto ha un ruolo trascurabile
nella genesi della condizione organica di base e - con intensità diversa da caso
a caso- rilevante nella gestione della cura o nell’aggravamento della
sintomatologia.
Restano dunque esclusi i cd disturbi somatoformi, condizione in cui i sintomi
fisici lamentati dal paziente non sono giustificati ( o almeno adeguatamente
giustificati rispetto alla intensità del dolore percepito) da una compromissione
organica dimostrabile.
Ad ogni modo è comunque pacifica la necessità di un approccio “globale” al
dolore , che tenga conto - tra l’altro- degli aspetti psicologici e relazionali della
cura.
Di che tipo di interventi si tratta?
In un ambito diverso, il Ministero della Salute ha recentemente parlato di un
“continuum assistenziale che si estende con una crescente intensità di
necessità specifiche e di competenze professionali” in piu’ livelli assistenziali”.
Volendo ripercorrere la precisazione relativamente alla tipologia di pazienti
prima delineata, si potrebbero evidenziare tre diversi piani di intervento:
159
1. primo livello assistenziale.
In questo caso la condizione intrapsichica e relazionale del soggetto/famiglia/
sistema allargato appare funzionale ad affrontare nel miglior modo possibile
l’evento dolore e l’iter di cura. La eventuale richiesta di un sostegno riguarda
pertanto aspetti di contenimento, condivisione, facilitazione di processi
comunicativi o decisionali relativi a temi legati o interagenti con la malattia.
2. secondo livello assistenziale.
In questo caso la condizione intrapsichica e relazionale del
soggetto/famiglia/sistema allargato appare poco funzionale ad una buona
gestione della malattia.
Tali aspetti non soddisfano però i requisiti della gravità e della cronicità: si può
cioè legittimamente supporre che tale impasse potrà essere affrontata con un
intervento che, pur intervenendo sugli aspetti problematici, rimanga all’interno
del problema malattia/gestione del dolore.
3. terzo livello assistenziale.
In tal caso la disfunzionalità di fattori psichici e relazionali interferisce con la
gestione della malattia in modo grave e con i caratteri della
cronicità/resistenza al cambiamento.
E’ pertanto lecito supporre che le difficoltà legate alla gestione dell’evento
dolore non possano essere affrontate se non all’interno di un focus piu’ ampio.
In tali casi è spesso necessario che il terapeuta “lavori”per una possibile
ricontrattazione della domanda del paziente.
E’ solo all’interno di quest’ultimo livello che parliamo di psicoterapia vera e
propria, potendo riservare agli altri casi interventi (psicologia di sostegno o
counseling) di tipo diverso.
Come può essere organizzata in concreto l’assistenza?
L’assistenza ad un paziente affetto da dolore cronico avviene in genere
all’interno di strutture (pubbliche o private) a ciò preposte.
Particolare importanza assume dunque la fase della accettazione: una diagnosi
il piu’ possibile corretta consentirà infatti la scelta del livello e del
professionista adeguato.
Ovviamente nulla esclude che nel tempo possano rendersi necessari interventi
diversi o che una tipologia di intervento “apra la strada” ad un'altra.
Va a tal proposito ricordato che la psicologia di sostegno e il counseling sono
per lo più condizionati dalla necessità del lavoro di equipe e dalle finalità della
160
struttura all’interno della quale il professionista si trova ad operare. Essi inoltre
-in linea di principio- si snodano in un arco di tempo e di incontri limitati.
Relativamente ai primi due livelli appare dunque necessario che i servizi
psicologici siano forniti da personale inserito all’interno della struttura e
dunque della equipe terapeutica.
Tale necessità non è invece determinante nel caso di una psicoterapia vera e
propria: in tali situazioni il paziente può essere infatti preso in carico sia
dall’ambulatorio eventualmente (ma purtroppo in rari casi) presente presso la
struttura o da un professionista liberamente scelto.
161
Contenuti speciali
Approcci non farmacologici contro ansia e dolore
GdO 2008; 14
Renato Torlaschi
L’approccio che la medicina, almeno quella occidentale, ha adottato per cercare
di combattere il dolore è essenzialmente di tipo farmacologico.
I successi sono stati spettacolari in molti campi, basti citare i vari tipi di
anestetici che rendono oggi indolori i più invasivi interventi chirurgici. Anche la
sofferenza legata a molti trattamenti terapeutici nel campo della salute orale è
stata ampiamente ridotta.
