filosofia contemporanea 2016-17 - Università degli studi di Bergamo

Dispense del corso di
Filosofia Contemporanea
a.a. 2016-2017
enrico r. a. giannetto
[email protected]
https://ermeneuticainfinita.wordpress.com/
1
1. Introduzione storica
Delineare un quadro della “filosofia contemporanea”, sia che si faccia riferimento in senso stretto
all’attualità, sia che si indichi, più tradizionalmente, il periodo che va da fine Ottocento a oggi, è
praticamente impossibile. Il ricorso a manuali, più o meno completi,1 non è sufficiente: si tratta di
ricostruzioni artificiali che selezionano, da prospettive parziali, di correnti maggioritarie o di moda,
se non del tutto ideologiche o addirittura determinate da teologie o filosofie della storia, autori, temi
o tendenze più o meno presunte. La molteplicità e la complessità delle varie prospettive filosofiche
è del tutto irriducibile.
Ma c’è di più: la storiografia filosofica, al contrario della storiografia scientifica, è rimasta
essenzialmente, a tutt’oggi, una “storiografia interna”, chiusa sugli sviluppi puramente interni alle
discipline filosofiche, astratta dalla più vasta storia umana, dalla storia delle culture, dalla storia
delle altre discipline, delle scienze naturali e umane, pure ad essa connesse. Questo atteggiamento
storiografico è la conseguenza di un atteggiamento filosofico teoretico che considera la storia del
tutto inessenziale alla presunta eternità dei problemi filosofici che si potrebbero trattare ogni volta
secondo una prospettiva puramente teoretica, in un circolo auto-fondativo. Nel tentativo di ritagliare
alla filosofia teoretica un ambito chiuso, un universo del discorso puramente filosofico, astorico,
trascendentale nel senso di al di là dell’esperienza e in particolare dell’esperienza storica.
Si tratta di quella prospettiva, ben nota al dibattito epistemologico sulla scienza moderna, per cui si
possa prescindere del tutto dal cosiddetto contesto della scoperta sperimentale o della genesi dei
concetti scientifici per limitarsi al contesto assiomatico della legittimazione puramente teoretica. La
storiografia scientifica ha dovuto riconoscere che la scienza è la sua stessa storia, il suo farsi storico,
la storia delle sue pratiche; che comprendere la scienza si può solo, con Giambattista Vico (16681744), comprendendone la genesi e il farsi. La storiografia filosofica hegeliana, prima ad avere
inteso la filosofia come la sua storia, l’ha concepita deterministicamente, determinata ferreamente
1
Si vedano, per esempio: G. FORNERO & S. TASSINARI (a cura di), Le filosofie del Novecento, I-II, Bruno Mondadori,
Milano 2002, pp. 1-1588; G. CAMBIANO & M. MORI, Storia della filosofia contemporanea, Laterza, Roma-Bari 2014,
pp. 1-530.
2
da una super-logica dialettica e riducendo altresì la stessa storia a mera storia della filosofia, con
una trasformazione di una più antica teologia della storia in una filosofia deterministica della storia.
D’altra parte, il capovolgimento marxista della dialettica hegeliana ha ridotto la storia della filosofia
a storia economico-materiale dell’umanità inquadrandola in una altrettanto deterministica filosofia o
scienza economica della storia.
Così, si può comprendere effettivamente la connotazione “contemporanea” della filosofia solo
attraverso una comprensione radicalmente storica della filosofia. Gli sviluppi contemporanei
potranno essere compresi solo attraverso una prospettiva storica che li leghi in qualche modo a
quelli moderni e a partire dalla filosofia medioevale e antica. Comprendere l’esistenza e la
consistenza di tutte le prospettive contemporanee è possibile solo attraverso l’indagine delle loro
genesi storiche nel complesso dell’intera storia umana, cosa praticamente quasi impossibile.
Tuttavia, una chiave di lettura molto generale permette di delineare alcune tendenze: si tratta di
comprendere la storia della filosofia occidentale soprattutto in termini dell’incontro-scontro fra
intellettualismo greco e volontarismo cristiano, fra filosofia teoretica greca e pratica etica e di fede
cristiana. Si tratta di due prospettive, in realtà, opposte: la filosofia teoretica greca è legata all’ideale
di una vita contemplativa, intellettualmente distaccata e volta alla realizzazione di una felicità
individuale; la pratica etica e di fede cristiana è invece correlata all’ideale di una vita activa, volta
all’amore e alla felicità altrui. Nella filosofia greca, i problemi etici sono trattati all’interno della
filosofia pratica, che è sempre (a parte qualche eccezione) gerarchicamente subordinata e
secondaria rispetto alla filosofia teoretica.
Ancora oggi è prevalente questo atteggiamento per cui nei manuali di storia della filosofia spazio
maggiore è dedicato alla filosofia teoretica. Le importanti esperienze storiche del Cristianesimo, nei
manuali non sono quasi mai trattate direttamente, ma solo indirettamente nei loro riflessi all’interno
degli autori cristiani della tarda antichità e del medioevo. Per trovare discusse, in maniera rilevante,
le relazioni storiche fra filosofia e fede cristiana, è necessario rivolgere la propria attenzione a testi
che sembrano occuparsi di particolari branche della filosofia, ovvero di filosofia della storia, o a
3
testi storici che riguardano il problema della modernità e della secolarizzazione2. Non solo: a questo
riguardo, è fondamentale, indipendentemente dalle soluzioni proposte, un testo che unico affronta il
problema in tutta la vastità della sua portata, un testo dello storico delle idee Hans Blumenberg
(1920-1996), La legittimità dell’età moderna.3
Blumenberg vuole contestare la prospettiva di Karl Lӧwith (1897-1973) e molti altri, secondo la
quale il pensiero moderno e la modernità possano comprendersi solo in termini di un processo di
“secolarizzazione” del pensiero e delle forme di vita cristiani, un processo di trasformazione cioè
che mantiene la modernità dipendente comunque dal Cristianesimo, pur se esplicitamente se ne
vorrebbe staccare.
La tesi sostenuta da Blumenberg ribalta quella proposta da Eric Voegelin (1901-1985) sull’età
moderna come “nuova gnosi”: si tratterebbe invece di considerare l’età moderna come secondo
superamento della gnosi, laddove il primo superamento della gnosi all’inizio del medioevo non
sarebbe riuscito4.
Blumenberg generalizza la tesi di Adolf Harnack (1851-1930)5 per cui il cattolicesimo si è costituito
dogmaticamente contro la gnosi di Marcione (85-160), alla tesi che anche la teologia medioevale è
una risposta a Marcione, a partire dalla polemica di Agostino (354-430) contro i manichei fino alla
Scolastica, per superare la concezione negativa del mondo dominato dal male, che deve essere
distrutto escatologicamente per la salvezza, nel recuperare positività al mondo come creazione che
2
Si vedano, per esempio: K. LӦWITH, Meaning in History, The University of Chicago Press, Chicago 1949;
Weltgeschichte und Heilsgeschehen, Kohlhammer, Stuttgart 1953; tr. it. dal ted. di F. Tedeschi Negri, pref. di Pietro
Rossi, Significato e fine della storia. I presupposti teologici della filosofia della storia, Edizioni di Comunità, Milano
1963 e poi il Saggiatore, Milano 1989, 1991; K. LӦWITH, Skepsis und Glaube (1951), Wissen und Glaube (1954),
Schӧpfung und Existenz (1955), Kierkegaards in den Glauben (1956), Sinn der Geschichte (1956), Das Vorhӓngnis des
Fortschritts (1963), tr. it. in, Storia e fede, Laterza, Roma-Bari 1985; C. TAYLOR, A Secular Age, Harvard University
Press, Cambridge (Mass.) 2007; tr. it. a cura di P. Costa, L’età secolare, Feltrinelli, Milano 2009.
3
H. BLUMENBERG, Die Legitimität der Neuzeit, Suhrkamp Verlag, Frankfurt am Main 1966, 1974 2, tr. it. di C. Marelli,
La legittimità dell’età moderna, Marietti, Genova 1992.
4
H. BLUMENBERG, La legittimità dell’età moderna, op. cit., p. 132; E. VOEGELIN, in Philosophische Rundschau I
(1953/54), p. 43.
5
A. VON HARNACK, Lehrbuch der Dogmengeschichte, J. C. B. Mohr, Tübingen 1886-1890, 1909, 1914, 1991; tr. it.,
Manuale di storia del dogma, Casa editrice Cultura Moderna, Mendrisio 1912 e poi rist. anast. presso Paideia, Brescia
2012, vol. I; A. VON HARNACK, Marcion: das Evangelium vom fremden Gott. Eine Monographie
zur Geschichte der Grundlegung der katholischen Kirche, Hinrichs, Leipzig 1921, 1924, Wiss. Buchges. Darmstadt
1985; tr. it a cura di F. Dal Bo rivista da G. Dal Dosso, Marcione. Il Vangelo del Dio straniero. Una monografia sulla
storia dei fondamenti della Chiesa cattolica, Marietti 1820, Genova 2007.
4
poteva assicurare l’esistenza umana, sovrapponendogli l’idea di cosmo greco. Con la dissoluzione
del mondo aristotelico da parte della rivoluzione francescana-nominalista (e si potrebbe aggiungere
con la successiva nuova negativizzazione luterana del mondo, in qualche modo radicale quanto
quella “gnostica”), sorgerebbe, secondo Blumenberg, la nuova “soluzione” moderna che non è più
teologica (si arriva alla negazione di Dio), ma porta all’autoaffermazione dell’essere umano che si
impegna nelle opere mondane.
La questione, invero, è ancora più complessa di quanto delineata da Blumenberg: la gnosi cristiana
del II secolo aveva già assorbito degli elementi greci nel trasformare la dualità cristiana fra mondo
presente dominato dal male e mondo futuro come Regno di Dio nella dualità platonico-aristotelica
fra mondo terrestre e mondo celeste, e questa gnosi marcionita si era pure innestata, attraverso il
Vangelo di Giovanni,6 nella cattolicità. D’altra parte, si deve tener conto che la diffusione del
Cristianesimo in occidente si risolse più in un’ellenizzazione del Cristianesimo che non in una
effettiva cristianizzazione dell’occidente, e il venir meno della fede attiva nella prossima Parousia
del Cristo e nel prossimo instaurarsi del nuovo mondo del Regno di Dio7 spostò l’enfasi dalla
trasformazione etica attiva del mondo alla conoscenza contemplativa e intellettuale.
Già in un testo del Nuovo Testamento accettato dalla Chiesa, la Parola (in lingua aramaica, Meltha
o Memra) del Prologo del Vangelo di Giovanni, nella sua traduzione in greco era stata letteralmente
ellenizzata in un Logos che ne trasformava il senso. Il senso di parola vivente del dialogo, che
costituisce Dio stesso in una perfezione che non può essere mai egoistica e solitaria
autocontemplazione divina ma che è eterna e originaria apertura all’alterità, e di parola vivente della
continua relazione di dialogo fra Dio e il mondo e l’umanità che si compiva in Gesù, viene
trasformato in un significato intellettualizzato quale Logos-Intelletto come parte di Dio che
6
R. EISLER, Das Rätsel des vierten Evangeliums, in Eranos Jahrbuch 1935, a cura di O. Fröbe-Kapteyn, Rhein, Zürich
1936, pp. 323-511; R. EISLER, The Enigma of the Fourth Gospel, its author and its writer, Methuen, London 1938.
7
A. SCHWEITZER, Von Reimarus zu Wrede: Eine Geschichte der Leben-Jesu-Forschung , J. C. B. Mohr (Paul Siebeck),
Tübingen, 1906, 1913, 1950; tr. it. a cura di F. COPPELLOTTI, Storia della ricerca sulla vita di Gesù, Paideia, Brescia
1986; A. SCHWEITZER, Die Mystik des Apostels Paulus, Mohr (Paul Siebeck), Tübingen 1930; tr. it. di A. Rizzi, La
mistica dell’apostolo Paolo, Ariele, Milano 2011; M. WERNER, Die Entstehung des christlichen Dogmas Problemgeschichtlich Dargestellt, Paul Haupt, Bern & Katzmann, Tübingen 1941, 1954; edizione ridotta di quest’opera
è stata pubblicata con lo stesso titolo presso Kohlhammer, Stuttgart 1959; tr. it., dall’edizione ridotta, di F. E. SCIUTO e
A. PUSKÀS VON DITRÒ, Le origini del dogma cristiano, voll. I-II, Rubbettino, Soveria Mannelli 1997.
5
presiedeva ad una creazione razionale del mondo e che quindi richiamava subito il logos della
filosofia greca e in particolare della cosmologia stoica, e permetteva l’accettazione cristiana di un
cosmo greco razionalmente costituito e conoscibile.
Da un punto di vista di psicoanalisi della storia, si potrebbe guardare all’irrompere del
Cristianesimo in occidente, e non solo della gnosi, come un evento che provocava il riemergere alla
coscienza collettiva il problema del male radicale del mondo e il correlato problema del posto
dell’essere umano nel mondo8 e che faceva saltare le precedenti rimozioni veicolate dalle
razionalizzazioni della filosofia teoretica greca che aveva già costituito un “superamento” del
pensiero mitologico e tragico greco. Il Cristianesimo originario opponeva al problema del male una
pratica etica attiva trasformatrice del mondo, e la gnosi, in positivo e in negativo, contribuì ad una
nuova razionalizzazione filosofico-teoretica basata su una metafisica teologica a cui si tentò di
ridurre la fede cristiana.
Si trattò di una duplice esigenza, una interna al Cristianesimo che si allontanava dalla sua fede
originaria e una interna al pensiero filosofico occidentale. Dall’altra parte, infatti, la conclusione
della filosofia teoretica greca, da Carneade a Sesto Empirico, aveva portato ad esiti scettici ed
esigeva un nuovo fondamento, che poté trovare nella metafisica teologica in cui si trasformò la fede
cristiana nel pensiero tardo antico e nel medioevo.
La dissoluzione di questa nuova razionalizzazione filosofico-teoretica in cui il Cristianesimo
cattolico si era unito alla filosofia greca fu determinata dalla rivoluzione operata da Francesco
d’Assisi (1182-1226), che riproponeva un ritorno alle origini del Cristianesimo come pratica etica di
vita, con l’abolizione di tutte le gerarchie nella creazione, di cui il “cantico delle creature” è traccia
sublime.
La prospettiva francescana in filosofia e in teologia ebbe il suo culmine nel pensiero di John Duns
Scotus (1265-1308) e William of Ockham (1287-1347): la valorizzazione della materia, come parte
8
N. O. BROWN, Life against Death. The Psychoanalytic Meaning of History, Wesleyan University, Middleton CT 1959;
tr. it. di S. BESANA GIACOMONI, La vita contro la morte. Il significato psicoanalitico della storia, Adelphi, Milano
1964, 1978.
6
della creazione, si opponeva alla considerazione platonica di essa come principio autonomo da cui
derivava ogni imperfezione e male, e implicava anche la distruzione della gerarchia non solo fra
materia e forma, ma anche fra mondo terrestre e mondo celeste. Richiamandosi all’originaria
caratterizzazione cristiana di Dio in termini di Amore come libera volontà, la prospettiva
francescana si oppose alla concezione della divinità greca, come quella aristotelica, chiusa nella sua
perfezione intellettuale di una autocontemplazione del pensiero e distrusse la connessione
medioevale del Cristianesimo con la teologia, la filosofia, la cosmologia e la fisica greche. La libera
volontà di Dio come Amore risultava inconoscibile, impredicibile, e non poteva più garantire non
solo la Grazia della salvezza ma neanche la razionale comprensibilità della Creazione o
dell’Incarnazione in termini di finalità umane: le argomentazioni de potentia Dei absoluta, che cioè
non si limitavano alla considerazione di ciò che Dio di fatto aveva compiuto (potentia Dei
ordinata), portavano alla conclusione che Dio, nella Sua libera volontà, avrebbe potuto non creare,
avrebbe potuto creare diversamente, avrebbe potuto non creare l’essere umano o non incarnarsi in
un essere umano. Questa conclusione riapriva l’abisso aperto dalla gnosi sul mondo, destituendo di
significato umano la creazione, svincolabile, come l’incarnazione, dalla questione della salvezza
umana dal male: distruggeva le basi teologiche di qualsiasi antropocentrismo, e invero la possibilità
di una qualsiasi fondazione teologica dell’antropocentrismo aprendo la via a soluzioni non
teologiche nella modernità all’auto-affermazione dell’umanità. Il mondo naturale non poteva essere
più considerato oggettivisticamente, secondo la prospettiva intellettualistica greca, ma, derivando
dall’azione e dalla volontà della soggettività divina, presentava connotazioni soggettive
impredicibili. E ciò distruggeva anche la possibilità di una filosofia teoretica della Natura che non
poteva che basarsi su una metafisica teologica.
Questa divergenza non ricomponibile fra ragione e fede, e quindi fra filosofia teoretica e fede, trovò
il suo culmine nella prospettiva di Martin Luther (1483-1546), su cui pure poco si ferma l’analisi di
Blumenberg, più strettamente legata a una storia delle idee.
7
Luther rompe con la tradizione filosofica greca, contestandone anche l’obiettivo, la conoscenza
intellettuale del mondo, e contrapponendole la cura attiva etica, sensibile a ogni sofferenza degli
esseri viventi, per trasformare il mondo presente dominato dal male: la concezione del mondo
completamente corrotto dal peccato e sottomesso a satana aveva la stessa radicalità gnostica e
riapriva effettivamente quell’abisso contro cui i francescani solo non potevano fornire più certezze
ma che certamente non avevano aperto. La corruzione insuperabile della Natura e in particolare
della natura umana e della sua ragione, sottomessa a una volontà schiava del peccato, non
permettevano alcuna via d’uscita naturale o razionale all’essere umano, incapace di operare il bene
se non attraverso la Grazia. Il tema della volontà altruistica cristiana si legò così solo alla Grazia,
mentre alla Natura si legò solo una volontà egoistica che diventò poi la cifra di una nuova
metafisica atea.
La fede non può coincidere più con l’adesione a certe proposizioni dogmatiche, comprensibili
razionalmente in termini di una teologia e di una metafisica basate sull’aristotelismo, come in San
Tommaso, la cui “summa teologica” Luther brucerà in un rogo pubblico nel 1520. Le opere (rituali)
non salvano, non salva la Chiesa, solo la Grazia salva; ma solo nelle opere, nell’operare individuale
nel mondo in un’attività d’amore si manifesta la fede: è esclusa qualsiasi chiusura monacale in una
vita meramente contemplativa, che, come la concezione della futura vita paradisiaca come una mera
contemplazione di Dio, si era innestata nel Cristianesimo attraverso influenze greche, platoniche. La
consapevolezza cristiana, il pensiero della fede cristiana si acquisisce e si verifica, non
contemplativamente o teoreticamente, ma solo nella prassi etica.
La transitoria congiunzione medioevale di filosofia greca e fede cristiana si era dissolta al
riemergere dei tratti rivoluzionari, anti-teoretici, della prospettiva cristiana. La modernità e il
pensiero moderno sorgono così in un’ambivalenza costitutiva: da una parte, l’età moderna è l’epoca
in cui si manifesta la cristianità non più ingabbiata nelle reti dell’intellettualismo filosofico e
teologico greco; dall’altra parte, la frammentazione delle chiese e delle confessioni cristiane, la
critica dell’autorità e della funzione mediatrice della Chiesa cattolica, la non traducibilità della fede
8
cristiana in una filosofia teoretica metafisico-teologica ma in un’attività trasformatrice umana in cui
unicamente la Grazia divina si rende immanente alla coscienza individuale, portarono alla
possibilità di una pluralità di costruzioni filosofico-teoretiche individuali indipendenti dalla Chiesa
e anche atee e di un’auto-rappresentazione filosofica dell’umanità narcisistica e antropocentrica non
più legittimata teologicamente, ma sull’auto-affermazione umana nella dimensione pratico-tecnicopolitica di un operare-lavorare intra-mondano che si stacca dalla fede.
La filosofia della Natura, avendo perso il suo fondamento teoretico nella metafisica teologica, trovò
un nuovo fondamento in una prassi sperimentale in cui la tecnica perdeva la sua connotazione
puramente strumentale per assumerne una conoscitiva: nella prassi sperimentale, il pensiero si
concretizzava, si faceva azione potendosi così misurare effettivamente con il mondo. La rivoluzione
copernicana, che pure era stata possibile assumendo una prospettiva soggettiva naturale ma non
umana, e non terrestre ma solare, si poté compiere effettivamente solo quando, con le osservazioni
telescopiche di Thomas Harriot (1560-1621), Galileo Galilei (1564-1642) e altri, anche
l’astronomia, in cui il cielo sembrava essere oggetto assoluto solo di una contemplazione,
paradigma dell’attività puramente contemplativa della filosofia teoretica greca antica come pure di
una perfezione etica e di una felicità egoistica, si trasformò in un sapere operativo-pratico, che
porta quasi a poter toccare anche il cielo, indipendente da una metafisica teologica, e non più
meramente contemplativo-teoretico.
Si rese necessaria una nuova fisica, alternativa a quella aristotelica, su cui si potesse costituire la
nuova cosmologia copernicana, come anche una nuova conciliazione fra ragione e fede dopo
Luther; e Giordano Bruno (1548-1600) propose una nuova versione dell’atomismo epicureo: questa
nuova fisica e questa nuova cosmologia non solo erano compatibili con le argomentazioni della
infinita potenza assoluta di Dio, ma realizzavano in positivo gli esiti negativi della decostruzione
francescana, relativizzando la posizione dell’essere umano nel mondo, ma relativizzando lo stesso
mondo in quanto solo uno fra infiniti mondi. La cosmologia neo-epicurea era l’unica cosmologia
positiva che disimpegnasse Dio dalla necessità di aver creato un mondo ordinato secondo un senso
9
e una finalità umani, che era solo un sottoprodotto di un’opera molto più vasta, infinita. Questa
caratteristica fornì le basi di una nuova risposta razionale alla gnosi, a Luther, nella sua
relativizzazione del male; e si poté poi facilmente adattare a una più tarda visione atea del mondo,
come esito casuale di un ordine contrastante con infiniti altri mondi disordinati.
Più in generale, la modernità e il pensiero moderno si svilupparono in forme molteplici e diverse a
seconda dei particolari contesti e dell’effettiva ricezione della Riforma.
Tutti i dubbi storici posti dagli sconvolgimenti, che, dal francescanesimo all’Umanesimo, al
Rinascimento e alla Riforma, dalla rivoluzione astronomica copernicana alla nuova fisica, si
manifestarono storicamente non solo sul piano della vita ma anche sul piano della fede e della
filosofia (si parla metaforicamente della rottura delle sfere (breaking of the circle): il 1455, con
l’invenzione della stampa e della Bibbia come primo libro, aveva comportato la rottura della sfera
chiusa della trasmissione del sapere e della rivelazione che ora si presentava non più come Parola,
ma piuttosto come Scrittura e aveva aperto la possibilità della filologia e della critica biblica; il
1492 con la “scoperta” dell’America, aveva segnato la rottura della sfera chiusa della Terra
conosciuta aprendo l’orizzonte di un “nuovo mondo”; nel 1517, Luther aveva spezzato l’unità e
l’autorità della sfera chiusa del Cattolicesimo, aprendo la strada a una pluralità di confessioni e sette
cristiane “eretiche”, al libero esame e a una pluralità di interpretazioni della Bibbia; nel 1543, il De
revolutionibus orbium coelestium di Copernico aveva dissolto la distinzione aristotelica fra mondo
celeste e mondo sublunare, aveva sostituito il modello geostatico con un modello eliostatico, ma
anche aveva mostrato l’inaffidabilità dell’esperienza e dei sensi umani, in particolare della vista,
come fonte certa della conoscenza umana, e, via Tycho Brahe, aveva aperto la strada a Giordano
Bruno che nel 1584, con La cena de le ceneri, aveva procurato la rottura delle stesse sfere celesti
rendendo l’universo infinito, e posto come nuova fisica l’atomismo), furono sussunti dal cattolico
René Descartes (1596-1650) in una dimensione puramente teoretica attingibile da una coscienza
individuale astorica di fronte a un dubbio che è presentato come costitutivo metodico del pensiero
stesso, nel tentativo di un’auto-fondazione astorica e autonoma della filosofia teoretica. Nel
10
medioevo, la filosofia era dipendente dalla fede ed ancella della teologia: da almeno Giordano
Bruno in poi, la filosofia reclamava una sua autonomia. Con Cartesio, dopo la luterana
soggettivizzazione individuale della fede, si ha una soggettivizzazione individuale della metafisica
filosofica che non può più fondarsi sull’oggettivizzazione comunitaria-ecclesiastica della fede: la
certezza stessa di Dio si fonda sulla certezza interna dell’io. Se non si può assumere una fede
condivisa come fondamento della filosofia, anche perché non è possibile accedere a una teoria che
rispecchi la visione che Dio ha del mondo, non è possibile neanche una fondazione oggettiva della
conoscenza filosofica teoretica a partire dalla certezza del mondo (Cartesio ribalta la prova
cosmologica: è dall’esistenza di Dio che solo si può provare l’esistenza del mondo): si deve
ammettere la radicale soggettività umana della conoscenza. Cartesio recepì solo in parte l’esito della
storia che si è tratteggiata: la fede non può tramutarsi in un fondamento teologico della filosofia;
ovvero, la filosofia, come la fede, è dipendente dalla soggettività individuale che conosce, ma la
metafisica è comunque possibile, in quanto l’esistenza di Dio è a sua volta un’evidenza interna al
pensiero. Pure il potenziale dirompente del riconoscimento dell’assolutezza della volontà divina
viene neutralizzato da Cartesio, in termini dell’argomentazione di un Dio non-ingannevole e
immutabile: Cartesio, caratterizzando la volontà divina con l’attribuzione dell’immutabilità,
introduce nel volontarismo cristiano un elemento della teologia razionalistica greca che ne ribalta la
prospettiva. Una volontà immutabile si traduce in un ordinamento razionale del mondo, esprimibile
in leggi di Natura immutabili, senza trasgressioni o miracoli: Cartesio ritiene che sia possibile infatti
organizzare la fisica come la matematica, secondo il progetto della mathesis universalis, in una
struttura assiomatico-deduttiva. Dai principi, attraverso una serie di concatenazioni necessarie, si
posson ottenere molteplici conseguenze
concernenti i fenomeni, abbastanza stringenti e
“verificabili”: ciò elimina l’aspetto apparentemente congetturale se non arbitrario dei principi.
Cartesio ammette (Principia Philosophiae IV, 204-205-206) che la spiegazione dei fenomeni come
effetti può avvenire attraverso differenti modelli, ipotesi o principi corrispondenti a differenti cause,
a loro volta corrispondenti a differenti modi di operare di Dio, ovvero di realizzare la Sua volontà.
11
Tuttavia, questa è la sola verità raggiungibile dall’essere umano, ed è sufficiente per una
legittimazione di un sapere umano che proceda per ipotesi nella spiegazione dell’ordine del mondo
e in funzione di obiettivi pratici9: la certezza di questa verità è primariamente morale, ma anche
“più che morale” scrive Cartesio, metafisica, dato che Dio non inganna, se abbiamo fatto un uso
retto della ragione, cioè implicitamente un uso morale della ragione, che è segno di un operare
divino in noi.
Dopo Copernico, secondo Cartesio, bisogna comprendere che non ci si può più fidare dei sensi
come della vista e delle rappresentazioni del mondo basate sulle immagini, cioè sulla somiglianza
dei segni alle loro cause reali; bisogna così costruire una fisica basata su principi razionali che
dimostrino la loro efficacia nella spiegazione dei fenomeni. Bisogna quindi superare un approccio
empirico alla scienza fisica, come anche un approccio meramente sperimentale come quello
galileiano; bisogna poi superare anche l’approccio galileiano per singoli problemi o dialogico, e
cercare delle leggi universali della Natura (l’approccio più strettamente matematico di Newton, in
questo aspetto, dipende comunque da Cartesio). Cartesio così immagina come Dio avrebbe creato
un mondo cercando una costruzione razionale della fisica, basata sulla consistenza logica, su idee
chiare e distinte. (Da qui bisogna comprendere la critica di Heidegger a Cartesio come a colui che
ha inaugurato L’epoca dell’immagine del mondo, che avrebbe dovuto avere come titolo “L’epoca
della rappresentazione del mondo” per tradurre meglio il termine tedesco Bild: Cartesio, nel testo
ultimato nel 1633, intitolato Le monde, e pubblicato postumo nel 1664 e nel 1677 per paura di
Cartesio dopo il processo e la condanna di Galileo, inventa apriori un mondo nuovo, presentandolo
come una favola, e per questo effettua, secondo
Heidegger, una riduzione del mondo a
rappresentazione, che per Cartesio è molto diversa dall’immagine. Forse Heidegger ha presente il
famoso passo di Friedrich Nietzsche, Crepuscolo degli idoli, Come il “mondo vero” finí per
diventare favola, che si ricollega certamente a Cartesio che come Platone raddoppia il mondo e
concepisce un “mondo di idee” come il mondo vero. Cartesio invero sostituisce al mondo non solo
9
H. BLUMENBERG, La legittimità dell’età moderna, op. cit., pp. 188-224.
12
un “modello geometrico”, ma anche il “modello meccanico” delle pratiche sperimentali: la Natura
viene ridotta così a una macchina, a una costruzione meccanica umana, e la meccanica, da sapere
tecnico, finisce per diventare la fisica stessa; inoltre, è aperta la via alla sperimentazione animale, in
quanto gli altri animali non-umani vengono considerati macchine che sanno simulare anche la
sofferenza. Se la Natura e gli animali sono macchine, nessun dovere etico nei loro confronti vincola
l’essere umano che ne può disporre a proprio arbitrio). Cartesio concepisce così la Natura come
pura materia: la materia non viene più concepita come una sostanza metafisica caratterizzata dalla
ponderabilità, ma viene ridotta alla sua proprietà-“accidente” matematicamente descrivibile, e cioè
come estensione spaziale divisibile (res extensa), che permette di ricondurre la fisica a una
particolare geometria di punti geometrici mobili. A partire da questa identificazione, segue
l’esclusione dello (spazio) vuoto, e le leggi della Natura come leggi del mutamento si riducono a
leggi generali del moto. Le leggi della Natura come espressione di una volontà divina immutabile
che costituisce l’ordine razionale del mondo è la risposta di Cartesio alla decostruzione bruniana
dell’antropocentrismo e allo stesso modo all’abisso del male del mondo, del mondo dominato da
satana, riaperto da Luther: il controllo e il dominio umano della Natura non si presentano per
Cartesio, ovviamente, come espressioni dell’antropocentrismo o di un freudiano inconscio
narcisismo dell’umanità, ma come legittimati dal dover, come la medicina che opera nei confronti
delle malattie, porre un argine al male del mondo, legato al caos naturale del moto della materia,
ovvero della Natura come macchina, che l’umanità deve controllare; questo significa che le leggi
della Natura hanno primariamente una certezza morale.
Ma diverse soluzioni erano possibili: Blaise Pascal (1623-1662), giansenista più vicino
all’opposizione luterana fra ragione e fede, propose uno scetticismo filosofico, superabile e superato
solo da un pensiero basato sulla fede non tradotta in metafisica e che riusciva a percepire ancora per
l’essere umano l’abisso irrazionale dell’universo infinito.
13
La fisica moderna pascaliana10 era sperimentale e non apriori come quella di Cartesio: soprattutto
nella lettera a Padre Noel, Pascal chiarisce la sua epistemologia fisica. Nella Prefazione al Trattato
sul Vuoto, Pascal afferma che principi possono essere solo le esperienze e queste aumentano di
continuo con il tempo e da queste derivano sempre nuove conseguenze: questo significa che la
fisica non si può mai costituire in una teoria finita e chiusa; resteranno sempre effetti non conosciuti
che fanno della fisica una scienza storica. Le prove della fisica consistono in esperienze, non in
dimostrazioni logico-matematiche: questo implica che non ci sono affermazioni universali che non
siano altro che espressioni sintetiche di enumerazioni estensive dei casi conosciuti: se si intendono
così limitatamente i significati delle proposizioni della fisica, l’evoluzione storica della fisica non
produce mai contraddizioni ma solo ampliamento delle conoscenze. L’universalità raggiungibile
dalle scienze fisiche e delle sue leggi è solo aposteriori e coincide con quella della totalità delle
esperienze conosciute: non si deve mai intendere come una generalizzazione o estrapolazione
indebita a casi ancora non esperiti. La verità fisica è sempre più antica della sua scoperta. Non si
possono elevare ipotesi a leggi di Natura, come in Descartes, perché in fisica l’affermazione o la
negazione di un’ipotesi non porta a una contraddizione logica e quindi resta dubbia: non basta che
tutti i fenomeni conosciuti ne derivino, perché basterebbe un solo nuovo fenomeno contrario a
stabilirne la falsità. Come da una causa deriva una molteplicità di effetti, così un effetto può
derivare da una molteplicità di cause: si possono creare, in generale, infiniti modelli matematici dei
fenomeni identificando differenti principi matematici con differenti ipotesi sulle cause fisiche.
Queste ipotesi costituiscono ciò che a volte chiamiamo visioni, altre volte capricci, altre volte
fantasie, altre volte idee o bei pensieri, ma nulla di più: restano arbitrarie e non costituiscono
un’effettiva conoscenza della Natura.
Il modello matematico-meccanico di mondo, che Descartes aveva costruito in Le monde intorno al
1632-1633 e per la prima volta reso pubblico con la pubblicazione dei Principi della filosofia nel
1644, al massimo non è che una fantasia priva di un fondamento certo e quindi l’esplicitazione di
10
Questa parte sulla fisica di Pascal è ripresa da: A. Taschini & E. R. A. Calogero Giannetto, Note sulla fisica di
Pascal, sottoposto a Humanitas.
14
un’ipotesi incerta e dubbia. Ma c’è di più: la fisica sperimentale di Pascal la falsifica. Infatti, Pascal
prova con i suoi esperimenti l’impossibilità che una qualsiasi forma di materia (conosciuta) possa
riempire quello che appare essere uno spazio del tutto vuoto: Pascal sa che le prove dell’esistenza
del vuoto possono essere solo “prove negative” dell’esistenza della materia (conosciuta) nello
spazio vuoto, e mai “prove positive” e definitive; tuttavia, i suoi esperimenti provano l’assenza di
materia nello spazio vuoto e che presupporre una forma di materia sottile e sconosciuta che lo
riempia è un’ipotesi ad hoc e arbitraria per identificare la materia alla res extensa e rendere
possibile una completa geometrizzazione della fisica. Pascal non si limita a mostrare il darsi di uno
spazio vuoto di materia, ma rilancia in maniera vertiginosa e sconvolgente: immergendo un tubo
torricelliano in un altro, produce le vide dans le vide. Ciò significa che non si tratta del fatto che
all’interno di un mondo pieno si danno delle lacune di vuoto, ma piuttosto che ciò che è pieno e
materiale è immerso e compreso in un più ampio spazio vuoto: il rapporto gerarchico fra pieno e
vuoto è ribaltato, implicando l’idea successivamente espressa da Pascal di un infinito universo che
si estende in un infinito spazio vuoto di materia.
La decostruzione francescana della fisica aristotelica era avvenuta attraverso argomenti de
omnipotentia Dei: questi implicavano una nuova concezione della Natura, che non era più tale per
un’intrinseca necessità razionale, ma era appunto il frutto dell’azione volontaria e imperscrutabile di
Dio, che poteva produrre o meno un determinato fenomeno. In questo contesto, perdeva di senso la
distinzione fra azione sovrannaturale o naturale, perché la Natura stessa è ridefinita e ridefinibile a
partire dall’azione di Dio. La Natura stessa viene considerata un artificio divino, sia nel senso di un
prodotto positivo dell’azione divina, sia nel senso di una eventuale negativa simulazione divina di
realtà. Su questa perdita di senso anche della distinzione fra naturale e artificiale, si innesta la
possibilità di una produzione artificiale, da parte dell’essere umano, di fenomeni naturali nuovi, non
riscontrabili direttamente nella mera esperienza della Natura e quindi la possibilità di una fisica che
vada oltre la mera esperienza passiva della Natura già esistente e si basi sull’azione sperimentale.
Nel Seicento, a partire dall’esperimento torricelliano, si arriva così ad indagare se il vuoto sia
15
producibile dall’essere umano e non si tratta più speculativamente il problema se sia producibile da
Dio.
Per sperimentare l’eventuale producibilità del vuoto, la via più diretta consiste nel partire dallo stato
più rarefatto della materia esperito e conosciuto, cioè dallo stato aeriforme o gassoso, e nel produrre
la transizione ad uno stato in cui è presente il vuoto: un processo che si potrebbe dire
termodinamico. Così, è la pneumatica (termodinamica), come disciplina sperimentale, che diventa
fondamentale. La stessa eventuale teoria del moto si basa così sulla pneumatica.
Le nouvelles expériences di Pascal di pneumatica, e delle correlate discipline dell’idraulica o
dell’idrostatica, non sono quindi esperimenti marginali di una branca marginale della fisica, ma
costituiscono esperimenti fondamentali che possono falsificare le fisiche del pieno, come quella
aristotelica e quella cartesiana, mostrandone la radice meramente speculativa e metafisica, e fondare
l’alternativa della fisica atomistica. Pascal mostra che gli esperimenti, che coinvolgono i fenomeni
di pressione dell’aria e dell’acqua, possono essere compresi unitariamente, secondo un unico
principio esplicativo che però non è assiomatizzabile come apriori, ma del tutto aposteriori rispetto
agli esperimenti. Questo principio unico, che sostituisce il metafisico orrore del vuoto - che si rivela
come la mera proiezione di un umano sentire che rifiuta la finitezza del proprio essere - , attesta
“che il peso della massa dell’aria è la vera causa di tutti i fenomeni che sono stati finora attribuiti a
questa causa immaginaria”. Questo principio è cioè la prova del peso come qualità costitutiva della
materia, che non è riducibile alla res extensa di Descartes, puramente geometrica e senza peso. La
metafisica matematica cartesiana si basava su un presupposto gnoseologico di matematizzabilità del
mondo che implicava un’ontologia matematica con la riduzione delle cose a mathemata.
D’alra parte, la stessa produzione di uno spazio vuoto di materia prova sperimentalmente la non
identità di spazio e materia, perché esiste uno spazio anche in assenza di materia. Ne segue che la
Natura non è mera res extensa, ma anche che la Natura non è mera materia. Pascal prova anche che
la luce si sostiene e si propaga nel vuoto: la luce non è quindi né sostanza né accidente, né corpo né
spirito, né materia né forma; tutte le categorie della fisica aristotelica non possono più essere usate.
16
Solo lo spazio vuoto è immobile e inerte, pur non offrendo resistenza al moto che anche in esso
avviene nel tempo; la materia, al contrario non è inerte, ma intrinsecamente “animata”-mossa da
peso, pressione, forza. E crollano così anche le ipotesi matematiche, meccaniche o meccaniciste
della fisica cartesiana, come pure quelle materialiste. La Natura non è solo materia in moto, ma
anche spazio vuoto, forza, luce e tempo: la sua realtà è complessa e varia, composta da “forme di
essere” (enti) che possono esistere separatamente e singolarmente nella loro ecceità, come già
evidenziata dal nominalismo francescano.
Non si avventurava in assolutizzazioni di modelli, limitandosi a riconoscere “scetticamente” e
relativisticamente l’equivalenza delle ipotesi cosmologiche e dei modelli dell’universo (ripresa poi
da Leibnitz). La sua matematica era la nuova geometria di Girard Desargues (1591-1661): una
“proto-geometria” proiettiva, che studiava le trasformazioni e le invarianze delle figure geometriche
rispetto alle differenti possibili prospettive e che permetteva di riconsiderare unitariamente le
coniche come proiezioni del cerchio. Non solo la retta è ricondotta al cerchio (un cerchio il cui
centro è un punto all’infinito), ma anche l’ellisse, la parabola e l’iperbole sono proiezioni del
cerchio: sono “metafore” del cerchio. Al contrario di quella di Descartes che privilegia l’intuizione
statica della retta, quella di Desargues privilegia quella del cerchio, ma in un’immaginazione
dinamica delle trasformazioni delle figure geometriche in altre. Le coniche costituiscono differenti
sezioni del cono ed esprimono quindi differenti “aspetti” della realtà, differenti possibili
rappresentazioni della realtà, che in sé non risulta determinata in figure geometriche. Questa
geometria, nata dai problemi della prospettiva e della teoria ottica medioevale della Perspectiva,
considera le rette geometriche come raggi di luce fisici che, dirigendosi verso l’occhio di chi
osserva costituiscono una proiezione, che forma delle sezioni in un piano che attraversa la
proiezione: si tratta, quindi, di comprendere le relazioni che sussistono tra una figura e le sue
possibili sezioni, che non sono né uguali o congruenti né simili, e non hanno neppure la stessa area.
La geometria di Desargues, facendo incontrare tutte le rette parallele in un punto all’infinito e tutti i
piani paralleli in una retta all’infinito, come “geometria dell’infinito” poneva il problema di una
17
geometria di uno spazio fisico infinito e della sua struttura globale: non si poteva distinguere uno
spazio euclideo piatto da uno curvo, anzi la struttura globale dello spazio va pensata come curva
perché le rette parallele s’incontrano all’infinito. Desargues dimostrava l’intuizione di Cusano
(tramite la coincidentia oppositorum della sua teologia negativa di un Dio infinito) e di Giordano
Bruno dell’identità di retta e cerchio all’infinito, chiudendo e curvando lo spazio infinito su sé
stesso. Pascal, comprendendo questo, pensò l’universo infinito come “curvantesi” in una sfera
infinita: si tratta di una geometria che all’infinito diventa non-euclidea.