Permane tuttavia una percentuale di pazienti che affrontano con ansia le
sedute negli studi dentistici o che addirittura le rifuggono, con gravi danni per
la propria salute: studi mostrano incidenze variabili dal quattro al venti per
cento della popolazione, piuttosto indipendenti dal contesto sociale e culturale,
dall’etnia di provenienza e ben poco influenzate dai progressi ottenuti dalla
medicina.
Ritorniamo dunque a parlare di aspetti psicologici connessi alla percezione del
dolore, lo facciamo con l’aiuto della dottoressa Catherine Bushnell,
professoressa di anestesia e odontoiatria alla McGill University di Montreal che,
con la collaborazione dei colleghi Marco L. Loggia, Petra Schweinhardt e
Chantal Villemure, ha approfondito l’analisi dei numerosi fattori collegati a un
fenomeno molto significativo sia a livello sociale sia nel quotidiano incontro tra
odontoiatri e pazienti.
I ricercatori hanno sintetizzato gli elementi emersi dai loro studi in un lavoro
pubblicato sulle colonne del Journal of the Canadian Dental Association lo
scorso settembre.
Empatia
Partiamo da un esperimento per certi versi commovente che, essendo stato
condotto su animali, ha già in sé un elemento di ‘oggettivazione’ che è uno dei
requisiti essenziali ma non sempre scontati in qualunque ricerca che prenda in
esame aspetti di natura psicologica.
Il dottor Dale J. Langford, anch’egli in forze alla McGill University, presso il
Dipartimento di psicologia e nel Centro per la ricerca sul dolore, ha riportato un
162
aumento della sensibilità a stimoli dolorosi nei topi esposti alla sofferenza di
altri topi, ma solo se gli animali erano già stati in contatto tra di loro, insomma
se già si conoscevano.
Avendo escluso cause legate a forme di imitazione, gli autori parlano di
empatia o almeno di una sua forma primordiale.
E lo stesso fenomeno è stato riscontrato – probabilmente con minore stupore –
in altre ricerche che si sono focalizzate sul comportamento degli esseri umani.
In questo caso sono stati utilizzati degli strumenti audiovisivi, dei filmati che
inducevano stati di maggiore o minore empatia in gruppi di volontari. Il
risultato è stato lo stesso: un più elevato grado di coinvolgimento empatico ha
prodotto una reazione al dolore più intensa e spiacevole.
Un altro modo per facilitare un’analisi più ‘oggettiva’ di questo tipo di riscontri
è a disposizione dei ricercatori solo da pochi anni: l’osservazione, tramite
strumenti sofisticati di imaging, delle reazioni prodotte in certe aree cerebrali a
fronte di stimoli esterni.
La risonanza magnetica funzionale e la tomografia a emissione di positroni
forniscono entrambe ai ricercatori la possibilità di rilevare segnali che indicano,
sia pur indirettamente, modificazioni nell’attività neurale: come nel caso della
variazione dell’entità di flusso sanguigno in specifiche aree cerebrali.
Di queste tecnologie si è servito il gruppo di ricercatori coordinato dalla
dottoressa Bushnell, producendo immagini di grande suggestione che fanno
luce su alcuni tra i più intimi e sconosciuti meccanismi della fisiologia umana.
Placebo
Si potrebbe obiettare che si tratta soltanto di suggestione e magari tirare in
ballo l’effetto placebo: l’obiezione sarebbe corretta, ma le immagini cerebrali
mostrano che il placebo è ‘reale’.
Si è osservato che trattamenti placebo somministrati allo scopo di alleviare le
percezioni di sofferenza sono effettivamente associati a una diminuzione
dell’attività cerebrale in aree coinvolte con l’elaborazione degli stimoli dolorosi,
come quella del talamo o della corteccia insulare.
Del resto, il primo tra gli studi condotti sull’argomento risale a trent’anni fa,
quando il dottor Levine aveva evidenziato il ruolo degli oppioidi endogeni
sull’anestesia indotta da sostanze placebo somministrate dopo operazioni di
chirurgia odontoiatrica.
Oggi abbiamo a disposizione strumenti molto più evoluti per monitorare
l’attività cerebrale e l’importanza di ricerche come quella della dottoressa
Bushnell e dei suoi collaboratori sta nella documentazione del collegamento tra
fattori psicologici con modifiche misurabili e fotografabili di parametri
fisiologici. Ne esce rafforzato il ruolo del paziente nell’imparare a tenere questi
163
fattori sotto controllo e quello del medico nel creare un ambiente che favorisca
la riduzione dell’ansia e la distrazione dalle esperienze che possono generare
dolore.
Informazione
Un effetto controverso sullo stato psichico del paziente è dato dalla conoscenza
dettagliata di ciò che gli procura dolore. In alcuni casi, una comunicazione
pacata da parte dell’odontoiatra delle procedure che si appresta a compiere
unitamente a una descrizione delle sensazioni che il paziente potrà provare ha
la capacità di favorire una maggiore tranquillità e di conseguenza una alleviata
sensazione di dolore.
In altri casi, per esempio quando sono presenti delle fobie, una focalizzazione
su certe attività chirurgiche può risultare del tutto controproducente e ottenere
un aumento dello stato ansioso.
Le differenze individuali si evidenziano in modo molto più marcato rispetto
all’azione esercitabile con un intervento farmacologico.
Attenzione e distrazione
Tra i vari elementi che entrano in gioco nell’esperienza della percezione del
dolore, l’attenzione è uno tra i maggiormente studiati.
Alcune ricerche vanno in controtendenza e indicano che, in certi individui affetti
da patologie dolorose croniche, un profondo ‘ascolto’ delle proprie sensazioni
fisiche può indurre una trasformazione della percezione dolorosa, fino a
trovarla ‘meno spiacevole’, ottenendo così una maggiore sopportazione e una
diminuzione dell’ansia che ne deriva.
Ma la maggior parte degli studi evidenzia invece gli effetti positivi ottenuti
distraendo l’attenzione dall’organo sofferente verso altre sensazioni che
possono recare piacere o almeno sollievo: esempio tipico è l’ascolto di brani
musicali.
Le immagini cerebrali di pazienti afflitti da sindromi dolorose e sottoposti a
stimoli auditivi hanno mostrato segnali che si ritengono associati alla riduzione
della percezione del dolore, sia nell’area sensoriale limbica che nella corteccia
cerebrale.
Stati depressivi
Anche l’umore e lo stato emotivo hanno un’influenza sulla percezione degli
stimoli dolorosi. In particolare sono stati segnalati in diversi contesti medici gli
effetti negativi della depressione: sia in condizioni di sofferenze croniche sia in
situazioni di dolori acuti.
164
È stato dimostrato che livelli elevati di ansia manifestata prima di interventi di
chirurgia orale corrispondono a una maggiore sofferenza provata
immediatamente dopo l’operazione.
Se alcuni di questi fattori sono difficilmente migliorabili da un odontoiatra, in
quanto elementi caratteristici della personalità o comunque delle condizioni
psichiche di ogni individuo, altre volte può risultare relativamente semplice
intervenire su elementi legati alla suggestione.
Alcune ricerche hanno fatto rilevare come l’odore di eugenolo, che spesso è
impronta caratteristica degli ambulatori odontoiatrici, tende a indurre
sensazioni di paura, disgusto o rabbia in quei pazienti che già temono gli
interventi dentistici: un suo mascheramento con essenze rilassanti riesce
spesso a influire sullo stato d’animo e a migliorare il loro approccio alle cure
dentistiche.
165
APPROCCIO ALL’ANSIA NEL DOLORE CRONICO
Il termine “approccio” esprime in se la profonda umanità
che deve legare il medico all’ammalato:
esso mentre permette al primo di svelare gli aspetti psicosomatici della
malattia, rende il secondo più fiducioso nelle capacità diagnostiche e
terapeutiche del medico che egli ha scelto
approccio significa cercare e sentire nel paziente un’entità
umana e psichica nell’economia di una vita, in un vissuto che
ha dimensioni ben più vaste di quelle indicate dai sintomi
clinici obbiettivi o soggettivi
Il rapporto interpersonale medico-paziente nel dolore cronico deve basarsi
sull’ empatia: con questo termine si intende un processo di immedesimazione
o identificazione per cui un individuo si mette nello stesso angolo visuale per
vivere determinate sue situazioni emotive o almeno per percepirle in maniera
esatta
Per il medico empatia vuol dire accorgersi della sofferenza
e cercare di capirla, empatia vuol dire aiutare la persona sofferente a
costruire la pace interiore.
Nell’ottica occidentale il dolore viene trattato spesso separatamente come
dolore fisico o dolore psichico;
non bisogna però dimenticare che l’uomo è un tutt’uno inscindibile di
soma e psiche
166
STRESS E ANSIA NELLA MALATTIA CRONICA
M. Paola Brugnoli
Il termine “ansia” ha la stessa radice latina di angere ed è espressivo del
concetto “stringere con violenza”. Indica un certo aspetto del disagio fisico
soggettivo che troviamo particolarmente nel paziente terminale.