Questa geometria in Pascal diventa esplicitamente una geometria delle differenti proiezioni di
differenti osservatori fisici: non ha senso allora dire in termini assoluti che, per esempio, le orbite
dei pianeti siano cerchi o ellissi, perché queste figure corrispondono a diverse proiezioni di
osservatori più o meno vicini o lontani, o coinvolti in un moto o in un altro. Non ha senso allora
dire se il moto naturale è rettilineo o circolare. Si tratta quindi di una geometria che relativizza le
forme/figure geometriche e le distanze, inglobando in sé una relatività ottica e fisica. Seppure anche
la geometria analitica, algebrica di Descartes, introducendo l’elemento soggettivo del sistema di
coordinate, avrebbe potuto portare alla teorizzazione di una relatività geometrica, condusse
all’assolutizzazione dei sistemi di coordinate rettilinee perpendicolari, delle proprietà metriche,
dell’idea di retta.
Pascal, oltre questa geometria dell’infinito, sviluppò come “controparte” anche un “proto-calcolo”
infinitesimale per poter risolvere i problemi di calcolo dell’area di una superficie comunque
irregolare come somma di infinite superfici rettangolari tendenti a essere infinitamente piccole
(Traité des sinus du quart de cercle, 1659: Leibnitz disse di essere stato ispirato da questo testo di
Pascal per lo sviluppo del calcolo infinitesimale): questa procedura era legittimata dalla
consapevolezza di Pascal che, come all’infinito, anche nell’infinitamente piccolo retta e cerchio,
retto e curvo coincidono. Pascal sviluppò così una nuova matematica dell’infinito e insieme
dell’infinitamente piccolo: questa matematica è necessaria per Pascal anche per esprimere (non
comprendere) simbolicamente, attraverso il calcolo infinitesimale, come calcolo dell’infinitamente
18
piccolo, la condizione dell’essere umano come infini rien, come parte infinitesima dell’universo
infinito, e, attraverso la geometria proiettiva dell’infinito, allo stesso modo l’infinità di Dio e della
sua creazione. Per quanto Pascal, in alcune occasioni, affermi che quanto ottenuto da lui con questa
matematica e con questa geometria, sia ottenibile anche con il metodo degli antichi, è consapevole
che questa matematica dell’infinito e dell’infinitesimo (o il suo equivalente antico) non possa
comunque avere lo stesso rigore delle dimostrazioni geometriche del finito: la ragione ha dei limiti
e non può comprendere l’infinito come non può comprendere i misteri della fede in un Dio infinito;
non è l’esprit géométrique alla base di questa matematica dell’infinito e dell’infinitesimo, ma
piuttosto l’esprit de finesse che è legato ad un’intuizione propria del cuore come alla fede. Le
paradossali identità della natura geometrica di retta e della natura geometrica di cerchio nell’infinito
e nell’infinitesimo sono come la paradossale dualità della natura umana e divina che costituisce
l’identità di Gesù per la fede.
Il sapere non si può costituire così in una mathesis universalis cartesiana basata solo sull’esprit
géométrique. I limiti della ragione e del sapere umano sono poi simbolicamente espressi e
matematicamente portati ad una rigorosa consapevolezza da Pascal nello sviluppo di un “protocalcolo” della probabilità che caratterizza l’incertezza del nostro sapere nella sua solo e sempre
parziale “provabilità”. Si pongono così le basi di una nuova mathesis universalis negativa e
aposteriori pascaliana, di una “matematica negativa” basata sull’esprit de finesse, che, a partire dalla
fisica quantistica, sarà accettata nella comunità scientifica nel Novecento.
L’illuminismo francese si muoverà poi fra deismo e ateismo.
Gottfried Willhem Leibnitz (1646-1716) fu il primo a proporre una concezione veramente moderna
della Natura. La concezione della Natura come un essere vivente e animato del pensiero arcaico e
antico era stata pure subordinata dalla filosofia teoretica alla considerazione della Natura come
espressione di una necessità logica oggettiva intellettualmente conoscibile; la filosofia francescana
aveva fatto saltare questa certezza e aveva caratterizzato la Natura come impredicibile espressione
della libera volontà di Dio. Cartesio aveva ripristinato la conoscibilità razionale della Natura e
19
l’antropocentrismo anche all’interno di un universo infinito, equiparando gli esseri viventi a delle
macchine e riducendo così tutta la Natura a macchina, a res extensa mero oggetto della
rappresentazione umana, espressione della solo umana (oltre che divina) res cogitans. Leibnitz
concepì Dio in termini di una volontà amorevole e non arbitraria come per Cartesio: secondo
Luther, la libertà non è arbitrio, tantomeno per Dio; l’arbitrio è servo del peccato e può essere
considerato solo per l’essere umano. La non arbitrarietà era conciliabile per Leibnitz con una
razionalità divina, anche se mai completamente attingibile dall’essere umano. Seppure la potenza di
Dio è infinita e si è espressa nella creazione di un mondo infinito, tale infinito non si identifica con
l’infinità dei mondi possibili dell’universo dell’atomismo epicureo: la razionalità divina della
creazione si identifica nella scelta libera del migliore dei mondi possibili, e cioè in una scelta
d’amore; la ragione divina non è altro rispetto all’amore divino nella sua libertà, mai necessitata. La
relativizzazione del male implicata in un mondo infinito e alla base della sua teodicea non coincide
mai quindi con una spiegazione casualistica dell’ordine del mondo come nell’epicureismo degli
infiniti possibili mondi e in Cartesio (che lo fa derivare naturalmente e casualmente da un caos
originario), ma è la conseguenza della ridefinizione della razionalità divina come libera volontà
d’amore e non come necessarietà logica in sé conclusa e perfetta: la razionalità divina infinita,
seppure rappresentabile simbolicamente con un calcolo integrale ma infinito, non sarà mai
direttamente attingibile dalla finita ragione umana. Dalla relatività generale del moto, che
ritematizza a partire da Bruno, Galileo e Cartesio per comprendere la rivoluzione copernicana,
Leibnitz, non ne deduce una nuova certezza cosmologica del sistema copernicano-kepleriano del
mondo, che seppure rispondente al vero è conoscibile solo da Dio e mai attingibile da una ragione
finita, umana o angelica: se il mondo è infinito, non c’è mai un punto di vista esterno da cui poter
dirimere la questione (Leibnitz non considera un universo infinito fatto da un’infinità di mondi
finiti, per cui si potrebbe uscire fuori dal nostro mondo finito, ma considera il nostro mondo
infinito). La sua monadologia, a partire dall’influenza di Bruno, va considerata come strettamente
radicata nella tematizzazione della relatività generale del moto, come hanno ben compreso Edward
20
Arthur Milne (almeno implicitamente nella sua cosmologia) e Herbert Wildon Carr11. La relatività
del moto e la problematica copernicana fanno comprendere come la struttura del mondo non possa
mai essere colta dall’insieme delle prospettive umane che sono tutte legate ad una prospettiva
terrestre: ne consegue che non si possa mai ridurre il mondo a una mia rappresentazione soggettiva
individuale, o a una rappresentazione soggettiva umana, in quanto neppure può essere oggetto di
una rappresentazione da una prospettiva umana. Implicito nella relatività è che ogni parte del
mondo è soggetto di una prospettiva e di una corrispondente rappresentazione del mondo, e quindi
il mondo infinito è costituito da una pluralità infinita di soggetti naturali di una prospettiva e di una
rappresentazione, ciascuna diversa dalle altre in virtù della sua attività interna (forza) che ne
caratterizza il moto e il mutamento. Si tratta di soggettività come quella umana, caratterizzata da
una attività interna che soggiace alle volizioni, alle percezioni e alle intellezioni, da cui i movimenti,
le prospettive e le rappresentazioni differiscono solo in grado. Nessuna di queste soggettività
monadiche finite può vantare una prospettiva privilegiata e una rappresentazione completa del
mondo né è possibile un’auto-rappresentazione a partire dalla propria prospettiva: la Natura quindi
non si può auto-rappresentare, auto-spiegare o auto-comprendere perché la sua comprensione
implica la chiusura in una totalità finita di un’infinità di prospettive e di rappresentazioni. La
comprensione della Natura è attuabile solo dalla prospettiva infinita di Dio che può comporre
insieme l’infinità delle prospettive e delle rappresentazioni. Così, la soggettività della conoscenza,
emersa dal crollo dell’oggettivismo naturalistico-razionalistico greco, non porta per Leibnitz a un
soggettivismo umanistico antropocentrico né a un relativismo soggettivistico umanistico, ma al
riconoscimento della soggettività irriducibile della Natura in tutte le sue parti, che aprono una
pluralità infinita, intrinsecamente correlata, di prospettive sul mondo che assumono così una
valenza strutturale-ontologica e non meramente gnoseologica. La conoscenza deriva solo dalla
11
H. WILDON CARR, The general principle of relativity in its philosophical and historical aspect, MacMillan and Co.
Limited, London 1920; H. WILDON CARR, A Theory of monads: outlines of the philosophy of the principle of relativity,
MacMillan and Co. Limited, London 1922; H. WILDON CARR, Leibniz, Dover Publications, New York 1929, 1960; G.
W. LEIBNIZ, The Monadology of Leibniz, with. an intr., comm. by H. WILDON CARR, Favil, London 1930; J. MERLEAUPONTY, Cosmologie du XX siècle, Gallimard, Paris 1965; tr. it. di S. CHIAPPORI, Cosmologia del secolo XX, il
Saggiatore, Milano 1974, pp. 126-198.
21
considerazione e dalla composizione di questa infinità di prospettive, per cui per l’essere umano
non potrà mai essere assoluta e completa, ma relativa, comparativa e incompleta e può crescere
attraverso il confronto-dialogo fra sempre più soggettività.
La critica della ragione teoretica operata da Immanuel Kant (1724-1804), che si muoveva nel clima
protestante tedesco, è funzionale a lasciare uno spazio libero alla fede, non ricopribile dalla ragione
filosofica, ma risolta all’interno della ragione pratica. La critica della ragione teoretica è la critica
della ragione teoretica che vuole andare oltre l’esperienza, e in particolare oltre l’esperienza della
fede (secondo Luther, l’essere umano, corrotto dal peccato originale che rende schiava la volontà e
l’azione, non può da solo, con la sola ragione arrivare a Dio, senza l’esperienza della fede e quindi
senza la Grazia, né attraverso questa si potrà edificare una conoscenza teoretica) tramutandola in
metafisica teologica razionale. La priorità della fede sulla ragione si tramuterà così in Kant nella
priorità della ragione pratica sulla ragione teoretica nella sua possibilità di accesso alla realtà, e
quindi nella priorità della filosofia pratica sulla filosofia teoretica, determinando una rivoluzione
interna alla gerarchia delle discipline filosofiche.
La soggettivizzazione della conoscenza in Kant abbandona le pretese del pensiero puro cartesiano e
post-cartesiano, e lega sempre il pensiero all’esperienza tranne che per le forme apriori e per le
categorie per cui ricade in una metafisica del soggetto oggettivizzandolo come trascendentale che
elimina le differenze fra i soggetti effettivi per superare un relativismo soggettivo. Solo
nell’impostazione del problema della legge morale, Kant si confronta, almeno formalmente, con
una pluralità effettiva dei soggetti umani e con una loro inoggettivabilità in termini di una ragione
teoretica. La moralità implicante la libertà non potrà mai essere condizionata dalla naturalità perché
questa non è mai libera (come in Luther, ma in un senso parzialmente diverso).
Con Georg Wilhelm Friedrich Hegel (1770-1831), invece, la contraddizione fra fede e ragione, fra
religione e filosofia fu risolta nella dialettica storica in una presunta sintesi superiore del pensiero
concettuale che presumeva di poter ricomprendere in sé ogni prassi e il mondo stesso, ovvero nella
filosofia teoretica, dipanata in una storia dello spirito quale secolarizzazione della rivelazione
22
storica cristiana di Dio. Quello di Hegel è un superamento e un inveramento dell’idealismo
platonico, perché le idee sono reali, ma non costituiscono il livello più alto, ma negate nella natura
(che è l’idea fuori di sé) sono superate e inverate nella soggettività dello spirito (l’idea in sé e fuori
di sé) assoluto che è solo l’esito di un processo evolutivo. Secondo Hegel, la questione del
conoscere non può essere posta nei termini di ciò che conosce un soggetto individuale pur nei suoi
aspetti universali che permettono la definizione di un “soggetto trascendentale” astratto, atemporale
e isolato12. Per il fatto stesso che il soggetto umano è parte di un processo storico più ampio,
universale, il conoscere è un processo storico in cui intervengono storicamente più soggetti, un
processo in cui i limiti individuali del conoscere sono transitori e sono stati assolutizzati da Kant
astrattamente: il sapere è possibile solo perché è un processo potenzialmente infinito, in una
immanentizzazione storica del divino. La logica della storia e della conoscenza non può essere
quella della coerenza di un soggetto individuale, ma è una logica della contraddizione, del
contraddittorio proprio di un dialogo in cui è coinvolta una molteplicità di soggetti in cui ogni
posizione individuale è dialetticamente e storicamente superata, è una “dialettica” della storia e di
un divenire para-eracliteo del mondo; tuttavia, la storia è ricostruita sulla base di una logica
prestabilita, è cioè ridotta alla ricostruzione razionale della storia dello spirito e della filosofia
ontologizzata. Si tratta di una “dialettica trascendentale” della storia, con i suoi trascendentali
oggettivi, che si contrappone all’analitica trascendentale kantiana dell’individuo. La verità si
costituisce quindi su un piano ontologico, sul piano del divenire nel quale i soggetti umani sono
immersi e del quale partecipano. La filosofia è la storia della filosofia, che è tutt’uno con la stessa
storia del mondo al livello più alto dello spirito assoluto: ha quindi anch’essa una dimensione
ontologica, non nel senso disciplinare, il cui culmine è in Hegel stesso. Come in Eraclito c’è un
logos della physis,13 in Hegel c’è uno spirito del mondo del quale gli esseri umani eventualmente e
12
G. W. F. HEGEL, System der Wissenschaft. Erster Teil: die Phänomenologie des Geistes, J. A Goebbardt, Bamberg
und Würzburg 1807; tr. it. con testo tedesco a fronte e cura di V. Cicero, Fenomenologia dello spirito, Rusconi, Milano
1997.
13
E. GIANNETTO, Herakleitos, un fisico delle origini, in Eraclito: la luce dell’oscuro, a cura di G. Fornari, Olschki,
Firenze 2012, pp. 127-142.
23
sempre parzialmente partecipano come espressione di un’epoca storica: è il mondo, è lo spirito del
mondo che si costituisce come assoluto e si conosce nella filosofia di Hegel, che non è altro che
strumento dello spirito assoluto. Nella sua immanentizzazione del divino, Hegel ricade però in tutti i
problemi di una teologia positiva umanizzata, di una fondazione della filosofia come sapere
assoluto e della storia come il suo dispiegamento positivo e come tale auto-legittimantesi sia da un
punto di vista di un certo progresso sintetico dialettico sia da un punto di vista etico.
L'idealismo di Johann Gottlieb Fichte (1762-1814) è invece un idealismo soggettivistico in cui tutto
è ricondotto a un soggetto pensante come io-trascendentale post-kantiano che pone completamente
il suo oggetto e che solo attraverso la fede della volontà-noumeno incontra gli altri soggettinoumeni ma come un'alterità ridotta all'io-trascendentale, correggendo la ragione pratica kantiana in
un idealismo etico: l'oggetto del pensiero è fenomeno per un soggetto che è noumeno, e la fede è
secolarizzata nell'etica.
24
2. L’antropologia di Ludwig Feuerbach
Ludwig Feuerbach (1804-1872) aveva già cercato di delineare una nuova antropologia
materialistica, criticando l’idealismo a cui, in una prima fase, il suo pensiero aveva appartenuto,
smascherando la filosofia hegeliana come teologia secolarizzata e ricomprendendo tutta una serie di
considerazioni teologiche in caratterizzazioni dell’essere umano. La sua prospettiva compie una
piena secolarizzazione del Cristianesimo (Pensieri sulla morte e l'immortalità, 1830; Critica della
filosofia hegeliana, 1839; L'essenza del Cristianesimo, 1841; Principi sulla filosofia dell'avvenire,
1843; L'essenza della religione, 1845-6; Lezioni sull'essenza della religione, 1848-1851; Teogonia,
1857; Il mistero del sacrificio o L'essere umano è ciò che mangia, 1862; Spiritualismo e
materialismo, 1866; L'eudemonismo, 1868-1874), che, a suo avviso, ha inizio già con Martin
Luther, con il rifiuto del monachesimo e dell’ideale celibatario, e quindi con il restituire all’amore
la dimensione umana: il materialismo è uno sviluppo del Cristianesimo. Dalla sua prospettiva,
almeno da un certo stadio dell’evoluzione storica delle religioni, dopo una prima fase in cui le
divinità sono le personificazioni di potenze naturali da cui dipende l’esistenza umana, di cui ha
timore e che cerca di ingraziarsi per riceverne benefici, Dio non è altro che la proiezione di una
serie di desideri e di aspirazioni dell’essere umano, che non sono soddisfatti, in un essere ideale
fuori dal tempo e dalla storia: l’essere umano si deve quindi riappropriare di quanto è suo e di
quanto ha estrovertito su Dio, deve mettere fine a questa alienazione; per esempio, il desiderio di un
amore eterno, infinito e assoluto è secondo Feuerbach all’origine della concezione cristiana di Dio
come Amore. Si devono invertire soggetto e predicato e all’affermazione “Dio è Amore”, bisogna
sostituire “l’Amore è Dio”.
Così, bisogna capovolgere la dialettica hegeliana, che deduce il finito dall’infinito, e ricomprendere
l’infinito dal finito, come sua aspirazione: come nella teologia, secondo Feuerbach, l’identità umana
si aliena in Dio, così nella filosofia hegeliana, si aliena nello Spirito Assoluto. Così, bisogna
ripartire dal soggetto finito umano, materiale, di cui il pensiero-spirito è solo un predicato: non è la
Natura, come in Hegel, una forma alienata dello spirito, ma lo spirito è una forma alienata della
25
Natura. Noi sentiamo col nostro corpo che esiste qualcosa al di là di esso, con i nostri sentimenti di
passione, fame, amore, da cui dipende la nostra stessa esistenza da sola insufficiente e manchevole:
è la sensibilità che ci fa accedere alla conoscenza del mondo, e non la ragione, e il soggetto umano
è, prima che attivo, passivo, recettività sensoriale e vita bisognosa. Così, non è l’io il principio della
nostra vita e del pensiero; partendo dal nostro corpo, dalla nostra mortalità, comprendiamo che la
nostra identità umana non è individuale ma si dà nell’io e nel tu, nella relazione d’amore con
un’alterità che è il tu: non c’è essere umano senza un mondo. L’amore ci fa comprendere l’esistenza
del tu e il fatto che la nostra esistenza non si possa definire se non in questa relazione; e così, per il
pensiero il principio non è l’io: la vera dialettica non è un monologo del pensiero di un individuo
con sé stesso o del pensiero con sé stesso, ma è un dialogo fra l’io e il tu, l’amore io-tu che ci fa
uscire da una dimensione puramente di pensiero e ci fa accedere alla realtà. L’amore è la “vera
prova ontologica” dell’esistere di qualcosa fuori dal nostro pensiero: non esiste ciò che non è amato,
né ciò che non ama.
Sono le condizioni materiali dell’esistenza che determinano l’essere umano: “Der Mensch ist was
er isst”. Con un gioco di parole in tedesco, Feuerbach afferma che l’essere umano è ciò che mangia.
La libertà del volere deriva dall’indeterminazione dovuta alla pluralità di impulsi-istinti ad agire, fra
cui poi ne prevale uno. Ma per Feuerbach è fondamentale un “impulso alla felicità”
(Glückseligkeittrieb) su cui cerca di rifondare un’etica eudemonistica che si contrappone a quella
del dover-essere.
3. Karl Marx e la filosofia della prassi rivoluzionaria
Fu Karl Marx (1818-1883), riprendendo e modificando alcuni temi di Feuerbach, e capovolgendo
sotto un altro aspetto la dialettica hegeliana, a ristabilire il primato della prassi sulla teoria e di
conseguenza della filosofia pratica sulla filosofia teoretica. Nelle Tesi su Feuerbach del 1845 di
Marx, pubblicate da Friedrich Engels (1820-1895) solo nel 1888 come appendice nel suo testo
26
Ludwig Feuerbach und der Ausgang der klassischen deutschen Philosophie. Mit Anhang: Karl
Marx über Feuerbach v. J. 1845,
interpretato
diversamente
il
alla undicesima è scritto: “I filosofi hanno [finora] solo
mondo;
ma
si
tratta
di
trasformarlo”.14
Qui, riecheggia l’originario spirito rivoluzionario cristiano, volto all’azione contro il male del
mondo presente, anche se Marx considera la religione come “oppio dei popoli”, cioè come
“ideologia” che legittima il male nel mondo, cioè l’ingiustizia legata alla diseguaglianza economica:
infatti, il cristianesimo storicamente, dopo le origini, si è trasformato in una forza conservatrice,
collusa col potere politico che mantiene l’ingiustizia considerandola come un ordine voluto da Dio,
e consolatoria trasformando il Regno di Dio da realizzare sulla terra in un al di là ultraterreno in cui
sarà Dio a fare giustizia.
Nella prima tesi aveva scritto: “Il difetto principale di ogni materialismo fino ad oggi, compreso
quello di Feuerbach, è che l’oggetto (Gegenstand, ciò che sta di fronte), il reale, il sensibile è
concepito solo sotto la forma dell’obietto (Objekt, ciò che è proiettato fuori dal soggetto) o
dell’intuizione; ma non come attività umana sensibile, come prassi, non soggettivamente. È
accaduto quindi che il lato attivo è stato sviluppato, in modo astratto e in contrasto col materialismo,
dall’idealismo, che naturalmente ignora l’attività reale, sensibile come tale. Feuerbach vuole oggetti
sensibili realmente distinti dagli oggetti del pensiero; ma non concepisce l’attività umana stessa
come attività oggettiva”. E nella seconda aveva chiarito: “La questione se al pensiero umano
appartenga una verità oggettiva non è una questione teoretica, ma pratica. È nella prassi che l’uomo
deve dimostrare la verità, cioè la realtà e il potere, il carattere immanente del suo pensiero. La
14
F. ENGELS (1886), Ludwig Feuerbach und der Ausgang der klassischen deutschen Philosophie. Mit Anhang: Karl
Marx über Feuerbach v. J. 1845, Detz, Stuttgart 1888, 1946; Ludwig Feuerbach e il punto d’approdo della filosofia
classica tedesca, tr. it. di P. Togliatti e M. Rossi, Editori Riuniti, Roma 1950, 1985, pp. 81-86; tr. it. a cura di G. Sgrò,
La Città del Sole, Napoli 2009, pp. 115-122 (con la versione originale di Marx).
27
disputa sulla realtà o non-realtà di un pensiero isolato dalla prassi è una questione puramente
scolastica”.
Solo il lavoratore può comprendere un oggetto, per esempio una sedia, come prodotto dell’attività
dinamica materiale umana, perché l’ha realizzato con le sue mani; per il padrone o per altri, che non
hanno effettuato quel lavoro, l’oggetto è qualcosa di statico già fatto, un dato, un possesso, qualcosa
che si offre allo sguardo come mera materia inerte e passiva. Anche la Natura, un parco, un prato,
non è più semplicemente un dato statico, ma il prodotto di un’attività umana: un albero, una pianta
sono da considerare come il prodotto dell’attività di coltivazione agricola di un terreno.
Si ha qui una critica radicale della filosofia teoretica pura e della sua teoria corrispondentistica della
verità come corrispondenza del pensiero alla realtà: il pensiero non può mai cogliere la realtà
restandole esterno e considerandola astrattamente come una cosa in sé; ma non può neanche
coglierla, come nella prospettiva idealistica, facendo la realtà interna al pensiero considerandola
come un prodotto dell’attività ideale del pensiero. Ci può essere comprensione della realtà se e solo
se il pensiero si immerge nella realtà, divenendole interno nel suo farsi azione materiale,
trasformatrice del mondo. Marx non resta idealista, come pure recentemente si dice con grande
fraintendimento della sua posizione.
Oltre la prospettiva della scienza nuova della storia di Vico basata sull’identità del verum e del
factum (si conosce solo quello che si fa), per Marx ci sono ideologie che costituiscono una
legittimazione di pratiche economiche non etiche, di dominio e sfruttamento dell’essere umano
sull’essere umano, e come tali sono false; la verità sta solo nella prassi etica rivoluzionaria volta alla
liberazione degli esseri soggetti al dominio. Qui, la filosofia della storia umana fa il passo che la
filosofia della Natura aveva effettuato nella cosiddetta “rivoluzione scientifica” trasformandosi in
“scienza moderna”, cioè in una filosofia pratica (sperimentale) della Natura. Non si tratta di
contemplare o conoscere intellettualmente o comprendere teoreticamente la storia, si tratta invece di
farla. Dopo che l’intellettualismo greco era stato espulso dalla filosofia della Natura, ora lo era
anche dalla filosofia della storia, sostituito dal volontarismo attivistico cristiano (di volontà
28
individuali organizzate in azioni politiche sistematiche), privato della sua medioevale
teologizzazione greca. Il problema della prospettiva marxiana fu che il fine della liberazione
giustificò il mezzo della violenza, facendo perdere la connotazione etica che era stata caratteristica
della rivoluzione non violenta di Gesù (non a caso, invece, Engels diede del cristianesimo originario
un’interpretazione quale movimento rivoluzionario che usava la lotta armata).
Secondo Marx, “la storia è la vera storia naturale dell’uomo”, cioè il mondo naturale dell’uomo non
è il mondo della natura ma il mondo della storia, in quanto prodotto del lavoro dell’uomo, l’autoproduzione del mondo storico attraverso il lavoro umano che trasforma il mondo: da qui l’autoctisi
nella deriva idealistica della prassi nell’interpretazione di Marx data da Giovanni Gentile.
L’elemento materiale non è la natura, ma l’appropriazione della natura da parte dell’uomo, dei
mezzi di produzione, che hanno fatto sì che l’uomo producesse il suo nutrimento, la sua vita
materiale stessa, distinguendosi dagli altri animali; “ciò che sono - gli uomini – coincide con quello
che producono e con come lo producono”.
Marx comprende che ciò che distingue gli esseri umani da altri animali non può essere rintracciato
su un piano metafisico di un’essenza idealmente definita, come quella del pensiero puro, ma va
compreso su un piano storico effettivo, che rivela il tratto distintivo dell’essere umano, nella sua
storicità, nell’attività materiale dell’essere umano (non come individuo ma come essere sociale) che
si è esplicata nel lavoro della terra con la rivoluzione neolitica, cioè in un’attività tecnica sistematica
di dominio della Natura, in cui la Natura, a sua volta, si ridefinisce in termini di materia come ciò
che resiste al lavoro dell’umanità.
Come filosofia della storia attiva, Marx definisce un nuovo tipo di “materialismo”, il “materialismo
storico”, che si vuole distinguere dal materialismo come metafisica ontologica materialistica e
meccanicista della Natura, basandosi su una nuova antropologia dell’essere umano come essere
storico e sociale materialmente attivo. La ricaduta, però, in una metafisica materialista è implicita
nell’Anti-Duhring (1878) di Engels a cui anche Marx partecipò con un capitolo (seppure dedicato a
problemi di storia dell’economia) e nella Dialettica della Natura di Engels, pubblicato postumo nel
29
1925: bisogna quindi distinguere nettamente la posizione di Marx da quella di Engels. Qui, la
volontà di definire il materialismo come ateismo porta Engels ad accettare al suo interno l’idea di
un universo infinito ed eternamente ciclico e anche la teoria evoluzionistica di Darwin che
riconduce la lotta di classe alla lotta per la vita, e cioè un materialismo naturalistico.
D’altra parte, seppure Marx rivela l’essere storico-sociale dell’essere umano nella sua effettività che
lo distingue da altri animali, è portato a legittimarlo, a legittimare la sua attività di dominio tecnico
nei confronti della Natura e degli altri viventi. Tale legittimazione si traduce in una concezione
economica della realtà: ogni cosa è considerata come valore economico, per il suo valore d’uso per
l’essere umano. Nella sua opera del 1859, Per la critica dell’economia politica, Marx inizia a
delineare quanto poi confluirà ne Il Capitale del 1867, primo libro a cui ne seguiranno altri due,
pubblicati postumi da Engels nel 1885 e nel 1894: la critica dell’economia politica da parte di Marx
si concentra, in effetti, sul valore di scambio attribuito alle cose considerate come merci, in quanto è
proprio sulla valutazione del valore di scambio che si producono le ingiustizie economiche fra gli
esseri umani.
Marx sposa così il punto di vista antropocentrico della filosofia e dell’economia classica, non
comprendendo ciò che poteva risultare chiaro dal darsi storico del dominio dell’essere umano su un
altro essere umano: questo dominio nasce, nella rivoluzione neolitica, con il dominio della Natura e
degli altri viventi da parte dell’umanità, perché la terra e gli animali costituiscono la prima forma di
proprietà privata e di equivalente monetario negli scambi economici basati sul baratto. Marx non
critica così il fondamento antropologico e antropocentrico dell’economia: accetta la sua riduzione
dell’essere umano ad homo oeconomicus, che agisce solo per interesse economico e non conosce
altre modalità di rapportarsi alle cose se non in termini del loro valore d’uso e del loro valore di
scambio; una cosa è solo in funzione della sua utilità diretta o indiretta in uno scambio con un’altra
cosa.
Secondo Marx, la struttura della società, che determina l’essere umano come essere sociale e
storico, è economica ed è storicamente determinata dal modo di produzione dominante. La struttura
30
economica della società determina a sua volta le istituzioni politiche e lo stato, ma anche le
produzioni culturali materiali e intellettuali: da questo punto di vista, la cultura in tutte le sue forme
(religione, filosofia, letteratura, arti) è sovrastruttura. Nella posizione di Marx, al contrario che in
Engels, sono escluse retroazioni delle sovrastrutture culturali sulla struttura economica della società:
queste sono molto sottovalutate (come ha mostrato l’analisi dei rapporti fra cultura protestante e
capitalismo, effettuata da Max Weber (1864-1920)): anche le critiche della struttura gerarchica delle
classi sociali, come quella presentata nel Manifesto del Partito Comunista del 1848, scritto con
Engels, sono ricondotte a meri specchi passivi delle opposizioni reali emerse nella lotta di classe da
parte del proletariato contro la gerarchia della struttura economica, che si specchiava in una
ideologia della classe dominante: generata come legittimante il dominio economico, solo come suo
specchio passivo e mai considerata come produttrice attiva di dominio economico in nuove forme.
Le idee non si cambiano con la critica da parte di altre idee, ma solo con la rivoluzione della
struttura economica della società. L’indipendenza delle idee dalle strutture economiche delle società
è solo il frutto di un’illusione provocata dalla divisione fra lavoro manuale e lavoro intellettuale,
dalla divisione fra lavoro effettivamente produttivo e lavoro improduttivo. Le determinazioni
effettuate dai modi di produzione implicano differenti tipi di proprietà e una differente divisione del
lavoro. La proprietà privata rompe il legame sociale e il lavoro diviso non è più fondante una
società: essi producono divisioni sociali ed economiche, diseguaglianze, ma anche, quindi,
alienazione dell’essere umano dalla sua identità che è sociale.
Marx si interessa soprattutto all’analisi economica dei rapporti di lavoro che si erano instaurati con i
nuovi mezzi di produzione resi possibili dalla rivoluzione industriale del XVIII secolo e che
avevano generato una nuova classe economica, quella operaia, ovvero del proletariato: cioè dello
sfruttamento degli operai da parte di padroni della classe borghese che tende ad accumulare denaro
in un capitale, che caratterizza la fase storica dell’economia in termini di capitalismo moderno nella
quale anche il lavoro diviene mero mezzo di sussistenza individuale e quindi una merce acquisibile
sul mercato.
31
La prospettiva economica, che però anche Marx abbraccia, non può considerarsi puramente
scientifica, ma si rivela quindi come una metafisica antropocentrica della realtà come valore
economico. Marx, però, presenta la sua nuova economia come una scienza e per fare questo prende
a modello la fisica. Fondamentale si può considerare il principio di conservazione generalizzata
dell’energia, da poco teorizzato come primo primo principio della termodinamica soprattutto
nell’opera di James Joule e William Thomson poi Lord Kelvin. Che Marx ed Engels fossero a
conoscenza di questo principio è evidente da almeno due lettere di Engels a Marx, una del 14
Luglio del 1858 e un’altra del 21 Marzo 1869 in cui si fa riferimento anche al secondo principio
della termodinamica come formulata da Rudolph Clausius15.
L’energia (chiamata forza nell’ottocento), come intesa nel meccanicismo, è il concetto che consente
una correlazione fra i diversi tipi di fenomeni per mezzo di un’astratta equivalenza matematica, e di
un’omogeneizzazione dei rapporti metrici fra differenti variabili fisiche incommensurabili: se
quest’astratta equivalenza numerica, incarnata prima nel concetto di materia/massa e poi nella
declinazione meccanicistica dell’idea d’energia, ha il suo presupposto pratico in una forma di vita,
come quella della società capitalistica moderna, in cui il denaro svolge questo ruolo d’equivalenza
di ogni cosa16, il concetto di lavoro in economia politica è stato derivato dal concetto di lavoro
meccanico
e
dagli
sviluppi
energetici
della
termodinamica
ottocentesca
interpretata
meccanicisticamente. Infatti, la quantità di forza-lavoro (misurata in termini di tempo di lavoro
necessario per produrre una determinata cosa-merce) serve a Marx come misura equivalente e
univoca per misurare il valore di scambio delle cose-merci considerate come del tutto
interscambiabili: data questa equivalenza, Marx può spiegare come il profitto, come aumento del
denaro finalizzato alla sua pura accumulazione in un capitale piuttosto che usato per l’acquisto di
altre merci, si realizzi come plus-valore ottenuto da un industriale-padrone che paga-compra la
merce della forza lavoro di altri esseri umani meno del valore di scambio del prodotto della forza15
H. S. KRAGH, Entropic Creation – Religious Contexts of Thermodynamics and Cosmology,Ashgate, Aldershot (UK)
2008, pp. 132-139.
16
A. SOHN-RETHEL, Das Geld, die bare Münze des Apriori, Wagenbach, Berlin 1990; tr. it. di F. COPPELLOTTI, Il
denaro, l’a priori in contanti, Editori Riuniti, Roma 1991.
32
lavoro imponendo un plus-lavoro. Se un dato prodotto valutato, per esempio, 8 sterline in base alla
quantità di lavoro media necessaria a produrlo (pari per esempio a 8 ore), si basa sulla valutazione
di 1 ora di forza-lavoro come pari a 1 sterlina; se però la paga di quel tempo di forza lavoro è pari,
in questo esempio, a 4 sterline in relazione al tempo di lavoro necessario per produrre il suo
fabbisogno nutritivo giornaliero, il padrone realizza un profitto netto alla metà del valore del
prodotto: un plus-lavoro di 4 ore non pagato porta a un plus-valore di 4 sterline guadagnato dal
padrone. Dove è l’errore? La forza-lavoro non può /non deve essere valutata come merce prodotta o
in termini del valore della merce necessaria per la sua sussistenza (cioè del costo della vita), ma
deve essere valore a sé stessa: questa considerazione, però, non può essere presentata come una
mera verità scientifica, ma costituisce una esigenza etica di Marx17. Un’esigenza etica che Marx
nega perché vuole presentare il comunismo stesso non come l’esito di un’etica, ma come una verità
scientifica, determinata dalle leggi della storia.
L’operaio era sempre più alienato dalla propria attività lavorativa, depauperato del frutto del proprio
lavoro, privato del suo tempo ridotto a denaro. Non era succube soltanto nei suoi giorni, ma privato
anche dei suoi sonni e dei suoi sogni. Così, Carlo Cafiero (1846-1892), nel suo Compendio del
Capitale18, descrive, con toni massimamente inquietanti, la situazione del lavoratore: “Allora i tuoi
sonni non saranno più così tranquilli. Tu vedrai nelle tue notti il capitale, come un incubo, che ti
preme e minaccia di schiacciarti. Con occhio spaventato lo vedrai ingrossarsi, come un mostro dalle
cento proboscidi, che avidamente ricercano i pori del tuo corpo per succhiarne il sangue. E
finalmente lo vedrai assumere proporzioni smisuratamente gigantesche, nero e terribile nell'aspetto,
con occhi e bocca di fuoco, trasmutare le sue proboscidi in larghissime trombe aspiranti, entro le
quali vedrai scomparire migliaia di esseri umani: uomini, donne, fanciulli. Dalla tua fronte colerà
allora il sudore della morte, perché la volta tua, della tua moglie e dei tuoi figli starà per arrivare. Ed
17
G. CALOGERO, Intorno al materialismo storico, Vallerini, Pisa 1941, poi come Il metodo dell’economia e il
marxismo. Invito alla lettura di Marx, Laterza, Roma-Bari 1967, pp. 39-71.
18
Il Capitale di Carlo Marx, brevemente compendiato da Carlo Cafiero, Biblioteca Socialista, n. 5, Bignami e c.
editori, Milano 1879. Si tratta di un incubo reale, che avevo quasi tutte le notti da bambino; solo verso i sedici anni,
trovai nella cantina di mio nonno questo libro di Cafiero e restai stupefatto alla lettura.
33
il tuo ultimo gemito sarà coperto dallo sghignazzare allegro del mostro, felice del suo stato, tanto
più prospero, tanto più inumano”.
La produzione capitalistica ha come obiettivo la produzione di plus-valore, in diversi modi che
cambiano storicamente. Più entrano in gioco macchine, più il lavoratore non è in grado di effettuare
un lavoro compiuto da solo e più è costretto a vendere la sua forza-lavoro, fino all’organizzazione
del lavoro tramite catena di montaggio in cui l’essere umano è subordinato alla tecnica delle
macchine. Non solo, quindi, la mercificazione delle cose implica la mercificazione dell’essere
umano, ma anche il dominio tecnico esercitato sulla Natura e sugli altri viventi implica il dominio
tecnico sull’essere umano. L’essere umano perde la sua identità di soggetto di lavoro, produttore di
merci e utilizzatore di macchine, si aliena dalla sua forza produttrice che viene espropriata da altri e
dal prodotto del suo lavoro, e così si aliena e diventa oggetto-merce e strumento di macchine.
Tuttavia, l’essere umano sfruttato può uscire dalla propria alienazione, riappropriarsi di sé stesso, e,
nel “movimento messianico secolarizzato” della classe operaia – in quanto classe “universale” che
ha perduto totalmente la sua identità umana - ristabilire la giustizia, riappianare le diseguaglianze
economiche e realizzare “escatologicamente”, attraverso la dittatura del proletariato, una società
comunista senza il male e alla fine senza più bisogno di stato. Marx, però, pensa che questo possa
avvenire non attraverso la costituzione di una nuova identità non tecnica e non economica
dell’essere umano, ma semplicemente attraverso la presa di possesso e la proprietà, da parte del
proletariato, dei mezzi di produzione tecnica: si tratta di un errore fondamentale che sarà solo
parzialmente corretto nella successiva storia del marxismo occidentale, in particolare dalla Scuola
di Francoforte.
Marx prevedeva la polarizzazione della società in due classi antagoniste e quindi opposte, formatesi
con lo sviluppo del capitalismo in un contrasto sempre crescente che avrebbe contrapposto una
classe sempre più esigua di ricchissimi capitalisti e una classe sempre più povera di proletari. Era
questa contrapposizione la contraddizione reale socio-economica che avrebbe dovuto risolversi
storicamente in una nuova sintesi sociale, attraverso una dialettica materiale che doveva sostituire la
34
dialettica hegeliana delle idee. Marx, che aveva fondato una nuova scienza economica
deterministica come la fisica della sua epoca, pensava che si potesse determinare in maniera certa e
univoca la soluzione dell’evoluzione dinamica dei sistemi socio-economici, quale data da una
società comunista futura non più aspettata come un’utopia, ma come realizzazione di una previsione
scientifica e di un’azione politica rivoluzionaria. Vi erano quindi leggi deterministiche della storia e
questa erano esprimibili nei termini di una ferrea logica dialettica materiale e non ideale come
quella di Hegel: il materialismo storico si faceva dialettico (in russo, invalse l’abbreviazione
diamat). Rispetto alle astratte e universali ferree leggi della storia, gli individui e la loro sorte non
avevano più importanza: la violenza rivoluzionaria non solo era permessa, ma rappresentava in
qualche modo, come opposizione dialettica reale e materiale, la stessa legge della storia come della
vita per Darwin.