E’ spesso secondaria ad uno stato di stress protratto.
Lo stress costituisce una delle più comuni componenti della reazione normale
emozionale dell’uomo a svariate situazioni di malattia specialmente cronica.
Se adeguato alle caratteristiche oggettive delle varie situazioni- stimolo, come
intensità e come durata, esso rappresenta un normale e fondamentale
meccanismo di allerta dell’organismo, determinante per una migliore risposta
sia sul piano biologico che comportamentale agli stimoli esterni, e quindi per la
sopravvivenza.
Una situazione di stress protratto genera spesso uno stato d’allerta anche in
assenza di uno stimolo presente: l’ansia.
Dell’ansia è caratteristico il timore di essere travolti da una situazione, verso la
quale si è incapaci di far fronte.
Mentre la paura e lo stress acuto implicano un oggetto ben definito, l’ansia
nasce dalla lotta interiore tra forze opposte ed incompatibili. L’ansia costituisce
una delle più comuni componenti della normale reazione emozionale dell’uomo
a svariate situazioni ambientali.
L’ansia è una condizione emozionale particolare caratterizzata da stato di
apprensione, disagio, aumento della tensione fisica e o psichica,
preoccupazione, stato di attesa, senso di anticipazione del pericolo, senso di
paura e ridotto senso di controllo da parte del soggetto.
I sintomi fisici e o psichici sono soggettivi, e possono essere di intensità
variabile da caso a caso.
E’ comune anche la presenza di sintomi somatici, che rappresentano in realtà
normali correlati psicofisiologici dell’ansia: possono essere presenti cefalea da
tensione, palpitazioni, tachiaritmie. Spesso questi sintomi sono vissuti con
intensa, profonda angoscia da parte del soggetto.
Numerosi studi sperimentali di psicobiologia e psicofisiologia dello stress
nell’uomo, hanno dimostrato che nella reazione d’ansia acuta esistono
effettivamente varie e intense modificazioni dell’equilibrio somatico a numerosi
livelli (Lader, 1972; Weiner,1985). Le conoscenze a questo riguardo, si sono
167
via via sempre più estese ed allargate, permettendo di comprendere con
maggiore chiarezza la globalità delle modificazioni somatiche indotte dalla
reazione d’ansia acuta. Attualmente le principali modificazioni più estesamente
documentate a livello sperimentale sia negli animali che nell’uomo riguardano il
sistema muscolare-scheletrico, il sistema neurovegetativo, il sistema
neuroendocrino, ed il sistema immunitario (Biondi e Pancheri,1987).
Alterazioni psicofisiologiche nella reazione d’ansia (Biondi M.,1988):
- alterazione dell’equilibrio neurovegetativo
- diminuzione dell’ampiezza e aumento della frequenza EEG
- aumento della tensione muscolare generale e/o distrettuale
- aumento della frequenza cardiaca
- possibile extrasistolia
- aumento della pressione arteriosa sistolica
- vasocostrizione periferica
- diminuzione della temperatura cutanea
- aumento della frequenza e irregolarità respiratorie
- modifica della secrezione e motilità gastrointestinale
- dilatazione pupillare
- aumento della sudorazione
- iperreflessia
- aumento del consumo di ossigeno
.
Alterazioni neuroendocrine nella reazione d’ansia (Biondi M.,1988):
- aumento dei livelli di adrenalina e noradrenalina
- aumento dei livelli di ACTH e di cortisolo
- aumento dell’ormone somatotropo
168
- aumento della prolattina
- aumento di ormoni tiroidei
Gli studi sulla reazione allo stress di Seyle, evidenziano il ruolo dell’attivazione
dell’asse ipotalamo-ipofiso-corticosurrenale, con il tipico massiccio aumento
della liberazione di cortisolo che contraddistingue la reazione acuta di stress, e
le tre successive fasi della sindrome generale di adattamento:
•Reazione d’allarme
•Stadio di resistenza
•Stadio di esaurimento
Le ricerche successive hanno permesso di chiarire come nella reazione acuta
da stress esistano complesse modificazioni a carico dei principali sistemi
endocrini, con elevazione non solo dei livelli plasmatici di catecolamine e
corticosteroidi, ma anche a carico dell’ormone somatotropo, della prolattina,
degli ormoni tiroidei e di svariati neurotrasmettitori tra cui beta-endorfine ed
enkefaline (Pancheri 1984).
Nel loro complesso tali ricerche hanno offerto una visione completa e
stimolante della reattività somatica dell’organismo in seguito a sollecitazioni
protratte (Pancheri 1984; Biondi 1984).