Tuttavia, Marx non si rese conto che il progredire del capitalismo in un paese industrialmente
avanzato non aveva come unico possibile esito l’impoverimento della classe operaia, nel momento
in cui il mercato andava assumendo sempre più proporzioni mondiali sostenute da politiche
colonialiste e imperialiste e il progresso tecnico permetteva un sempre più alto sfruttamento di
risorse naturali: si dava invece, in un paese avanzato, la costituzione di una classe media sempre più
ampia che livellava le possibilità economiche su uno standard di vita sempre più alto. Si sarebbe
invece prodotta una differenza economica sempre più enorme fra paesi industrialmente avanzati e
paesi non-europei subalterni. Da qui, la deriva fascista e nazionalsocialista, deriva fatale e nefasta
con la sostituzione dell’internazionalismo socialista con un socialismo nazionalista, propugnata
dall’idea mussoliniana di estendere la lotta di classe a guerra mondiale fra le nazioni “proletarie”
come l’Italia contro le nazioni plutocratiche imperialiste come l’Inghilterra e gli Sati Uniti
d’America, per il dominio economico del mondo intero. Dopo la fine della seconda guerra
mondiale, dopo la caduta dell’illusoria possibilità di un socialismo realizzato solo nella cosiddetta
Unione Sovietica, che in realtà aveva portato ad un impoverimento di tutta la popolazione per
fronteggiare il progresso tecnico-militare dei paesi capitalisti, dopo il crollo degli obiettivi dei partiti
35
comunisti occidentali pronti ad affermare l’imprescindibilità del capitalismo per la democrazia, è la
nuova e fortissima divaricazione economica fra paesi ricchi e paesi poveri del terzo mondo che fa
della situazione mondiale una situazione esplosiva che non porterà realisticamente a una nuova
sintesi sociale di libertà e di giustizia ma purtroppo a una violenza sempre più diffusa e dominante e
al sacrificio di sempre più vite umane e alla distruzione sempre maggiore delle forme di vita non
umana e, in generale, del sistema ecologico terrestre e di tutte le specie della biosfera.
36
3. Schopenhauer e l’inizio della crisi del paradigma dominante della modernità
La costruzione razionale di Kant, in qualche modo culmine dello spirito illuministico, e, insieme a
quella di Hegel, culmine della moderna metafisica soggettivistica, viene a crollare sotto la critica di
Arthur Schopenhauer (1788-1860). Le sue idee sono esposte in massima parte nella sua opera
intitolata Il mondo come volontà e rappresentazione, l’edizione del primo volume della quale fu già
nel 1818; il secondo fu aggiunto nel 1844, mentre la terza edizione fu del 185919. Si tratta di una
nuova metafisica senza dubbio, ma distruttrice delle precedenti certezze. Una metafisica che si basa
sul tema cristiano della volontà, ma ormai declinata nei termini della luterana volontà naturale,
schiava del peccato senza la grazia. Questa metafisica interpreta la volontà noumenica di Kant in
termini della volontà naturale di Luther, e della volontà di vita, come istinto di conservazione e
sforzo evolutivo, della nuova biologia evoluzionistica di Lamarck, della Philosophie zoologique del
1809, e infine della volontà come brama di vivere del buddhismo: si tratta ormai di una volontà
egoistica, in gran parte inconsapevole, istintuale, cieca, e quindi irrazionale e non più legata alla
ragione pratica kantiana.
La noumenicità della volontà non è più deducibile da un principio morale come in Kant, in
relazione alla libertà del volere, ma è invece dedotta dall’esperienza corporea che precede ogni
pensiero: il corpo è esperito primariamente come espressione di questa volontà di vivere istintuale.
Se questa conclusione è presentata in termini puramente teoretici e filosofici generali, in effetti non
può che derivare dalla nuova lamarckiana filosofia naturale evolutiva della vita e dalla “filosofia
pratica” soteriologica di Siddharta Gautama Shakyamuni Buddha del VI sec. a.C.
Questa caratterizzazione della volontà di vivere fa sì che non abbia una connotazione
immediatamente soggettivistica come la volontà nel cristianesimo e in Kant, ma piuttosto sia
considerata in termini biologici impersonali di una forza universale di vita, comune a tutti gli esseri
viventi, che può dare un fondamento nuovo alla conclusione delle Upanishad induiste, secondo la
19
A. SCHOPENHAUER, Die Welt as Wille und Vorstellung, Brockhaus, Leipzig 1859; tr. it. parziale (senza i Supplementi)
di P. Savj-Lopez & G. Di Lorenzo, intr. di C. Vasoli, Il mondo come volontà e rappresentazione, Laterza, Roma-Bari
1914/1916, 1928/1930, 1968, 1972; tr. it. di N. Palanga, A. Vigliani e G. Riconda, intr. di G. Vattimo, a cura di A.
Vigliani, Il mondo come volontà e rappresentazione, Mondadori, Milano 1989.
37
quale, alla base delle distinte individualità esistenti, vi è un’unica realtà per cui tutto è uno: il
Brahman, come universale anima del tutto, è interpretata come universale e infinita volontà di vita.
Se i fenomeni kantiani non sono le cose in sé, allora non possono essere che mere parvenze di una
realtà che è altra: i fenomeni non sono che manifestazioni di quel velo di Maya di cui parla
l’induismo. Il fenomeno non è allora espressione di una conoscenza che ha caratteristiche di
universalità e di necessità, che le derivano dalla struttura trascendentale, comune a tutti i soggetti
umani e che costituisce così un soggetto universale e atemporale, ma piuttosto è esito di una mera
costruzione razionale, anche se necessaria, ovvero di una mera rappresentazione cui appartengono
soggetti e oggetti: soggetti e oggetti, il mondo stesso, sono fenomeni illusori, rappresentazioni
razionali illusorie dell’unica infinita volontà di vita. Spazio, tempo e causalità non sono più
kantianamente considerate come forme a priori della sensibilità o dell’intelletto di un soggetto che
costituisce gli oggetti della conoscenza come fenomeni, ma sono forme a priori della
rappresentazione in cui si costituiscono i soggetti individuali di contro agli oggetti individuali:
spazio e tempo sono le forme a priori del principium individuationis, mentre la causalità è
espressione della volontà universale, che si esplica in volontà individuali che a loro volta si
esplicano in un’attività che si manifesta come un’azione causale reciproca.
Si ha così una decostruzione del soggetto come soggetto costitutivo della rappresentazione: il
soggetto è ora “oggetto” della rappresentazione, soggetto solo al suo interno. Crolla qui la
possibilità di una metafisica soggettivistica, tipica del pensiero moderno.
Le rappresentazioni razionali, pur nella loro necessità costruttiva, non sono altro che
razionalizzazioni di una volontà irrazionale, legittimazioni delle volontà egoistiche che ne sono alla
base.
Presa consapevolezza dell’illusorietà delle rappresentazioni razionali e delle azioni delle nostre vite,
la nuova filosofia evoluzionista di Lamarck lo porta a considerare la vita come un assassinio
continuo, reciproco e universale, e quindi a constatare la quadruplice verità già enunciata dal
38
Buddha nel Discorso della messa in moto della ruota della Dottrina (Dharmaçakrapravartana
Sūtra, sans., Dhammacakkappavattana Sutta, pāli)20:
1) “E questa, o monaci, è la santa verità circa il dolore: la nascita è dolore, la vecchiaia è dolore, la
malattia è dolore, la morte è dolore: l’unione con quel che dispiace è dolore, la separazione da ciò
che piace è dolore, il non ottenere ciò che si desidera è dolore, dolore in una parola sono i cinque
elementi dell’esistenza individuale”: tutto è dolore.
2) “Questa, o monaci, è la santa verità circa l’origine del dolore: essa è quella brama che è causa di
rinascita, che è congiunta con la gioia e con il desiderio, che trova godimento ora qua ora là; brama
di piacere, brama di continuare a vivere, brama di non invecchiare”: l’origine del dolore è la volontà
di vivere.
3) “Questa, o monaci, è la santa verità circa la soppressione del dolore: è la soppressione di questa
brama, annientando completamente il desiderio, è il bandirla, il reprimerla, il liberarsi da essa, il
distaccarsi”: la cessazione del dolore sta nell’estinzione della volontà di vivere.
4) “Questa, o monaci, è la santa verità circa la via che conduce alla soppressione del dolore: è il
nobile ottuplice sentiero, e cioè: retta visione, retta decisione, retta parola, retta azione, retta vita,
retto sforzo, retta meditazione, retta concentrazione”: è l’ottuplice sentiero che permette la
realizzazione del Nirvana, che letteralmente indica l’estinzione di una fiamma mediante un soffio,
l’estinzione dell’io nella vita (Buddha sviluppa la teoria dell’anatman, cioè di un’anima non
sostanziale, ma dinamica come una fiamma, per cui la metempsicosi non implica la rinascita di una
stessa anima individuale in un altro corpo, ma piuttosto l’accensione di un’altra fiamma).
La filosofia, per Schopenhauer, non nasce dalla meraviglia aristotelica (dall’esperienza del
thaumazein), ma piuttosto dal senso della sofferenza e del male del mondo.
Con il riconoscimento delle quattro nobili verità del Buddha, a cui viene affiancata una quinta, se
possibile, in cui si afferma che l’origine del dolore è in quella volontà di vivere attiva, in
quell’egoismo attivo che si fa violenza e assassinio della vita altrui, Schopenhauer riapre la visione
Nel Canone pāli all'interno del Saṃyutta Nikāya (nel Dhammacakkappavattana Sutta): La rivelazione del Buddha III, a cura di R. Gnoli, Mondadori, Milano 2001, vol. I, pp.5-12.
20
39
dell’abisso del male nel mondo all’origine della sofferenza di tutti gli esseri viventi, che era propria
del cristianesimo originario e della gnosi, ma senza neppure la fede in un Dio di salvezza:
Schopenhauer abbraccia la soteriologia atea del Buddha e del buddhismo originario detto Hinayana
(Piccolo veicolo).
L’estinzione della volontà di vivere, però, per Schopenhauer si ottiene in parte in maniera diversa
dal Buddha: nella via al Nirvana e nell’interpretazione stessa del Nirvana introduce degli elementi
cristiani e occidentali. L’arte, o più specificamente la musica al contrario delle arti figurative,
costituisce una forma di conoscenza immediata della realtà noumenica, al di là delle
rappresentazioni razionali illusorie: la musica permette di accedere all’esperienza della volontà e del
dolore al di là del rapporto soggetto-oggetto e al di là delle individuazioni spazio-temporali e
causali, e così mette nelle condizioni di superare la prospettiva della propria individuale volontà di
vivere. Questa conoscenza diventa, infatti, non più motivo determinante le azioni indotte dalla
volontà di vivere, ma quietivo delle azioni della relativa volontà di vita, e quindi di un’etica che
liberi da essa. L’etica di Schopenhauer non è però puramente negativa, cioè non implica soltanto
l’evitare le azioni egoistiche della volontà egoistica, come in gran parte l’etica del Buddha che porta
a una vita contemplativa in cui raggiungere l’illuminazione nella meditazione e il Nirvana: nella
prospettiva buddhista la karuna, la compassione, è solo compassione distaccata dello sguardo, non è
partecipazione al dolore altrui; l’amore effettivo è escluso perché comporta dolore. L’etica di
Schopenhauer è positiva e si basa invece sull’amore attivo cristiano: non si tratta solo di un’ascesi
di rinunzia dei piaceri. L’amore del prossimo, secondo Schopenhauer, si deve estendere a tutti gli
esseri viventi e comporta, per prima cosa, la non accettazione della nutrizione umana di altri
animali; non ci si può fermare a un’etica dell’intenzione che porta la maggioranza dei buddhisti ad
accettare di mangiare carne se, per esempio, offerta da altri. Gli esempi etici di Schopenhauer sono
presi soprattutto dai santi cristiani e in particolare dai catari, che arrivavano, nei casi più ‘alti’, a
praticare l’enduro, cioè a lasciarsi morire di fame per non danneggiare alcun essere vivente.
40
Il Nirvana non è inteso come uno stato positivo dell’essere, diverso da quello ordinario, e legato alla
contemplazione meditativa, ma semplicemente, come annichilimento della realtà della volontà,
come nulla: nell’annichilimento della volontà si dissolve il mondo come volontà e rappresentazione;
invero, per Schopenhauer è il mondo che è nulla di fronte a chi ha vinto il mondo. La più radicale
negazione del mondo dovuta al buddhismo si è così innestata, con accenti ancora più forti, nel
pensiero occidentale, in una prospettiva di pessimismo cosmico che accoppia paradossalmente
un’etica cristianizzante dell’infinito amore attivo della vita a un nichilismo teoretico. L’abisso della
sofferenza e del male si spalanca ancora di più di fronte a una ragione che non può comprenderlo.
41
4. Friedrich Nietzsche: la volontà di potenza come risposta all’abisso di Schopenhauer
Friedrich Nietzsche (1844-1900) ha espresso la sua filosofia perlopiù in forma di aforismi, spesso
anche in forma poetica: qui sta gran parte del suo fascino che continuamente attrae. Ha scritto cose
sublimi e altre obbrobriose, spesso all’interno dello stesso testo. Messo da parte in quanto
riferimento privilegiato del pensiero politico nazista e di destra, è stato rivalutato ma quasi sempre
senza un’adeguata messa in chiaro dei capisaldi problematici del suo pensiero. La sua filosofia si
articola soprattutto in una pars destruens delle precedenti prospettive, ma in effetti si riproponeva
una costruzione di una nuova maniera di filosofare.
Nietzsche si trova davanti all’abisso aperto dal pensiero di Schopenhauer e tutta la sua filosofia (La
nascita della tragedia, 1872; Considerazioni inattuali 1873-1876; Umano, troppo umano 18781879; Aurora, 1881; Gaia scienza, 1882; Così parlò Zarathustra, 1883-1884; Al di là del bene e del
male, 1886; Genealogia della morale, 1887; Il crepuscolo degli idoli, 1888; Ecce Homo, 1888;
L’Anticristo, 1888; opere postume: La filosofia nell’epoca tragica dei greci, I filosofi pre-platonici,
Introduzione ai dialoghi platonici) può intendersi come una risposta a Schopenhauer. Nietzsche si
confronta ormai anche con la filosofia naturale, evoluzionistica, della vita di Darwin, che ingloba
nella sua prospettiva e pure critica. Il punto di partenza è anche per lui la volontà di cui si ha
primaria esperienza nella nostra corporeità, ma questa volontà non è tanto una volontà di vita nel
senso della conservazione della vita stessa a livello individuale o di specie, quanto piuttosto
“volontà di potenza”, una volontà che altro non è che esplicazione della potenza infinita della
Natura, che incessantemente e inarrestabilmente nel suo esplicarsi e dispiegarsi illimitato crea e
distrugge senza cura e senza preoccupazione morale, senza finalità di alcun tipo. Questa volontà di
potenza nel suo espandersi vitale può incontrare anche la morte, non ha come suo fine la
sopravvivenza, e ciò comporta che nell’evoluzione non prevalga quasi mai il più forte, il più dotato,
il più ‘adatto’, ma piuttosto, al contrario di quanto pensava Darwin, sopravviva il più debole, il
42
meno dotato, il potenzialmente meno adatto. Questo tratto della sua concezione della Natura lo
portò a una critica radicale della scienza moderna in cui dominava il paradigma meccanicista21.
Secondo Nietzsche, bisogna accettare questa realtà della Natura e della vita in tutte le sue
conseguenze: per accoglierne le gioie, bisogna accettarne il dolore, gli aspetti distruttivi oltre quelli
creativi. Bisogna accettarne il dolore non con rassegnazione, ma piuttosto con l’entusiasmo
travolgente di chi si senta parte di questo fiume inarrestabile di potenza che è la la Natura, che è la
vita.
Schopenhauer, seguendo la morale buddhista non ha accettato il dolore della vita e ha negato la vita
e il mondo; all’opposto, Nietzsche ritiene che si debba dire sì alla vita in tutti i suoi aspetti e senza
porsi problemi morali. La morale nasce per diversi fattori secondo Nietzsche: innanzitutto, c’è
l’illusione della libertà del volere che renderebbe gli esseri umani responsabili delle loro azioni,
basandosi su una conoscenza, ma le azioni non sono mai del tutto libere e consapevoli e sono
piuttosto determinate da fattori istintivi vitali. Le azioni sono compiute dall’agente solo per il
proprio piacere e non per fare male agli altri: possono essere giudicate ‘cattive’ solo se si prescinde
dalla prospettiva di chi le compie e le si considera dall’esterno per le conseguenze che hanno sugli
altri. Questo punto di vista è diventato prevalente quando gli interessi della società hanno messo in
secondo piano il piacere e l’utile individuali; la morale si è quindi sviluppata non valorizzando
maggiormente moventi delle azioni superiori all’utilità, ma piuttosto sostituendo come valore
l’utilità sociale al di sopra dell’utilità individuale. L’utilità sociale ha stabilito però sempre una
gerarchia di valori a partire dalla valutazione data dai potenti nella gerarchia sociale. La morale
sociale ha determinato così una separazione netta fra Natura e cultura, portando a una repressione
della natura individuale a favore della vita sociale e politica: la civiltà ha così allevato gli esseri
umani in una situazione di costrizione sociale che ha “addomesticato” la natura selvaggia e istintiva
dell’essere umano, “la belva bionda, avida di preda e di vittoria”.
21
G. DELEUZE, Nietzsche et la philosophie, P.U.F., Paris 1962; tr. it. di S. TASSINARI, Nietzsche e la filosofia,
Colportage, Firenze 1978; e poi nuova traduzione a cura di F. POLIDORI, intr. di M. FERRARIS, Feltrinelli, Milano 1992 e
ulteriore nuova ed. italiana con appendice a cura di F. POLIDORI, tr. it. di F. POLIDORI & D. TARIZZO, Nietzsche e la
filosofia e altri testi, Einaudi, Torino 2002.
43
Seguendo l’interpretazione data da Schopenhauer del cristianesimo come sostanzialmente affine al
buddhismo nella negazione della vita e del mondo e seguendo anche la prospettiva aperta dal suo
amico “gemello” e collega teologo dell’università di Basilea, Franz Overbeck (1837-1905), secondo
il quale l’essenza del cristianesimo originario sia stata caratterizzata dall’ascetismo e dalla
negazione del mondo22, Nietzsche considerò il cristianesimo come una forma di “platonismo per il
popolo” responsabile di una svolta negativa nella morale occidentale.
Il cristianesimo aveva ereditato, secondo Nietzsche, dagli ebrei una morale tipica della rivolta degli
schiavi: gli ebrei, che erano stati sempre storicamente sottomessi, impotenti ad autoregolamentare la
loro vita sociale e politica, hanno così sviluppato odio nei confronti dei potenti e del mondo e come
popolo sacerdotale e religioso si sono consolati nell’idea di una vendetta immaginaria divina. Si
forma così una morale del risentimento, puramente reattiva contro gli altri, che trionferà con il
cristianesimo. Il risentimento si trasforma da una parte in spirito di vendetta che si esplicherebbe
nell’al di là, e dall’altra si introverte, insieme all’aggressività e alla violenza, indirizzandosi contro
sé stessi in un senso di colpa per un peccato commesso originariamente contro Dio che
spiegherebbe la sofferenza subita nel mondo: nel cristianesimo l’autosacrificio di Dio renderebbe
infinito il debito umano nei suoi confronti, moltiplicando infinitamente il senso di colpa. Questa
“cattiva coscienza” implicata dal cristianesimo diventa la più grave malattia dell’umanità
occidentale che impone sofferenza e rinunzia alla vita, mascherando nella malafede il risentimento
come amore altruistico: il cristianesimo si presenta così a Nietzsche come mero nichilismo dei
deboli e degli schiavi contro la vita e il mondo.
Gli ebrei sono considerati da Nietzsche come gli artefici della più radicale trasvalutazione di tutti i
valori nella morale, come mostruosa e funesta iniziativa contro la vita: in questo caso, la critica
della religione si risolve nella critica di un’intera etnia identificata con essa. Agli ebrei risalirebbero
anche le radici delle moderne tendenze egualitarie democratiche e socialiste. Questo di Nietzsche,
seppure diverso da quello più rozzo e più violento poi affermatosi in Germania anche sulla base di
22
F. OVERBECK, Über die Christlichkeit unserer heutigen Theologie, Fritzsch, Leipzig, 1873, e Naumann, Leipzig
1903; tr. it. a cura di A. Pellegrino, Sulla cristianità della teologia dei nostri tempi, ETS, Pisa 2000.
44
una nefasta interpretazione delle idee, è puro antisemitismo: l’anticristianesimo si fonda anche
sull’antisemitismo. Nietzsche era profondamente antisemita, senza bisogno di alcuna posteriore
falsificazione dei suoi scritti da parte della sorella, e nonostante le fasulle rivalutazioni di questo
aspetto del suo pensiero.
L’atteggiamento antiteoretico e antifilosofico deriva a Nietzsche certamente da Schopenhauer, e
quindi indirettamente dal cristianesimo e dal buddhismo; ma la sua critica a queste religioni e alla
morale che incarnano non gli permette di prenderle come modello, per cui si rivolge alla cultura
greca pre-filosofica.
Anche per l’arte, Nietzsche segue Schopenhauer: Nietzsche stesso pensava che sarebbe diventato
famoso come musicista (famoso è rimasto il suo Inno alla vita quale esempio di una sua creazione
che stimava più di altre). L’arte che per Nietzsche dà un immediato accesso alla realtà della
straripante potenza della Natura e della vita è la tragedia greca, esprimente il dionisiaco come
impulso all’ebbrezza della vita, senza freni e rappresentazioni razionali, attraverso la musica, il
canto e la danza in cui i confini della propria individualità sono superati. Dapprima crede che
Richard Wagner, con la sua opera totale e con la sua musica, possa rappresentare una rinascita dello
spirito della tragedia, ma poi se ne distacca, valutando la musica di Wagner e gran parte della storia
della musica occidentale come malata: quella di Wagner rappresenterebbe solo il culmine di
un’estenuazione di un atteggiamento che consiste nel crogiolarsi nella sofferenza nell’illusione della
catarsi, e a questa tradizione contrappone la musica gioiosa ed esaltante la vita come la Carmen di
Bizet. Secondo Nietzsche, originariamente la tragedia era costituita solo dal coro, mentre il drama,
cioè l’azione compiuta, intervenne dopo e il dialogo fu ampliato da Euripide che operò quindi una
razionalizzazione. Al pessimismo della tragedia originaria, dopo i primi pensatori pre-socratici,
nella filosofia greca si sostituì l’illusione ottimistica di poter comprendere la vita e il mondo in
termini di una conoscenza teoretica razionale che fosse di base all’etica, da raggiungere
socraticamente attraverso la dialettica e da articolarsi nell’analisi di relazioni causali necessarie. Ma
queste rappresentazioni razionali, come per Schopenhauer, non possono cogliere la realtà della
45
volontà di potenza della Natura, e sono soltanto strumentali a mascherare la tragicità della vita, per
sopravvivere; a differenza di Schopenhauer, però, queste rappresentazioni razionali non sono
uniche, necessarie e universali, ma storiche, sociali, individuali e quindi costituiscono una
molteplicità. Come per Schopenhauer, l’io non è il soggetto della rappresentazione: in questa
prospettiva, il cartesiano cogito ergo sum non può fornire la certezza dell’io, ma solo del pensiero
come rappresentazione cui l’io è interno. La filosofia e la scienza non sono espressione di una
conoscenza, ma strumenti della vita. Le loro supposte verità proprio in quanto presunte tali sono
errori: errore è credere erroneamente che esista la verità e voler sostituire gli errori con un’altra
presunta nuova verità. Come bisogna liberarsi dagli errori della morale che generano le costruzioni
metafisiche per ripristinare una presunta giustizia e un presunto bene, come bisogna andare al di là
del bene e del male, così bisogna andare al di là della verità e dell’errore, che sono tali solo
strumentalmente alla volontà di potenza e alla vita. La Natura e la vita sono un continuo divenire: la
verità cerca di fissare una realtà che non può essere fissata, perché in continua trasformazione, la
verità è quindi un errore perché nessuna affermazione fissa può corrispondere alla realtà del
divenire della Natura. Cade la teoria della verità come corrispondenza alla realtà, cade la possibilità
della conoscenza della realtà: Nietzsche distrugge la metafisica, la gnoseologia e la logica con una
estremizzazione della decostruzione francescana degli universali e dei concetti, e le reinterpreta
come funzionali alla vita o alla sua repressione.
Non si tratta quindi di fornire una dimostrazione dell’inesistenza di Dio, ma la liberazione dagli
errori della morale non può che condurre all’eliminazione del concetto di Dio, come
rappresentazione contraria al libero esprimersi della vita. Nietzsche si presenta così in qualche
modo come lo stesso autore dell’assassinio di Dio da parte dell’uomo più brutto che non sopporta
più lo sguardo di Dio, da parte della vita nella sua potenza distruttrice, da parte di chi torna a essere
fedele alla terra e alla vita senza sostituire il mondo sensibile con un mondo intellegibile “più vero”.
L’ateismo assoluto non è così espressione di una nuova filosofia teoretica, ma della morte di Dio
ucciso dalla violenza stessa della vita che riemerge da una repressione precedente durata millenni. I
46
valori superiori e trascendenti non si sono rivelati in grado di svolgere la loro funzione: la morte di
Dio si delinea attraverso l’esito nichilistico che è la stessa morte dell’essere umano. Necessaria
diventa una nuova trasvalutazione di tutti i valori, necessario il superamento di ciò che fino adesso è
stato l’essere umano: si profila la necessità di un “super-uomo” che realizzi pienamente la volontà
di potenza della vita, con il ritorno a Dioniso, un dio che canta e danza.
La critica di Nietzsche alla storia si rivolge alla duplicità dei significati del termine italiano: l’essere
umano soffre secondo Nietzsche di una “malattia storica”, cioè di una concezione storica lineare e
progressiva degli eventi umani, che deriva effettivamente da una secolarizzazione della concezione
escatologica cristiana della storia: questa concezione fa sopravvalutare la modernità rispetto alle
altre epoche, mentre non è che un processo di decadenza in cui incalza un egualitarismo livellatore
delle differenze e le considerazioni quantitative, di massa, prevalgono sulla qualità. D’altra parte, la
storiografia, nelle sue varie forme, danneggia la vita: la storia monumentale, che si confronta solo
con i grandi o con i grandi personaggi, per trovare nel passato un modello, falsifica l’immagine del
passato concentrandosi solo su alcuni aspetti e rischia di arrestare il flusso della vita per rifugiarsi
nel modello di una presunta grandezza che fu; la storia antiquaria, che invece si sofferma sui più
minuti dettagli, rischia di diventare mera erudizione di un sapere in nessun rapporto con la vita, in
cui tutti gli eventi diventano oggetto di una sorta di attività collezionistica per la valorizzazione del
passato in quanto passato senza alcun discernimento; la storia critica, che vuole solo distruggere il
passato in quanto passato per liberarcene per il nuovo, opera anch’essa senza discernimento e non ci
permette di comprendere i nostri legami con il passato, quello che si può mantenere e quello che si
deve superare. Ma è la storiografia, nell’interezza di questi vari atteggiamenti, che si vuole
presentare come disinteressata e oggettiva, che perde ogni contatto con la vita e la riduce a suo
oggetto sacrificandola.
A questa storiografia, Nietzsche contrapporrà una nuova indagine che prenderà il nome di
genealogia: si tratterà di comprendere quali atteggiamenti vitali, nel duplice senso di favorevoli alla
vita o suoi repressori, stanno dietro agli eventi della storia materiale e spirituale dell’umanità e del
47
suo pensiero. Solo questo tipo di storia come genealogia può costituire una storia al servizio della
vita.
Nietzsche aveva definito la sua filosofia come una forma di prospettivismo, che derivava da
Leibnitz attraverso Ruggero Boscovich (1711-1787), ma, eliminando la prospettiva infinita divina
che poteva ricomporre tutte le prospettive, anche quelle non umane, in un unico mondo, arrivò alla
conclusione che non esiste un mondo vero e unico, quanto piuttosto un’infinità di prospettive di
mondi da parte di differenti centri di forza e di vita, di volontà di potenza: questo è il senso della
famosa espressione “non ci sono fatti, ma solo interpretazioni”, che non è una negazione della realtà
che è questa infinità di centri di forza e di vita, ma una negazione della possibilità del pensiero di
attestare un’unica verità. Non si tratta quindi di un relativismo soggettivistico umano nel senso
idealistico della riduzione della realtà al pensiero, ma, anzi, il contrario, cioè l’affermazione
dell’impossibilità di ridurre la realtà della Natura e della vita ad unica rappresentazione razionale e
quindi al pensiero in senso soggettivistico umano: è il pensiero che è parte della Natura e della vita
infinite, al loro servizio.
4.1 Heidegger e Nietzsche: Chi è lo Zarathustra di Nietzsche? La sentenza di Nietzsche “Dio è
morto”. L’oltrepassamento della metafisica.
Già dagli anni trenta il pensiero di Friedrich Nietzsche23 fu il riferimento principale delle riflessioni
di Heidegger, che culmineranno nei due volumi dedicatigli e contenenti scritti elaborati fra il 1936 e
il 194624. Nietzsche aveva già valorizzato il pensiero tragico greco, aveva già distrutto la storia della
metafisica, la storia della filosofia; aveva già distrutto la storia del Cristianesimo come dottrina,
come teologia filosofica e metafisica, quale “platonismo per il popolo”, e determinato la necessità di
23
F. NIETZSCHE, Sämtliche Werke, a cura di G. COLLI & M. MONTINARI, Deutscher Taschenbuch Verlag/de Gruyter,
München/Berlin-New York 1967-1980; tr. it. a cura di G. COLLI & M. MONTINARI, Opere complete, Adelphi, Milano
1968, 2008.
24
M. HEIDEGGER (1936-1946), Nietzsche, Neske, Pfullingen 1961; tr. it. a cura di F. VOLPI, Nietzsche, Adelphi, Milano
1994. M. HEIDEGGER (1951-1952), Wer ist Nietzsches Zarathustra?, in Was heisst Denken?, Niemeyer, Tübingen 1954;
tr. it. di U. UGAZIO a cura di G. VATTIMO, Chi è lo Zarathustra di Nietzsche, in Che cosa significa pensare?, Sugarco,
Milano 1988; M. HEIDEGGER (1953), Wer ist Nietzsches Zarathustra?, in Vorträge und Aufsätze, Neske, Pfullingen
1954; tr. it. di G. VATTIMO, Chi è lo Zarathustra di Nietzsche?, in Saggi e discorsi, Mursia, Milano 1976, pp. 66-82
48
una filosofia atea, basata sulla consapevolezza della “morte di Dio” o quantomeno di Dio come
concetto dei filosofi. Nietzsche aveva già smascherato l’antropocentrismo e l’umanismo sottostanti
la tradizione filosofica e scientifica; aveva già smascherato le rappresentazioni umane, come
determinate dalla sua volontà di potenza, di affermarsi in tutta la sua potenza; aveva già delineato la
necessità di un nuovo pensiero aurorale, che superasse il vecchio uomo e tutto ciò che era “umano,
troppo umano”. Heidegger però non condivide la parte costruttiva del pensiero di Nietzsche e si
dedica ad una sottilissima distruzione del suo pensiero positivo come compimento della metafisica,
nonostante i suoi propositi. Certo, Heidegger sa che Nietzsche è stato un filosofo anomalo, non
sistematico, che ha espresso il suo pensiero in aforismi o poeticamente, ma questo non elude il fatto
che anche “poeticamente”, in maniera affascinante e suadente come mai è la prosa filosofica, si
possano formulare concetti metafisici, snaturando invero la poesia nella metafisica.
Chi è lo Zarathustra di Nietzsche? Non è certamente lo Zarathustra storico, il profeta religioso
iraniano che ha influenzato la prospettiva escatologica del giudeo-cristianesimo, perché al contrario
annuncia una dottrina ciclica del tempo implicita nella concezione dell’eterno ritorno. Il Così parlò
Zarathustra è un confronto continuo implicito con il Cristianesimo e un tentativo di un suo
superamento con toni profetici, da “buona novella” anti-cristiana che paradossalmente annuncia la
morte di Dio e una nuova era, nuove “beatitudini” e nuove “maledizioni” (“guai a…”), una nuova
prospettiva di redenzione. Zarathustra è colui che proclama un “uomo nuovo”, che deve avere tratti
completamente diversi dal vecchio, e che per questo chiama Übermensch, che dovrebbe essere
meglio tradotto come “oltre-uomo”. Bisogna proclamare un “oltre-uomo” per difendere la vita, la
sofferenza: Zarathustra è l’“avvocato” della vita e della sofferenza, ovvero si potrebbe tradurrecomprendere il “Paracleto”, diversamente annunciato da Gesù stesso. La necessità di difendere la
vita con tutta la sua sofferenza nasce dal fatto che il platonismo e il Cristianesimo come dottrina
hanno mortificato e sacrificato la vita rimandando a un al di là, ad un mondo sovrannaturale.
Nietzsche non distingue come Heidegger fra un Cristianesimo originario, come esperienza autentica
di fede nell’auto-comprensione della radicale finitezza dell’esistenza che rifiuta qualsiasi fuga
49
metafisica, e il Cristianesimo come dottrina metafisica: Nietzsche, anche attraverso l’interpretazione
di Tolstoj del Cristianesimo, pensa che l’unico cristiano autentico sia stato solo Gesù stesso e che
già i suoi apostoli e Paolo lo abbiano completamente tradito.
Nietzsche vuole superare il solito ateismo, segnare definitivamente la morte di Dio una volta per
tutte e fornire non solo una critica filosofica atea del Cristianesimo, ma anche una nuova mitopoiesi
atea che risponda all’esigenza “religiosa” dell’essere umano: questa nuova mitopoiesi, alternativa al
Cristianesimo, non può che risolversi nella ripresa dell’antico mito pagano di un mondo ciclico,
basato anche su nuove speculazioni che derivano dalla portata cosmologica di alcune possibili
riduzioni del significato della seconda legge della termodinamica25. Ma, proprio per questo motivo,
questa nuova mitopoiesi si traduce, secondo Heidegger, in una nuova metafisica filosofica.
Nietzsche effettua una genealogia della metafisica platonico-cristiana e ne trova le radici in uno
spirito di risentimento e di vendetta: superare la metafisica platonico-cristiana implicherà quindi la
redenzione da questo spirito di risentimento e di vendetta. Lo spirito di vendetta è sicuramente
all’opera, secondo Nietzsche, nella concezione dell’inferno come luogo di punizione eterna degli
ingiusti: la concezione dell’inferno è in contraddizione con la prospettiva di perdòno infinito di
Gesù.
Anche la concezione platonica della reincarnazione degli ingiusti in forme di vita inferiore deriva da
uno spirito di vendetta mai sedato. Per Kant, Dio risultava necessario per la ragione pratica come
garante di una remunerazione equa di ricompense e di punizioni nei confronti dei giusti e degli
ingiusti. In definitiva, quindi, per Nietzsche era un falso sentimento morale animato da un effettivo
spirito di vendetta a richiedere l’esistenza di Dio e di un mondo sovrannaturale, sovra-sensibile, in
cui le sofferenze e le presunte ingiustizie della vita sarebbero state compensate. Spiega Nietzsche,
quindi, generalizzandone il senso, che lo spirito di vendetta non è altro che l’avversione della
25
G. DELEUZE, Nietzsche et la philosophie, P.U.F., Paris 1962; tr. it. di S. TASSINARI, Nietzsche e la filosofia,
Colportage, Firenze 1978; e poi nuova traduzione a cura di F. POLIDORI, intr. di M. FERRARIS, Feltrinelli, Milano 1992 e
ulteriore nuova ed. italiana con appendice a cura di F. POLIDORI, tr. it. di F. POLIDORI & D. TARIZZO, Nietzsche e la
filosofia e altri testi, Einaudi, Torino 2002; H. S. KRAGH, Entropic Creation – Religious Contexts of Thermodynamics
and Cosmology,Ashgate, Aldershot (UK) 2008.
50
volontà contro il tempo e il suo ‘così fu’: si tratta cioè di un avversione contro la temporalità della
vita che ne segna la transitorietà, il suo passare immodificabile e quindi intrinsecamente
incompensabile nelle sue sofferenze e nelle sue presunte ingiustizie. Si tratta cioè di una debolezza
della volontà, di un volere contro la volontà che sorge dentro spiriti deboli o indeboliti dalla
sofferenza, che non sanno accettare la vita che è esplicazione di una naturale volontà di potenza
creatrice e distruttrice delle sue forme finite al di là del bene e del male; si tratta anche di quella
nolontà che caratterizza l’ascesi buddhista e la prospettiva di Schopenhauer. L’oltre-uomo,
espressione suprema della volontà di potenza, accetta invece la vita in tutte le sue esplicazioni, in
tutta la sua finitezza e incompensabilità. L’accetta così tanto da volere la vita, da dirle sì non una
sola volta, ma infinite volte: sarebbe pronta a ripeterla, pure in tutte le sue sofferenze, infinite volte,
eternamente. La suprema volontà di potenza vuole l’eterno ritorno del tempo: “imprimere al
divenire il carattere dell’essere – questa è la suprema volontà di potenza”.
Nell’idea dell’eterno ritorno, Heidegger, però, scorge una ricaduta nella metafisica: si tratta
comunque, seppure paradossalmente, di eternizzare il tempo, di non accettare la radicale finitezza
dell’esistenza temporale. Heidegger, al contrario, ha impresso all’essere il carattere del divenire, il
carattere di un’intrinseca finitezza temporale: è questa, per Heidegger, l’unica soluzione antimetafisica.
Nietzsche vuole eternizzare il tempo e trovava, ancora prima della teorizzazione dell’eterno ritorno,
nell’attimo-istante, che comporta l’arresto del tempo, questa possibilità di eternizzazione della
dimensione temporale: per Heidegger, Nietzsche non si è ancora liberato dalla metafisica
dell’eternità e non riconosce la vera dimensione temporale che l’istante-ora non può cogliere (da
questa prospettiva Nietzsche, nonostante il suo stile diverso, è più vicino ad Aristotele che a
Kierkegaard).
La prospettiva nietzschiana dell’eterno ritorno è quindi metafisica in un mero ribaltamento dei
valori associati da Platone al mondo ideale e al mondo sensibile: per Nietzsche è il mondo sensibile
ad essere superiore ed eterno. Fra l’altro, il rifiuto del platonismo si sviluppa in Nietzsche con una
51
ricaduta in prospettive biologistiche e materialistiche, seppure non meccaniciste. Ma anche la
prospettiva nietzschiana della volontà di potenza è per Heidegger metafisica: si tratta di una
metafisica soggettivistica in cui l’essere è concepito umanisticamente nei termini di una volontà di
potenza illimitata, tipica solo degli enti umani. Nel medioevo cristiano la teologia francescana della
volontà si era opposta ad una teologia aristotelica dell’intelletto, e questa teologia, attraverso il
concetto di impetus poi ripreso da Bruno (e invero anche da Galileo) e Leibniz, aveva inaugurato
una nuova filosofia della Natura, distante dall’intellettualismo logico-ontologico greco. Questa
prospettiva era stata poi deformata dall’idea meccanicistica dell’inerzia e dalla biologia
evoluzionistica che aveva ricondotto la volontà a un istinto vitale egoistico, che influenzò sia
Schopenhauer che Nietzsche seppure con valutazioni opposte di questo istinto. Il tutto si legò in
Nietzsche a una secolarizzazione di una teologia protestante, fissata dall’interpretazione della
Bibbia a una visione essenzialmente ancora vetero-testamentaria e pre-gesuana della volontà, che
concepiva Dio al di là della connotazione umana del bene e del male e considerava bene tutto –
anche sofferenza, morte, violenza, assassinio – se e in quanto voluto da Dio.
Al contrario, per Heidegger, conformemente alla rivoluzione gesuana che identifica Dio con
l’Amore (I Giov. 4.8), essere-nel-mondo non può essere autenticamente che cura dell’alterità e del
mondo; mentre la volontà di potenza illimitata dell’essere umano non può che esserne un’assoluta
distorsione che considera l’essere e gli altri enti strumentalmente come oggetti disponibili al suo
arbitrio, da sfruttare, da fagocitare e da dominare tecnicamente a vantaggio della propria vita,
propria di chi non vuole accettare la propria finitezza temporale e si illude di poterla superare
nell’illimitatezza dell’estensione del suo dominio.
Non solo: la prospettiva nietzschiana si mostra metafisica ad Heidegger in quanto le
rappresentazioni del pensiero filosofico e scientifico, seppure smascherate come determinate
strumentalmente da una volontà di potenza, sono valutate positivamente da Nietzsche se non legate
ad una sua repressione ma invece ad una sua esaltazione. La verità è strumentale alla realizzazione
della massima volontà di potenza del soggetto umano, ed è un errore in quanto fissa ciò che diviene
52
e quando legata a rappresentazioni che non la realizzano: la verità non è propria dell’essere, ma è
relativa alle varie prospettive dei vari soggetti, è soggettiva ed è determinata dalla massima efficacia
delle rappresentazioni a vantaggio della volontà di potenza del soggetto26. Questa prospettiva
nietzschiana non è per Heidegger meramente metafisica, ma è il compimento assoluto della
metafisica occidentale moderna e del suo soggettivismo: non c’è più un mondo vero, un essere, una
verità; nella prospettiva nietzschiana assurge apertamente a verità quanto è strumentale al dominio
dell’illimitata volontà di potenza della soggettività umana; l’efficacia strumentale per il dominio
viene epistemologizzata a criterio di verità strumentale. Si conclude così quel processo che con la
rivoluzione scientifica aveva portato all’epistemologizzazione della tecnica. In Nietzsche,
indipendentemente dalla tecnica, viene legittimata apertamente anche quella che può essere
considerata la sua motivazione, una volontà di potenza oltre-umana (invero, “umana, troppo
umana”), illimitata e al di là del bene e del male. L’esito è che la metafisica di Nietzsche, pur
essendone sganciata, può costituire il fondamento del dominio tecnico umano che riduce tutto a
fondo di risorse di energia, nella devastazione assoluta della terra da parte dell’umanità.
26
Karl Lӧwith, che, come altri allievi ebrei, si sentì profondamente tradito da Heidegger (aveva corretto con lui anche le
bozze di Essere e tempo) per la sua adesione al nazismo, deve arrampicarsi sugli specchi per contestare il suo maestro
ormai inviso sul piano filosofico: presenta il caso di Nietzsche come esempio del fallimento dell’ermeneutica
heideggeriana, che comporterebbe quindi la falsità dell’analitica esistenziale su cui si basa. Non comprendendo
l’intreccio complesso e inevitabile fra interpretazione in senso stretto, valutazione critica e sviluppo delle problematiche
poste da un autore al di là delle soluzioni proposte, giudica l’ermeneutica heideggeriana “solipsistica”, autocentrata e
non rivolta ad un’effettiva comprensione dell’altro. Lӧwith deve affermare che se Nietzsche non avesse scritto perlopiù
per aforismi, ma piuttosto sistematicamente come Aristotele, se Nietzsche non si fosse “talora” espresso come si è
espresso, se non si leggessero gli aforismi del Wille zur Macht, allora si sarebbe compreso non come Heidegger
pretenderebbe. Siccome Lӧwith non riesce a smontare la veridicità dell’interpretazione di Nietzsche data da Heidegger,
allora attacca direttamente l’analitica esistenziale, l’essere heideggeriano che non sarebbe altro che un retro-mondo
sovrasensibile metafisico (quando è chiaro che non esiste mai né dietro né fuori dagli enti), poi cerca di spiegare
storicamente e sociologicamente il pensiero di Heidegger come di un’epoca di crisi, in cui ci sono ancora teologhi atei,
come lui, che non hanno accettato la morte di Dio evidenziata da Nietzsche (mentre è chiaramente Nietzsche che ha
dovuto colmare questa morte divinizzando la volontà di potenza dell’oltre-uomo): K. LÖWITH, Heidegger. Denker in
dürftiger Zeit, Suhrkamp, Frankfurt am Main 1960; tr. it. di C. CASES & A MAZZONE, Saggi su Heidegger (I.
L’esistenza che si accetta e l’essere che si dà; II. Evenienzialità, storia, ventura dell’essere; III. L’interpretazione di ciò
che rimane taciuto nel detto di Nietzsche “Dio è morto”; IV. Per una valutazione critica dell’influenza di Heidegger),
Einaudi, Torino 1966, 1974, pp. 83-123, in particolare pp. 117 e 123, e inoltre pp. 130-131. Di Lӧwith si veda anche: K.
LÖWITH, Zu Heideggers Seinsfrage: Die Natur des Menschen und die Welt der Natur, in Die Frage Martin Heideggers.
Beitrӓge zu einem Kolloquium mit Heidegger aus Anlass seines 80., Winter, Heidelberg 1969, pp. 36-49; tr. it. di N.
Curcio, intr. di F. Volpi, K. LÖWITH, La questione heideggeriana dell’essere: la natura dell’uomo e il mondo della
natura, in G. ANDERS, H. ARENDT, H. JONAS, K. LӦWITH, L. STRAUSS, Su Heidegger. Cinque voci ebraiche, Donzelli,
Roma 1998, pp. 75-88; K. LÖWITH, Husserl il pazzo e Heidegger il gesuita, da Fiala. Die Geschichte einer Versuchung
(Fiala. La storia di una tentazione) in Internazionale Zeitschrift für Philosophie, n. 1 (1997), pp. 136-167, pres. di O.
Franceschelli, in Micromega, pp. 297-306; K. LÖWITH, Mein Lebenin Deutschland vor und nach 1933, Metzler,
Stuttgart 1986, pp. 42-45; tr. it. di E. Grillo, La mia vita in Germania prima e dopo il 1933, il Saggiatore, Milano 1988,
pp. 69-72.
53
Il detto di Nietzsche “Dio è morto” per Heidegger ha due aspetti27: da una parte, va compreso
positivamente nel senso della morte della metafisica del mondo sovrasensibile platonico-cristiano,
del cristianesimo come dottrina metafisica, e mai nel senso del Dio della fede dell’esperienza
autentica del Cristianesimo originario. Dal punto di vista specifico, invece, dell’assenza e del
rifiuto della fede autentica in Dio, espressa da Nietzsche nell’uccisione vendicativa e consapevole di
Dio da parte dell’“uomo più laido” (per non avere testimoni della propria abiezione), ha un aspetto
negativo ma non esprime una novità; è piuttosto il culmine del processo di oblio dell’essere, che,
nella modernità, ha i tratti della de-divinizzazione già discussa e a cui ha contribuito anche il
cristianesimo dottrinario e religioso moderno che ha ridotto, con la filosofia moderna,
soggettivisticamente il mondo a immagine, perdendo il senso divino della Physis. In questa
prospettiva heideggeriana, Nietzsche non supera il nichilismo dei valori che segue, secondo
Nietzsche, la “morte di Dio”, perché la trasmutazione nietzschiana di tutti i valori a favore della
“valorizzazione” di una volontà di potenza senza valori è parte di questo nichilismo che deriva
invece, per Heidegger, dall’oblio dell’essere e dalla de-divinizzazione che è prima di tutto perdita
del senso della Physis, per cui neanche l’assenza di Dio può essere più percepita come tale.
L’oltrepassamento della metafisica, per Heidegger, non è soltanto una svolta all’interno della
disciplina della filosofia, ma piuttosto richiede una nuova maniera di esistere autenticamente in una
nuova pre-comprensione dell’essere; è un evento nella storia dell’essere, in cui dopo l’abbandono e
l’oblio totale dell’essere che costituiscono l’attuale nichilismo, che annichila l’essere nella
devastazione della Physis, torna a rivelarsi l’essere.
Tuttavia, seppure l’eterno ritorno e la volontà di potenza di Nietzsche rientrano nella metafisica e
nell’ideologia della violenza, l’essere di Heidegger – seppure completamente temporalizzato - ,
riconducendo le cose stesse nella prospettiva dell’antica ontologia seppure modificata, è meno
indicato del divenire nietzscheano per cogliere la temporalità costitutiva delle cose; e la rivelazione
27
M. HEIDEGGER (1936-1943), Nietzsches Wort “Gott ist tot, in Holzwege, Klostermann, Frankfurt am Main 1950; tr.
it. di P. CHIODI, La sentenza di Nietzsche: “Dio è morto”, in Sentieri interrotti, La Nuova Italia, Firenze 1968, 1984, pp.
191-246.
54
della Physis oltre la metafisica è vanificata dall’ontologizzazione trascendentale e metafisica della
Physis nell’essere compiuta da Heidegger. Se si tolgono alla volontà di Nietzsche la sua
connotazione di potenza e di dominio e quindi la sua connotazione di violenza amorale egoistica, si
può accettare pienamente il suo sì alla vita e farne come in Albert Schweitzer28 il fondamento
volontaristico di una morale del rispetto della vita in tutte le sue forme, evitando le critiche di
Heidegger di un sottostante soggettivismo umanistico.
28
A. SCHWEITZER, Aus meinem Leben und Denken, F. Meiner, Leipzig 1931; tr. it. di A. GUADAGNIN, La mia vita e il
mio pensiero, Comunità, Milano 1965; A. SCHWEITZER, Die Weltanschauung der indischen Denker. Mystik und Ethik,
Beck, München 1934; tr. it., I grandi pensatori dell’India, Astrolabio-Ubaldini, Roma 1962, e, a cura di S. Marchignoli,
Donzelli, Roma 1997; A. SCHWEITZER, Die Ehrfurcht vor dem Leben – Grundtexte aus fünf Jahrzehnten, a cura di H.
W. Bӓhr, Beck, München 1991; A. SCHWEITZER, Gesammelte Werke in fünf Bänden. Hrsg. von Rudolf Grabs. Beck,
München 1974.
55
5. Søren Kierkegaard e la filosofia dell’esistenza
Søren Kierkegaard (1813-1855) diede origine a un nuovo tipo di filosofia: la sua filosofia
dell’esistenza si oppone a tutte le precedenti filosofie delle essenze, che avevano avuto il loro
culmine in quella di Hegel. Si presenta come una nuova forma di filosofia cristiana che si
contrappone alla trasformazione del cristianesimo in una metafisica teologica: le sue radici
affondano nella critica degli universali effettuata dalla rivoluzione francescana e dal rifiuto luterano
della intellettualistica filosofia teoretica greca delle essenze. Si tratta di una filosofia, del tutto
soggettiva, dell’esistenza nella sua concretezza e singolarità, dove anche la fede non si costituisce
come suo fondamento razionale ma come particolare esperienza esistenziale concreta. Kierkegaard
in Enten – Eller (Aut-aut, 1843) (con lo pseudonimo di Victor Eremita che avrebbe trovato i fogli
pubblicati in due volumi: il primo, Enten, scritto da A l’esteta, mentre ‘il diario del seduttore è
scritto da Johannes; il secondo, Eller, scritto dal giudice in pensione Wilhelm parla dello stadio
etico); e in Stadi sul cammino della vita (1845), (in danese Stadier paa Livets Vei. Studier af
Forskjellige sammenbragte, befordrede til Trykken og udgivne af Hilarius Bogbinder, la vita
religiosa è descritta solo nella terza sezione), delinea un’analitica e una dialettica dell’esistenza,
senza che queste possano però costituire un sistema filosofico dell’esistenza: la filosofia è intesa
come tutt’uno con l’esistenza, come consapevolezza esistenziale e progetto d’esistenza, e mai come
compendiabile in un sistema di una ragione teoretica. Qui, Kierkegaard descrive e distingue tre
tipologie di esistenza, che possono costituire anche tre stadi successivi: questa analitica prende le
mosse dalle proprie esperienze esistenziali individuali e non dal ragionamento astratto legato
all’universalità impersonale di un io trascendentale. La prima tipologia d’esistenza è quella di una
vita estetica, o meglio di un modo di vivere da esteta (di cui il Don Giovanni è esempio
paradigmatico), che si realizza nel godere il piacere momentaneo dell’attimo fuggente, in una
ricerca continua ma disciplinata di qualcosa di non-banale, di sofisticato e intenso che possa
ravvivare un ebbrezza che perduri. Questa tipologia d’esistenza è destinata, per la sua natura, ad
avere come esito la noia o eventualmente la disperazione. Quando la disperazione diventa
56
prevalente, allora si prospetta una nuova possibilità, un’esistenza alternativa: la disperazione è
quindi non meramente negativa, ma ambivalente perché permette anche di uscire fuori dalla sfera
estetica. Si apre allora la strada ad una seconda tipologia d’esistenza, quella di una vita etica. Il
passaggio però non è facile perché non si tratta di un percorso continuo, senza fratture: vi è un
abisso da superare ed un salto da effettuare per questa trasformazione segnata da una discontinuità
radicale. La scelta di una vita etica comporta il raggiungimento di una nuova stabilità ed una nuova
continuità, di livello superiore a quello della vita estetica che aveva bisogno sempre di novità
esteriori per mantenersi nella sua intensità: questa nuova stabilità ha corso nella scelta di sé stessi,
di un sé stesso che si ritrova proprio nel suo scegliere in una continuità temporale che fonda la
propria identità nella sua storia, e in accordo a una legge universale che lo lega all’intera umanità.
L’esito della vita etica è il riconoscimento della propria colpa, e anche delle colpe ereditate come
membro della specie umana, che ne mostra l’insufficienza. Il sentimento di colpa genera angoscia,
e, questa angoscia presenta ancora un’ambivalenza, perché non è solo negativa ma può condurre a
uscire da questa sfera d’esistenza. Si apre allora la possibilità del pentimento, della metànoia e della
conversione alla vita religiosa. Anche fra vita etica e vita religiosa c’è un abisso, ancora più
incolmabile del precedente, e richiede il salto della fede che non è attuabile dal solo essere umano,
ma coinvolge Dio: la fede è dono della Grazia. Kierkegaard distingue nettamente la vita religiosa
dalla vita etica richiamandosi alla figura antico-testamentaria di Abramo, e sarà seguito in questo,
successivamente dal teologo Karl Barth: vede in Abramo il paradigma della fede che può portarlo
anche all’uccisione del figlio, cioè alla sospensione dell’etica e delle sue leggi. Kierkegaard crede
sia questa la radicalità della fede cristiana, ma in effetti il Dio di Kierkegaard resta così ancora
quello vetero-testamentario che è molto diverso dall’etico Dio-Amore di Gesù e del Nuovo
Testamento (I Giov. 4.8).
La fede, allora, per Kierkegaard non può che qualificarsi a sua volta, in questa sospensione
dell’etica, che un’incertezza angosciosa, dove certa resta solo l’angoscia. La fede è così paradosso e
scandalo, contraddizione ineliminabile. Il paradosso massimo è quello del Cristo dalla doppia
57
natura, umana e divina. Ma questo paradosso si ripresenta in ogni esperienza esistenziale della fede
in cui Dio è presente nella vita dell’essere umano: da un lato, è l’essere umano che deve scegliere la
vita religiosa, dall’altro è Dio che sceglie/elegge l’essere umano nella Grazia della fede. Se questa è
l’esperienza esistenziale umana che riproduce il paradosso proprio del Cristo, allora il cristianesimo
rivela la struttura stessa dell’esistenza: contraddizione, paradosso, scandalo, dubbio, angoscia sono
le caratteristiche dell’esistenza e del cristianesimo, non solo della vita religiosa ma anche della vita
estetica e della vita etica.
L’esperienza esistenziale è esperienza di una contingenza radicale, contingenza della propria
esistenziale e contingenza delle cose. L’esperienza non solo non è sufficiente per delineare alcunché
di necessario, ma è tale da dover escludere la necessità: tutto accade in quanto possibilità.
A sua volta, anche la storia è il regno della possibilità, in quanto propria del divenire: il divenire è
sempre un annientamento parziale delle possibilità soppiantate dalla realtà: il passato non è
necessario neanche dopo essere accaduto, altrimenti necessario sarebbe anche il futuro; il
necessario, proprio dell'essere immutabile, non include il possibile del divenire, come erroneamente
pensava Aristotele, ma ne è l’opposto. Il passato resta sempre possibile e quindi la sua stessa realtà
è la realtà di una possibilità (per questo Dio può cambiare anche il passato, come per la teologia di
Pier Damiani). Il passato non è che un futuro che è accaduto: la dimensione fondamentale del
tempo, come sarà ripreso da Heidegger, è così il futuro.
Come regno del possibile, il divenire non ammette causalità: Kierkegaard segue e va oltre Hume. Il
divenuto è conoscibile nel suo darsi immediato alla percezione, ma il divenire non è conoscibile: il
cambiamento non è conoscibile. Non c’è una scienza del divenire della Natura: nessuna logica
dialettica hegeliana può stabilirsi, ma neanche una scienza della Natura basabile sulla continuità e
sulla causalità che non sono tracciabili. Questa prospettiva sarà alla radice della filosofia quantistica
della Natura di Niels Bohr (1885-1962) di fronte alle evidenze di impossibilità sperimentali del
mondo atomico e microfisico: è possibile descrivere l’elettrone solo negli stati stazionari
dell’atomo, e mai nelle transizioni da uno stato all’altro, che non sono descrivibili tramite funzioni
58
matematiche continue o connessioni causali prevedibili e si configurano come i salti di Kierkegaard
fra i vari stati d’esistenza; l’elettrone verrà poi pensato da Bohr, secondo il principio di
complementarità del 1928, come avente una doppia natura di corpuscolo e di onda come la doppia
natura del Cristo in cui la contraddizione è pensata in termini appunto di complementarità.
Anche la storia come divenire non può essere quindi oggetto di scienza, in quanto niente del nonessere o distruzione delle possibilità che si sono realizzate, passaggio dal niente a una possibilità
multipla. La storia non è quindi oggetto di scienza.
La struttura dell’esistenza è quindi la possibilità, che sottostà alle varie possibili scelte alternative di
vita: l’angoscia che caratterizza l’esistenza è legata all'indeterminazione e all’infinità delle
possibilità che si concretizzano nell'avvenire, a ciò che non è ma può essere nel futuro, al nulla che
è possibile o alla possibilità nullificante, a cui si collega la morte. Il passato non può angosciare: ha
potuto angosciare nel suo essere possibile futuro che stava accadendo o può angosciare nel suo
possibile ripetersi futuro. L'angoscia è, come la disperazione, una categoria esistenziale che ci fa
comprendere, come per Luther, che nella vita può accadere di tutto e che la perdizione e
l'annientamento sono in ogni momento possibili per la struttura stessa dell'esistenza. L'angoscia è
relativa alla condizione di possibilità esistenziale dell'essere umano in relazione al mondo, la
disperazione è invece correlata alla condizione di possibilità esistenziale interna a sé stesso: la
disperazione è la malattia mortale non perché comporti la morte effettiva, ma perché è la possibilità
impossibile di affermare o negare sé stesso rispettivamente nella propria autosufficienza
o
insufficienza che comporterebbe essere altro da sé e autosufficienza; si tratta di "vivere la morte
dell'io come autosufficienza". Solo la fede permette di superare la disperazione in quanto fede in un
Dio a cui tutto è possibile. Ma la fede sconfina al di là della ragione ed è sempre paradosso e
contraddizione: così, costituisce un capovolgimento dell’esistenza per cui al possibile come fonte di
radicale instabilità si sostituisce la stabilità del possibile dipendente da Dio che può tutto.
Fede e dubbio non sono due categorie gnoseologiche ma passioni contrarie, ma la fede è anche
decisione che esclude il dubbio che non si risolve razionalmente.
59
Il rapporto fra Dio ed essere umano non si verifica nella storia o nel divenire ma nell'istante in cui
l'eternità incontra il tempo, la verità di Dio si impone sulla non-verità umana che è propria del
peccato, per cui non si può raggiungere la verità attraverso una maieutica socratica che presuppone
la presenza della verità come interna all'essere umano, ma solo attraverso la redenzione operata dal
Cristo. Dio non è dimostrabile razionalmente dall’essere umano perché caratterizzato come non
verità: le dimostrazioni presunte presuppongono già Dio e sono quindi sviluppi idealistici e non
prove. Dio è follia impensabile, differenza assoluta rispetto all'essere umano.
Con la fede, possiamo accedere alla doppia natura del Cristo, uomo e Dio, che resta per noi
paradossale e non risolvibile teoreticamente, ed il Cristo è il paradigma dell’incontro esistenziale
dell’essere umano e di Dio, dell’incontro fra Natura e Grazia nell’esistenza umana. L’esistenza
umana, così, secondo Kierkegaard, si può comprendere attraverso l’esempio del paradosso e della
contraddizione che la persona di Gesù vive in sé e che il cristiano ripercorre: anche Gesù, secondo i
Vangeli, ha vissuto pienamente l’esperienza dell’angoscia. Secondo Kierkegaard, è così il
cristianesimo che svela la struttura dell’esistenza umana: questo tema verrà ripreso da Heidegger
che costituirà la struttura trascendentale dell’esistenza sulla base della fenomenologia della vita
religiosa che rappresenta la forma di esistenza autentica.
6. Lo storicismo e l’ermeneutica di Dilthey
Wilhelm Dilthey (1833-1911) si era posto il problema della fondazione delle scienze storiche o
scienze dello spirito (Geistwissenschaften), come Kant aveva cercato di dare una fondazione alle
scienze della Natura (Naturwissenschaften), per sviluppare uno “storicismo”.29 Un diverso
29
W. DILTHEY, Einleitung in die Geisteswissenschaften. Versuch einer Grundlegung für das
Studium der Gesellschaft und der Geschichte, Vorwort B. Groethuysen, Bd. 1, Duncker &
Humblot, Leipzig 1883; poi in W. DILTHEY, Gesammelte Schriften, Band 1, Einleitung in die
Geisteswissenschaften: Versuch einer Grundlegung für das Studium der Gesellschaft und
Geschichte, a cura degli Schülern Diltheys, Vandenhoeck & Ruprecht, Göttingen 2006; tr. it. e
commento a cura di O. Bianca, Introduzione alle scienze dello spirito: ricerca di un fondamento
alle scienze della societa e della storia, Paravia, Torino 1947; poi tr. it. di G. A. De Toni riveduta,
con introduzione e apparati, da G. B. Demarta con testo a fronte, Introduzione alle scienze dello
60
approccio è necessario, in quanto il soggetto umano è parte del mondo storico-sociale da indagare.
La fondazione non risiede per Dilthey in un astratto apriori, ma nell’autocomprensione storica della
vita
umana
stessa.
Per
questo
sviluppò
un’ermeneutica
come
filosofia
della
vita
(Lebensphilosophie): la storia, infatti, implica non delle relazioni causali come fra meri eventi
naturali, ma relazioni di significato che devono essere interpretate. Queste relazioni di significato
costituiscono delle oggettivazioni della vita umana allorché si incorporano in istituzioni sociali e
politiche, in sistemi giuridici ed economici, in costruzioni, oggetti come artefatti, attività culturali e
creazioni artistiche, per cui non è più possibile separare soggetto e oggetto. L’attività tipica della
vita umana fa sì che questa vita non possa essere colta che dentro un mondo che storicamente
diviene. Ecco l’origine dell’essere-nel-mondo di Heidegger.30 Il mondo storico-sociale è così
strutturato non da astratte categorie gnoseologiche, ma da “categorie della vita” (Lebenskategorien)
del desiderio e del lavoro, che sole possono “accusare pubblicamente (mettere in piazza, agorà)”
(kategorein), rendere manifesto alla comprensione il mondo: da qui gli “esistenziali” di Heidegger e
il fenomeno originario del mondo, come legato all’appagatività, alla fruibilità e alla significatività
per l’esserci umano e il cui significato è appunto quello del mondo costruito dall’umanità. Da qui la
secondarietà delle scienze naturali, intese comunque come attività dello spirito umano. Heidegger
ha utilizzato poi l’ermeneutica sganciandola dalla filosofia della vita di Dilthey per associarla a una
filosofia dell’esistenza che esprimerebbe meglio la modalità dell’essere dell’uomo, nel differenziare
la vita dall’esistenza umana.
spirito: tentativo di fondazione per lo studio della società e della storia, vol. 1, Bompiani, Milano
2009.
30
C. R. BAMBACH, Heidegger, Dilthey and the Crisis of Historicism. History and Metaphysics in Heidegger, Dilthey
and the Neo-kantians, Cornell University Press, New York 1995. Per lo stato attuale degli studi sui rapporti fra il
pensiero di Heidegger e di Dilthey si veda anche: M. JACOBSSON, Heidegger e Dilthey. Vita, morte e storia, Mimesis,
Milano 2010.
61
Sigmund Freud e la psicologia dell’inconscio
A Sigmund Freud (1856-1939) è attribuita la “rivoluzione psicoanalitica” in tutta la sua interezza,
ma la storia è certamente più complessa, come si è visto: la storia dell’inconscio è anche la storia
della filosofia dell’inconscio; da quando Kant ha introdotto un noumeno inaccessibile alla ragione,
si è potuto interpretare questo in termini di una realtà comunque inconscia. Schopenhauer aveva già
indicato nelle rappresentazioni razionali delle illusioni che potevano nascondere questa realtà
inconscia o esserne strumenti inconsapevoli, e Nietzsche le aveva considerate anche come forme di
repressione di quanto è inconscio e come legittimazioni di questa repressione. La questione
dell’inconscio non inizia certamente con Freud. Tuttavia, è limitativo riferirsi solo a Schopenhauer
e Nietzsche come coloro da cui Freud ha attinto varie cose. L’inconscio viene teorizzato ed
elaborato effettivamente all’interno della prospettiva romantica, come reazione al dualismo aperto
da Descartes, andando oltre la risposta di Spinoza. Fiedrich Wilhelm Joseph von Schelling (17751854), nel suo lavoro del 1799, intitolato Erster Entwurf eines Systems der Naturphilosophie
(Primo abbozzo di un sistema della Filosofia della Natura), presenta per la prima volta la Natura
non più come mera materia, ma piuttosto come “spirito inconscio”. La volontà di vita noumenica e
irrazionale di Schopenhauer, inoltre, è senz’altro inconscia e dà adito ad una metafisica della
sessualità, in cui la sessualità è ricompresa in termini di volontà di vita inconscia a cui l’Eros
diventa strettamente legato. Si possono ricordare molte opere di “filosofia dell’inconscio”: La
psicologia come scienza, nuovamente fondata sull’esperienza, sulla matematica e la metafisica
(1824-1825) di Johann Friedrich Herbart (1776-1841); Psyche, zur Entwicklungsgeschichte der
Seele (1846, 1851) e Psychologie der Geschichte der Seele in der Reihenfolge der Tierwelt (1866)
di Carl Gustav Carus (1789-1869); Philosophie des Unbewussten. Versuch einer Weltanschaaung
(1869, 1890) di Eduard von Hartmann (1842-1906); On Memory as the Universal Function of
Organized Matter (1870) di Ewald Hering (1834-1918).
La psicoanalisi dell’inconscio di Freud, da questo punto di vista, non è che lo sviluppo di una
precedente filosofia dell’inconscio, che la trasforma in una filosofia pratica. Anche la prospettiva di
62
Carl Gustav Jung (1875-1961), legata alla teorizzazione di un inconscio collettivo, è legata anche a
questa tradizione filosofica, rinforzata, come quella di Freud, dalla biologia evoluzionistica e dalla
medicina di patologie nervose. Se l’inconscio collettivo di Jung si rifà, fra l’altro, all’anima del
mondo di Schelling e allo spirito oggettivo di Hegel e di Dilthey, e la sua psicologia alla psicologia
descrittivo-analitica di Dilthey in contrapposizione alla psicologia esplicativa che sarà esplorata da
Freud, tutta questa letteratura di filosofia dell’inconscio è presente a Jung insieme ad altre opere
successive come: The Mneme (1921) di Richard Wolfgang Semon (1859-1918); Les fonctions
mentales dans les sociétés inférieures (1922) di Lucien Lévy-Bruhl (1857-1939).
L’originalità di Freud nell’aver reso la filosofia dell’inconscio una filosofia pratica, utile a
comprendere e a curare i malesseri psichici dell’umanità e che poteva avere nella terapia un
disvelamento almeno di alcuni suoi aspetti, un modo di farli emergere alla consapevolezza, e anche
un modo di provarne la realtà.
Freud nasce nel 1856 in una cittadina austriaca, Freiberg, che fa parte della Moravia, e che adesso è
sotto la giurisdizione della Repubblica Ceca. Morirà poi a Londra nel 1939, costretto a lasciare la
Germania, che era sotto il dominio nazista, in quanto di origine ebraica. Suo padre era un
commerciante, e nel 1860 si trasferirono a Vienna inserendosi nel clima culturale complesso della
Vienna di fine ’800. E si iscrisse alla Facoltà di Medicina dove si laureò nel 1881.
Va ricordato che nel 1874-75 seguirà dei corsi di fisica del grande Josef Stefan (1835-1893), che fu
il tutore degli studi di dottorato di un altro famoso fisico, che è stato Ludwig Boltzmann (18441906), importante per tante questioni di fisica e per i suoi lavori sull’isteresi. Freud inizia a lavorare
con Ernst Wilhelm Ritter von Brücke (1819 – 1892) e poi con Theodor Meynert (1833-1892).
Von Brucke era a capo di una scuola di pensiero che si rifaceva alle idee di Hermann von
Helmholtz (1821-1894), che era medico e diede grandi contributi alla fisica. Egli fu il massimo
esponente nella fisica di una concezione meccanicistica della Natura in relazione ai problemi della
biologia, laddove si escludeva la peculiarità e l’esistenza di particolari nuovi tipi di forze, chiamate
forze vitali, perché ci si riproponeva da una parte di ridurre la biologia alla chimica e dall’altra la
63
chimica alla fisica. Si seguiva un programma riduzionistico, con un fondamento dato dalla fisica per
dare una coerenza globale alla concezione meccanicistica in cui doveva rientrare anche la biologia
come scienza della vita. Tutto è spiegabile in termini di fondamento della meccanica. Quindi, la
formazione di Freud è strettamente legata ad una prospettiva meccanicistica allargata. In questa
concezione meccanicistica si fa rientrare anche la questione della psiche, perché ciò che è psichico
deve essere ricondotto a ciò che è fisiologico e, a sua volta, ciò che è fisiologico e biologico a ciò
che è chimico e fisico. Si trattava di un programma, quindi, di completamento del meccanicismo: il
Progetto di una Psicologia, un testo che apparirà nel 1895, è un progetto di carattere riduzionistico.
Freud, da una parte, critica il fondamento della scienza, affermando che questo fondamento è stato
ritrovato in un soggetto astratto, il soggetto cartesiano, divenuto poi il soggetto di Kant. Il soggetto
di Kant, che è un soggetto trascendentale, è un’astrazione pensante. Dall’altra, però, poi tenta di
modellare la stessa psicoanalisi sulle altre scienze, non tenendo conto di quali possono essere i
presupposti inconsci che hanno dato struttura a una certa scienza. Questo discorso è comunque
legato al tentativo di superare una considerazione del soggetto di conoscenza che si era imposta
nella tradizione filosofica a partire da Cartesio e da Kant che presentava il soggetto come una
sostanza pensante, per recuperare così le istanze del corpo seguendo le orme di Feuerbach,
Schopenhauer e Nietzsche.
Contro questo soggetto filosofico trascendentale, che escludeva completamente dalla teoria della
conoscenza la psicologia perché non aveva nessuna parte nella costruzione del sapere, Freud
opponeva l’effettiva struttura psicologica del cosiddetto “io empirico”, delineando in generale un
progetto di psicologia scientifica. Psicologia scientifica a cui era legata questa scuola e quella di
Gustav Theodor Fechner (1801-1887), che scrisse nel 1860 gli Elemente der Psychophysik,
(Elementi di psicofisica), in cui si riusciva a precisare sperimentalmente e matematicamente la
soglia della percezione cosciente e quindi a evidenziare il sottostante regno dell’inconscio: perché
l'intensità di una sensazione S cresca in progressione aritmetica, l’intensità dello stimolo I deve
accrescersi, in proporzione, logaritmicamente, ovvero, in formule, S = cost. ln I (tutti i valori
64
dell’intensità di stimolo fra 1 e 0 corrispondono a un’intensità di sensazione fra 0 e meno infinito,
cioè di una sensazione negativa, non cosciente).
Nel 1885 Freud ottenne la libera docenza, che è un titolo che permetteva di avere un insegnamento
universitario e pure una borsa di studio che lo portò a lavorare a Parigi presso Jean-Martin Charcot
(1825-1893), all’Istituto della Salpêtrière. Nel 1886 Freud si sposò e aprì una specie di studio
privato per la cura di malattie nervose. Incontrò Joseph Breuer (1842-1925), con cui firmerà i primi
lavori sull’isteria. Breuer usava il metodo dell’ipnosi e le sue analisi si incentravano sui sintomi
dell’isteria che sarebbero state le tracce di un “ingorgo” affettivo.
Gli Studi sull’isteria, scritti con Breuer nel 1895, mostrano un legame con questa precedente
formazione di stampo meccanicistico e di riduzionismo fisico, perché si comprende che quello che
vogliono portare avanti è una sorta di fisica dell’anima. Tutta la terminologia è ripresa in gran parte
dalla fisica come per esempio il principio di conservazione dell’energia che era stato esplicitato nel
1847 da Hermann von Helmholtz all’interno di una prospettiva meccanicista della Natura e della
vita, anche se aveva delle radici anti-meccanicistiche nel pensiero di Leibniz.
Come c’è energia elettromagnetica che si può convertire in energia chimica, o energia meccanica
che si può convertire in calore, si può considerare la psiche come insieme di pulsioni biologiche e
come quella forma di energia che è responsabile delle attività di un essere vivente come l’essere
umano, in modo tale che possano avvenire dei processi di conversione per quanto riguarda l’energia
psichica. Questo “ingorgo affettivo”, che veniva ad essere indicato dal sintomo isterico,
corrispondeva ad una trasformazione dell’energia psichica in parte per la produzione del sintomo
che consiste in una sua somatizzazione, ovvero in un accumulo di energia psichica in una
particolare zona del corpo. I sintomi isterici vengono ad assumere delle caratteristiche particolari:
possono essere identici ai sintomi di un’altra qualsiasi malattia organica/fisica. Si comprende quindi
perché i vari critici e storici della psicoanalisi vedono nello studio dell’isteria il momento cruciale
per la nascita della psicoanalisi, perché l’isteria è proprio quel tipo di malattia, che simula tutti i tipi
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possibili di malattie mettendo in scacco il sapere medico e di cui non si riesce a trovare un’eziologia
organica.
Nonostante la riduzione della psiche a istanze fisico-biologiche, quindi, bisogna andare oltre il
sapere medico, tenere conto di un’eziologia psichica di queste malattie e creare un nuovo sapere
psico-analitico che appunto si confronti direttamente con la psiche. Freud e Breuer parlano di una
cura con un metodo catartico: si tratta di avviare un processo che coinvolge il paziente in una
purificazione che fa superare l’isteria.
L’accumulo di energia del sintomo isterico viene risolto catarticamente tramite il processo di
“abreazione”, ovvero di una sorta di “scarica emozionale”, indotta da alcune tecniche, come
originariamente l’ipnosi poi abbandonata per la “libera associazione d’immagini” e per
l’interpretazione dei sogni, che conducono a riconsiderare e a rivivere oltre il ricordo una situazione
patogena, e al riemergere alla coscienza esperienze, desideri e pensieri inconsci che erano stati
rimossi nel passato, perché non potevano essere accettati consapevolmente dal soggetto soprattutto
per problemi morali, liberandone l’emozione connessa. La metafora della scarica è più legata a
fenomeni di energia elettrica/magnetica, che agli occhi di Freud sono ancora governati dalla
meccanica, e quindi possono essere interpretati in una prospettiva meccanicistica.
L’interpretazione freudiana dell’isteria è legata all’interpretazione del trauma passato che l’ha
generata: l’eziologia proposta fa riferimento ad un’origine di carattere sessuale. L’etimologia del
termine stesso di isteria, che deriva dalla parola greca che indica l’utero, mostra che l’isteria veniva
considerata come una malattia tipicamente femminile. Determinante per l’eziologia sessuale fu il
caso di Anna O., in realtà Bertha Pappenheim (1859– 1936), in cui la sfera sessuale era del tutto
repressa a livello della coscienza. Il particolare rapporto terapeutico che si creò fra Anna e Breuer
innestò in Anna una “passione da transfert”, fenomeno poi generalizzato e usato in terapia, in
quanto permetteva di riprodurre un vissuto precedente, in cui un certo affetto, di carattere sessuale,
bloccato, viene a essere sbloccato essendo trasferito in un nuovo oggetto che è l’analista. Breuer,
coinvolto in questo fenomeno di transfert, non riuscì a sostenere la situazione e lasciò il caso a
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Freud. Questa interpretazione dell’isteria richiede che si ammetta l’esistenza nascosta di
un’attrazione o di un desiderio sessuale, rimosso e non manifesto, inconscio al soggetto umano. Si
potrà parlare quindi di una sfera della psiche che costituisce il cosiddetto “inconscio personale”, che
contiene tutta una serie di vissuti rimossi. L’inconscio personale è tale perchè è caratteristico del
particolare individuo e dei suoi particolari desideri rimossi.
Questa prospettiva porta ad una fondazione empirica dell’inconscio, che si manifesta non
banalmente nei movimenti automatici del proprio corpo come in Schopenhauer ma in un malessere
psichico che si rivela ad un’analista esterno, fra l’altro in una resistenza ad essere riportato alla
coscienza. C’è una resistenza a riemergere di ciò che è rimosso. Questa idea di resistenza viene
anche elaborata metaforicamente con tutta una serie di riferimenti precisi ai fenomeni di resistenza e
di inerzia tipici della fisica. L’inerzia alla variazione del moto fisico diventa una resistenza e una
inerzia alla variazione di particolari moti psichici che facciano riemergere queste parti della psiche
alla coscienza. Oppure altri tipi di concetti della fisica e, in effetti, quello che diventa
paradigmatico, come modello della psiche, è una sorta di concezione di dinamica dei fluidi, in cui ci
sono complessi fenomeni di resistenza al moto.
Bisogna ricordare che anche la teorizzazione dell’anima legata a un certo tipo di precedente
concezione romantica, e, in particolare, del mesmerismo, cioè delle idee di Franz Anton Mesmer
(1734-1815), era quella dell’anima come un fluido nervoso o un fluido elettrico o fluido magnetico.
Si parlava di una elettricità animale, come per Luigi Galvani (1737-1798), oppure di un magnetismo
animale, come per Mesmer, e appunto le malattie nervose erano considerate come un cattivo
funzionamento del fluido elettrico o del fluido magnetico.
Queste idee nascevano in alternativa al meccanicismo perché si trovava nell’elettricità e nel
magnetismo delle forze particolari che non erano riducibili ad una visione meccanicistica della vita,
per cui l’anima stessa veniva ad essere identificata come una sorta di elettricità o magnetismo.
Questa storia finì con la risposta a Galvani da parte di Alessandro Volta (1745-1827), che dimostrò
che non esisteva una specifica elettricità animale, come era stata postulata da Galvani: i fenomeni,
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che Galvani riscontrava, succedevano anche in assenza degli animali. Questa sperimentazione di
Volta sembrava poter spiegare la vita con le sole forze considerate in fisica: in particolare, con la
produzione della prima macchina elettrica, la pila, nel 1799, l’elettricità sembrava governabile a
livello di una macchina che la poteva produrre e controllare, e quindi e non era qualcosa di specifico
del vivente. La risposta romantica venne data da un giovane fisico, Johann Wilhelm Ritter (17761810): non c’è una particolare elettricità della vita che si differenzi dalla elettricità che esiste nel
mondo inorganico, ma questo non significa che la natura sia spiegabile in termini meccanicistici,
anzi; la presenza ovunque della stessa elettricità implica che la vita è presente a tutti i livelli della
natura. Quindi, l’elettricità è il segno di una Natura, che deve essere compresa come un organismo
vivente e animato.
Freud è però lontano da questa prospettiva: si rifà agli studi meccanicisti di Helmholtz. La
resistenza psichica produce sostanzialmente una sorta di dissipazione di energia, e questo fenomeno
di dissipazione di energia psichica è ancora una volta trattato a partire da una metafora fisica, in
particolare di carattere termodinamico, in cui energia disponibile per il cosiddetto lavoro
meccanico, sostanzialmente per i cosiddetti fenomeni di resistenza o di attrito, viene sempre
dissipata in calore, cioè un’energia caoticamente distribuita all’interno del sistema e che non è più
utilizzabile per l’essere umano. Così, l’energia psichica si dissipa producendo un disordine psichico,
come un effetto della malattia, ovvero di questa resistenza a riemergere della parte rimossa. C’è
sempre una parte dell’energia psichica che si dissipa, anche se la conservazione dell’energia vale
sempre secondo il principio di conservazione della termodinamica; tuttavia, una parte dell’energia
risulta disordinata, inutilizzabile in un lavoro utile dell’essere umano. E questo è legato al secondo
principio della termodinamica.
Freud immagina che ci sia una causa patogena della malattia che possa agire non solo a livello
indiretto, ma a livello diretto sulla psiche, pur essendo situata in un passato remoto della vita
dell’individuo, qualcosa che è accaduto in un periodo lontano. Tutto questo comporta una nuova
considerazione anche del principio di causalità, che era un principio fondamentale della spiegazione
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scientifica già a partire dalle modellizzazioni della scienza aristotelica: spiegare, in qualche modo,
significa rintracciare le cause di un evento.
Tuttavia, la scienza moderna, dal punto di vista della visione meccanicistica, aveva pensato e aveva
caratterizzato le cause agenti di un certo tipo di evoluzione come riducibili a delle cause
immediatamente vicine nello spazio e nel tempo. Per esempio, non rientravano nella visione
meccanicistica le forze di gravità interpretate come in origine da Newton, che agivano a distanza
nello spazio. Il meccanicismo spiega tutto attraverso un’azione per contatto, quindi in una vicinanza
spazio-temporale, attraverso urti e pressioni; così, non sono immaginate come possibili cause
dell’evoluzione di un sistema fisico delle cause remote nel tempo. Ne consegue che si può
ricostruire l’evoluzione di un certo sistema fisico nello stato presente a partire dalla sola conoscenza
dello stato di questo sistema in un particolare iniziale, senza conoscere tutta la storia che vi è fra
l’istante considerato come iniziale e l’istante presente (ogni stato è determinato, in una catena
causale continua, solo da quello immediatamente precedente).
Quindi, si tratta di modificare il concetto di causalità che un certo tipo di scienza aveva proposto e
infatti Freud e Breuer negli Studi sull’isteria nel 1895 scrivono: “Noi dobbiamo capovolgere
l’affermazione secondo la quale al cessare della causa cessa l’effetto” (e lo scrivono in latino:
“Cessante causa cessa effectus”). Le osservazioni sui pazienti mostrerebbero che i processi causali
continuano a operare in qualche modo per molti anni, non indirettamente attraverso una catena di
anelli causali intermedi, ma come una causa diretta e originante. Un fatto proprio e indubitabile,
come una sofferenza psichica che capita in uno stato di coscienza vigile che genera una secrezione
di lacrime, ancora un tempo abbastanza lungo dopo che effettivamente è accaduto, per esempio, un
evento luttuoso. Persone ammalate di isteria soffrono per i ricordi, per l’esistenza di una memoria
che può rendere di nuovo vivo un dolore dopo molto tempo che si è provato: quindi, l’idea di Freud
è quella che bisogna allargare il principio di causalità a una nuova formulazione, in cui si tenga
conto che l’effetto non cessa nel momento in cui la causa cessa. Bisogna riformulare un “principio
di causalità storica”, in cui degli eventi anche psichici, anche lontani nel tempo, possono essere
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ancora delle cause attive, di qualche cosa che succede ora e che si manifesta in un particolare
sintomo. E da questo punto di vista è fondamentale la memoria perché è attraverso la memoria che
questi eventi psichici lontani possono ancora essere presenti e cause originanti malesseri. Nel caso
patologico si tratta perlopiù di una memoria inconscia.