IL MODELLO COGNITIVO DELL’ANSIA
La “valutazione cognitiva dell’ansia” è ciò che dipende strettamente
dall’insieme delle aspettative, dei pensieri e delle convinzioni che il soggetto ha
in una data situazione. Pertanto la valutazione cognitiva di uno stesso stimolo
può essere assai differente da soggetto a soggetto e comportare risposte assai
differenti (Lazarus 1966).
Nella sua formulazione più semplificata, il modello cognitivo sottolinea
innanzitutto come il tipo e l’entità delle risposte affettivo-emozionali, e il
comportamento in determinate situazioni,siano influenzati dal significato che il
soggetto attribuisce alla situazione o allo stimolo.
La “valutazione cognitiva” dello stimolo è l’insieme delle aspettative, dei
pensieri e delle convinzioni che il soggetto ha sulla situazione (Biondi M.,1988).
Pertanto la valutazione cognitiva di uno stesso stimolo può essere assai
differente da soggetto a soggetto e comportare risposte assai differenti.
Vari fattori, in particolare la personalità del paziente ed esperienze precedenti,
giochino un ruolo molto importante sulla valutazione cognitiva dell’evento e
condizionino quindi il grado di attivazione emozionale e la risposta allo stress.
169
Vari studi hanno rilevato come, per l’innesco della reazione d’ansia, sia
determinante la valutazione cognitiva relativa alla percezione di controllabilità
o di incontrollabilità della situazione da parte del soggetto.
In pratica pertanto una ridotta possibilità di controllo determina un elevato
livello di ansia, mentre una buona possibilità di controllo determina bassi livelli
di ansia.
Quindi il livello d’ansia è la risultante di vari fattori: in primo luogo esso è
influenzato dalle caratteristiche oggettive della situazione o dello stimolo; in
secondo luogo dalla valutazione cognitiva personale della situazione.
Vedremo di seguito come un mezzo per aumentare il senso individuale di
controllabilità siano le tecniche di rilassamento in ipnosi che mirano ad
accrescere le risorse del soggetto per confrontarsi con la situazione, e ad
aumentare il suo senso di controllo. Tali risorse sono definite con il termine
tecnico di risorse di ”coping” cioè “affrontare con successo”.
Di fronte ad una stessa situazione un soggetto potrà reagire con:
1.normale ansia
2.ansia eccessiva
3.depressione
La reazione è personale a seconda della propria organizzazione cognitiva e del
significato che la situazione assume per ognuno (valutazione cognitiva).
E’ probabile che il soggetto che prova un’ansia eccessiva abbia una visione di
se come persona molto vulnerabile e avverta la prova come una situazione su
cui non si ha controllo, imprevedibile.
Il soggetto che reagisce con depressione, potrebbe avere alla base una visione
negativa di se, pensa di non farcela perché lo sforzo per lui è comunque troppo
grande, che non è abbastanza preparato, e veda la prova come simbolo del
proprio fallimento e scarso valore.
Infine la persona che prova una normale ansia non pensa di essere
particolarmente vulnerabile, ha una visione di se particolarmente sicura,e
percepisce un adeguato controllo della situazione; tuttavia considerando che ci
sono anche aspetti imprevedibili, si rende conto che il successo o l’insuccesso
non dipendono solo da lui, se andrà male ciò non metterà in discussione il suo
valore globale come persona (Biondi,1988).
170
Processi cognitivi che possono influenzare personalità e comportamento:
1.stimoli esterni ed interni
2.personalità
3.fattori inconsci
4.esperienze vissute
5.valutazione cognitiva dello stimolo
6.attivazione emozionale
7.grado di ansia
L’intervento terapeutico quindi delle tecniche di rilassamento e ipnosi è
soprattutto finalizzato a mettere a fuoco e a ristrutturare, attraverso processi
di autostima e di rinforzo dell’Io, le regole cognitive seguite dal soggetto alla
base della risposta emozionale disturbata.
A seconda quindi della percezione soggettiva di controllabilità o
incontrollabilità, viene innescata una attivazione emozionale caratterizzata da
una reazione d’ansia più o meno marcata, più o meno patologica a seconda dei
casi.Importante è anche il tipo di strutturazione cognitiva tipica di ogni
individuo.
Il modello cognitivo permette di spiegare l’estrema variabilità di risposta
psicologica, biologica o patologica di diversi individui esposti allo stesso tipo di
stimoli e situazioni, ed ha avuto varie applicazioni in ricerche sperimentali di
psicofisiologia e psicosomatica.