Questo tema, in effetti, sarà abbastanza ricorrente, come fa presente lo stesso Freud: questo tipo di
relazioni causali erano state sempre oggetto di trattazioni letterarie se non appunto di un’indagine
scientifica.
E perché è interessante questa idea di causalità storica? Come fa Freud ad introdurre questo nuovo
principio di causalità per comprendere l’isteria? E’ un frutto completamente originale e nuovo di
questa nuova forma di sapere, per cui si sconvolge il precedente principio di causalità, oppure Freud
aveva un modello che gli permetteva di comprendere questo processo in termini causali nuovi, in
termini di questa causalità storica in cui tutto dipende dal passato?
Chi legge queste frasi e ha una formazione da fisico riconosce subito che questa idea era stata
proposta negli studi tra il 1869 e il 1874 da Ludwig Boltzmann e quel lavoro era stato seguito da
Josef Stefan, il quale era stato un insegnante di fisica di Freud nel 1874-75 a Vienna: non si può
trattare di una coincidenza. I fenomeni di cui si era occupato Boltzmann e che lo avevano portato a
una revisione del concetto di causalità, erano quei fenomeno chiamati di “isteresi elastica”. Allora.
questa sembra più che una coincidenza casuale, perché c’è anche un termine che dal punto di vista
etimologico è strettamente legato all’isteria, e, quindi, si può affermare che questi nuovi studi
dell’isteresi in campo fisico conducano a un nuovo principio di causalità storica, chiamiamola così,
che saranno ripresi da Freud per comprendere il fenomeno di isteria. Ma che legame c’è fra questi
due tipi di fenomenologia? Il legame è evidente qualora si ricordi che questo tipo di fenomeni di
isteresi non sono comprensibili all’interno della visione meccanicistica dominante, in cui non si
tiene conto di tutta la storia particolare del sistema fisico che viene ad essere considerato come
oggetto di studio. Cosa significa l’isteresi elastica? Praticamente se si sottopone a una certa forza di
trazione un certo filo, la risposta elastica di questo filo non è uguale in tutti i casi e per tutti i fili che
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noi andiamo a provare; piuttosto, la risposta è differente a seconda della storia di questi fili o di
questi materiali (può trattarsi di sbarre, di ferri, di qualsiasi oggetto fisico che venga sottoposto a
trazione, che tende ad un’estensione), dal fatto che, per esempio, siano già stati sottoposti ad altri
processi di trazione. Allora l’oggetto tornerà elasticamente alle sue dimensioni originarie,
precedenti l’azione di una forza di trazione, ma in dipendenza della storia e degli eventi che hanno
precedentemente subito. Se, per esempio, è stato tirato tante volte, magari questo filo si spezzerà
perché mantiene una traccia, una memoria degli eventi che ha caratterizzato la storia individuale di
quel filo, mentre un filo appena prodotto, che non è mai stato trattato, lo si potrà estendere e tirare
tante volte senza che questo si spezzi come l’altro.
L’analogia fra isteresi ed isteria è in un certo senso perfetta. Ed era questo un tipo di problematica
nuova all’interno della fisica, perché faceva vedere che gli stessi sistemi fisici sono capaci di
memoria. Invece, a livello filosofico puro, la memoria era stata sempre considerata come ciò che
differenziava lo spirito dalla materia passiva e inerte, che solitamente non presentava questi
fenomeni di memoria e che si comportava alla stessa maniera, senza differenze di sorta che
dipendessero dalla storia di questa materia. Solo Leibniz aveva sfidato questa prospettiva dualistica,
e poi Henri Bergson (1859-1941).
Mentre in fisica cade questo presupposto del comportamento universale di tutta una serie di oggetti
formalmente identici e bisogna tener conto della storia individuale di ognuno di questi oggetti, e
quindi bisogna ripensare completamente alla materia e allontanarsi da una visione meccanicistica
che riduceva la materia a una realtà inerte e passiva, senza memoria, al contrario, con un
movimento opposto, in questo tentativo di rispiegare lo spirito, la realtà dell’anima in termini
biologici, in termini riduzionisti, in termini meccanicisti, ci si ritrova a vedere questo problema da
un altro punto di vista. Cioè, lo stesso problema, che mette in crisi il meccanicismo da una parte, è
ciò che permette a Freud di trattare l’anima in termini meccanicisti allargati, perché ormai anche la
fisica ha a che fare con problemi di memoria.
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Tutto questo è legato anche a ciò che caratterizza la differenza fra le cosiddette scienze dello spirito
e le scienze della Natura. Mentre le scienze dello spirito, secondo Wilhelm Windelband (18481915), sarebbero idiografiche, cioè sono scienze sempre dell’evento individuale, come la storia, per
esempio, in cui non possono darsi generalizzazioni, al contrario le scienze naturali sarebbero
scienze nomotetiche, in cui gli eventi individuali sono sussunti in delle leggi universali esplicative.
Qui, invece, questa differenziazione in qualche modo si dissolve, perché le stesse scienze naturali,
come la stessa fisica, non si presentano più come scienze nomotetiche, capaci di generalizzazioni
universali, perché per comprendere l’evoluzione del comportamento elastico di un filo, non si
possono mettere tutti i fili sullo stesso piano e formulare una legge universale che valga per tutti
allo stesso modo, ma devo tener conto della storia individuale di tutti gli eventi che hanno
caratterizzato l’esistenza di quel particolare oggetto. E quindi, la scienza fisica si trasforma in una
scienza idiografica. D’altra parte, invece, anche la psicologia clinica post-freudiana, in qualche
modo, sembrerebbe ancora tendere ad essere una scienza nomotetica, riconducendola a un modello
di scienza che non è più valido almeno da più di cento anni, nemmeno per la stessa scienza della
Natura. Questo problema dell’isteresi e dell’isteria mostra come questi fenomeni al confine tra
comportamento fisico e materiale e comportamento di un sistema psichico sono stati interpretati da
prospettive diverse, o a favore di una visione meccanicistica allargata o a favore di una visione che
superi il meccanicismo. La visione è comunque maschilista ed è presente nel pensiero di Freud e nel
pensiero fisico, perché questa caratteristica dell’isteresi nella Natura era un modo per caratterizzare
la Natura come una sorta di donna isterica, che presenta un comportamento difficilmente
controllabile, prevedibile, capriccioso, sfuggente, ingannatore come sono i sintomi isterici in
relazione alla realtà che sta dietro a loro.
Intanto, subito c’è un primo allontanamento di Freud dal metodo ipnotico di Breuer, perché non
viene più considerato un metodo sufficiente a risolvere l’isteria. L’ipnosi non è più sufficiente
perché si basa su una passività, cioè dall’esterno l’analista interviene sul paziente che rimane
inattivo; invece, ci vuole una partecipazione, un coinvolgimento del paziente in un processo che
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permetta di liberare le parti rimosse di sé. Il cambiamento di procedura produce una differenza
rispetto a quanto solitamente caratterizzava la clinica medica. Quindi, il metodo clinico della
psicoanalisi, che poi diventerà anche il metodo clinico della psicologia clinica, ovviamente poi
modificato, si distanzia dal metodo clinico che si era affermato in medicina, dove si trattava
soprattutto di un problema di sguardo clinico, in cui c’era la visione del malato o della parte malata.
Soprattutto in relazione a quel compimento del metodo clinico che verrà chiamato anche metodo
anatomo-clinico, per cui nell’anatomia patologica si riesce in qualche modo a manifestare allo
sguardo, a rendere visibile effettivamente allo sguardo clinico, la parte malata anche laddove, al di
là della procedura anatomica non era comunque visibile. Allora, chiaramente, l’eziologia psichica di
una malattia come l’isteria non può essere basata soprattutto sullo sguardo clinico. A parte il
metodo del transfert, che ha un ruolo fondamentale sul processo di guarigione, invece, il nuovo
rapporto tra medico e paziente nell’analisi si baserà soprattutto sulla parola e sull’ascolto, laddove il
medico si mette in posizione di ascolto quasi passivo mentre il paziente viene lasciato libero di
associare in maniera casuale tutta una serie di idee e di immagini che gli tornano alla coscienza.
Questo prende il nome di metodo delle libere associazioni mentali, complementare a
L’Interpretazione dei sogni (pubblicata il 4 Novembre 1899, ma con data 1900), che diventa la via
regia all’inconscio nella pratica terapeutica.
L’altra cosa che va sottolineata è che Freud parla anche di contenuti collettivi, non solo personali,
che sono in qualche modo espressi secondo una simbologia che non è prettamente individuale,
personale, di cui gli stessi individui non sono consapevoli non solo per il fatto della rimozione
inconscia, ma anche perché è qualcosa che ha un carattere extra-individuale.
E tutto questo ovviamente si riconnette a un certo tipo di patrimonio anche letterario dell’umanità,
in particolare, al mito, al folklore, alle fiabe. Su questi contenuti di tipo collettivo, Jung si sforzerà
di fare una ricognizione la più vasta possibile e su tutta la simbologia implicata nel sogno, ma ciò
non interesserà particolarmente Freud, che, quindi, trascurerà il problema dell’interpretazione dei
simboli.
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I contenuti rimossi hanno per Freud soprattutto carattere sessuale. C’è una prima idea di Freud
dell’eziologia sessuale delle patologie psichiche, che sarà poi sconfessata e riconosciuta come un
errore e che va sotto il nome della teoria della seduzione. Cioè, Freud credeva che un processo di
seduzione reale, per cui vengono a subire dei traumi di carattere sessuale, caratterizzerebbe
l’esperienza infantile di pazienti che manifestano questo tipo di sintomatologie, questo tipo di
malattie. E questa è la prima caratterizzazione di questa eziologia sessuale in un senso concreto.
Dopo, si riconosce che queste memorie inconsce, che solo a volte possono essere legate a dei fatti
realmente accaduti, sono perlopiù legate a delle fantasie, che hanno un'origine su un piano collettivo
e arcaico della storia dell'umanità: l'interpretazione che Freud, già da Totem e tabu del 1912-13, dà
del complesso d’Edipo, come qualcosa che condiziona i rapporti, di ogni bambino maschio fra i tre
e i cinque anni, di amore con la madre e di rivalità-odio con il padre, lo riconduce non più a un
evento accaduto al livello ontogenetico di sviluppo di ogni bambino, ma ad un evento che riteneva
accaduto al livello filogenetico della preistoria dell'umanità, in cui lo sviluppo ontogenetico dei
primi figli si è esplicato, per il possesso della madre e delle donne del padre, con un parricidio e con
un atto di cannibalismo del corpo del padre. L’uccisione e la fagocitazione di questo padre primitivo
costituirebbe un contenuto rimosso collettivo ancora fonte di problemi psichici per ogni uomo
contemporaneo: con questa prospettiva, Freud iniziava già a contrapporsi a quella di Jung (che nel
caso specifico intepretava simbolicamente l’uccisione dell’animale con l’uccisione dell’animalità
nell’essere umano, della sua libido, eventualmente ripetuta a livello ontogenetico al tempo presente
del malessere psichico del paziente), nel concepire un inconscio collettivo non già fatto di neutri
archetipi dell’immaginario, ma di contenuti rimossi sessuali traumatici di origine filogenetica, e
non di pure forme innate eterne ma di qualcosa prodotto da un originario primitivo sviluppo
ontogenetico.
Freud collega alcuni casi clinici individuali ad una forma universale della tragedia classica che si
mostra nell’opera di Edipo. Si collega ad un patrimonio non individuale ma collettivo. Dietro la
tragedia c’è il mito di Edipo. Questo vissuto del complesso di Edipo potrebbe quindi essere
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chiamato un archetipo, una terminologia che userà Jung. In che senso un archetipo? L’Edipo
costituisce una forma categoriale dell’esperienza psichica, una sorta di forma a-priori, e qui si
introduce un altro elemento di confronto attraverso il quale comprendere in maniera più profonda
anche lo stesso pensiero da una parte di Freud e dall’altra di Jung poi, il confronto con Kant.
Costruisce un archetipo, una forma a-priori, una condizione, una possibilità di certe esperienze
psichiche individuali di tipo patologico, nel caso di Freud. Le patologie dei vissuti individuali
vengono a ricevere una strutturazione da una forma universale, da questo archetipo, che costituisce
il nucleo di un certo tipo di patologia, che è caratteristico dei traumi sessuali concreti, reali o
immaginari, che si strutturano secondo questo archetipo dell’Edipo di Freud.
È come se anche Freud riconoscesse, a livello della parte rimossa della psiche, qualche cosa che non
è propriamente personale, individuale. Quindi Jung, l’idea dell’inconscio collettivo, non l’ha
inventata completamente da altri autori, ma gli deriverà anche da queste prime riflessioni e
elaborazioni di Freud. Si deve pensare all’Edipo come ad una parte rimossa non a livello
individuale, ma a livello della storia dell’umanità. C’è quindi un’esperienza traumatica collettiva
che struttura le esperienze traumatiche indivuali. Questa strutturazione sia per Freud che per Jung è
pensata nei termini stessi in cui la filosofia kantiana vedeva il rapporto tra le esperienze materiali, i
vissuti degli individui empirici e una forma che caratterizza il soggetto umano a livello universale,
che Kant chiamava “io trascendentale” che dà una forma, che struttura quelle esperienze a livello
individuale. C’è una reinterpretazione della concezione kantiana, in cui ciò che per Kant
rappresentava l’a-priori della sensibilità (e quindi della conoscenza), che secondo Kant erano lo
spazio e il tempo - cioè non si può conoscere la realtà se non attraverso queste forme con cui noi,
come soggetti, esperiamo la realtà e che in qualche modo sovrapponiamo al materiale delle nostre
esperienze. Quindi, gli esseri umani inquadrano tutte le conoscenze in queste forme che sono apriori dell’esperienza, che sono costitutivi del soggetto. Dal punto di vista freudiano, invece, questo
a-priori rispetto all’esperienza individuale, non caratterizza un soggetto cosciente, ma rappresenta
l’inconscio, cioè un a-priori inconscio che struttura i vissuti delle esperienze consce. Quello che
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Kant aveva pensato come qualche cosa di trascendentale di un soggetto cosciente, è invece
ripensato in termini di un inconscio. C’è di più: laddove Kant effettuava una critica del sapere, della
conoscenza, volendo, cioè, evidenziare delle condizioni di possibilità dell’esperienza, della
conoscenza che fanno parte del soggetto che conosce e non volendo ricadere in quelle fallacie degli
empiristi che pensavano che tutto dipendesse dalla realtà esterna a noi. Secondo Kant, non si
conosce la realtà in modo oggettivo e indipendente da noi, ma si conosce secondo le categorie del
soggetto e queste sono universali (non sono legate al singolo individuo empirico). Quando si
conosce qualcosa non c’è un’astratta oggettività del mondo, ma c’è il nostro modo di comprenderlo,
secondo delle forme che sono caratteristiche del soggetto. Questa cosa è vista in modo
filosoficamente astratto, secondo il concetto dell’io trascendentale, pensato come un soggetto di
pura sostanza pensante. Quindi Kant opera una critica del sapere puramente oggettivistico, perché
evidenzia ciò che invece appartiene al soggetto, il modo di conoscere del soggetto e non il modo di
essere della realtà.
Si potrebbe dire che a una critica del sapere in senso kantiano, Freud sostituisce una clinica del
sapere, cioè va a indagare quali sono i presupposti soggettivi del nostro modo di vivere certe
esperienze e interpretarle e riconoscerle, mettendo in evidenza che questo nostro modo di esperire
ha delle caratteristiche anche patologiche e non può costituire un sapere, ma mostra soltanto un
processo di razionalizzazione e di mascheramento di una sfera inconscia. Queste caratteristiche,
queste forme a-priori, sono forme di una struttura patologica del soggetto, che può avere inscritti in
sé dei traumi sessuali di carattere universale. Come quelli che Freud individua nella eziologia
sessuale dell’isteria, quando si rende conto che non c’è questo trauma sessuale al livello individuale.
C’è quindi qualche cosa di inconscio, che è a-priori rispetto alla coscienza, ed è a-priori anche in
quanto non fa parte di un inconscio di tipo individuale, ma di un inconscio di tipo collettivo, anche
se Freud non userà mai questo termine. Questo inconscio è di natura collettiva e quindi archetipica.
L’altra differenza rispetto alle categorie kantiane è che non si tratta semplicemente di categorie
intellettuali della conoscenza, ma sono delle categorie non di una sostanza pura pensante, sono delle
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categorie corporali, che hanno una dimensione affettivo–emozionale, affettivo in senso lato e
sessuale. Quindi, tutte queste categorie condizionano la nostra esperienza. Queste categorie con le
quali esperiamo la realtà non sono intellettuali o meramente percettive come lo spazio e il tempo di
Kant, ma hanno un carattere sessuale.
Emerge anche qui la differenza tra Freud e Jung, perché laddove Freud concepisce questo aspetto
collettivo dell’inconscio sempre come qualche cosa di rimosso, di patogeno e patologico, cioè un
inconscio traumatizzato, Jung opera anche una generalizzazione di questa idea di Freud di inconscio
“collettivo”, ad una vita sana e normale. Ci sono degli archetipi che per Jung costituiscono questa
parte collettiva dell’inconscio che non sono solo di tipo patologico, ma che strutturano tutta la vita
psichica in generale. C’è quindi per Jung un inconscio collettivo, che non è costituito solamente dal
rimosso, ma dagli archetipi che non sono solo tragici o patologici, ma di varia natura: in particolare,
per Jung non di una natura puramente sessuale, che corrisponde ad aspetti di alcune patologie.
Kant faceva una specie di critica della psicologia, la quale non poteva costituire un tipo di scienza,
di conoscenza certa, fondata, come la geometria o la fisica, perché ha a che fare con un tipo di
“oggetto”, la psiche (o anima) che per certi versi è simile, da un punto di vista conoscitivo, a un
oggetto del pensiero come Dio. Si trattava di qualcosa, che non è direttamente visibile, o di cui noi
non abbiamo un’intuizione o un’esperienza diretta. Nel momento in cui non si ha una intuizione
diretta di un particolare oggetto d’indagine, non possiamo avere una conoscenza certa, che fa parte
di quella possibilità di fondazione trascendentale del sapere che Kant discute nella critica della
ragion pura. Tutte queste questioni vanno invece risolte o al livello della ragione pratica che deve
orientare eticamente o di ciò che costituisce il tema della critica del giudizio. L’idea che Kant
propone presenta due fasi diverse, con soluzioni diverse rispetto ai casi in cui non si può avere
questa intuizione diretta, esperienza diretta, una conoscenza assoluta. Nella Critica del Giudizio,
Kant parla della teologia, dell’arte, della psicologia, della scienza dei viventi. In questi casi, dove
non c’è un’intuizione diretta, si deve usare o il simbolismo o delle analogie, per riuscire a
comprendere la realtà; quindi, non ci si può riferire a delle forme a-priori della conoscenza, ma
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bisogna usare quelle caratteristiche della retorica, del linguaggio, che ci permettono di trattare quei
casi di cui non si ha esperienza diretta, riferendosi ad un modello e per analogia ad altri casi di cui
abbiamo esperienza e conoscenza diretta. Qui, assumono appunto importanza le analogie, le
metafore, il simbolismo.
Dopo questa prima soluzione che Kant adotta nella Critica del Giudizio, c’è poi una soluzione
differente, che Kant porta avanti nelle opere che elabora nell’ultima parte della propria vita e che
sono state pubblicate nell’Opera Postuma. In particolare, Kant tratta del problema della fisica come
scienza particolare, perché si rende conto che quella soluzione che aveva dato per fondare la fisica
come conoscenza assoluta e certa, riferendosi alla fisica di Newton, categorizzando lo spazio e il
tempo, come propri modi del soggetto di indagare a-priori la realtà fisica, questo modo che aveva
presentato nella Critica della ragion pura, non funziona, non può riuscire a fondare in maniera
assoluta tutte quelle esperienze/conoscenze empiriche della fisica come scienza di particolari
fenomeni fisici. Poteva fondare la geometria, che per lui era una conoscenza sintetica, una struttura
fondamentale in cui inquadrare il pensiero fisico, ma non poteva giustificare come conoscenze
necessarie e assolute quelle della fisica. Allora, Kant introduce un’idea che prima aveva rifiutato e
che aveva addirittura dichiarato fallace nella Critica della ragione pura, in termini di “dialettica
trascendentale”, che aveva rifiutato come una pretesa illusoria di poter estendere l’uso dei concetti
al di là dei limiti dell’esperienza e dell’intuizione diretta. In questo senso, non si poteva avere una
fondazione della teologia, perché Dio non è oggetto di un’esperienza diretta, e così l’anima. Allora,
per fondare la scienza fisica, Kant nell’Opera Postuma introduce questi concetti, un analogo di
questi concetti nel caso della fisica: si tratta del concetto di etere. Che cos’è l’etere? Qualcosa che
ora Kant introduce come un trascendentale immateriale/materiale oggettivo: l’etere quindi è una
realtà fisica, “immateriale/materiale” e oggettiva, anche se l’etere ha delle particolarità rispetto alla
materia, che lo rendono un concetto a-priori senza il quale non possiamo descrivere i fenomeni
fisici. Significa cioè che ci sono delle realtà che svolgono lo stesso ruolo delle categorie del
soggetto: come le forme dello spazio e del tempo erano delle categorie del soggetto, senza le quali
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noi non possiamo pensare la realtà, esistono degli analoghi non soggettivi ma materiali, come può
essere l’etere, che infatti non ha niente a che fare con il soggetto, che è una realtà
immateriale/materiale oggettiva che si pone come trascendentale, cioè come condizione di
possibilità di comprensione del mondo. Non possiamo comprendere il mondo e la Natura se non a
partire da questa realtà dell’etere: quindi c’è qualcosa di trascendentale non solo a livello del
soggetto, ma anche a livello dell’oggetto.
Queste sono due soluzioni diverse con cui Kant può affrontare il caso di oggetti che non siano sotto
intuizione o esperienza diretta. L’etere non è sotto intuizione diretta: questa soluzione che Kant
adopera per l’etere nell’opera postuma, si può pensare che possa valere anche per Dio, per l’anima,
per tutti quei tipi di conoscenze che hanno a che fare con qualcosa che non è oggetto di intuizione
diretta. Apre dunque la possibilità di un nuovo sviluppo della conoscenza certa e assoluta che
prima, nelle sue opere, non aveva considerato. Quest’opera è correlata alla vicenda di Freud, perché
dobbiamo tenere conto che Helmholtz, esponente del meccanicismo è anche un esponente del
kantismo riveduto, secondo una certa prospettiva che è molto vicina a questa dell’opera postuma di
Kant. C’è quindi un collegamento indiretto attraverso Helmholtz e la formazione di Freud in
relazione al pensiero di Kant.
Da questo punto di vista, c’è la possibilità di concepire la psicologia come un tipo di conoscenza
certa, come in un primo momento Kant aveva pensato impossibile, e trovare in due modi diversi,
che però vengono a coincidere, la fondazione della psicologia. Il ruolo che l’etere svolge per la
fisica, per la psicologia lo svolge l’inconscio. Siccome l’inconscio non è qualche cosa che è legato
ad un’esperienza diretta, a un’intuizione diretta, a una visibilità diretta, poteva essere rifiutato.
In questa nuova prospettiva, invece, l’inconscio può essere considerato come la condizione di
possibilità di comprensione della vita psichica, un trascendentale psichico oggettivo, e quindi questa
nuova scienza dell’inconscio risolve il problema della psicologia come conoscenza. Esiste quindi
quest’aspetto addirittura non individuale del soggetto, ma universale e costituito ad esempio
dall’archetipo di Edipo, che determina la strutturazione di tutte le esperienze psichiche del singolo
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individuo pur non essendo di natura individuale. Questo inconscio, quindi, costituisce questa
condizione di possibilità di conoscenza della vita psichica, che può rappresentare anche un
trascendentale “immateriale/materiale” oggettivo, cosa maggiormente enfatizzata da Jung.
Qual è tutta la questione della riconsiderazione della problematica del soggetto da parte di Freud
rispetto a questa posizione filosofica? Si tratta di riscoprire l’aspetto corporale e biologico del
soggetto, che invece era stato escluso dalla filosofia cartesiana e kantiana, perché si postulava un
soggetto astratto, trascendentale: quindi, si tratta di ricondurre il soggetto ad una realtà biologica,
quindi in qualche modo anche ad un “oggetto”. Comprendere il soggetto come parte della Natura: è
questa l’idea di base di Freud, fare una fisica dell’anima; significa che l’anima è parte della Natura e
quindi ha un aspetto oggettivo, che invece è stato mascherato dalle filosofie precedenti che non
hanno preso in considerazione, cadendo in astrazioni. L’inconscio, effettivamente, in questa
prospettiva, lo possiamo vedere come legato a questo tentativo di fondazione di una conoscenza
certa del sapere psicanalitico in rapporto alle istanze kantiane. C’è in Freud anche questa tensione
con il kantismo: il superamento di questa posizione del kantismo per cui la psicologia non poteva
essere una conoscenza certa. Ma c’è di più, in quanto Kant aveva indicato come effettivamente noi
possiamo avere conoscenza di queste realtà di cui non abbiamo esperienza diretta: le possiamo
comprendere attraverso il simbolismo, le analogie, attraverso delle metafore. Come possiamo
comprendere la realtà psichica, l’inconscio dove non c’è esperienza diretta? Attraverso le metafore
e le analogie. Possiamo comprendere questa ricchezza di metafore fisiche, meccaniche,
termodinamiche, che caratterizzano la psicologia di Freud, come proprio necessarie alla
comprensione di qualche cosa di cui non abbiamo esperienza o intuizione diretta. Questo non è solo
qualcosa che dobbiamo comprendere in rapporto al meccanicismo, ma anche rispetto alla
problematica kantiana di una fondazione di una psicologia come conoscenza, per cui dobbiamo
usare un linguaggio metaforico e in qualche modo una prospettiva ermeneutica.
Un’altra prospettiva freudiana, che sarà rielaborata soprattutto da Lacan, è il tentativo di vedere
come si manifesta l’inconscio, attraverso quale linguaggio. E come si manifesta? Visto che non è
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oggetto di intuizione diretta si manifesta indirettamente. Freud individua questi luoghi di
manifestazione in una serie di margini del discorso, del linguaggio: lapsus, moti di spirito, etc., un
modo di esprimersi non volontario e attraverso espressioni indirette alle quali noi possiamo risalire
attraverso il procedimento dell’analisi. Anche attraverso la libera associazione delle immagini:
quindi in un linguaggio di immagini come quello del sogno dove le immagini si manifestano non
attraverso un linguaggio normale, verbale, ma attraverso un linguaggio di immagini che è primitivo
e connaturato alla struttura stessa psichica. Il primo modo di esprimersi simbolicamente
dell’umanità era attraverso ideogrammi, immagini, che adesso viene relegato ad una fase inconscia
e rimossa della nostra psiche, laddove invece è venuto a prevalere un linguaggio verbale, ordinato
non secondo immagini, ma secondo le convenzioni della scrittura alfabetica e fonetica lineare.
L’inconscio continuerebbe a parlare secondo questo linguaggio primordiale simbolico. Tutto questo
lo troviamo nel libro dell’Interpretazione dei sogni del 1899, dove Freud individua un certo modo
di connettersi delle immagini e di strutturarsi delle immagini, in particolare parla di censura di
immagini, e di due particolari modalità in cui le immagini vengono ad essere connesse che sono la
condensazione e lo spostamento. Questi sono dei particolari modi di connessione di immagini che
corrispondono a delle figure retoriche del linguaggio, anche se non sono identiche: perché, mentre
le figure retoriche che noi conosciamo si riferiscono al linguaggio verbale fonetico alfabetico
lineare convenzionale, qui si ha a che fare con un “linguaggio” di immagini e quindi li si chiama in
modo diverso: condensazione e spostamento. La condensazione corrisponde alla metafora, perché
procede per associazioni per analogia, mentre lo spostamento corrisponde alla metonimia, laddove
l’associazione di immagini non avviene per analogia ma per contiguità.
Non è solo la conoscenza psicologica, in senso cosciente, del sapere psicoanalitico che deve
procedere per metafore e da cui procede la conoscenza, cioè la psicoanalisi come il prodotto del
sapere di un soggetto cosciente, che procede per metafore perché il suo oggetto non è intuibile a
livello diretto, ma c’è la psicoanalisi anche come conoscenza prodotta non da un soggetto cosciente
ma dall’inconscio che si manifesta attraverso l’equivalente di metonimie e di metafore e che quindi
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produce una comprensione della nostra vita psichica attraverso queste “figure retoriche” del
linguaggio di immagini che sono la condensazione e lo spostamento, perché non può manifestarsi
direttamente. In questo senso c’è un ribaltamento rispetto alla posizione kantiana, perché c’è un
sapere che non deriva da un soggetto cosciente, ma deriva, con altre modalità, da qualche cosa di
inconscio concepibile anche in termini di un oggetto e non solo individuale.
Si delinea qui un nuovo tipo di sapere, nella maniera in cui lo stesso Freud lo presenterà in uno
scritto successivo del 1922, dove si dà una definizione di psicoanalisi e si parla di un procedimento
per l’indagine dei processi psichici inconsci altrimenti inaccessibili, e quindi poi si parla di un
metodo terapeutico per i disturbi nevrotici e poi come una serie di conoscenze che porta a una
nuova disciplina. Da un lato, la psicoanalisi tende a presentarsi come una disciplina scientifica:
l’aspetto terapeutico della psicologia viene visto come una pratica sperimentale e si parla di
psicologia sperimentale, e quindi si tratterebbe di una disciplina sperimentale che ha la sua
possibilità di verifica a partire dalla terapia nel momento in cui l’esito della terapia è un esito di
guarigione. L’esito di guarigione sarebbe la prova sperimentale della correttezza della teoria. Freud
inscriverebbe questo nuovo sapere insieme a tutte le altre scienze sperimentali della rivoluzione
scientifica, che ha portato come caratteristico della scienza moderna
il metodo sperimentale.
Questo, secondo me, è un modo puramente metaforico e anche fuorviante di esprimersi. C’è
differenza tra metodo clinico e metodo sperimentale, e anche Freud, in parte, si distaccherà da
tentativi di psicologia sperimentale; soprattutto perché ciò che caratterizza un esperimento non è il
fatto di guardare all’oggetto su cui si fa ricerca, si indaga, in condizioni particolari come quelle che
costituiscono nell’ambito fisico un laboratorio, al quale molto spesso viene collegato
analogicamente quello che viene chiamato il set psicoanalitico (nel senso in cui l’osservazione del
paziente non avviene nella vita reale, ma in una condizione particolare che si viene a stabilire nel
rapporto di analisi). La cosa che caratterizza invero un esperimento scientifico è che ci sia
l’intervento di uno strumento scientifico che possa essere garante di una oggettività di misure
effettuate attraverso questo strumento: ciò distingue l’esperimento dall’esperienza, perché ciò che
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caratterizza l’esperienza è l’arbitrarietà del soggetto umano rispetto alla cosiddetta universalità dello
strumento scientifico che può ridare sempre le stesse misure in ogni occasione in situazioni
identicamente preparate. Ora qui non ci può essere niente di tutto questo perché non si usano
strumenti scientifici in questo rapporto di analisi, ma tutto viene mediato attraverso la
rielaborazione che in questo set psicoanalitico l’analista fa di tutte le libere associazioni per
esempio di idee e di immagini del paziente secondo una propria particolare interpretazione. Quindi
il momento sperimentale manca: la caratteristica degli esperimenti è la ripetibilità e la
riproducibilità da parte di qualsiasi soggetto umano che sperimenti usando gli stessi strumenti
scientifici nelle stesse condizioni di preparazione. E questo non è assolutamente possibile nella
psicoanalisi. Non solo: l’oggetto d’indagine di un esperimento non può essere un soggetto vivente o
umano, perché le sue reazioni non possono essere univoche. Ci possono essere solo ricorrenze
statistiche di certi comportamenti: i processi psichici, seppure descrivibili in qualche modo con una
dinamica energetica, non sono predicibili e deterministici, seppure si possano stabilire aposteriori
delle relazioni causali fra cause ed effetti della malattia. Tutto questo non porta alla conclusione che
la psicoanalisi non sia una scienza, ma che è un particolare tipo di conoscenza, basata
sull’esperienza e sulla sua interpretazione, che si distacca e si differenzia sicuramente da quel tipo
di scienze naturali moderne che si basano sul metodo sperimentale. D’altra parte, nel Novecento,
sono intervenuti cambiamenti radicali nelle scienze sperimentali, nelle scienze fisiche che hanno
cambiato anche l’atteggiamento verso il metodo sperimentale: non ha senso riferire la psicoanalisi a
una scienza sperimentale settecentesca-ottocentesca, e Jung tenterà infatti di legare la sua psicologia
analitica alla fisica quantistica.
E comunque c’è sempre il riconoscimento, anche da parte dello stesso Freud, che l’inconscio può
essere conoscibile solo attraverso tutta una serie di sintomi, tutta una serie di particolarità dei
discorsi, i cosiddetti “lapsus”, i “motti di spirito”, da un’analisi particolare del linguaggio e delle
libere associazioni, dall’interpretazione dei sogni, cioè sempre in maniera indiretta, ma l’inconscio
in sé rimane sempre qualcosa di inconoscibile in quanto tale.
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Dall’altro lato, la psicoanalisi è una sorta di ermeneutica, un’ermeneutica dell’interiorità, della
psiche, dell’inconscio, che si differenzia però completamente da altre forme di ermeneutica: mentre
l’ermeneutica filosofica di Dilthey si ripropone l’autocomprensione storica della vita umana,
l’ermeneutica psicoanalitica si pone l’obiettivo di una comprensione dell’autofraintendimento
cosciente, individuale e storico, dell’essere umano. La psicoanalisi si presenta nella sua prassi
terapeutica una pratica ermeneutica dialogica, e si caratterizza come il tentativo non di scoprire una
verità intellettuale, ma di liberare una verità affettiva, emotiva, sessuale, una forza inconscia, in
qualche modo, bloccata e rimossa sotto razionalizzazioni: una verità dell’Eros che sottostà al logos.
Quindi, non si tratta di un puro processo di comprensione intellettuale della psiche, ma è un
processo che interviene secondo quella stessa metaforica di tipo fisico a cui Freud stesso si richiama
e che fa si che la psicoanalisi venga interpretata come una forma di lavoro. Lavoro non nel senso di
mestiere, di professione, ma lavoro in senso fisico, di energia, di trasformazione psichica di energia.
E quindi è su un altro piano che dobbiamo in qualche modo interpretare queste caratteristiche
specifiche del sapere psicoanalitico sviluppato da Freud.
I sogni sono interpretati da Freud come manifestazione in qualche modo di ciò che è rimosso, che è
nell’inconscio. Anche nel sogno sussistono associazioni di immagini organizzate in quattro
procedure. I sogni sono “messe in scena”, fondamentalmente realizzazioni immaginarie di un
desiderio inconscio rimosso. Il rifacimento visivo è una sorta di ri-traduzione di tutto ciò che fa
parte dell’esperienza anche conscia umana nei termini del “linguaggio” dell’inconscio, e quindi
delle immagini. La condensazione è un processo di compattazione di più elementi in un’immagine
unica o unitaria. Lo spostamento effettua una sorta di fuga dal contenuto rimosso a contenuti
emotivamente accettabili. Con l’ordinamento, poi, si ha a che fare con la problematica per cui il
sogno ci presenta delle cose che ci parlano dell’inconscio, ma già secondo un certo riordinamento,
allineamento.
Quindi, c’è una prima fase di elaborazione primaria, che è fatta dallo stesso sogno, per cui certe
cose particolari o potenzialmente patogene, o tanti problemi, vengono ripresentati con certe forme
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di immagini e non in altre, per cui c’è una certa censura. Il sogno non è mai una diretta
manifestazione dell’inconscio. E poi c’è una fase di elaborazione secondaria
che è data dal
racconto del sogno, dove viene riordinato secondo il nostro linguaggio verbale, in uno schema non
di immagini. Queste associazioni molteplici e in più direzioni vengono linearizzate in un racconto
sequenziale e così si perde qualcosa.
Tornando al problema dell’eziologia sessuale delle malattie psichiche, nevrosi e psicosi, si delinea
un’aporia, perché solitamente l’età a cui si riferiscono questi ricordi, reali o psichici che siano come
memoria di una preistoria, è un’età in cui la sessualità come era allora codificata, sostanzialmente
non sussisteva, nel senso in cui appunto si identificava la sessualità con la sessualità genitale adulta.
E l’età a cui si riferiscono questi ricordi è un’età in cui non è avvenuta una maturazione sessuale
degli organi genitali.
La soluzione che Freud propose, e che poi costituirà un’asse costante per la psicoanalisi, è che esista
una sessualità infantile, fino ad allora non considerata, e in un certo senso per Freud rimossa anche
dal punto di vista della cultura dominante. E questa sessualità infantile ha delle caratteristiche che
devono essere molto diverse dalla sessualità adulta, anche proprio per le caratteristiche organiche di
quella fase di vita. In una serie di Tre saggi sulla teoria sessuale del 1905, Freud caratterizza questa
sessualità infantile. Una delle prime caratteristiche è quella che vede questa sessualità infantile in
termini di qualche cosa di “non generativo”: solitamente la sessualità genitale era sempre presentata
come qualcosa di legata alla procreazione; qui invece questa sessualità non è generativa e in
qualche modo è autonoma e legata al piacere puro e non legata al fine riproduttivo. Altra
caratteristica è quella di essere polimorfa, cioè di avere varie forme legata a vari organi o zone del
corpo coinvolti; e poi di essere anarchica, cioè senza un governo preciso come quello legato agli
organi genitali nella sessualità adulta, e anche perversa, cioè rispetto a un criterio di normalità che
viene a essere legata alla genitalità adulta. In particolare, la teoria sulla sessualità infantile è
strettamente legata alla trattazione delle perversioni di tipo patologico che si manifestano negli
adulti. Freud cerca le basi di queste perversioni già nella vita infantile e ne fa delle fasi necessarie e
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inevitabili dello sviluppo di tutta l’infanzia classificandole con una serie di fasi che
attraverserebbero tutti i bambini. Cioè le perversioni adulte hanno un perfetto corrispondente alle
fasi della sessualità infantile, per cui, laddove si resti fissati in una di queste fasi da adulti, si hanno
delle vere e proprie perversioni di carattere patologico. Quindi, la patologicità non sta tanto nel fatto
che queste caratteristiche non siano un dato naturale ma quanto nel fatto diventano predominanti
rispetto all’organizzazione genitale che caratterizza la sessualità adulta.
Il bambino non è più considerato come perfettamente innocente, come un certo tipo di
considerazioni filosofiche alla Rousseau aveva portato a credere, perché appunto la vita del
bambino in relazione all’Edipo, è caratterizzata da questo contenuto rimosso collettivo dell’Edipo,
per cui c’è tutta una serie di conflitti e sentimenti che tutti i bambini vivono nei confronti dei
genitori. Questa idea di complesso di Edipo, legata alla preistoria dell’umanità e alla sessualità
infantile, per l’ebreo ormai ateo Freud, rappresenterebbe la versione laica secolarizzata dell’idea del
peccato originale presente nella Thoràh: dal complesso di Edipo radicato nella preistoria
dell’umanità sorgerebbero il divieto dell’incesto e l’esogamia, come anche la morale e la religione.
Per cui ogni essere umano che nasce, nasce già segnato con il peccato originale e non ha una
propria innocenza. Questo peccato originale è come l’eredità di qualche cosa che ci ha preceduto.
Chiaramente, dal punto di vista di Freud, in termini riduzionistici, ciò è legato dalla ricapitolazione
della filogenesi nell’ontogenesi, per cui a livello individuale si ricapitolano le fasi di evoluzione di
tutta l’umanità. E quindi, è un peccato originale dell’umanità che viene a caratterizzarsi in termini
antropologici.
C’è una prima fase, secondo Freud, che è chiamata fase orale. E’ tale perché il primo tipo di piacere
sessuale è quello legato al seno della madre, alla questione dell’allattamento. Quindi, il seno
costituisce il primo oggetto di attrazione, il primo rapporto affettivo con il mondo e in particolare
questo avviene secondo una modalità che Freud chiama incorporazione, perché è come
un’ingestione: ciò che è buono deve essere incorporato, ciò che è cattivo espulso. In un certo senso,
la sessualità per Freud presenta degli aspetti non solo che la differenziano per il tipo di
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organizzazione, per quale organo è più coinvolto in un certo tipo di sessualità (laddove nell’orale è
la bocca e invece nella fase edipica sono gli organi genitali), ma anche la sessualità infantile è
qualcosa di molto più generale rispetto a quella adulta. Emerge così il problema della sessualità
come un istinto di vita generale, per cui poi appunto Freud parlerà anche di Eros per parlare di
pulsione di vita. Nella fase orale, infatti, il piacere, ovvero la sessualità infantile è legata a un
istinto di vita biologico, cioè alla soddisfazione di una esigenza vitale primaria che è quella di
cibarsi. Non è affatto casuale questo tipo di accostamento fra due funzioni biologiche primarie che
sono il sesso e la necessità del nutrimento. Precedentemente, Freud aveva parlato di un istinto
principale della fame per comprendere la psiche umana, e quindi si tratta sempre dello stesso
tentativo di comprendere ciò che è psichico nei termini di ciò che è biologico, di qualche cosa che è
legato al corpo, in una non separabilità dell’anima dal corpo, che può essere considerato l’assunto
fondamentale di Freud: ricondurre ciò che è psichico a ciò che è biologico. Freud è stato non solo
un “fisico”, ma anche e soprattutto un “biologo della psiche”.
Sempre nella fase orale, la sessualità infantile è legata al rapporto affettivo con la madre, a qualche
cosa che va al di là della sazietà, ovvero la sessualità infantile ha una dimensione di unità affettiva:
anche in questo senso, la sessualità infantile è qualcosa di molto più generale rispetto al senso
solito.
Freud prende in considerazione anche il comportamento “narcisistico” del bambino, del dito in
bocca, in relazione alla sostituzione di un oggetto con un altro che fa parte del proprio corpo: prima
lo interpreta come qualcosa di contrapposto alla sessualità e legato all’io, ma poi scorge anche in
questo
comportamento
una
caratterizzazione
sessuale,
in
termini
di
autoerotismo.
Dopo la fase orale, c’è la fase cosiddetta anale (dai 18 ai 36 mesi), che sarebbe legata al mero
piacere “negativo” di liberazione di una tensione più o meno momentanea che si risolve
nell’espulsione delle feci e che associare a una sessualità infantile sembra una forzatura maggiore,
in quanto non si tratta di un piacere legato a un contatto corporeo con altri: il piacere dell’espulsione
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di ciò che è cattivo del cibo o che è cibo cattivo può essere legato a una funzione vitale “in
negativo”, a una sorta di purificazione o di liberazione da un senso di colpa.
Dopo la fase orale e la fase anale, viene la fase fallica all’interno della quale si situa il complesso di
Edipo, che viene a risolversi naturalmente, dopo i sei anni, con l’avvento di una fase di latenza, a
cui dopo segue la fase genitale della pubertà e adulta.
La meta-psicologia di Freud si spinge oltre l’attività clinico-terapeutica e postula una certa
articolazione di strutture della psiche: si tratta di arrivare a delle conclusioni su qualche cosa che
non è direttamente esperibile nella pratica clinica, con un’inferenza simile al passaggio dalla fisica
alla meta-fisica. Dopo il Progetto del 1895, la Metapsicologia, insieme a l’Inconscio, appare nel
1915 e presenta il primo modello topologico della psiche, che risulta composta da Inconscio,
Preconscio e Conscio. La metapsicologia viene sviluppata anche in Al di là del principio e del
piacere del 1920, mentre ne L’io e l’Es del 1923 viene formulata la seconda topica che suddivide la
psiche in Es o Id - il termine Es è ripreso dall’opera di Georg Groddeck (1866-1934) -, Super-io ed
Io: l’Es rappresenta l’inconscio, mentre il Super-io ha una funzione censoria, quasi parete divisoria
tra Io ed Es e la sua costituzione è legata alla questione del complesso edipico. L’idea di Freud,
espressa ne L’introduzione alla psicoanalisi del 1915-1917, è che tutto ciò che era nell’Es, tutto ciò
che è inconscio, dovrà diventare parte dell’Io, cioè dovrà essere portato alla coscienza: Wo Es war,
soll Ich werden (dove l’Es era, deve l’Io diventare). Non sarà questa l’interpretazione freudiana di
Jacques Lacan (1901-1981), secondo il quale l’Es non deve essere ridotto a qualche cosa di
cosciente, perché, al contrario, è l’Io che deve diventare dove l’Es era, nel senso che l’Io deve
ristrutturarsi nell’inconscio.
Mentre Freud inizialmente parlerà della libido come dell’unica energia psicofisica di origine
sessuale, che seppure rappresenta una quantità non esattamente misurabile è pensata sul modello
dell’energia fisica e del suo principio di conservazione, da Al di là del principio del piacere del
1920, Freud riterrà opportuno inserire oltre la pulsione (Trieb) sessuale di vita dell’Eros anche una
pulsione opposta di morte, Thanatos. Per quanto riguarda la sessualità c’è sempre una
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differenziazione fra ciò che può essere considerato un istinto e invece la pulsione umana: da una
parte, Freud vuole avvicinare l’essere umano, secondo la prospettiva della rivoluzione darwiniana, a
tutta una serie di altre realtà viventi, e descriverlo in continuità con gli altri animali (si deve pensare
anche a come lo stesso sesso fosse una forza fondamentale anche nella visuale di Darwin,
caratteristica del processo evolutivo, specialmente ne L’Origine dell’uomo e la selezione sessuale
del 1871); dall’altra parte, a livello psicologico Freud tenta di distinguere l’essere umano, per
esempio, attraverso la distinzione tra istinto e pulsione che non si capisce bene quale tipo di
fondamento abbia. Se da una parte la rivoluzione Darwiniana aveva cercato di eliminare le
discontinuità, al contrario, invece, un certo tipo di filosofia idealistica aveva caratterizzato la realtà
umana in termini di questa sostanza pensante pura, per differenziarla dalla realtà degli altri esseri
viventi, animali.
In questo saggio del 1920 appaiono delle nuove elaborazioni e sostanzialmente la prospettiva
cambia completamente, perché, mentre precedentemente Freud aveva cercato di spiegare tutto in
termini della sola pulsione sessuale, qui la vita psichica appare come conflitto dinamico tra queste
due pulsioni, Eros e Thanatos. La pulsione di morte è legata a un modello fisico dell’inerzia, a una
tendenza alla quiete e alla stazionarietà, o anche a un modello biogenetico nei termini di una
tendenza regressiva della vita a stadi evolutivi precedenti la sua origine.
Da una parte, c’è un principio del piacere (das Lustprinzip), come si riconosce nel titolo di
quest’opera del 1920, e che, in effetti, non era stato teorizzato per la prima volta neanche da Freud,
ma da Fechner nel 1860: Fechner parlava del principio del piacere come di un principio guida di
una teoria rivoluzionaria della psiche, che in un certo senso era equivalente al principio della
gravitazionale universale della fisica; Fechner, d’altra parte, oltre a questo principio del piacere,
aveva introdotto anche un principio finalistico universale, che consisteva in una tendenza alla
stabilità, da applicare anche alla vita psichica. Se il principio del piacere eralegato all’Eros, con
l’emergere di questa altra pulsione, Thanatos, emerge un altro principio che Freud chiama
“principio del nirvana”, che sicuramente Freud riprende dall’elaborazione schopenhaueriana del
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buddhismo, legato a ciò che può essere chiamato l’estinzione dell’Io e delle pulsioni desideranti, in
quanto fonte di sofferenza: il nirvana rappresenta una condizione, in cui ci si libera dal ciclo delle
nascite e delle morti, che in ambito indiano, è legato al concetto di reincarnazione, e al concetto di
legge del karma per cui si è condizionati deterministicamente dalle conseguenze delle proprie
azioni. Però, il principio del nirvana viene interpretato da Freud in un senso più biologico,
sostanzialmente nei termini della liberazione da questa tensione/sofferenza che avverrebbe soltanto
con il ritorno allo stato di materia inorganica, quindi sarebbe una tendenza in qualche modo della
vita a tornare ad uno stato da cui ha avuto origine, a uno stato di “non vita”, cioè non organizzata
come organismo vivente. Questa idea di liberazione è completamente diversa da quella buddhista e
schopenhaueriana, perché il nirvana verrebbe interpretato in termini di una liberazione, che ha il suo
esito finale con la morte, non in una liberazione dal ciclo della vita e della morte.
Ma dietro il pensiero di Freud c’è anche il secondo principio della termodinamica come legge di
tendenza all’equilibrio termico: questo principio era stato interpretato nel senso in cui implicava per
l’universo una cosiddetta morte termica, legata alla crescita dell’entropia come misura del
disordine, e quindi una tendenza alla dissoluzione di tutte le strutture ordinate, che in qualche modo
possono essere, dal punto di vista fisico, la base sulla quale modellizzare gli esseri viventi come
esseri organizzati secondo strutture ordinate. Da un altro punto di vista, i sistemi trattati dalla
termodinamica sono “viventi”, perché caratterizzati da scambi di materie, energia, calore, e anche di
informazioni, con l’ambiente esterno; quindi, se questo secondo principio della termodinamica
riguarda effettivamente il fatto che questi sistemi ordinati vanno perdendo sempre di più il loro
ordine per arrivare ad uno stato di morte, di quiete, si può comprendere come sia l’origine del
principio di nirvana di Freud. Tuttavia, resta un’estrapolazione, perché questa idea di morte termica
riguardava solo l’universo in quanto, nell’Ottocento, esso poteva essere considerato come l’unico
sistema rigorosamente chiuso, che non aveva scambi con l’esterno, perché il secondo principio della
termodinamica è valido solo per i sistemi chiusi. E, allora, come questo possa essere estrapolato ai
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sistemi viventi, che sono sempre una parte dell’universo e che costituiscono dei sistemi aperti, non è
ben chiaro.
Il principio di pulsione di morte viene però postulato da Freud sulla base empirica di pulsioni
aggressive-distruttive contro la vita altrui. Cioè, le tendenze aggressive sarebbero spiegabili da
Freud in termini di estroversioni (fuori di sé, in un cambiamento d’oggetto, non più rivolte verso sé
ma verso altri) di questa pulsione di morte. Anche se Freud non fa questo passo, si potrebbe pensare
la pulsione di morte come parte della pulsione di vita, se la pulsione di morte viene considerata
come quella parte della pulsione di vita che si presenta nelle situazioni in cui la morte è l’unica
soluzione possibile della sofferenza: quando però non si accetta la soluzione della propria morte,
allora si cerca di risolvere la sofferenza (per esempio, dovuta alla fame) provocando la morte altrui,
estrovertendo cioè la pulsione di morte e trasformando la pulsione di morte in una pulsione di
distruzione della vita altrui.
Certamente, si potrebbe ricordare la prospettiva di Empedocle, che caratterizzava tutta l’evoluzione
cosmica in base a due forze uguali per intensità e contrapposte: Empedocle chiamava una Eros e
l’altra con il termine corrispondente in greco a odio. Quindi, le fasi dinamiche dell’evoluzione del
cosmo erano caratterizzate da un prevalere dell’Eros sull’odio o viceversa. Questa idea di
Empedocle può essere arrivata a Freud per il tramite del Simposio di Platone, che certamente ha
costituito un riferimento di Freud per la sua teoria dell’Eros.
In quest’opera, come spesso accade nei dialoghi, alla fine Socrate parla attraverso la bocca di una
donna e riferisce idee sull’Eros non come sue ma come una rivelazione dalla sacerdotessa Diotima.
Platone però aveva una posizione di carattere maschilista, la donna è vista in maniera negativa (nel
Timeo, è scritto che quando ci si comporta male, ci si reincarna in un animale o una donna) e in
posizione inferiore rispetto all’uomo e questa è anche una caratterizzazione che accomuna Freud al
pensiero di Platone. Nonostante ci sia questa rivalutazione dell’inconscio che da parte di Freud
mostra tutte quelle caratteristiche che sono tipiche del femminile, come la parte sensibile (solo
Cartesio aveva eliminato l’anima sensibile) e l’irrazionale rispetto al razionale maschile, Freud
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rimane comunque legato ad una prospettiva maschilista (Freud, per esempio, parla dell’invidia
femminile del pene). Rispetto alla teoria della sessualità per esempio nella bambina, la sessualità è
vista come specchio negativo della sessualità del bambino maschio (al posto del complesso di Edipo
per il maschio, viene teorizzato, in negativo, il complesso di Elettra).
Tornando a Platone, e all’influenza decisiva che Platone ha avuto sulla teorizzazione dell’Eros
come forza fondamentale della psiche, oltre la posizione di Empedocle per cui l’Eros è visto come
una forza cosmica divina che anima il mondo, la tesi che, invece, si afferma nel Simposio di
Platone, è che Eros è semplicemente un semidio e un mediatore fra gli uomini e le divinità. Da
questo punto di vista, Eros non rappresenta una pienezza dell’essere, cioè uno stato di perfezione,
ma rappresenta, invece, qualche cosa che anela a una perfezione e che invece è imperfetto, cioè
caratterizzato da un bisogno e uno stato di mancanza. Questa visione è completamente diversa da
quella che si affermerà nell’Occidente attraverso il Cristianesimo, attraverso la prima lettera di
Giovanni del Nuovo Testamento (I Giov. 4.8 e 16), secondo cui si stabilisce questa identità per cui
Dio è l’amore o l’Amore è Dio, mentre in Platone l’Eros è degradato a una semidivinità, addirittura
ad una forza spirituale che è caratteristica di uno stato di bisogno e di uno stato di mancanza.
Quest’altra caratterizzazione è fondamentale per l’Eros di Freud, per l’Eros della psicoanalisi fino a
Lacan, perché l’amore non verrà mai visto in un senso positivo, ma come qualcosa di legato a una
mancanza. C’è anche un legame tra la bisessualità originaria di cui parla Freud e il mito raccontato
nel Simposio, in cui all’origine erano esseri sferici che poi sono stati divisi in due metà
corrispondenti a dei sessi opposti, mentre la realtà originaria era quella di un essere androgino. E
anche l’idea dell’Eros come mancanza può essere collegata pure a questo particolare mito che
Platone riferisce, secondo cui c’è questa incompletezza costitutiva dell’essere che fa ricercare in
qualche modo la propria metà per raggiungere la completezza e la perfezione. Per cui gli influssi di
Platone su Freud non sono affatto banali, anche se chiaramente la teoria dell’Eros di Freud è
comunque diversa da quella platonica perché l’Eros freudiano è di carattere biologico e soprattutto
è una forza di tipo materiale, al contrario della realtà spirituale che caratterizza il vertice dell’Eros
92
platonico. Mentre l’amore platonico per Platone è ascendente dall’amore materiale all’amore ideale
per l’idea del bene, questo movimento dialettico per Freud è il frutto di un processo di sublimazione
(si tratta di una analogia con il processo fisico di transizione di fase termodinamica da uno stato
solido ad uno aeriforme) dell’amore sessuale e come tale condannato da Freud (la critica di Freud
non si può invece applicare alla prospettiva del cristianesimo originario ancora non ellenizzato, non
platonizzato, per il quale Dio non è pura idea, ma Agape il cui Logos si fa carne, Eros, con un
movimento d’amore che è discendente).
Freud ha anche tentato l’avvio di una critica del sapere collettivo umano dominante in termini di
una psicologia collettiva degli esseri umani. In un breve testo del 1916, Una difficoltà per la
psicoanalisi, ha introdotto, infatti, il concetto di ferita al narcisismo dell’umanità, associandolo alla
rivoluzione copernicana, alla rivoluzione darwiniana e alla stessa rivoluzione psicoanalitica
(freudiana): Freud, cioè, abbozzava una psicoanalisi della storia della cultura dell’umanità, anche se
non l’ha portata avanti fino in fondo e pochi altri dopo di lui hanno ripreso questa prospettiva.
Tuttavia, è ne Il disagio della civiltà (Das Unbehagen in der Kultur, 1930) che Freud tratterà
maggiormente i problemi della società e della civiltà umana: Freud non fa differenza fra cultura
(Kultur) e processo esteriore di civilizzazione (Zivilisation). Freud ritiene che ci sia
un’incompatibilità irrisolvibile fra Natura e cultura, fra realizzazione degli istinti e delle pulsioni
umane e organizzazione della società o edificazione della civiltà: Freud riprende ed estende la
prospettiva di Nietzsche secondo cui l’organizzazione della società (con la sua strutturazione
giuridica e politica) impone, attraverso la morale che si costituisce insieme alla religione (per Freud
a seguito del preistorico originario evento edipico), la superiorità di un utile sociale rispetto all’utile
individuale e con questa la sostituzione della soddisfazione delle pulsioni individuali con mete
collettive. La libido sessuale, naturalmente anarchica, deve essere inibita e repressa per il
mantenimento della struttura patriarcale della società che regola la proprietà delle donne e quindi
l’esplicazione della sessualità. L’energia vitale sessuale deve essere trasformata come energia da
impiegare nel lavoro produttivo richiesto dal dominio e dalla trasformazione della Natura a valore
93
d’uso per l’umanità come processo di civilizzazione. E infine la costituzione di un sapere, di una
cultura necessaria che legittimi e progetti l’edificazione di una società e di una civiltà opera un
processo di razionalizzazione cosciente delle inconsce istanze sessuali che subiscono processi di
rimozione e di sublimazione. Tutto questo comporta, anche per evitare punizioni sociali, una
riduzione, un differimento, una trasformazione e una rinuncia del piacere, solo in parte trasponibile
nella realizzazione di obiettivi sociali, culturali e produttivi: questi obiettivi implicano appunto
rinunce e fatiche, e quindi infelicità. Non è così il principio del piacere, il raggiungimento della
felicità individuale, a determinare la dinamica delle pulsioni interne e dei comportamenti sociali,
ma piuttosto un principio di realtà, che è costituito dalle necessità sociali, produttive e culturali.
Così, da una parte, Freud accusa la civiltà e dell’infelicità procurata agli esseri umani dalla rinuncia
al principio del piacere in cambio di sicurezza, e del rendere l’animale umano malato e nevrotico,
non solo a livello individuale, ma quale soggetto collettivamente a una patologia collettiva che
soffre il disagio della civiltà, in cambio di moltiplicazione e di dominio sempre più esteso della
specie; dall’altra parte, Freud asserisce la necessità della civiltà e della cultura pur smascherandone
le legittimazioni come razionalizzazioni consce fasulle. Le pulsioni aggressive individuali,
provocate da questa rinuncia al piacere, vengono altrettanto represse dalle norme giuridiche e dalle
istituzioni politico-sociali; tuttavia, per Freud è necessario ammettere negli esseri umani l’esistenza
di pulsioni aggressive “primarie”, quali estroversioni della pulsione di morte. Se inizialmente la
rinuncia al piacere è coatta dall’esterno e dalla paura di penalità, l’autorità esterna è poi introiettata
nella strutturazione del Super-io. L’amore per il prossimo per Freud non è altro che la sublimazione
sociale dell’Eros e l’inibizione sociale di Thanatos. Da questa rinuncia al piacere, da questo
conflitto fra Natura e cultura, deriva una ferita incurabile, un’angoscia esistenziale che si assomma
al senso di colpa per l’origine preistorica violenta della civiltà. Queste analisi di Freud restano però
in gran parte estensioni del punto di vista psicoanalitico individuale alla società e alla civiltà.
94
6. La fenomenologia di Edmund Husserl
6.1 La prima fenomenologia di Edmund Husserl
La fenomenologia di Edmund Husserl (1859-1938) va situata storicamente per essere compresa
pienamente: si tratta di una reazione alla crisi del pensiero moderno, scientifico e filosofico.
Husserl si era laureato in matematica nel 1882 a Wien, dopo essere stato a studiare a Leipzig e a
Berlin, e un inizio di studi anche di tipo astronomico e fisico. Si trovò a dover fronteggiare la più
grande crisi della scienza moderna dalla sua origine: la crisi dei fondamenti della geometria, che
aveva portato, già nella prima metà dell’Ottocento, alla costruzione delle geometrie non-euclidee.
La geometria euclidea era stata la base della matematizzazione della fisica nella “rivoluzione
scientifica”, e fin dall’antichità era stata il paradigma di un sapere certo, basato
sull'assiomatizzazione e sulla deduzione. Anche la teologia e la filosofia avevano cercato di
fondarsi sul modello della geometria e si era arrivati a tentare di costruire tutta la filosofia, come nel
caso di Spinoza, more geometrico...euclideo. Con Kant, la geometria euclidea era venuta a
rappresentare, come frutto di una sintesi a priori, una necessità del nostro modo di pensare e di
conoscere.
Tuttavia, con postulati alternativi al quinto di Euclide, si era dimostrato possibile costruire nuove
geometrie, logicamente consistenti, alternative a quella euclidea. Karl Friedrich Gauss (1777-1855)
diede i primi decisivi contributi: dal 1813 sviluppò una geometria coerente con la proprietà che la
somma degli angoli interni di un triangolo sia < 180° e che chiamerà prima “anti-euclidea”, poi
“astrale”, infine “non-euclidea”; caratterizzata da curvatura negativa, descrive uno spazio “aperto”,
applicabile ad una superficie a sella; la differenza rispetto ai 180° è proporzionale all’area del
triangolo; nel 1827, misurò la somma degli angoli del triangolo formato da tre vette montuose
(Brocken, Hohehagen, Inselberg), ma gli errori di misura e la relativa piccolezza del triangolo
impedirono una determinazione sperimentale della geometria dello spazio fisico. Nel 1825, Nikolaj
Ivanovic Lobacevskij (1739-1856) fu il primo a pubblicare un’opera su una geometria non euclidea:
95
per un punto esterno a una retta data non passa una e una sola retta parallela, ma due parallele, la
somma degli angoli interni di un triangolo è < 180°, e si tratta di una geometria “iperbolica”.
Se P è un punto ad una distanza a da una retta r, PD = a, esiste un angolo &, tale che tutte le rette
che formano con PD un angolo minore di & intersecano r, tutte le rette che formano un angolo
maggiore o uguale ad & non intersecano r. Di queste ultime, le due rette p e q che formano un
angolo & sono dette parallele, le altre non intersecanti, anche se nella geometria euclidea queste
sarebbero chiamate parallele (e da questo punto di vista si potrebbe dire che esistono infinite
parallele passanti per P); & è chiamato angolo di parallelismo. Per & = 90°, si ha l’assioma di
Euclide, ovvero la geometria euclidea è un caso particolare della geometria iperbolica, per raggio di
curvatura infinito (curvatura zero). La fondazione della
geometria è, per Lobacevskij, fisica, a
partire dalle relazioni fra corpi solidi che si toccano in un punto, una linea o una superficie. Le due
geometrie coincidono a meno di infinitesimi di ordine superiore al secondo, il che significa che nel
‘piccolo’, all’interno degli errori di misura si può ancora
considerare valida la geometria euclidea,
mentre, per Lobacevskij, a livello astronomico vale quella iperbolica; e
facile modificare la
nel 1829 ipotizza che sia
meccanica sulla base della nuova geometria. Insieme a Lobacevskij, pubblica
sulla geometria iperbolica, nel 1825 e poi nel 1832-33, Jànos Bolyai (1802-1860), ma con
un’impostazione astratta e non fisica. Un’altra geometria fu costruita da Georg Bernhard Riemann
(1826-1866), nel 1854 in una dissertazione, presentata poi nel 1868: si tratta di una geometria
ellittica, a curvatura positiva, che descrive uno spazio “chiuso”,
applicabile ad una superficie
sferica in cui le “rette” sono le circonferenze massime, illimitate ma tutte della stessa lunghezza
finita e si incontrano in due punti; tutte le perpendicolari ad una retta data s’incontrano in un punto;
non esistono rette parallele e la somma degli angoli interni di un triangolo è > 180°.
La nascita delle geometrie non-euclidee implicava una pluralità di geometrie, tutte rigorosamente
fondate. La non-univocità della geometria comportava un’incertezza nei fondamenti della
geometria, ma anche della scienza moderna: la matematizzazione della fisica all’alba della scienza
moderna si era basata sulla geometria euclidea.
96
Si pensò che i fondamenti della matematica restassero inviolati al livello dell’aritmetica e
dell’algebra, se non della geometria. Tuttavia, William R. Hamilton nel 1843 aveva creato l’algebra
non-commutativa dei quaternioni, e poi Arthur Cayley quella delle matrici: si trattava della
costruzione di “numeri generalizzati”, sui quali si costituivano nuove aritmetiche e nuove algebre.
Si dava così una pluralità di aritmetiche e di algebre possibili, che comportavano un’incertezza
ancora più profonda nei fondamenti della matematica e di tutta la scienza moderna basata
sull’aritmetica e sull’algebra. Hermann von Helmholtz (1821-1894), nel 1868,
fondazione della geometria euclidea sulla
tentò una nuova
meccanica newtoniana dei corpi solidi rigidi e, nel
1887, affermò che anche le verità degli assiomi dell’aritmetica non sono a priori, ma dipendono
dall’esperienza.
A partire dalle formulazioni della teoria degli insiemi finiti e infiniti-transfiniti di Georg Cantor
(1845-1918), si tentò di fondare tutta la matematica sulla teoria degli insiemi. La teoria degli
insiemi si presentava non solo come la base di una teoria dei numeri e della geometria, ma anche
come una matematica teoria delle idee, o dei concetti: come il numero 2, per esempio, poteva essere
definito come l’insieme che contiene tutte le tipologie dell’essere 2 (due mele, due pere, due cani,
due gatti, due uomini,...), definibile intensivamente come ciò che è comune agli elementi
dell’insieme, così anche il concetto di cane può essere definito come l’insieme di tutti i tipi di cane,
o ciò che è comune a tutti gli elementi dell’insieme (bassotto, barboncino, bull-dog, alano,...).
Tuttavia, a partire dall’assiomatizzazione di Ernst Zermelo (1871-1953) fino alla più recente
dimostrazione del 1966 di Paul Cohen (1934-2007), anche della teoria degli insiemi si stabilì la
possibilità di costruirne una pluralità, che non permetteva di identificare un fondamento univoco.
Ancora più recentemente, Abraham Robinson (1918-1974) costruì nel 1963 anche un’analisi nonstandard, basata sull’accettazione dei differenziali di Leibnitz. La non univocità diventa una
caratteristica di tutta la matematica.
Già nel 1854, intanto, in The Laws of Thought, George Boole (1815-1864) era riuscito a dare forma
algebrica alla logica realizzando in qualche modo il progetto della mathesis universalis di Descartes
97
o della characteristica universalis di Leibnitz. La logica si trasformava da logica filosofica a logica
matematica, riportando in qualche modo la logica alla sua origine matematica.
Tuttavia, questa costruzione portò alla convinzione di poter risolvere il problema dei fondamenti
della matematica risalendo alla logica come fondamento univoco e certo. La prospettiva che ne
conseguì fu chiamata logicismo ed ebbe la sua massima espressione nei Principia Mathematica
(1910-1913) di Bertrand Russell (1872-1970) e Alfred North Whitehead (1861-1947).
Al logicismo si opposero il formalismo di David Hilbert (1862-1943), che considerava la
matematica come un mero gioco formale di simboli senza significato in una prospettiva finitista che
rifiutava la nozione di infinito, e l’intuizionismo di Luitzen Brouwer (1881-1966), che fondava la
matematica su un’intuizione del pensiero che ne precedeva ed eccedeva la formalizzazione. La
formalizzazione dell’intuizionismo fu compiuta definitivamente da Arend Heyting (1898-1980):
questa portò alla realizzazione di una logica matematica costruttiva e di una matematica costruttiva,
alternative a quelle standard, in cui non vale più il principio del terzo escluso e non sono ammesse
le dimostrazioni per assurdo, o ancora non è più definibile lo zero o un infinito in atto diverso da
quello potenziale.
Ciò nonostante, Russell non accettava di lasciare il “paradiso” dei transfiniti creati da Cantor e
aveva fornito un’interessante interpretazione nominalistica della teoria degli insiemi, e quindi dei
numeri e dei concetti ridotti all’insieme degli individui singoli che ne costituiscono gli elementi,
senza riferimento all’astratta proprietà comune. Il logicismo, però, fallì già nel momento in cui,
indipendentemente dalla logica intuizionistica, si scoprì che era possibile costruire logiche diverse
da quella aristotelica-crisippea: si dava una pluralità di logiche e quindi un’incertezza nei
fondamenti della logica.
Se si possono scegliere assiomi diversi e costruire geometrie alternative a quella euclidea, tutta la
cogenza del sapere geometrico viene messa in discussione: tutto il sapere fisico basato sull'uso della
geometria euclidea non è più cogente. La non-univocità della geometria, cioè la pluralità delle
geometrie costruibili, si estese poi ad altri rami della matematica: all’aritmetica, all’algebra,
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all’analisi, alla teoria degli insiemi, alla logica matematica. Vennero a costruirsi pluralità di
aritmetiche, di algebre, di analisi, di teorie degli insiemi, di logiche: si produsse così una crisi dei
fondamenti della matematica e invero della logica e quindi della teoria della conoscenza e di tutta la
scienza e di tutto il sapere.
Husserl si ritrovò immerso nel mezzo di questa crisi, prima ancora che si compisse completamente e
prima ancora che logicismo, formalismo, intuizionismo-costruttivismo si fronteggiassero
proponendo le loro soluzioni che pure dopo non si rivelarono positive. D’altra parte, la fondazione
della filosofia teoretica era invece crollata sotto le critiche di Arthur Schopenhauer, Karl Marx,
Søren Kierkegaard, Friedrich Nietzsche.
Così, Husserl seguì un percorso originale proprio che lo condusse alla formulazione della
fenomenologia. Fra il 1884 e il 1886, intanto, aveva seguito a Wien il filosofo e psicologo Franz
Brentano (1838-1917). Suoi primi passi furono nella filosofia della matematica: nel 1887 ottenne la
libera docenza con un lavoro Ueber den Begriff der Zahl (Sul concetto di numero), e il suo primo
volume pubblicato fu Philosophie der Arithmetik (Filosofia dell’aritmetica) del 1891, che aveva
come primo capitolo il testo del 1887.
Il dubbio teoretico con cui Husserl si confrontava già allora era quindi prima di tutto un dubbio
storico: il legame poi esplorato con Cartesio, ancora prima che teoretico, è storico: si era riaperto
l’abisso di un mondo non razionale e non razionalizzabile. Husserl tentò prima una rifondazione
della matematica e della scienza, come poi della filosofia teoretica nello spirito greco, ma in termini
della moderna metafisica soggettivistica.
La soluzione che Husserl propose per la crisi dei fondamenti della geometria orientò tutto il suo
pensiero successivo: secondo Husserl, la differenza fra geometria euclidea e geometrie non-euclidee
è che queste ultime sono delle mere costruzioni formali, logicamente consistenti, ma non vere. La
verità della geometria euclidea ha invece la sua radice nel mondo dell’esperienza umana da cui è
nata. Nel testo del 1891 aveva legato questo mondo dell’esperienza all’esperienza vissuta (Erlebnis)
psicologica dove i concetti matematici veri hanno la loro origine. Così, Husserl si trovò a
99
fronteggiare il rapporto fra genesi (psicologica) delle teorie e dei concetti scientifici e loro
autonomia logica, muovendosi in bilico sul filo di una separazione difficile dei due piani. D’altra
parte, appunto, per comprendere il vero senso della matematica era necessario conoscerne la genesi
psicologica: era necessario riferirsi all’esperienza del soggetto che invera i concetti nel “vissuto”,
considerandoli dall’interno della coscienza interiore dell’essere umano, e non dall’esterno tramite lo
sguardo oggettivistico prevalente nella scienza moderna. La psicologia veniva in aiuto alla
matematica e alla scienza per una loro ri-fondazione soggettivistica: lo sguardo oggettivistico ci
presenta sistemi formali logicamente consistenti ed equivalenti e non può quindi bastare per una
fondazione univoca della scienza.
Le Logische Untersuchungen. 1. Prolegomena zur reinen Logik. 2. Untersuchungen zur
Phӓnomenologie und Theorie der Erkenntnis 1900-1901 (Ricerche Logiche. 1. Prolegomeni a una
logica pura. 2. Ricerche sulla Fenomenologia e Teoria della Conoscenza) segnano l’inizio effettivo
della fenomenologia. Fu questo testo che trasse l’attenzione di molti suoi allievi, come Max Scheler
e Martin Heidegger.
Si trattava di fondare la conoscenza, nonostante la sua autonomia logica dalla sua genesi, comunque
sulla base della sua genesi psicologica nel soggetto, nell’esperienza vissuta del soggetto umano.
Il termine Phӓnomenologie era stato introdotto con una valenza negativa nel 1764 da J. H. Lambert
come dottrina delle apparenze, volta alla comprensione delle cause soggettive e oggettive delle
illusioni degli oggetti della sensibilità quali fenomeni, contrapposta alla Alethiologie come dottrina
delle verità. Kant riprese questo termine di fenomenologia in questo senso negativo, ma poi cambiò
il senso stesso del termine “fenomeno” come non mero oggetto di sensibilità, ma come prodotto
della strutturazione formale universale da parte dell’intelletto della materia data della sensibilità,
contrapposto al noumeno come termine che etimologicamente indica qualcosa che è postulabile e
coglibile solo dal nous (intelletto), in particolare dalla razionalità pratica per la fondazione
dell’etica, perché sfugge invece all’esperienza sensibile. Seppure i fenomeni non erano più
considerati come delle apparenze, per Kant, la realtà è quella delle cose in sé, come noumeni.
100
Husserl rigetta invece i noumeni quali residui metafisici: non si possono introdurre realtà al di là
dell’esperienza sensibile e non si può rinunciare all’idea di poter avere accesso alla realtà delle cose
in sé. Le cose stesse si manifestano originariamente come fenomeni: la fenomenologia è così legata
al principio di “ritornare alle cose stesse” dopo il postulato kantiano della loro inaccessibilità
teoretica.
Sulla base di Brentano, Husserl ritiene che le cose si manifestino non alla mera
esperienza sensibile, ma sotto diversi aspetti in relazione agli atti intenzionali della coscienza: le
cose stesse, per come sono in sé, si manifestano come correlati oggettivi degli atti intenzionali
puramente teoretici della coscienza del soggetto, i soli non influenzati da interessi e fini pratici di
utilità o tornaconto personale.
Per Kant, i fenomeni sono universali per l’universalità del soggetto trascendentale, perché
intersoggettivi; per Husserl, sono universali perché realmente oggettivi: la soggettività costituisce i
fenomeni ma non tramite forme a priori soggettive, ma perché teoreticamente coglie forme a priori
oggettive.
Dietro le diverse apparenze sensibili, oltre la varietà delle singole esperienze, si presentano delle
strutture invarianti: le strutture invarianti dell’esperienza non appartengono al soggetto
trascendentale, ma alle cose stesse. Dopo la costruzione delle geometrie euclidee, invero, non è più
possibile pensare che la verità della geometria euclidea sia legata all’univocità dello spazio come
forma a priori del soggetto, ma si può salvare solo se la si lega allo spazio forma a priori oggettiva
delle cose. Queste forme non possono quindi essere imposte da un soggetto sulle cose, perché il
soggetto potrebbe fare questa imposizione in una molteplicità di modi diversi, ma devono essere
oggetto di un’intuizione ulteriore rispetto all’intuizione sensibile di Kant: le condizioni di
possibilità della conoscenza per essere tali devono essere univocamente date, come necessarie e
sufficienti per l’esperienza e per la conoscenza. Husserl introduce così l’intuizione eidetica,
l’intuizione categoriale della forma e dell’essenza delle cose: è solo questo tipo nuovo di
trascendentale, oggettivo, ontologico, colto da questa intuizione eidetica, che permette l’esperienza
e la conoscenza. D’altra parte, la necessità di ricorrere all’intuizione eidetica, come anche la sua
evidenza, è resa chiara dalla conoscenza matematica: gli oggetti matematici sono universali e ideali,
invarianti, presentano delle forme comuni invarianti che sono riconosciute quali universali. Husserl
ha sicuramente presente almeno il programma di Erlangen di Felix Klein del 1872, in cui gli enti
101
geometrici sono definiti come gli invarianti per certe trasformazioni algebriche o di sistemi di
coordinate.
Anche gli oggetti della realtà, del mondo si presentano in forme invarianti rispetto alla singolarità e
alla varietà delle esperienze, rispetto alle individualità sensibili-empiriche, forme che differiscono
fra loro per differenti oggetti, conoscibili attraverso specifiche “ontologie regionali”. L’intuizione
categoriale permette l’accesso diretto all’essere delle cose: l’essere delle cose è per Husserl la loro
essenza, il loro eidos, la forma che le costituisce in quanto tali. Così, le varie case e le varietà delle
loro singole esperienze partecipano tutte dello stesso eidos che definisce la casa in quanto casa
come un’idea platonica. Così, le varie esperienze di rosso partecipano di uno stesso eidos.
Per Husserl, non bisogna logicizzare-matematizzare la filosofia, ma piuttosto comprendere
l’essenza del metodo matematico e su questa base costruire una mathesis universalis: così, non c’è
più differenza fra qualità primarie oggettive e secondarie soggettive, perché anche le secondarie
qualità sensibili, che non sono matematizzabili, come il rosso o il dolce possono essere ricondotte a
un’essenza invariante: non si tratta quindi di ridurre le secondarie alle primarie, ma una nuova
mathesis universalis basata sull’invarianza.
Oltre la relatività degli aspetti soggettivi dei fenomeni da depurare, Husserl arriva così al fenomeno
come fenomeno puro, come sua essenza.
A partire dalle Idee per una fenomenologia pura e una filosofia fenomenologica, il cui primo
volume fu pubblicato nel 1913 (altri due, postumi, appariranno nel 1952) 31, Husserl però propose il
metodo della cosiddetta “riduzione fenomenologica” (la sospensione del giudizio dello scetticismo
antico, l’epoché): la filosofia doveva ricercare una fondazione assoluta della conoscenza e divenire
“scienza rigorosa”, riprendendo il discorso dal dubbio metodico che Descartes avava delineato, ma
abbandonato troppo semplicisticamente per arrivare alla certezza. Il dubbio deve sospendere il
giudizio su tutte le le filosofie precedentemente date, e si devono “mettere fra parentesi” i pre-
31
E. HUSSERL, Ideen zu einer reinen Phänomenologie und Phänomenologischen Philosophie. Erstes Buch: Allgemeine
Einführung in die reine Phänomenologie, in Jahrbuch für Philosophie und phänomenologische Forschung, Niemeyer,
Halle 1913; tr. it. a cura di E. Filippini, Idee per una fenomenologia pura e una filosofia fenomenologica, Einaudi,
Torino 1965.
102
giudizi anche delle teorie scientifiche per ritornare al mondo dell’“esperienza pura”. Tuttavia, dopo,
bisogna mettere in discussione anche il mondo dell’esperienza pura e i giudizi del senso comune,
che presuppongono già un mondo di cui l’essere umano è parte.
Dall’intuizione eidetica si deve fare ora un passo in più: operare la “riduzione eidetica”, cioè ridurre
i fenomeni al loro eidos universale, cioè prescindere dalla loro singolarità. E poi si deve operare
corrispondentemente la “riduzione trascendentale”, cioè ridurre i fenomeni alla loro essenza ideale,
cioè prescindere dalla loro esistenza. Le due riduzioni in qualche modo si co-implicano, in quanto
idealità e universalità si co-implicano, come all’inverso si corrispondono individualità singolari e
realtà esistenti: insieme, riduzione eidetica e riduzione trascendentale costituscono la “riduzione
fenomenologica”. È questo passo che Heidegger si rifiuterà di seguire sviluppando una forma di
fenomenologia autonoma e diversa da quella di Husserl: si può ricercare l’essenza dei fenomeni, ma
senza prescindere dalla loro realtà esistenziale in cui si manifestano, si può ricercare l’universalità
dei fenomeni ma senza prescindere dalla loro singolarità in cui quella si dà.
Per Husserl, i fenomeni si devono ridurre all’universalità e all’idealità degli oggetti matematici per
essere
conosciuti
rigorosamente,
scientificamente:
è
questo
presupposto
gnoseologico-
epistemologico che Heidegger gli contesterà, il sacrificare i fenomeni alla loro conoscibilità
scientifica.
Secondo Husserl, si deve, cioè, dubitare, con Descartes, radicalmente dell’esistenza di un mondo
esterno al soggetto, dell’esistenza reale delle cose in sé: Descartes poteva raggiungere l’autocertezza dell’“io penso”, del cogito ergo sum, solo perché l’io si dava all’interno di un’esperienza
vissuta interiore, come suo contenuto psichico per la coscienza che così si faceva auto-coscienza.
Descartes, poi, per dimostrare l’esistenza di un mondo esterno, doveva ricorrere a Dio e alla
convinzione che non sia talmente malevolo da volerci ingannare. Questa situazione d’impasse si
poteva superare, secondo Husserl, con Brentano, considerando il mondo come immanente a una
coscienza, ad essa interno: in questo modo, si può raggiungere anche per il mondo divenuto interno
la certezza di una conoscenza scientifica, senza doverne dimostrare l’esistenza, anzi proprio perché
103
si sospende il discorso sulla sua esistenza esterna alla coscienza. Residuo fenomenologico della
riduzione è la coscienza pura. Questa epoché del mondo non potrà essere accettata da Heidegger
che invece postulerà un originario essere-nel-mondo.
Questa certezza husserliana, che prescinde dall’esistenza, che si dà nell’esperienza vissuta della
coscienza, riguarderà allora l’essenza. I fenomeni della fenomenologia husserliana non sono allora
gli oggetti o i fenomeni naturali nel loro darsi ai sensi nella loro singolarità esistenziale, ma sono
“fenomeni puri” indipendenti da una loro presunta e assurda esistenza esterna, sono la “riduzione
eidetica-trascendentale” dei fenomeni naturali a essenze (forme-idee) come colte da un’intuizione
eidetica della coscienza umana: non si tratta quindi di quegli oggetti o fenomeni naturali la cui
esistenza assumiamo come ovvia per il nostro interesse pratico nei loro confronti come enti “alla
mano” (Zuhandenheit) nel mondo dell’esperienza pura, a cui si rifanno le stesse scienze naturali, ma
piuttosto di oggetti eidetici che si presentano allo sguardo teoretico disinteressato della coscienza
filosofica, ad un’intuizione eidetica pura che fornisce un’evidenza senza necessità di essere
elaborata in una comprensione intellettuale ulteriore.