Tutto questo può comportare nuove prospettive per comprendere l’azione
complementare di interventi terapeutici apparentemente diversi tra loro, quali
gli interventi psicologici e gli interventi psicofarmacologici per il trattamento
dell’ansia.
Attualmente le tecniche più diffuse sono le tecniche di rilassamento e ipnosi,
interventi di psicoterapia, e la terapia farmacologia. Vari studi sperimentali che
tutti questi tipi di intervento sono in grado di ridurre la reazione d’ansia, sia a
livello psichico, che fisico. Questi tipi di interventi operano probabilmente
attraverso un comune meccanismo biologico, rappresentato dal complesso
recettoriale GABA-benzodiazepine (Biondi,1988). Le terapie di rilassamento
soprattutto riducono a livello periferico le modificazioni somatiche indotte dalla
reazione d’ansia, e secondariamente a livello del patterning cognitivo degli
stimoli. L’azione sui meccanismi biochimici cerebrali dell’ansia è quindi indiretta
(Biondi,1988); tuttavia nel caso di terapie condotte con successo è efficace sia
nel ridurre il vissuto d’ansia che le sue manifestazioni somatiche
171
Prospettive interculturali.
LA SOFFERENZA E LA MORTE:
ASPETTI ANTROPOLOGICI E RELIGIOSI
di Norsa Alessandro
Il tema della conclusione della vita, espressione di un momento di passaggio, è
da sempre stato celebrato nelle diverse culture con la ritologia tipica della
religione di appartenenza. Proponiamo diverse letture di questa tematica e di
quella della sofferenza.
La cultura della società occidentale in cui siamo inseriti rende le problematiche
della sofferenza e della morte difficilmente comprensibili.
Il progresso gode d’un ascendete tale sull’umanità da attribuirle la possibilità
fantastica dell’onnipotenza.
I risultati raggiunti sono sconcertanti, tanto che non ci si meraviglia più di ciò
che si è capaci, se mai ci si stupisce di ciò di cui non si è ancora capaci. Questo
pensiero alimenta l’idea di una fiducia di ordine magico. L’incapacità di
sopportare la sofferenza e la morte è collegata con la difficoltà di coglierne il
senso. Tuttavia la possibilità di recuperarne il significato ci è offerta da un lato
dalla religione, dall’altro dalla psicologia, quindi mediante la fede o mediante la
comprensione.
A questo proposito, affronteremo di seguito la visione della sofferenza e della
morte nella prospettiva di alcune delle religioni e culture più conosciute ed,
infine, secondo una delle possibili spiegazioni psicologiche.
LA SOFFERENZA
LA PROSPETTIVA CRISTIANA CATTOLICA:
la sofferenza è essenziale alla natura dell’uomo ed è parte integrante della sua
trascendenza. Attraverso essa l’uomo viene “destinato” a superare se stesso e
a ciò viene chiamato in modo misterioso.
Per comprendere il “perché” della sofferenza è necessario volgere lo sguardo
alla rivelazione dell’amore divino che trova la sua manifestazione nella croce di
Gesù Cristo.
La vittoria sul peccato e sulla morte, riportata da Cristo con la sua croce e
risurrezione, non abolisce le sofferenze temporali della vita umana, né libera
dalla sofferenza l’intera dimensione storica dell’esistenza, tuttavia su tutta
questa dimensione e su ogni sofferenza essa getta una nuova luce, che è la
luce della salvezza. È questa la luce del Vangelo, cioè la Buona Novella
172
(Salvifici Doloris, 15- 16). Così si può affermare che “Cristo allo stesso tempo
ha insegnato a far del bene con la sofferenza e a far del bene a chi soffre. In
questo duplice aspetto egli ha svelato fino in fondo il senso della sofferenza”.
(Salvifici Doloris, 30).
La sofferenza e la morte , allora, anche nelle esperienze che sono al di fuori di
ogni orizzonte di umana comprensione, possono avere un senso, in una visione
cristiana, in quanto possono divenire partecipazione alla sofferenza e morte di
Cristo.
LA PROSPETTIVA EBRAICA:
la sofferenza ed il male hanno lo scopo di dare all’uomo il senso delle proprie
limitazioni. L’ebreo, di fronte al male, riconosce la potenza di Dio e l’accetta; in
lui coesiste anche il timore di essere messo di fronte a questa prova e di non
riuscire a superarla; in questa concezione la preghiera è uno strumento per
invocare Dio e potersi liberare dalla sofferenza.
Ad una piena risoluzione potrà arrivare tramite tre passaggi: l’esame di
coscienza, per riconoscere le proprie colpe e tentare un riavvicinamento nel
rapporto con Dio. Il prendere consapevolezza dei propri limiti e soggiacere alla
volontà di Dio, continuando a credere, pregare e ringraziare per le prove a cui
lo sottopone. Ed, infine, l’accettazione dell’insegnamento talmudico secondo il
quale “si deve benedire l’Eterno per il male così come per il bene”. In questa
concezione il male può essere visto come uno strumento per raggiungere il
bene.
LA PROSPETTIVA ISLAMICA:
il musulmano crede che tutto ciò che gli succede, sia nella condizione di salute
che di malattia, faccia parte del destino, che, nell’Islam, è il pilastro essenziale
della fede.
Il musulmano è sempre contento di tutto ciò che gli accade e non protesta,
consapevole che solo Dio concede la salute e che è l’uomo che provoca la
malattia. Questo può avvenire in tre modi: non curando il proprio corpo;
diminuendo la fede e, quindi, sottoponendosi al rischio di uno scompenso
psicosomatico, che rende il corpo più vulnerabile alla malattia; creando
disequilibri dannosi alla salute, in quanto essa viene considerata come
l’espressione dell’equilibrio del corpo umano.
LA PROSPETTIVA BUDDHISTA:
la malattia e la sofferenza fanno parte integrante della vita dell'uomo, come
viene anche definito nella prima Nobile Verità insegnata dal Buddha; esse
devono quindi essere considerate realisticamente non una punizione per una
colpa commessa, ma un dato di fatto insito nella nostra forma di esistenza e
affrontato con attenzione dal punto di vista terapeutico e psicologico. Per il
buddhismo, infatti, non c'è dicotomia tra corpo e mente; essi vengono sempre
173
considerati un tutt'uno inscindibile. Quindi, anche nella malattia, gli aspetti più
meramente fisici hanno un risvolto psichico. I due livelli si intrecciano,
condizionandosi vicendevolmente, come anche la moderna medicina sostiene.
La ricerca della felicità e l'eliminazione della sofferenza è lo scopo dell'uomo. La
sofferenza e la malattia devono essere accettate per quello che sono, ovvero
un aspetto proprio dell'esistenza umana, da cui non si può sfuggire.
LA MORTE E LE PRATICHE RITUALI POST- MORTEM
LA PROSPETTIVA CRISTIANA CATTOLICA:
in questa ottica, la morte dell’uomo è fisica e rappresenta la possibilità di
operare nel “suo tempo”, la “sua salvezza”.
Nella Bibbia è scritto che lo spirito attraverso la morte ritorna a Dio (Qo 12, 7)
ed il corpo alla terra..
In tal modo, la morte allarga indefinitamente la condizione terrena dell’uomo,
che di per sé è definita. Rappresenta così anche un passaggio: l’uomo
abbandona il modo di esistere corporeo, dove predomina la legge biologica
della carne, per una modalità esistenziale spirituale, nella forma di un corpo
spiritualizzato.
LA PROSPETTIVA EBRAICA:
il tema della morte è affrontato dall’ebraismo da due diverse angolazioni. Da
una parte si riconosce che la morte è la conclusione naturale di ogni processo
vitale; dall’altra c’è chi sostiene che la morte sia una sorta di punizione
conseguente ad una colpa : “Non c’è morte senza peccato”, affermano i
Maestri (Vaikrà R. 37/1).
I rituali della sepoltura hanno un valore antropologico e normativo: avvenuta la
morte, si chiudono gli occhi del cadavere, lo si depone a terra e gli si copre il
viso (segno di rispetto).
Le motivazioni igieniche dettano, invece, le normative seguenti: nella casa del
defunto, è tradizione antica versare dell’acqua a terra ed aprire le finestre.
Prima dell’inumazione, la salma va accuratamente lavata e avvolta in appositi
abiti di tela bianca, che sono simboli di purità. Infine, è consuetudine che il
cadavere venga seppellito al più presto possibile, evitando che trascorra una
notte tra il decesso e l’inumazione.
174
LA PROSPETTIVA MUSULMANA:
l’atteggiamento in cui il religioso si pone di fronte alla morte è razionale: “Noi
siamo di Dio e a Lui ritorneremo”.
Di fronte alla conclusione della vita terrena, il musulmano sa che inizia la vita
vera, per la quale si è preparato osservando i principi della sua religione.