Husserl così riduce il mondo naturale dell’esperienza da cui era partito per la fondazione della
geometria euclidea con il mondo psichico dell’esperienza vissuta della coscienza pura
trascendentalizzata, mentre, d’altra parte, considera legittima, seppure non opera la riduzione
trascendentale, la presunta riduzione operata dalla fisica del mondo della Natura a un mondo di
mere cose materiali, da cui, con atteggiamento intenzionale teoretico puro, si esclude qualsiasi
considerazione appartenente alla sfera affettivo-emotiva, alla sfera etica dei valori, alla sfera
pratica-strumentale dell’uso e degli interessi, alla sfera di senso esistenziale. D’altra parte, la
dimensione sperimentale viene considerata come parte di quella teoretica, che bisogna mettere in
discussione, perché le cose si mostrano spontaneamente in sé come fenomeni nell’esperienza
umana, ma gli esperimenti non permettono che le cose si mostrino in sé, ma le forzano in questa
riduzione teoretica esclusiva.
104
Unico modo per accedere al mondo vero è, quindi, ricostituirlo a partire dagli atti intenzionali
(rappresentazione, percezione, memoria) della coscienza pura che lo costituiscono come tale, e in
particolare come esperienze vissute che sono a loro volta oggetti di riflessione (il mondo si coglie
solo come il correlato oggettivo di una coscienza pura, che s’intenziona verso di esso e che si
presenta quindi non come un’io empirico come in Descartes, ma come una soggettività
trascendentale eidetica che sola ha certezza di sé, come residuo della riduzione fenomenologica, in
una percezione immanente che ne assicura l’esistenza assoluta, ovvero indipendente dall’esistenza
di un mondo esterno, e che non è quindi individuale ma piuttosto si costituisce come
un’intersoggettività originaria): Husserl vuole partire da una correlazione originaria soggettomondo, sperando così di superare l’astratto realismo delle cose in sé e l’astratto idealismo di una
coscienza in sé a cui il mondo è interno (la coscienza attuale è sempre “coscienza di” qualcosa), ma
comunque il mondo si costituisce solo attraverso il soggetto come fenomeno per una coscienza
pura, che ne costituisce l’orizzonte di senso, ed il mondo è così ridotto a pure essenze.
Questa
prospettiva di Husserl vuole superare con l’idealismo trascendentale post-kantiano la
metafisica distinzione (kantiana) fra fenomeno e noumeno, e si ripropone, in un contesto storico
mutato, una rifondazione filosofica della conoscenza scientifica da un punto di vista che resta
soggettivistico e che certamente non tiene conto che indirettamente della problematica humeana
ormai lontana. Husserl segue il dubbio metodico cartesiano e si arresta allo stesso modo
all’indubitabile certezza dell’io, ormai trascendentalizzato alla Kant. C’è, poi, appunto, secondo
Husserl, oltre l’intuizione sensibile kantiana, un’intuizione categoriale (non dell’intelletto kantiano)
che permette di accedere, oltre l’intuizione empirica, alle universali e a priori modalità d’essere
“oggettive” in cui si struttura l’esperienza, cosicché si ha una intuizione eidetica dai singoli dati
empirici alle “essenze oggettive” (dei “trascendentali oggettivi”, ontologici) delle cose, perché le
varie modalità d’essere, seppure si danno solo allo sguardo teoretico disinteressato, non sono
determinate dal soggetto e ne sono indipendenti: l’universalità dei fenomeni della fenomenologia si
presenta da sé nei fenomeni stessi eidetici e non deve essere aggiunta dall’esterno dal soggetto o
105
essere estrapolata per induzione successiva come nei fenomeni naturali dati ai sensi a partire dai
quali non si potrà mai risalire a una certezza universale e di cui non si potrà mai fare scienza
rigorosa.
Solo questa intuizione eidetica permette di fondare una scienza rigorosa, che non è possibile
fondare a partire dall’esperienza come vorrebbero le scienze naturali. Che fosse possibile fondare
una scienza rigorosa era per Kant una fiducia assoluta nella scienza newtoniana, ma per Husserl,
che non ritiene fondate le scienze naturali, resta una mera petizione di principio, come anche il fatto
che ci sia un’essenza ideale delle cose coglibile da un’intuizione eidetica e che lo porta al rischio di
scivolare, con la riduzione fenomenologica, da un aristotelismo delle forme sempre unite alla
materia a un realismo delle idee, ovvero a una sorta d’idealismo platonico senza iperuranio, o a un
idealismo trascendentale che ha un risvolto ontologico.
L’intuizione eidetica aprirà comunque la strada all’ontologizzazione del trascendentale kantiano da
parte di Heidegger.
6.2 Husserl e La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale
Ne La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale, opera scritta nel 1936 ma
pubblicata solo in parte nel 1937 e poi, in modo completo, postuma nel 1954,32 Husserl terrà conto
dell’analitica esistenziale di Heidegger, che, nel 1927, con Essere e tempo, si era distaccato dalla
sua filosofia mantenendo un impianto strutturale analogo ma sostanzialmente ribaltandola.
Già in Essere e Tempo del 1927, Heidegger aveva delineato l’origine derivata e secondaria della
teoria in una pre-comprensione pratica del mondo, che si ha già per il solo fatto di esistere: in
particolare, anche la scienza moderna ha questa origine in una pre-comprensione pratica,
strumentale-tecnica, del mondo in termini di mera utilizzabilità umana, da cui poi astrae.
32
E. HUSSERL (1936), Die Krisis der europäischen Wissenschaften und die transzendentale Phänomenologie, in
Husserliana, Gesammelte Werke, Bd. VI, Nijhoff, Den Haag 1954, 1959; tr. it. di E. FILIPPINI, La crisi delle scienze
europee e la fenomenologia trascendentale, il Saggiatore, Milano 1961.
106
Heidegger aveva considerato, sulla base dell’idea di Husserl della fisica come riduzione della
Natura a mere cose materiali sussistenti,33 semplicemente presenti nella forma che precede e
prescinde da ogni uso (Vorhandenheit) e ogni senso umano, la scienza moderna come una demondificazione della Natura, una sua reificazione.
Nel semestre invernale 1928-1929, Heidegger aveva tenuto a Friburgo un corso sull’Avviamento
alla Filosofia (disponibile agli studiosi, però, solo dal 1996),34 che in realtà era sulla crisi delle
scienze: qui, tratteggiava la filosofia e la scienza come modalità dell’esistenza dell’esserci umano.
Ma la filosofia è una comprensione ontologica dell’essere, mentre il sapere scientifico si costituisce
come conoscenza ontica degli enti, che presuppone come fondamento una pre-comprensione
ontologica dell’essere. La scienza moderna entra in crisi e perde di senso quando non è più
consapevole di avere il suo fondamento nel progetto di comprensione dell’essere pre-ontologico o
ontologico che sta nella filosofia e si auto-inganna considerandosi una forma di sapere assoluto e
superiore: così, la scienza che si autonomizza dalla filosofia diviene una conoscenza che resta
chiusa su una pre-comprensione ontologica non più messa in discussione, in un “paradigma” di un
sapere positivo che riduce gli enti a dati, in una dimensione che prescinde così dal loro esistere, e
quindi dalla loro genesi e dal loro divenire. La scienza così disvela gli enti, ma li oscura nell’oblio
dell’essere. La scienza moderna è un nuovo modo d’esistere collettivo dell’esserci umano, che
segna una nuova epoca, basato sulla particolare pre-comprensione dell’essere come Natura: l’essere
non viene colto come significatività e finalità per l’essere umano ma come qualcosa che giace
dinnanzi in una sua pre-manipolabilità (Vorhandenheit), in una dimensione che precede quella
pragmatica della pratica umana (Zuhandenheit), e che si offre primariamente allo sguardo teoretico.
In questa pre-comprensione dell’essere come Natura, non c’è solo la de-mondificazione teoretica
33
E. HUSSERL, Ideen zu einer reinen Phänomenologie und Phänomenologischen Philosophie. Erstes Buch: Allgemeine
Einführung in die reine Phänomenologie, in Jahrbuch für Philosophie und phänomenologische Forschung, I,
Niemeyer, Halle 1913, II e III, Kluwer, a cura di M. Biemel, Dordrecht 1952; I a cura di K. Schuhmann, Nijhoff, Der
Haag 1976; tr. it. a cura di E. Filippini e di V. Costa, intr. di E. Franzini, Idee per una fenomenologia pura e una
filosofia fenomenologica, Einaudi, Torino 1965, 2002, II, § 11, pp. 25-26.
34
M. HEIDEGGER (1928-1929), Einleitung in die Philosophie, a cura di O. VON SAAME & I. SAAME-SPEIDEL, in
Gesamtausgabe, vol. 27, Klostermann, Frankfurt am Main 1996, 2001; tr. it. a cura di M. BORGHI, con I. DE GENNARO
& G. ZACCARIA, Avviamento alla filosofia, Marinotti, Milano 2007.
107
dell’essere che invece si manifesta sempre a noi all’interno di un orizzonte vitale di senso, come
detto già in Essere e Tempo, ma vi è anche la riduzione della Physis a Natura, cioè a qualcosa che
esclude l’umano e lo spirito e che ad essi si contrappone. Se nella philosophia naturalis del
medioevo l’essere veniva colto nella sua dimensione di mutamento generale che comprendeva,
aristotelicamente, anche la generazione e la corruzione, l’alterazione qualitativa e i processi di
crescita e decrescita che caratterizzano i viventi, ma anche, in una prospettiva di elementare
quantificazione o di rappresentazione grafica, il mutamento di qualità sensibili o anche di sentimenti
come l’amore, la nuova fisica atomistica moderna riconduce ogni fenomeno al puro movimento
locale di atomi costitutivi considerati come immutabili corpi materiali dotati di sole qualità
geometriche e di peso. Se ancora nell’atomismo antico e nell’atomismo monadico di Giordano
Bruno sussistevano gli aspetti di ilomorfismo che caratterizzavano comunque l’essere come una
Physis animata e vivente fin nelle sue parti costitutive all’interno di una filosofia generale che
comprendeva comunque anche una teoria della conoscenza, un’antropologia, una zoologia e
un’etica, l’autonomizzazione della fisica come scienza separata dalla filosofia ridusse lo stesso
atomismo a una fisica in senso del tutto ristretto corrispondente alla riduzione della Physis a Natura.
Se la finalità e il senso umani del mondo, insieme alla veridicità dell’esperienza umana, erano stati
messi in discussione dalla “rivoluzione francescana” prima e dalla “rivoluzione copernicana” poi,
allora Gilbert, Harriot, Galileo si erano limitati a esperienze meccaniche, a esperimenti con
macchine-strumenti che non possiedono i sensi e che quindi non possono disvelare qualità sensibili
e vitali, sentimenti, valori morali, sensi, finalità: il “metodo sperimentale” produsse l’autonomia e la
separazione della fisica come disciplina dalla filosofia, la riduzione della filosofia naturale a una
tecnica e poi della Natura a macchina. Questo complesso processo storico contingente non viene
analizzato da Heidegger, il quale però ne coglie l’esito nel ribaltamento che comportò nella precomprensione ontologica dell’essere, della Physis. La scienza moderna, così, non si pone come
mera conoscenza teoretica, come un mero lasciar essere le cose al di là del loro uso umano, ma ha
anche un carattere pratico che le deriva dal legame indissolubile con la tecnica che opera un
108
dominio sugli enti, se non altro attraverso l’esperimento che è intervento e manipolazione tecnica:
alla manipolazione umana della Zuhandenheit si sostituisce una manipolazione tecnica su cui si
basa la teoria. Così, la comprensione ontologica teoretica dell’essere si radica su una precomprensione tecnica, instaurando un altro tipo di comprensione dell’essere in termini di una
utilizzabilità tecnica a fini scientifico-conoscitivi che non è la mera estensione dell’utilizzabilità
umana con finalità pratiche e comportando una distruttiva “anatomia del mondo” nelle sue parti
costitutive che avrà come conseguenza la scoperta di una più radicale utilizzabilità tecnica della
Natura devastante. Per Heidegger, questa modalità scientifica moderna dell’esistenza ha portato a
un’“indicibile barbarie”: su questa base svilupperà poi l’idea della tecnica moderna come
presupposto finalistico della scienza moderna e come massima espressione della storia dell’oblio
metafisico dell’essere. Questo testo segue in qualche modo le considerazioni sulla scienza moderna
presenti in Sociologia del sapere di Max Scheler35 (Heidegger traspone l’analisi sociologica di
Scheler sul piano più fondamentale, filosofico, trascendentale-ontologico dell’esistenza storica
dell’esserci umano) e orienterà la riflessione sul rapporto fra scienza, tecnica e modernità in Herbert
Marcuse, e quindi poi, attraverso Marcuse, di Horkheimer e Adorno; ma non si può sapere se il suo
contenuto sia stato noto in qualche modo a Husserl, anche se Husserl sembra riprenderne i temi
fondamentali.
Husserl, che prima aveva legittimato la fisica moderna nella sua riduzione della Natura a mere cose,
adesso, nel 1936, riconosce con Heidegger questa reificazione negativa del mondo operata dalla
scienza, ma comunque cercando di salvarla in un’operazione che le restituisca senso.
Husserl tematizza il “mondo-della-vita” (Lebenswelt) per tenere conto della problematica
esistenziale dell’essere-nel-mondo di Heidegger e dell’origine pratica della scienza moderna.
35
M. SCHELER, Probleme einer Soziologie des Wissens, Francke, Bern 1924; poi in Wissensformen und die
Gesellschaft: Probleme einer Soziologie des Wissens. Erkenntnis und Arbeit, eine Studie über Wert und Grenzen des
pragmatischen Princips in der Erkenntnis der Welt. Universität und Volkshochschule, Der Neue Geist, Leipzig 1926;
poi in Gesammelte Werke, Band 8, Francke, Bern 1960; tr. it. di D. ANTISERI, introd. di G. MORRA, Sociologia del
sapere, Abete, Roma 1976.
109
Husserl passa dal problema iniziale della sua fenomenologia, che cercava di tenere conto allo stesso
tempo dell’autonomia logica delle teorie e dei concetti scientifici e della loro genesi psicologica, a
una fenomenologia che si storicizza nel suo nascere e si situa nell’heideggeriano mondo storicoesistenziale dell’umanità e quindi che cerca di mantenere la sua autonomia teoretica all’interno
della sua genesi storica. La sua fenomenologia si presenta così quale una modalità di esistenza
contemplativo-teoretica che vuole riconnettersi all’origine della filosofia greca al suo valore
teoretico-conoscitivo. E, dall’altra parte, Husserl mostra la genesi storica e tecnica, pratica, della
scienza e della sua forma moderna e il suo senso meramente pratico-tecnico legato alla Lebenswelt.
Husserl fa così emergere con Heidegger il presupposto tecnico-pratico e l’astrazione specifica della
scienza moderna da considerazioni umane di valore e di senso,
Riconosce, cioè, in qualche dettaglio, soprattutto attraverso l’esempio dell’origine della geometria
da pratiche di misure di terreni, il fatto che dietro le teorie scientifiche ci sia l’esperienza pratica e
tecnica del mondo come suo presupposto, cioè che l’essere-nel-mondo-dell’esperienza-della-vita sia
la base del, e preceda il, mondo-della-scienza, ma ritiene che la scienza ha e può recuperare un
senso, seppure solo pratico-previsionale di eventi naturali, nella Lebenswelt, nonostante ne sia una
reificazione.
Tuttavia, non ammette che possa costituire un apriori, trascendentale ontologico, storico e praticotecnico, della scienza moderna nel senso negativo di una modalità di esistenza umana volta al
violento dominio tecnico della Natura, come poi si espliciterà sempre di più in Heidegger. Invero,
Husserl rifiuta pure la prospettiva heideggeriana per cui è questo mondo-della-vita il fenomeno del
mondo: perché bisogna effettuare proprio un’epoché anche del mondo-della-vita, per costituire
invece eideticamente e trascendentalmente il fenomeno del mondo nella coscienza pura. La
riduzione fenomenologica resta fondamentale anche per questa più matura versione della sua
fenomenologia che si misura con la genesi storica.
Husserl, in questa prospettiva, cerca di delineare l’opera di Galileo come caratterizzante la scienza
moderna, come Heidegger stesso non aveva fatto in Essere e tempo, in cui la critica principale si
110
svolgeva nei confronti della prospettiva scientifica di Descartes: Heidegger aveva dedicato solo
qualche pagina a Galileo e a Newton nel corso del 1928-1929. Husserl ribadisce e riconosce, in
qualche dettaglio, il fatto che dietro le teorie scientifiche ci sia l’esperienza pratica e tecnica del
mondo come suo presupposto, cioè che l’essere-nel-mondo-della-vita sia la base del, e preceda il,
mondo-della-scienza: questo, però, se ne distacca in qualche modo, perdendo il senso stesso delle
sue operazioni, attraverso un processo di idealizzazione geometrica e di astrazione. Nella
prospettiva husserliana, Galileo non scopre la struttura matematica della Natura, ma piuttosto opera
una matematizzazione della Natura, scambiando il metodo matematico, che ha solo finalità pratiche
di previsione e di controllo dei fenomeni, per il vero essere del mondo. Questa matematizzazione
diventa sempre più formale e astratta nel passaggio storico dalla geometria euclidea intuitiva alla
geometria analitica di Descartes basata sull’algebra astratta, e poi all’analisi e alla geometria
differenziale, alle geometrie non-euclidee. Da questo punto di vista, la teoria della relatività di
Einstein del 1905 e del 1915 e la fisica quantistica costituiscono un maggiore allontanamento dal
mondo-della-vita e non possono fondare una nuova esperienza dello spazio e del tempo, perché non
si occupano di questa. Husserl si distacca così anche dall’interessante tentativo, compiuto dal suo
allievo Oskar Becker (1889-1964), già dal 1923 e poi anche sulla base del pensiero di Heidegger, di
rifondare e intepretare fenomenologicamente la teoria della relatività, cosa che in qualche modo
anche Heidegger farà.
Anche Heidegger, nelle lezioni del 1936 poi pubblicate con il titolo La questione della cosa,36 pensa
alla concezione matematica della Natura come a priori assunta – appiattendo la posizione di Galileo
su quella successiva di Descartes ripresa da Newton – e quindi fondata solo metafisicamente nella
volontà che tutto sia conosciuto razionalmente e anticipatamente nel calcolo.
Non si rendono conto che la misurazione sperimentale e la corrispondente quantificazione sono
necessarie per Gilbert, Galileo, Harriot, per stabilire a posteriori la scrittura matematica del mondo
da parte di Dio: questa è una conseguenza del volontarismo teologico francescano, per cui la
36
M. HEIDEGGER (1935), Die Frage nach dem Ding. Zu Kants Lehre von den transzendentalen Grundsätzen, Niemeyer,
Tübingen 1962; tr. it. a cura di V. VITIELLO, La questione della cosa, Guida, Napoli 1989.
111
volontà di Dio imperscrutabile è conoscibile solo a posteriori (solo il razionalismo teologico sorto
dall’ellenizzazione del Cristianesimo assicurava eventualmente a priori la scrittura matematica del
mondo, che, come tale, poteva prescindere da una quantificazione dei fenomeni).
Come Husserl non si rende conto che la pratica su cui è fondata la scienza moderna non è
l’esperienza tecnica nel mondo della vita come nel caso dell’origine della geometria euclidea, ma
una pratica sperimentale in cui gli strumenti tecnici sono de-funzionalizzati dalle loro finalità
tecniche e sono usati solo per comprendere la Natura in sé al di là dell’esperienza umana: i
fenomeni che si producono in un esperimento non si danno nell’esperienza, e usano oggetti che
sono degli artefatti già costruiti matematicamente e che non richiedono quindi un’idealizzazione
matematica della Natura; piuttosto, comportano una materializzazione di modelli matematici ideali:
la geometria di Galileo non è l’astratta geometria euclidea, ma la geometria meccanica di
Archimede. Così, Husserl erroneamente attribuisce a Galileo la geometrizzazione euclidea dello
spazio fisico e di infinitizzazione del cosmo in senso più ideale-matematico che reale: questo errore
costituirà il punto di partenza dell’interpretazione della scienza moderna nel suo allievo, storico
della scienza, Alexandre Koyré, e si diffonderà fino a oggi nella storia della scienza. Koyré parlerà,
appunto, di matematizzazione della Natura, e sottovaluterà l’importanza dell’esperimento: infatti,
per Husserl, i fenomeni vanno costruiti a partire dalla manifestazione spontanea delle cose
nell’esperienza umana e gli esperimenti come manifestazioni forzate al di là dell’esperienza
conducono a teorizzazioni al di là dell’esperienza non accettabili.
Al contrario gli esperimenti sono fondamentali nella scienza moderna nel superamento dei limiti
dell’esperienza umana. Anche la produzione di fenomeni in un esperimento è la conseguenza
necessaria del volontarismo teologico, in quanto Dio avrebbe potuto agire-creare secondo modalità
che sfuggono alla nostra esperienza ma che si danno nella Natura al di là della nostra esperienza
(come un vuoto o altri mondi al di là del nostro di cui abbiamo esperienza): per conoscere la volontà
di Dio, più ampiamente nella Riforma, bisogna compierla; come la fede si mostra nelle opere, così
la conoscenza della volontà di Dio, che determina le eventuali leggi di Natura, si può avere solo nel
112
produrre e riprodurre i fenomeni. Così, il cannocchiale, strumento tecnico che produce nuovi
fenomeni di visione, mostra che esistono astri al di là della nostra esperienza e che gli astri hanno
proprietà materiali che non si manifestano alla nostra esperienza; allo stesso modo, è necessario
considerare se è possibile produrre artificialmente il vuoto per comprendere se Dio ha creato
l’universo in un modo che eccede la nostra esperienza. La scienza galileiana non ha quindi
un’intrinseca finalità tecnica, ma al contrario usa la tecnica con finalità scientifiche.
Certamente, però quest’uso della tecnica divenne un “cavallo di Troia” per dare finalità tecniche
alla scienza, già proclamate da Francis Bacon e in parte da Descartes, e in maniera inconsapevole
aprì la strada a una concezione tecnica della Natura, come la concezione meccanicistica della
Natura che si impose come una metafisica tecnica della scienza moderna, già in Descartes. E già
con Descartes e Newton, con l’assiomatizzazione delle leggi di Natura come date a priori, si tornò a
una metafisica matematica della scienza moderna, in cui la matematica tornava a costituire a priori
l’idea della Natura in corrispondenza a una razionalizzazione del volontarismo teologico (Descartes
usa, per questa operazione, l’argomento della volontà non-ingannatrice di Dio).
Il confronto con le scienze fa emergere degli altri aspetti del suo pensiero: per Husserl la
fenomenologia resta, per esempio, pre-copernicana, perché la base su cui si costituisce poi la
conoscenza scientifica è quella dell’esperienza vissuta dall’essere umano che è radicata nella Terra
come punto d’osservazione37: questo chiarimento mostra, come già detto, perché l’analogia posta da
Kant tra la sua prospettiva e la “rivoluzione copernicana” poteva risultare fuorviante, dato il rilievo
assegnato al soggetto umano seppure trascendentale. Si ha così il paradosso per cui per l’essere
umano il fenomeno del tramonto è, seppure apparenza per la scienza naturale post-copernicana,
37
E. HUSSERL (1934), Umsturz der koperkanischen Lehre in der gewöhnlichen weltanschaulichen Interpretation,
pubblicato postumo con il titolo Grundlegende Untersuchungen zum phänomenologischen Ursprung der Raumlichkeit
der Natur, in Philosophical Essays in Memory of Edmund Husserl, ed. M. Farber, Cambridge Harvard University Press,
Cambridge (Mass.) 1940, pp. 307-325; Rovesciamento della dottrina copernicana nell'interpretazione della corrente
visione del mondo, tr. it. a cura di G. D. Neri, in aut-aut 245 (1991), pp. 1-18; il titolo completo dato da Husserl
suonava: Rovesciamento [Umsturz] della dottrina copernicana nell'interpretazione della corrente visione dei mondo.
L'Arca originaria Terra non si muove. Ricerche fondamentali circa l'origine fenomenologica della corporeità, della
spazialità, della natura nel senso primario delle scienze naturali.
113
eideticamente reale nella sua essenza38 e il moto rotatorio della Terra intorno al suo asse, che è alla
base di quel fenomeno, non ha realtà effettiva ma astratta perché non riferita al senso che ha per
l’essere umano conoscente, esulando dalla struttura universale dell’esperibilità umana. Così, tutta la
prospettiva delle teorie fisiche della relatività, sia di Bruno e Galileo sia di Poincaré ed Einstein, è
considerata astratta e non restituente la realtà e il senso effettivi delle cose. Il fenomeno tematizzato
dalla fenomenologia non è più il fenomeno oggettivo del senso ordinario o della scienza e neppure
quello kantiano, ma è un fenomeno completamente soggettivistico. La fenomenologia era nata per
comprendere i fenomeni psicologici o logici interni alla coscienza (gli atti intenzionali della
coscienza erano già stati introdotti per quelli da Franz Brentano che però li considerava immanenti
alla coscienza e non correlativi ad essa come Husserl), ma applicata ai fenomeni naturali si è
rivelata riduttiva e antropocentrica.
38
Si veda la corrispondente discussione, sul tempo del mondo, da parte di Heidegger nel § 80 di Essere e Tempo, che fa
pensare ad una prospettiva di pensiero a cui quanto meno non interessa nulla del copernicanesimo: M. HEIDEGGER, Sein
und Zeit, Niemeyer, Tübingen 1927, 2001; a cura di F.-W VON HERMANN, in Gesamtausgabe, vol. II, Klostermann,
Frankfurt am Main 1977 (la prima con le glosse a margine dell’Hüttenexemplar - esemplare della baita - di Heidegger);
tr. it. di P. CHIODI, Essere e tempo, Longanesi, Milano 1970; con aggiornamento bio-bibliografico di A. MARINI 1976;
nuova edizione italiana a cura di F. VOLPI sulla versione di P. CHIODI con le glosse a margine dell’Hüttenexemplar di
Heidegger, Longanesi, Milano 2005; tr. it., con testo tedesco a fronte, a cura di A. MARINI, Essere e tempo, Mondadori,
Milano 2006.
114
7. Il tentativo di ripristinare una metafisica ontologica: Martin Heidegger
Martin Heidegger (1889-1976) inizia in qualche modo come teologo e come fenomenologo della
vita religiosa: sulla formazione teologica si era innestata quella filosofica, che da un certo momento
in poi fu influenzata in maniera decisiva dalla fenomenologia di Husserl.
La fenomenologia gli permetteva di ricomprendere l’esperienza religiosa del cristianesimo
originario al di là della sovrastruttura teologica. Era stato questo il tema di Heidegger nei suoi primi
corsi a Freiburg,39 in cui aveva delineato i limiti e le “deviazioni”, l’autocomprensione falsata della
vita propria di quelle pratiche teoretiche che astraggono dalla vita, paradigmatiche, a partire dal
pensiero antico greco, di tutta la filosofia occidentale come della scienza, caratterizzanti la
conoscenza come separata dalla vita fattizia e operanti, di converso, un processo di devitalizzazione e di de-naturalizzazione della stessa vita. A tali pratiche teoretiche separate dalla vita,
Heidegger contrapponeva l’autocomprensione (storica) autentica della vita fattizia storica nel
mondo nell’esperienza del cristianesimo originario, che identificava con quello “paolino”,
derivandolo da un'interpretazione dei più antichi testi delle lettere di Paolo (la lettera ai Galati e le
due lettere ai Tessalonicesi).
Già qualche anno dopo, Heidegger tradirà in effetti tale proposito radicale di comprensione
inevitabilmente storica, di una declinazione storica della fenomenologia, e ontologizzerà il suo
pensiero nel tentativo di una fondazione puramente filosofica di una teoria generale, universalmente
valida, di una “analitica” dell’esistenza e dell’essere, staccata trascendentalmente dall’esperienza
storica e dalla vita fattizia: i corsi di Freiburg, pubblicati solo da qualche anno e ancora poco
studiati, sono fra l’altro perlopiù interpretati in continuità, come meri antecedenti storici di Sein und
Zeit, senza che se ne comprenda l’irriducibile rivoluzionarietà perduta negli sviluppi successivi.40
39
M. Heidegger (1995), Phänomenologie des religiösen Lebens. 1.Einleitung in die Phänomenologie der Religion (WS
1920/21), a cura di M. Jung e T. Regehly. 2. Augustinus und der Neuplatonismus (SS 1921). 3. Die philosophischen
Grundlagen der mittelalterlichen Mystik (1918/19) a cura di C. Strube, in Gesamtausgabe LX , Klostermann, Frankfurt
am Mein, tr. it. di G. Gurisatti, a cura di F. Volpi, Fenomenologia della vita religiosa, Adelphi, Milano 2003.
40
M. Heidegger (1927), Sein und Zeit, Niemeyer, Tübingen, tr. it. di P. Chiodi, Essere e tempo, Longanesi, Milano 1976.
M. Heidegger (1975), Die Grundprobleme der Phänomenologie, Klostermann, Frankfurt am Main, tr. it. di A. Fabris, I
problemi fondamentali della fenomenologia, il melangolo, Genova 1988, pp. 218-327. Si veda anche: G. Gregorio,
Hans-Georg Gadamer e la declinazione ermeneutica della fenomenologia , Alfieri & Ranieri, Palermo 1997.
115
In tale prospettiva iniziale, Agostino era interpretato come caso complesso di autocomprensione
della vita fattizia cristiana, già in gran parte però minata da elementi neoplatonici in un quadro
teoretico onto-teologico in cui lo stesso Cristianesimo occidentale, ellenizzato e latinizzato, postniceano si configurerà dissolvendo la stessa esperienza originaria della vita protocristiana.
Le istanze vitali del Cristianesimo trovano, in qualche modo, forma nell’esistenzialismo
kierkegaardiano. D’altra parte, la fenomenologia, almeno nella sua prima formulazione delle
Ricerche Logiche di Husserl, sembra potere accogliere queste istanze: il principio del ritorno alle
cose stesse e il superamento della metafisica dei noumeni sembrano poter realizzare filosoficamente
la concretezza vitale del Cristianesimo. E soprattutto l’intuizione eidetica categoriale, senza la
riduzione fenomenologica successivamente introdotta da Husserl, permette di cogliere l’essere delle
cose stesse: Husserl riteneva che l’essere delle cose stesse risiedesse nell’astratta essenza universale
e ideale, ma per Heidegger stava nell’universale concreta esistenza singolare e reale delle cose.
Heidegger così sviluppa negli anni una propria “fenomenologia esistenziale”, dove l’esistere non ha
però il carattere soggettivistico moderno che aveva in Kierkegaard ma piuttosto si identificava con
l’essere: la critica di Kierkegaard a tutta la tradizione filosofica e a Hegel di aver dimenticato di
confrontarsi con l’esistere si tramuta in Heidegger nella critica a tutta la tradizione filosofica di aver
obliato l’essere. La sua fenomenologia si caratterizza così come “ontologica”, dove però il limite
kantiano a una metafisica ontologica dell’essere in sé delle cose è in parte rispettato
nell’eliminazione dei noumeni, perché l’essere in sé si dà nei fenomeni. Parzialmente, però, perché,
al contrario che in Husserl, l’essere in sé delle cose non si dà mai completamente nei fenomeni, cioè
nell’esperienza del soggetto umano, ma neanche si dà all’intelletto umano come noumeno e
piuttosto resta in parte celato all’esperienza e all’intelletto del soggetto umano: la verità dell’essere
è infatti sempre a-letheia, nel senso negativo di un non-nascondimento, di una dis-velatezza o disascosità, e mai positivamente racchiudibile in un dato positivo totale. Dell’essere si ha sempre
esperienza parziale nell’esistere, una pre-comprensione parziale, e quindi misteriosa, nell’esistenza.
116
Nella misura in cui, però, l’essere dell’ente è ancora colto husserlianamente come forma universale,
come eidos, come essenza seppure dell’esistenza singolare, l’esistenza è ricondotta ad essenza e
l’essere a concetto universale ipostatizzato, Heidegger ricade in una metafisica ontologica.
In Sein und Zeit, così, Heidegger, di fronte alla crisi del pensiero moderno, ha ritenuto che fosse
necessario abbandonare la metafisica soggettivistica, propria anche di Husserl nel suo rifarsi a
Descartes, e ritornare ad un’antica metafisica ontologica: la crisi della modernità viene affrontata
con una critica assoluta della modernità.
Heidegger tenta così di mettere insieme trascendentalismo kantiano e poi hegeliano, fenomenologia
husserliana, l’ermeneutica di Wilhelm Dilthey (1833-1911), ed esistenzialismo kierkegaardiano
all’interno di una prospettiva metafisico-ontologica. Heidegger, in Essere e tempo, sostituirà alla
correlazione coscienza-mondo di Husserl, la correlazione essere umano – mondo, che si costituisce
nell’essere-nel-mondo che è il Da-sein: il soggetto si correla al mondo nel suo esistere.
Dall’interpretazione dell’ontologia di Aristotele in termini della techne antica come produzione
poietica più che da Marx,41 dell’essere come un fare, Heidegger ha ripreso a suo modo il tema di
una pre-comprensione del mondo di tipo pratico: l’incontro primario con le cose è nella prassi,
come cose con cui si ha a che fare, pragmata. E deriva ad Heidegger anche dalla prospettiva del
mondo dell’esperienza pura pre-teoretica che Husserl aveva delineato ma come base di partenza da
cui poi ci si doveva distaccare con atteggiamento teoretico. Per Heidegger, le cose non si stagliano
davanti a noi come enti puramente sussistenti in sé (Vorhandenheit) come poi considerati
teoreticamente dalla fisica che prescinde da tutte le considerazioni di valore e di senso per l’uomo.
Tuttavia, per allontanarsi da questa prospettiva teoretica connotò questo rapporto pratico in senso
puramente strumentale legato all’uso del mondo da parte dell’essere umano, con cose che si danno
nella loro manipolabilità umana (Zuhandenheit). Da questa prassi strumentale, in ogni caso, riesce a
risalire a un mondo che si dà all’esperienza, come fenomeno, nei termini delle finalità umane, e
M. HEIDEGGER (1931), Aristoteles, Metaphysik 1-3. Vom Wesen und Wirklichkeit der Kraft, Klostermann,
Frankfurt am Main 1981; tr. it. di U. UGAZIO, Aristotele, Metafisica 1-3. Sull’essenza e la realtà della forza, Mursia,
Milano 1992.
41
117
quindi nei termini di una significatività umana, di un senso esistenziale per l’essere umano. Da
questo punto di vista, l’essere delle cose si manifesta all’essere umano in termini di utilizzabilità
umana, di significatività umana. Se l’essere delle cose rappresenta così una concretizzazione
rispetto all’essenza universale e ideale husserliana, pure il considerarlo solo in termini del loro
senso esistenziale per l’uomo effettua un’altra forma di riduzione fenomenologica. Heidegger però
può superare l’antropocentrismo insito in questa prospettiva, nella consapevolezza che questa
manifestazione dell’essere delle cose è sempre parziale e c’è sempre dell’altro, e che questa
manifestazione è sempre relativa se non al singolo individuo almeno ad una determinata epoca
storica: la verità dell’essere delle cose non è quindi eterna o assoluta, come la verità delle leggi di
Newton; la verità non è neppure esclusiva della scienza moderna, del sapere scientifico rispetto a
quello filosofico o mitico, ma in tutte le forme del sapere c’è un differente modo di manifestarsi del
non-nascondimento dell’essere delle cose. Tuttavia, si può dire che la prassi, l’esperienza e il dare
senso alle cose da parte dell’essere umano sono in qualche modo, idealisticamente, ontologizzati
secondo una fenomenologia trascendentale, seppure diversa da quella di Husserl42.
L’analitica dell’esistenza di Kierkegaard è così ripresa e riformulata: la concreta esperienza
esistenziale di Kierkegaard è sostituita in Heidegger da un’analitica trascendentale della struttura
ontologica dell’esserci (non gnoseologica come in Kant), che prescinda dall’esperienza. Al di fuori
della concreta dinamica esistenziale considerata da Kierkegaard nei suoi salti da una vita estetica ad
una etica e a una religiosa, l’angoscia e la morte stessa vengono trascendentalizzate in uno struttura
ontologica dell’essere-per-la-morte che in qualche modo le neutralizza.
L’epoché del mondo operata da Husserl è quindi rifiutata, perché la costituzione del mondo come
fenomeno non è operata dalla coscienza, ma sul piano stesso dell’esistere nel mondo stesso. Il logos
che può operare questa costituzione, così, per Heidegger, non è quello della tradizione razionalistica
42
M. HEIDEGGER, Sein und Zeit, Niemeyer, Tübingen 1927, 2001; a cura di F.-W VON HERMANN, in Gesamtausgabe,
vol. II, Klostermann, Frankfurt am Main 1977 (la prima con le glosse a margine dell’Hüttenexemplar - esemplare della
baita - di Heidegger); tr. it. di P. CHIODI, Essere e tempo, Longanesi, Milano 1970; con aggiornamento bio-bibliografico
di A. MARINI 1976, § 7 pp. 46-47, § 7 C, p. 55; nuova edizione italiana a cura di F. VOLPI sulla versione di P. CHIODI
con le glosse a margine dell’Hüttenexemplar di Heidegger, Longanesi, Milano 2005; tr. it., con testo tedesco a fronte, a
cura di A. MARINI, Essere e tempo, Mondadori, Milano 2006, in particolare §§ 14-22.
118
che culmina nel paradigma esplicativo-causale delle scienze naturali quali scienze nomotetiche che
riconducono il fenomeno a una legge che lo sussume, ma quello proprio a una comprensione dei
fenomeni come significati nella loro irriducibile singolarità come nelle scienze dello spirito, nelle
scienze storiche come scienze idiografiche, come nell’interpretazione dei testi e quindi ermeneutico:
si tratta di una comprensione dei fenomeni in termini del loro senso per l’esistenza, perché anche il
mondo si costituisce come fenomeno in termini del suo senso esistenziale per l’essere umano, che si
dà all’interno di un pensiero poetante, ovvero del linguaggio poetico (in una sorta di trasformazione
linguistico-ermeneutica del kantismo).
Tuttavia, anche l’ermeneutica fenomenologica di Heidegger, pur superando l’intellettualismo
coscienzialistico di Edmund Husserl, presenta, come si è accennato, problemi analoghi per
raggiungere le “cose stesse”: se la costituzione del mondo come fenomeno è un fatto dell’esserci
umano, allora si comprende come Heidegger possa giudicare “poveri di mondo” gli altri esseri
animali, restando in una prospettiva antropocentrica; anche il linguaggio poetico, analizzato
soprattutto dall’ultimo Heidegger, non lo apre a superare l’orizzonte antropocentrico, perché è solo
l’essere umano che ‘poeticamente abita’ fra terra e cielo, nell’incontro con gli dèi che è dei soli
veramente mortali, per Heidegger gli esseri umani.
Nel § 43 di Essere e Tempo, Heidegger si confronta sia con il realismo sia con l’idealismo: da una
parte, Heidegger concorda con il principio realistico per cui il mondo esiste anche se la sua
esistenza non va dimostrata ma piuttosto è costitutiva dell’esserci come essere-nel-mondo; dall’altra
parte, Heidegger condivide il principio idealistico per cui l’essere è “nella coscienza”, cioè si dà
solo nella comprensione dell’esserci. Solo all’interno della comprensione dell’esserci si danno per
Heidegger le cose stesse, le cose in sé, che altrimenti resterebbero indeterminabili e indeterminate.
Nel § 44c, Heidegger afferma altresì che “ogni verità è relativa all’essere dell’esserci”, che prima e
dopo l’esserci non c’è verità, che è apertura o scoprimento del mondo nell’esserci: come esempio,
come già in parte riferito, Heidegger dice che le leggi di Newton, il principio di non contraddizione
non erano veri prima che fossero scoperti. L’ermeneutica fenomenologica di Heidegger ha quindi
119
una connotazione idealistica trascendentale che comunque resta soggettivistica e umanistica,
seppure il legame al soggetto umano non si situi su un piano gnoseologico puro,ma piuttosto di una
(pre-)comprensione ontologica esistenziale. Heidegger è consapevole che il mondo si incontra
prima nella prassi che nel pensiero, ma nel passare dalla pre-comprensione della prassi alla
comprensione ontologica dell’essere, ontologizzando la prassi, Heidegger subordina ancora la prassi
alla teoria (ontologica) e riconduce il mondo stesso alla comprensione ontologica che ne ha
l’esserci. Heidegger effettua un doppio movimento: segue la prospettiva gnoseologica che aveva
ricondotto l’ontologia alla gnoseologia, ma poi ontologizza la gnoseologia. Così, Heidegger crede
di poter superare l’aporia che oppone idealismo e realismo, ma invero, in quanto l’ontologizzazione
è comunque teoretica, Heidegger non riesce a superare il paradigma teoretico greco e resta
imprigionato in un soggettivismo gnoseologico: la sua ontologia resta nascostamente gnoseologia, è
gnoseologia travestita; ontologizzare il soggetto gnoseologico non implica soltanto una
contraddizione nel ridurlo a oggetto, ma anche un ridurre le cose alle forme conoscitive del soggetto
umano; anziché evitare i due errori del realismo e dell’idealismo, Heidegger li compie entrambi43.