Il corpo del defunto viene trattato con cura: lavato, profumato, pettinato ed
avvolto in due lenzuoli bianchi. Le norme prevedono che venga seppellito lo
stesso giorno della sua morte, per evitare che il cattivo odore o l’aspetto fisico
non gradevole turbi i presenti.
La cerimonia che accompagna il defunto al cimitero è molto composta e
silenziosa; durante il cammino vengono letti alcuni passi del Corano e viene
invocato Allah.
Al ritorno dal cimitero i parenti del defunto sono invitati da un’altra famiglia a
mangiare e per tre giorni ricevono le condoglianze di amici e conoscenti.
LA PROSPETTIVA INDUISTA:
la morte è in stretta relazione con la dottrina della reincarnazione.
La conclusione delle attività vitali rappresenta la morte del corpo, l’abbandono
della spoglia, cioè di un contenitore di organi ben lontano dalla perfezione.
L’Induismo ritiene che l’esperienza della morte sia in realtà un passaggio ad
un’altra forma di esistenza. La persona è ritenuta immortale, poiché ogni morte
prepara all’ingresso in un'altra forma di vita, non sempre con sembianze
umane, ma con apparenze che possono anche essere minerali, vegetali o
animali.
L’essere è sottoposto ad innumerevoli morti, alcune quasi irrilevanti, altre più
drammatiche, a seconda dell’importanza del cambiamento di condizione che si
produce nel corso di un’esistenza.
I rituali variano molto in relazione alla regione di appartenenza o alla tradizione
familiare. I seguenti rituali sono tipici dello Sri- Lanka.
Il morente viene sistemato nella sua camera con la testa rivolta verso nord e
con una lampada accesa vicino al capo, mentre la famiglia recita inni sacri per
agevolare il passaggio dell’anima del defunto.
Al momento del trapasso, il corpo del defunto viene ruotato verso sud ed ogni
parente pone dell’olio di sesamo sul capo del deceduto. La testa è avvolta con
un panno, che lega la mandibola al resto del capo. I pollici sono legati insieme,
così come gli alluci.
175
Il corpo viene cremato dopo che i parenti, guidati da un capo della cerimonia,
hanno compiuto tre giri intorno alla pira e quello ha lasciato cadere a terra due
brocche d’acqua.
Dopo dodici ore le ceneri vengono raccolte e portate al mare o al fiume e
disperse in acqua.
LA PROSPETTIVA BUDDISTA:
la morte per i buddhisti è un fenomeno naturale, dove non è previsto un
giudizio dell’anima per ciò che la persona ha fatto in vita, e perciò acquista
connotazioni meno drammatiche rispetto ad altre religioni. Il morente,
consapevole dell’ineluttabilità del Karma (il complesso delle azioni compiute
nelle vite precedenti) viene invitato a prepararsi alla morte per favorire una
buona rinascita e permettere a colui che seguirà di poter rinascere in condizioni
favorevoli.
Il corpo del cadavere è curato, lavato e gli vengono apposti dei magneti per
facilitare la fuoriuscita dell’anima; dopo settantadue ore viene cremato o
seppellito.
LA PROSPETTIVA ANIMISTA DELL’ETNIA AFRICANA ASHANTI:
per gli ashanti la morte è la logica conseguenza dell’esistenza; l’anima dopo
aver lasciato il corpo del defunto entra a far parte del modo degli antenati, un
mondo privo di sofferenza e fame, che sono condizioni di vita terrena. Questo
può avvenire purchè la vita sia stata condotta in modo degno, altrimenti
l’anima non è ammessa ed è costretta a reincarnarsi per condurre una vita
onorata.
La cerimonia funebre dura solo qualche ora ed i parenti pongono nella bara dei
doni per aiutare il caro estinto nel viaggio verso Nanom, la terra degli antenati.
LA DIMENSIONE PSICOLOGICA
LA SOFFERENZA:
uno dei possibili significati che può assumere la sofferenza viene offerto dalla
psicosomatica, che la considera come un sintomo, segnale d’allarme che
qualche cosa nell’esistenza dell’individuo non sta percorrendo il corretto
cammino. E’ compito della persona ascoltare questo segnale, interpretarlo e
fare in modo che questo sia una risorsa e una possibilità per poter rientrare
nella corretta traiettoria.
176
LA MORTE:
può essere letta come un sinonimo di un processo di maturazione che coincide
con la saggia valutazione del destino, dal quale non si attende più di quanto è
possibile nella precarietà temporale.
Ne consegue che chi accetta la vita con tutte le sue tappe, che passano dalla
maturazione all’invecchiamento, infine, accoglie la morte come uno dei
momenti che la compongono.
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