La questione dell’essere, riproposta da Heidegger, è, se non la più antica, la questione storicamente
più importante della filosofia occidentale. Da dove ha origine? Essere è un verbo, una parte
fondamentale di un linguaggio umano legato a una scrittura alfabetico-fonetico-lineare, un concettorelazione fra altre parole-concetti, il concetto più generale che è incluso nella definizione di tutti gli
altri concetti che esprimono invenzioni fantastiche, enti puramente linguistici o pensati, o cose reali.
Questo concetto ha assunto un significato filosofico per l’interpretazione della Physis/Natura, a
partire dalla teorizzazione del divenire e del mutamento da parte di Eraclito in termini di essere e di
non essere, e poi dell’immutabilità da parte di Parmenide in termini di essere. Martin Heidegger,
seguendo la scia di Søren Kierkegaard, ha cercato di ridare concretezza all’essere, in
un’interpretazione ontologica dell’esistenza: non si tratterebbe più di un concetto teoretico, ma ciò
che solo è irriducibile a concetto, che resta quando sospendiamo tutti i concetti e tutte le teorie.
43
G. CALOGERO, Leggendo Heidegger, in Rivista di filosofia XLI, n.2 (1950), pp. 136-149; poi ristampato nella
seconda edizione de La scuola dell’uomo, in Scritti di Guido Calogero I, Sansoni, Firenze 1956, pp. 231-249.
120
Questa concretezza però può sussistere solo intendendo l’essere come “essere qualcosa o
qualcuno”, in una sua determinazione singolare, individuale. Tuttavia, nel momento stesso in cui
Heidegger pone come fondamentale, invero già in Sein und Zeit,44 la differenza ontologica tra
essere ed ente, univeralizzando l’essere astrae l’essere dall’ente, considera l’essere come
indeterminato e quindi lo riduce a concetto, a universale seppure non esistente platonicamente in sé,
ma sempre connesso a un individuo: non basta dire che l’essere è sempre l’essere di un ente, perché
nel dire questo non si specifica mai l’essere nella singolarità dell’ente cui si riferisce, tanto da
poterlo pensare come essere (generale, universale) degli enti.
Essere un particolare essere umano è diverso dall’essere un altro essere umano, come essere un
essere umano è diverso dall’essere una farfalla: perché l’essere sia concreto non può essere neanche
un universale di specie, deve essere considerato sempre e comunque nella sua singolarità
individuale. Nella originaria comunanza-partecipazione dell’essere a tutti gli enti, Heidegger
sperava di dare un fondamento ontologico-trascendentale all’etica, implicata nell’originario conessere almeno degli esseri umani; eventualmente estendibile illimitatamente, anche oltre Heidegger,
a un con-essere di tutti gli enti: un fondamento ancora più profondo, trascendentale, precedente alla,
e indipendente dall’osservazione empirica, fatta propria dalla teoria evoluzionistica dell’origine
delle specie, di una comune e unica origine di tutti gli esseri viventi.
Purtroppo, questa fondazione trascendentale ontologica escogitata da Heidegger per l’etica si è
rivelata illusoria. L’essere di Heidegger si è dimostrato un concetto etno-linguisticamente e
storicamente determinato all’interno degli sviluppi di un’etno-filosofia greca.
Guido Calogero aveva già fatto notare che quella di Heidegger era una metafisica neo-parmenidea,
e che quelle di Eraclito e Parmenide erano delle proto-logiche ontologizzate, delle onto-logiche
44
M. HEIDEGGER, Sein und Zeit, Niemeyer, Tübingen 1927, 2001; a cura di F.-W VON HERMANN, in Gesamtausgabe,
vol. II, Klostermann, Frankfurt am Main 1977 (la prima con le glosse a margine dell’Hüttenexemplar di Heidegger); tr.
it. di P. CHIODI, Essere e tempo, Longanesi, Milano 1970, con aggiornamento bio-bibliografico di A. MARINI 1976;
nuova edizione italiana a cura di F. VOLPI sulla versione di P. CHIODI con le glosse a margine dell’Hüttenexemplar
(esemplare della baita) di Heidegger, Longanesi, Milano 2005; tr. it., con testo tedesco a fronte, di A. MARINI, Essere e
tempo, Mondadori, Milano 2006; E. GIANNETTO, Un fisico delle origini. Heidegger, la scienza e la Natura, Donzelli,
Roma 2010.
121
sorte da un’ipostatizzazione della più comune funzione verbale.45 Se l’essere è questa
ipostatizzazione indebita, allora la filosofia non è rivelazione dell’essere, pensiero dell’essere, e il
linguaggio non è la dimora dell’essere né una sua rivelazione: il logos greco, presocratico, della
physis, era solo un discorso umano, un logo umano proiettato sulla Natura; solo il logos cristiano
era carne, era vita, era amore, era rivelazione e non può essere ricompreso insieme a quello greco.
Lo stesso pensiero dell’essere di Heidegger si è manifestato quale un mero ferro ligneo, che aveva
tentato di mettere insieme intellettualismo greco e prassi etica d’amore del Cristianesimo: la
rivelazione di Dio nella Natura non si può pensare in termini della physis greca ridotta
intellualisticamente a un logos ontologico.
Se l’essere è questa ipostatizzazione indebita, allora la storia degli enti e dell’esserci umano o
dell’umanità non è riconducibile alla storia dell’essere, come fa Heidegger dopo la svolta degli anni
trenta, traducendo nel suo linguaggio ontologico la ‘storia dello spirito’ di Hegel; né la storia
concreta dell’esistere umano può essere compresa in termini di una sua fondazione trascendentale
nella storia dell’essere che ne determinerebbe così le condizioni di possibilità: con la conseguente
de-responsabilizzazione dell’individuo umano dalle sue scelte esistenziali, perché condizionate
dallo stesso essere che determina la storia mondiale dell’umanità. Questa prospettiva filosofica della
storia trascendentale dell’essere permette di capire perché Heidegger non si sia mai scusato del
proprio errore dell’adesione al nazismo: non solo la verità, secondo Heidegger, appartiene
all’essere, ma anche l’errore ha un suo fondamento ontologico; è l’essere stesso che nell’umanità
erra e si oblia, come massimamente nell’età moderna della tecnica distruttrice di cui il nazismo
sarebbe solo un epifenomeno.
Molto importante resta comunque la critica, appunto, che Heidegger effettua nei confronti del ruolo
che la tecnica ha nel delineare la caratteristica dominante dell’epoca moderna, nella maniera più
45
G. CALOGERO, Studi sull'eleatismo, Tipografia del Senato, Roma 1932, seconda edizione, La Nuova Italia, Firenze
1977; G. CALOGERO, Parmenide e la genesi della logica classica, in Annali della Regia Scuola Normale Superiore di
Pisa, serie II, v. 5 (1936), pp. 143-185; G. CALOGERO, Storia della logica antica, Laterza, Roma-Bari 1967, e poi
ristampa a cura di B.Centrone, ETS, Pisa 2012.
122
radicale in una conferenza del 1938 su Die Zeit des Weltbildes:46 la tecnica moderna sfrutta, devasta
e distrugge la Terra, la Physis dominata violentemente e considerata come mero fondo di risorse per
l’umanità. Compresa l’identità fra Physis ed essere, si può intepretare come quest’epoca moderna si
basi su una pre-comprensione ontologica dell’essere che costituisce una metafica soggettivistica e
umanistica che era iniziata con Descartes e avrà la sua massima espressione nella filosofia della
volontà di potenza di Nietzsche, interpretata come violenta e arbitraria umana volontà di dominio
proiettata sull’essere. Secondo Heidegger, come già accennato, la stessa scienza moderna si basa su
questa pre-comprensione metafisico-tecnica della Physis. La questione filosofico-metafisica
dell’oblio dell’essere si concretizza così in una critica della violenza umana e del dominio tecnico
della Natura che caratterizza la storia dell’esistere dell’umanità sulla Terra. Tuttavia, la scienza e la
tecnica moderne hanno pure una dimensione disvelativa dell’essere, della Physis, e questo potrà
portare a un nuovo inizio. Questa critica della tecnica e della scienza moderne e del dominio tecnico
della Natura sarà ripresa dall’allievo Herbert Marcuse e poi da Horkheimer e Adorno, in un contesto
marxiano in cui si vedranno i legami con il capitalismo moderno e con il dominio dell’uomo
sull’uomo.
46
M. HEIDEGGER (1938), Die Zeit des Weltbildes, in Holzwege, Klostermann, Frankfurt am Main 1950; trad. it. a cura
di P. CHIODI, L’epoca dell’immagine del mondo, in Sentieri interrotti, La Nuova Italia, Firenze 1968, 1984, pp. 71-101;
M. HEIDEGGER (1953), Die Frage nach der Technik, in Vorträge und Aufsätze, Neske, Pfullingen 1954; tr. it. di G.
VATTIMO, La questione della tecnica, in Saggi e discorsi, Mursia, Milano 1976, pp. 5-27; M. HEIDEGGER (1953),
Wissenschaft und Besinnung, in Vorträge und.Aufsätze, Neske, Pfullingen 1954; tr. it. G. VATTIMO, Scienza e
meditazione, in Saggi e discorsi, Mursia, Milano 1976, pp. 28-44.
123
8. Fra Heidegger e Marx
Fra gli allievi di Heidegger, alcuni hanno tentato di mettere insieme marxismo e filosofia di
Heidegger. Il nucleo più importante della filosofia di Heidegger fu identificato nella critica della
scienza moderna e della tecnica come dominio della Natura e degli altri esseri viventi. Si trattava di
superare il presupposto tecnico-economico che caratterizzava la concezione dell’essere umano
proposta da Marx, strettamente legato al lavoro, come attività tecnica di trasformazione della Natura
che riduceva la Natura a valore d’uso dell’umanità. Una qualche critica della scienza e della tecnica
era stata in qualche modo già proposta da Gyӧrgy Lukacs (1885-1971) in Storia e coscienza di
classe (1923), all’origine del marxismo occidentale. La critica della razionalità scientifico-tecnica,
strumentale, fu sviluppata però soprattutto dagli allievi ebrei di Heidegger della cosiddetta Scuola di
Francoforte.
Herbert Marcuse (1898-1979) fin dalla fine degli anni venti aveva cercato di sviluppare un
Heidegger Marxismus, che poi rielaborò ancora senza però più citare Heidegger in maniera
rilevante: troppo forte era stato il “tradimento” di Heidegger con la sua adesione al nazismo e con il
non riconoscere pubblicamente il proprio errore. Tuttavia, non si trattò del mero rapporto
allievo/maestro: non ci furono solo debiti di Marcuse nei confronti di Heidegger, ma anche debiti di
Heidegger nei confronti di Marcuse. E specificamente la svolta di Heidegger dall’analitica
esistenziale alla “storia dell’essere” si spiega solo considerando il confronto-scontro con Marcuse.
Heidegger comprende cioè che chiudere il circolo ermeneutico aperto da Essere e tempo implica
anche l’abbandono della prospettiva del singolo esserci con il passaggio a quella dell’esserci
collettivo e della storia. Che cosa ha portato a questo cambiamento nel pensiero di Heidegger?
Habermas ha fatto l’ipotesi che la stessa storia mondiale, con gli eventi dell’ideologia della
rivoluzione conservatrice, del fascismo e del nazionalismo, abbia portato Heidegger a questo
mutamento di prospettiva che ha condotto alla tematizzazione della cosiddetta “storia dell’essere”47.
47
J. HABERMAS, L'infiltrazione della critica della metafisica nel razionalismo occidentale: Heidegger, in Der
philosophische Diskurs der Moderne. Zwölf Vorlesungen, Surkhamp, Frankfurt am Main 1985; tr. it. di Emilio & Elena
Agazzi, Il discorso filosofico della modernità. Dodici lezioni, Laterza, Roma-Bari 1987, terza edizione 1991, pp. 135-
124
Seppure certamente plausibile in assenza di altre possibilità di spiegazione storica, questa ipotesi
presuppone un effetto troppo intenso della storia reale sul pensiero teso all’astrazione di un filosofo
come Heidegger. Credo, invece, che quest’ipotesi nasconda, consapevolmente o meno, una verità
“più scomoda” per la “Scuola di Francoforte”: ritengo che sia stato determinante per Heidegger il
confronto con il suo allievo di quel periodo, Herbert Marcuse, che dal 1928 andò a seguirlo a
Friburgo.
Di solito, al di là dell’Heidegger Marxismus elaborato da Marcuse considerato come una mera
curiosità, si evidenzia maggiormente il possibile confronto-scontro, legato al lavoro di Marcuse per
l’abilitazione48 all’equivalente della “libera docenza” con supervisore Heidegger, su cui resta un
alone di mistero: non è chiaro il perché Marcuse alla fine non presentò il suo scritto, e la colpa è
solitamente attribuita a un veto di natura politica da parte di Heidegger o a una rinuncia da parte
dell’ebreo Marcuse per il nuovo clima politico che si iniziava a respirare in Germania nel 1932.49
La tesi maggiormente seguita fa riferimento a un possibile scontro con Heidegger a convincere
Marcuse a non presentarsi; ma questo è del tutto improbabile perché Marcuse sostanzialmente gli
163, in particolare pp. 159-163. Si vedano inoltre: J. HABERMAS, Il filosofo e il nazista. Il caso Heidegger e la coscienza
della Germania, in Micromega 3 (1988), settembre, pp. 95-121; J. HABERMAS, Martin Heidegger, in Philosophischpolitische Profile, Surkamp, Frankfurt am Main 1981; tr. it., Profili politico-filosofici. Heidegger, Gehlen, Jaspers,
Bloch, Adorno, Lowith, Arendt, Benjamin, Scholem, Gadamer, Horkheimer, Marcuse, Guerini, Milano 2000, pp. 65-72;
J. HABERMAS, Nachmetaphysisches Denken. Philosophische Aufsӓtze, Surkhamp, Frankfurt am Main 1985; tr. it. a cura
di M. Calloni, Il pensiero post-metafisico, Laterza, Roma-Bari 1991, pp. 43-47; J. HABERMAS, Martin Heidegger: opera
e visione del mondo, in Texte und Kontexte, Suhrkamp, Frankfurt am Main 1991; tr. it. di E. ROCCA, Testi filosofici e
contesti storici, Laterza, Roma 1993, pp. 49-84. Si vedano anche: W. Franzen, Von der Existentialontologie zur
Seinsgeschichte, Meisenheim a. Glan 1975, terza parte, pp. 69 e ss. e la postfazione alla 2.edizione di O. Poggeler, Der
Denkweg M. Heideggers, Pfullingen 1983, pp. 319 e ss.; tr. it. di G. VARNIER, Il cammino di pensiero di Martin
Heidegger, Guida, Napoli 1991.
48
H. MARCUSE, Hegels Ontologie und die Grundlegung einer Theorie der Geschichtlichkeit, Klostermann, Frankfurt
am Main 1932; tr. it. di E. Arnaud, a cura di M. Dal Pra, L’ontologia di Hegel e la fondazione di una teoria della
storicità, La Nuova Italia, Firenze 1969.
49
R. WIGGERSHAUS, Die Frankfurter Schule. Geschichte, Theoretische Entwicklung, Politische Bedeutung, Carl
Hanser, Münich 1986; tr. it. di P. Amari & E. Grillo, La Scuola di Francoforte. Storia, Sviluppo teorico, Significato
politico, Bollati Boringhieri, Torino 1992, pp. 112-114; R. WOLIN, Introduction: What is Heideggerian Marxism?, in H.
MARCUSE, Heideggerian Marxism, a cura di R. Wolin & J. Abromeit, University of Nebraska Press, Lincoln & London
2005. Si veda l’introduzione di Seyla Benhabib all’edizione inglese del libro di Marcuse: H. MARCUSE, Hegels
Ontologie und die Grundlegung einer Theorie der Geschichtlichkeit, Klostermann, Frankfurt am Main 1932; tr. ingl. di
S. Benhabib, Hegel’s Ontology and the Theory of Historicity, MIT, Cambridge (Mass.) 1987, pp. IX-XLV.
125
dedicò il libro in una forma che attesta il debito, per ogni contributo del libro, all’opera filosofica di
Heidegger.50
Tuttavia, al di là di questo problema, probabilmente Marcuse costrinse Heidegger a riporsi la
questione della storicità, che l’approccio del singolo Dasein non poteva spiegare, in rapporto a
Hegel: già dal 1928, Marcuse si era qualificato non come un semplice allievo, ma come un
“riformatore” della prospettiva heideggeriana, avendo proposto una declinazione storica e politica
(che riteneva fondamentale per una sua concretizzazione) dell’ontologia esistenziale di Heidegger.51
Insomma, non fu Heidegger a declinare la sua filosofia politicamente, ma fu il suo allievo Marcuse:
quando volle entrare, a suo modo, nel dibattito storico-politico dell’epoca, Heidegger si trovò il
lavoro già fatto e seguì, almeno, formalmente, la prospettiva aperta da Marcuse. La declinazione
socialista-marxista di Marcuse fu facilmente modificabile da Heidegger, sostituendo alla classe
(proletaria) di Marcuse, come esserci collettivo concreto e storico, la nazione/popolo del nazionalsocialismo tedesco (dal tema dello spazio vitale a quello della rivoluzione come totale
sovvertimento dell’esserci collettivo sono ripresi dall’elaborazione marcusiana e riattribuiti alla
rivoluzione nazional-socialista) .
Non è un caso che Heidegger dedicò poi un corso del 1930-1931 alla fenomenologia dello spirito di
Hegel, per confrontarsi anche sul problema della storicità.52 Nel testo del 1932, Marcuse
riconduceva la storicità di Dilthey e di conseguenza le tematizzazioni heideggeriane della motilitàtemporalità dell’esserci e del con-esserci collettivo storico a Hegel. Marcuse reinterpretava la storia
dello spirito di Hegel in termini della storia-mobilità dell’essere heideggeriano: non si trattava più di
comprendere l’esserci come tempo o come storia o l’esserci come sostanza del con-esserci come
50
H. MARCUSE, Hegels Ontologie und die Grundlegung einer Theorie der Geschichtlichkeit, Klostermann, Frankfurt
am Main 1932; tr. it. di E. Arnaud, a cura di M. Dal Pra, L’ontologia di Hegel e la fondazione di una teoria della
storicità, La Nuova Italia, Firenze 1969, p. 9.
51
H. MARCUSE, Beiträge zu einer Phänomenologie des Historischen Materialismus, in Philosophische Hefte, v. I
(1928), pp. 45-68; tr. it. di A. MARINI, a cura di G. CASARICO, Contributi a una fenomenologia del materialismo storico,
in H. MARCUSE, Fenomenologia ontologico-esistenziale e dialettica materialista. Tre studi 1928-1936, Unicopli,
Milano 1980, pp. 3-42.
52
M. HEIDEGGER (1930-1931), Hegels Phänomenologie des Geistes, in Gesamtausgabe, vol. 32, Klostermann,
Frankfurt a. M. 1980; tr. it di S.Caianiello, La fenomenologia dello spirito di Hegel, Guida, Napoli 1988.
126
relazione, ma piuttosto, in un ribaltamento, il tempo e la storia, la relazione che costituisce
concretamente l’universo, la sua totalità storica come essere dell’esserci.53
La prospettiva aperta dall’Heidegger-Marxismus di Marcuse, ovvero della sua “fenomenologia
dialettica”, già nel primo saggio rilevante del 1928, Contributi a una fenomenologia del
materialismo storico, afferma la storicità dell’essere: “l’essere è storia”.54 Al di là della
ricomposizione di fenomenologia e dialettica in questa nuova prospettiva, la reinterpretazione della
tematica fenomenologico-esistenziale dell’essere è però radicale: significa che l’essere è il divenire
storico, e la differenza ontologica si tramuta in contraddizione dialettica. Qui, in un’interpretazione
magistrale e stupefacente di Essere e tempo di Heidegger, Marcuse mostrava come questo libro
costituisse un punto di svolta definitivo nella storia della filosofia, il punto in cui la filosofia
ideologica borghese si dissolveva e si apriva a una nuova filosofia pratica e concreta: Heidegger
aveva riscoperto, inglobando la lezione di Marx, la natura ideologica della teoria, come derivata
rispetto al primario rapporto di cura e commercio pratico con il mondo, cioè della sfera economica
che assumeva ora tutta la portata esistenziale datagli dallo stesso Marx. Il marxismo non va
interpretato come una mera scienza economica, ma ha una portata antropologico-ontologicoesitenziale: ogni questione economica ha una rilevanza di senso esistenziale; Marcuse aveva intuito
quanto poi emergerà ancora maggiormente con la “scoperta” nel 1932 dei Manoscritti economicofilosofici di Marx del 184455: il movimento di Marcuse verso ambiti antropologico-esistenziali non
53
H. MARCUSE, Hegels Ontologie und die Grundlegung einer Theorie der Geschichtlichkeit, Klostermann, Frankfurt
am Main 1932; tr. it. di E. Arnaud, a cura di M. Dal Pra, L’ontologia di Hegel e la fondazione di una teoria della
storicità, La Nuova Italia, Firenze 1969, p. 71, 77, 108-111.
54
H. MARCUSE, Beiträge zu einer Phänomenologie des Historischen Materialismus, in Philosophische Hefte, v. I
(1928), pp. 45-68, in particolare p. 60; tr. it. di A. MARINI, a cura di G. CASARICO, Contributi a una fenomenologia del
materialismo storico, in H. MARCUSE, Fenomenologia ontologico-esistenziale e dialettica materialista. Tre studi 19281936, Unicopli, Milano 1980, pp. 3-42, p. 27.
55
K. MARX, Oekonomisch-philosophische Manuskripte aus dem Jahre 1844 or Pariser Manuskripte, in K. MARX-F.
ENGELS, Historisch-kritische Gesamtausgabe. Werke, Schriften, Briefe, Marx-Engels-Instituts Moskau, a cura di D.
Rjazanov, dal 1931 a cura di V. Adoratskij, Abteilung 1, Bd. 3, Marx-Engels Verlag, Berlin 1932, pp. 29–172 e K.
MARX, Der historische Materialismus. Die Frühschriften, a cura di S. Landshut und J. P. Mayer con la collaborazione
di F. Salomon, 2 Bde., Alfred Kröner, Leipzig 1932; tr. it. a cura di N. Bobbio, Manoscritti economico-filosofici del
1844, Einaudi, Torino 1949; H. MARCUSE, Neue Quellen zur Grundlegung des historischen Materialismus, in Die
Geselleschaft, vol. IX, n. 7 (1932), pp. 136-174; tr. it. di A. Solmi, Nuove fonti per il materialismo storico, in Marxismo
e rivoluzione. Studi 1929-1932, introd. a cura di G. E. Rusconi, Einaudi, Torino 1975, pp. 61-116.
127
è affatto spiegabile, come ritenuto da Habermas per l’opera più tarda di Marcuse, 56 quale esito
successivo dell’assenza di una classe rivoluzionaria nel capitalismo avanzato in cui anche il
proletariato è integrato al sistema, ma è la riacquisizione della stessa consapevolezza del giovane
Marx, che costantemente accompagna l’opera marcusiana. Non solo: Heidegger aveva mostrato
come la realizzazione di un’esistenza autentica dell’esserci è impossibile, in un certo mondo
storico-politico in cui si è deietti, senza distruggere la storia precedente della filosofia come teoriaideologia e senza distruggere con le sue scelte e le sue azioni la storia precedente concretizzatasi in
certe forme storiche dell’esserci corrispondenti a certe strutture economico-sociali e politiche,
costituenti l’esistente-presente.57 Da una parte, così, per Marcuse, si riscoprivano gli aspetti
ontologici della dialettica materialistica, marxista, dando una nuova interpretazione ontologicoesistenziale del marxismo, e, dall’altra, si concretizzava-materializzava, dialetticamente e
storicamente, l’ontologia fenomenologica esistenziale di Heidegger fino alla “dimostrazione
esistenziale” della necessità dell’azione rivoluzionaria. Nella locuzione “fenomenologia dialettica”
Marcuse intende, da una parte, la fenomenologia ontologico-esistenziale di Heidegger e mai quella
sviluppata da Husserl in senso trascendentale, verso cui sarà sempre critico;58 dall’altra parte, fra il
56
Si veda la Premessa di Habermas a A. SCHMIDT, W. F. HAUG, C. OFFE, J. BERGMANN, H. BERNDT, R. REICHE, P.
BREINES, Antworten auf Herbert Marcuse, a cura di J. Habermas, Suhrkamp, Frankfurt am Main 1968; tr. it. di A.
Frioli, A. Illuminati, G. Sparti, Risposte a Marcuse, Laterza, Bari 1969, p. 9. Veramente dogmatiche sono le critiche ivi
contenute all’opera di Marcuse da parte di vari esponenti di un’ortodossia marxista che non ha amato
l’interperpretazione ontologico-esistenziale marcusiana del marxismo. Forse, come dichiarato, per l’ampiezza, ma forse
anche per il giudizio più benevolo nei confronti di Marcuse, Habermas non pubblicò il suo contributo in questo testo,
ma in un libro interamente suo: J. Habermas, Technik und Wissenschaft als ‘Ideologie’. Zum 70. Geburtstag von
Herbert Marcuse am 19. Juli 1968, in Technik und Wissenschaft als ‘Ideologie’, Suhrkamp, Frankfurt am Main 1968,
pp. 48-103; tr. it. a cura di C. Donolo, Tecnica e scienza come “ideologia”. A Herbert Marcuse, per il suo settantesimo
compleanno, il 19 Luglio 1968, in Teoria e prassi nella società tecnologica, Laterza, Bari 1967, pp. 195-234.
57
H. MARCUSE, Beiträge zu einer Phänomenologie des Historischen Materialismus, in Philosophische Hefte, v. I
(1928), pp. 45-68; tr. it. di A. MARINI, a cura di G. CASARICO, Contributi a una fenomenologia del materialismo storico,
in H. MARCUSE, Fenomenologia ontologico-esistenziale e dialettica materialista. Tre studi 1928-1936, Unicopli,
Milano 1980, pp. 3-42; H. MARCUSE, Über konkrete Philosophie, in Archiv für Sozialwissenschaft und Sozialpolitik
(1929), pp. 111-128; tr. it. di A. SOLMI, a cura di G. E. RUSCONI, Sulla filosofia concreta, in H. MARCUSE, Marxismo e
rivoluzione. Studi 1929-1932, Einaudi, Torino 1975, pp. 3-29.
58
H. MARCUSE, Zum Begriff des Wesens, in Zeitschrift für Socialforschung, v. 5 (1936), pp. 1-39; tr. it. di A. BURGIO, a
cura di G. CASARICO, Sul concetto di essenza, in H. MARCUSE, Fenomenologia ontologico-esistenziale e dialettica
materialista. Tre studi 1928-1936, Unicopli, Milano 1980, pp. 85-129; H. MARCUSE, On Science and Phenomenology,
in Boston Studies in the Philosophy of Science II, a cura di R. Cohen & M. Wartofsky, Humanities Press, New York
1965, pp. 279-291; tr. it. di C. Camporesi, Sulla scienza e la fenomenologia, in Critica della società repressiva,
Feltrinelli, Milano 1968, pp. 56-68.
128
1930 e il 1931, pubblica due saggi straordinari sulla sua comprensione della dialettica.59 Marcuse
legge la dialettica sulla base della interpretazione ontologica della dialettica platonica data da
Heidegger nel corso 1924-1925.60 La dialettica non è un metodo, una gnoseologia o una logica, ma
riguarda piuttosto il modo di essere della realtà: ogni essente è solo in quanto è differente da tutto il
resto, differente da tutti gli altri essenti, e quindi in quanto non è gli altri essenti, in quanto è un nonessente-altro, in quanto è insieme-ad-altri come parte spazio-temporale di un tutto. L’alterità è così
costitutiva dell’identità di un essente nella sua non-separabilità da altri essenti e nella sua
appartenenza a una totalità: non solo nel divenire, nell’originarsi e nel distruggersi, ma in sé. Per
comprendere la realtà, secondo l’ultimo Platone, è necessaria una dinamica delle idee, un loro
differenziarsi, un loro relativo contraddirsi, un loro comporsi e scomporsi, una loro mobilità seppure
non-mutabilità: una dialettica delle idee che sono i veri essenti. In Hegel, la dialettica implica non
solo una mobilità in senso stretto, ma anche un mutamento e un divenire: il divenire è il modo di
essere della realtà; l’immutabilità è solo l’immutabilità del divenire. Nella Fenomenologia dello
spirito, come negli scritti teologici giovanili, fondamentale è il concetto della vita: Hegel determina
l’essere che è principalmente l’essere della vita come mobilità. Ogni essente-vivente non si risolve
nella pura mobilità, ma si mantiene uno e identico nelle differenti condizioni della sua mobilità
come mutamento, ovvero diviene soltanto in quanto uno e unico nel mantenersi nella mobilità:
diviene nel suo esserci sempre diverso, e in quanto diverso, nell’essere-altro, nell’accadere-assiemead-altro con cui interagisce, è in sé, resta uno e medesimo, realizza il suo essere, perché le diversità
appartengono al suo essere, come “eguaglianza con sé nell’essere-altro”. L’esserci della vita come
mobilità è un tema sviluppato poi da Heidegger per l’esserci umano, e il con-esserci heideggeriano
59
H. MARCUSE, Zum Problem der Dialektik I (su S. MARCK, Die Dialektik in der Philosophie der Gegenwart, parte
prima, Mohr, Tübingen 1929), in Die Geselleschaft, vol. VII, n. 1 (1930), pp. 15-30; H. MARCUSE, Zum Problem der
Dialektik II. Zugleich ein Beitrag zur Frage nach den Quellen der Marxschen Dialektik bei Hegel (su S. MARCK, Die
Dialektik in der Philosophie der Gegenwart, parte seconda, Mohr, Tübingen 1931), in Die Geselleschaft, vol. VIII, n. 1
(1931), pp. 541-557; tr. it. di C. GENTILE, Sul problema della dialettica I e Sul problema della dialettica II. Contributo
alla questione circa le fonti della dialettica marxiana in Hegel, a cura di G. CASARICO, Fenomenologia ontologicoesistenziale e dialettica materialistica. Tre studi 1928-1936, Unicopli, Milano 1980, pp. 43-61 e 63-84.
60
M. HEIDEGGER (1924-1925), Platon: Sophistes (WS 1924/25), in Gesamtausgabe, vol. 19, a cura di I. SCHÜSSLER,
Klostermann, Frankfurt am Main 1992; tr. it. di A. Cariolato, E. Fongaro e N. Curcio, a cura di N. Curcio, Il
<<Sofista>> di Platone, Adelphi, Milano 2013.
129
trova la sua radice in questa prospettiva hegeliana dell’accadere-assieme-ad-altro. La sintesi
trascendentale kantiana gnoseologica del soggetto pensante viene trasposta da Hegel nel concreto
esserci auto-consapevole della vita seppure questo poi si costituisca ina una storia trascendentale, e
così poi in Heidegger su un piano ontologico-esistenziale.
Questo esserci della vita è quindi dialettico. Ogni essere è costituito da unità e molteplicità, ha
congiunto in sé determinatezza e indeterminatezza, limitatezza e illimitatezza: ogni essere è
l’indeterminato divenuto determinatezza, che va inteso non solo nei termini del superamento
dell’indeterminatezza ma anche della sua conservazione come parte spazio-temporale di un
processo, di un più ampio divenire universale. E questo divenire come modo di essere dell’ente è
quindi storicità, nelle sue connessioni con un passato e con un futuro, come essere divenuto da altro
anteriore e come divenire altro posteriore. Questa dinamicità dell’ente è in Hegel attività che lo
costituisce come soggetto, e quindi soggetto storico. Con questa interpretazione della dialettica
hegeliana come storicità dell’essere dell’ente, Marcuse può così trasformare la fenomenologia
ontologico-esistenziale di Heidegger in dialettica! Se l’essere dell’ente è legato al senso
esistenziale, e se i sensi esistenziali sono molteplici (Marcuse fa l’esempio della fabbrica che è cose
diverse per l’operaio che vi lavora, per l’imprenditore-padrone, per il passante, per l’architetto che
l’ha progettata, per l’ingegnere che ha diretto i lavori, per gli operai che l’hanno costruita, per il
fruitore dei suoi prodotti, etc. etc.) e non possono che appartenere all’essere dell’ente costituito da
tutte le relazioni che lo connettono a una molteplicità dei soggetti, allora la dialetticità dell’essere si
manifesta anche nell’indeterminazione dei sensi esistenziali, nel divenire dei sensi esistenziali, e
quindi come storicità a questi legata. L’essere dell’ente come storicità non è quindi per Marcuse
riducibile allo schema triadico tesi-antitesi-sintesi, ma ha a che fare con una molteplicità
indeterminata. Tesi-antitesi-sintesi sono reinterpretate all’interno di un accadere storico
“rivoluzionario” unitario, che è negazione, distruzione e che porta insieme e continuamente a una
130
nuova creazione:61 l’accadere storico, come superamento, passa attraverso la negazione (della tesi),
implicita nell’indeterminazione, che porta al ribaltamento dell’esistente (antitesi) e pure a una
conservazione in una nuova indeterminazione (che costituisce una sintesi).
Al di là della
terminologia che accetta la “sintesi”, questa è la base marcusiana della dialettica come pensiero
negativo, e così anche della dialettica negativa di Adorno.62
A questo punto, Marcuse può cogliere la specificità della prospettiva marxiana sulla dialettica che
sta nel ribaltamento di quella idealistica hegeliana proprio nel ricondurla all’ambito della concreta
storicità dell’esserci umano: così Marx ha scoperto per primo l’autentica storicità dell’esserci
umano cui è ricondotta la dialettica, e così la fenomenologia ontologico-esistenziale di Heidegger
deve essere ricompresa nei termini della dialettica marxiana, in un modo in cui marxismo e
heideggerismo vengono a coincidere. La dialettica concreta non è così una scienza neutrale, ma la
dialettica dell’esserci che prende posizione rivoluzionaria contro storicamente determinate
situazioni storiche. Il discorso umano che comprende la storicità dialettica dell’essere dell’ente, non
può essere un mero logos, ma socraticamente un dialeghestai, un dialogos, un dialogo vivente come
un essere-discorrente-con-altri che solo può realizzare l’essere-con-altri e l’essere-altro della
dialettica storica ontologico-esistenziale. Alla fine del primo saggio, però, Marcuse mette in dubbio
che la prospettiva di Heidegger sia profondamente rivolta alla storicità come il marxismo, se dopo
Essere e tempo si presta attenzione alle opere del 1929, L’essenza del fondamento e Kant e il
problema della metafisica.63 Questa critica deve essere stata covata dentro Heidegger fino allo
sviluppo della “storia dell’essere”.
61
H. MARCUSE, A Note on Dialectics (1960), nuova premessa a Reason and Revolution. Hegel and the Rise of Social
Theory, Oxford University Press, New York 1941 e poi The Humanities Press, New York 1954, e Beacon, Boston1960;
tr. it. di A. Izzo, Una nota sulla dialettica, premessa a Ragione e rivoluzione,il Mulino, Bologna 1966, pp. 11-21.
62
TH. W. ADORNO, Negative Dialektik, Suhrkamp, Frankfurt am Main 1966; tr. it. di C. A. DONOLO, Dialettica
negativa, Einaudi, Torino 1970.
63
M. HEIDEGGER (1929), Vom Wesen des Grundes, in Wegmarken, in Gesamtausgabe, vol. 9, a cura di F.W. VON
HERRMANN, Klostermann, Frankfurt am Main 1976; tr. it. a cura di F. VOLPI, Dell’essenza del fondamento, in Segnavia,
Adelphi, Milano 1987, pp. 79-131; M. HEIDEGGER (1929), Kant und das Problem der Metaphysik, Klostermann,
Frankfurt am Main 19734, tr. it. di M. E. Reina a cura di V. Verra, Kant e il problema della metafisica, Laterza, RomaBari 1981.
131
Nel saggio del 1930, sul Marxismo trascendentale, Marcuse dava ancora di più l’idea della “storia
dell’essere”:64 “la storia, intesa come essere della stessa esistenza umana”65; “l’universalità della
realtà (in quanto oggetto dell’esperienza sociale) si fonda sulla connessione della storia. Per storia
non intendiamo il decorso degli eventi politici o economici o culturali, ma la totalità di tutte queste
forme della vita umana come accadere dell’esistenza umana stessa” 66. Ma, mentre Marcuse pone
una differenza incolmabile tra il metodo dialettico che si riferisce alla realtà e il metodo
trascendentale che fa riferimento alla possibilità,67 Heidegger, discostandosi dalla dialettica,
sviluppa l’ontologia della storia in senso trascendentale (anche se senza carattere di fondamento).
Marcuse, invero, reinterpreta la dimensione ontologico-esistenziale di Heidegger non in termini
trascendentali rispetto al piano empirico ontico-esistentivo, ma piuttosto come dimensione del
“dovere/potere-essere” contrapposto all’esistente nel presente, all’essere come dato:68 la dimensione
ontologica è cioè la dimensione etica che caratterizza la filosofia come riflessione che va al di là
delle scienze empiriche, nel senso di una trasformazione dell’ontologia in etica, in quanto l’essere
non è mai un dato logico-gnoseologico della conoscenza e nel suo darsi è invece attingibile solo
eticamente come attività etica.
La stessa locuzione “storia dell’essere” è presente nel saggio di Marcuse del 1932, Nuove fonti per
il materialismo storico,69 opera in cui si confronta con i Manoscritti economico-filosofici di Marx
appena pubblicati nel 1932 all’interno delle oper complete di Marx ed Engels: qui Marcuse, anche
64
H. MARCUSE, Transzendentaler Marxismus, in Die Geselleschaft, vol. VII, n. 2 (1930), pp. 304-326; tr. it. di A.
Solmi, Marxismo trascendentale, in Marxismo e rivoluzione. Studi 1929-1932, introd. a cura di G. E. Rusconi, Einaudi,
Torino 1975, pp. 31-60.
65
H. MARCUSE, Transzendentaler Marxismus, in Die Geselleschaft, vol. VII, n. 2 (1930), pp. 304-326; tr. it. di A.
Solmi, Marxismo trascendentale, in Marxismo e rivoluzione. Studi 1929-1932, introd. a cura di G. E. Rusconi, Einaudi,
Torino 1975, p. 56.
66
H. MARCUSE, Transzendentaler Marxismus, in Die Geselleschaft, vol. VII, n. 2 (1930), pp. 304-326; tr. it. di A.
Solmi, Marxismo trascendentale, in Marxismo e rivoluzione. Studi 1929-1932, introd. a cura di G. E. Rusconi, Einaudi,
Torino 1975, p. 55.
67
H. MARCUSE, Transzendentaler Marxismus, in Die Geselleschaft, vol. VII, n. 2 (1930), pp. 304-326; tr. it. di A.
Solmi, Marxismo trascendentale, in Marxismo e rivoluzione. Studi 1929-1932, introd. a cura di G. E. Rusconi, Einaudi,
Torino 1975, p. 56.
68
H. MARCUSE, Zum Begriff des Wesens, in Zeitschrift für Socialforschung, vol. V (1936), pp. 1-39; tr. it. di A. BURGIO,
Sul concetto di essenza, a cura di G. CASARICO, Fenomenologia ontologico-esistenziale e dialettica materialistica. Tre
studi 1928-1936, Unicopli, Milano 1980, pp. 85-129.
69
H. MARCUSE, Neue Quellen zur Grundlegung des historischen Materialismus, in Die Geselleschaft, vol. IX, n. 7
(1932), pp. 136-174; tr. it. di A. Solmi, Nuove fonti per il materialismo storico, in Marxismo e rivoluzione. Studi 19291932, introd. a cura di G. E. Rusconi, Einaudi, Torino 1975, pp. 61-116, in particolare p. 70.
132
attraverso il richiamo a Ludwig Feuerbach e a Gyӧrgy Lukacs,70 individuava le radici filosofiche,
antropologiche, storico-ontologico-esistenziali della prospettiva di Marx, in particolare del concetto
di lavoro alienato e di alienazione, e ne mostrava le convergenze con la filosofia di Heidegger, per
cui l’essere-nel-mondo era assicurato da quella attività umana che è il lavoro e che
antropocentricamente differenziava l’essere umano dagli altri animali e anche i sentimenti come la
passione erano rivalutati ontologicamente; si trattava di un’interpretazione heideggeriana,
ontologico-esistenziale (ma nel senso originale di una storia dell’essere) dei testi di Marx, e di
un’interpretazione marxiana e storica dell’ontologia esistenziale della filosofia di Heidegger. 71 Nel
1933, nel saggio intitolato Sui fondamenti filosofici del concetto di lavoro nella scienza
economica,72 Marcuse indaga la pluri-dimensionalità ontologico-esistenziale del lavoro, solitamente
ridotto ad una sola dimensione, quella economica: il lavoro non si può spiegare in termini
meramente economici di soddisfazione di bisogni immediati o futuri; si tratta piuttosto di
comprenderlo in termini della modalità di essere dell’umanità che non lascia che le cose accadano
naturalmente mantenendola in uno stato di dipendenza, non è un lasciar-accadere-la-sua-esistenza,
ma si impegna a dominare e a controllare gli eventi naturali per essere padrona della propria
esistenza, a far-accadere-la-sua-esistenza secondo un progetto di dominio.
Nel 1941, Marcuse riprende in un saggio dal titolo Some Social Implications of Technology,73 la
critica della tecnica e della sua razionalità strumentale, che aveva colto dai corsi di Heidegger del
70
G. LUKACS, Geschichte und Klassenbewusstsein. Studien über marxistische Dialektik, Berlin 1923; tr. it. di G. PIANA,
Storia e coscienza di classe, Sugarco, Milano 1967.
71
H. MARCUSE, Neue Quellen zur Grundlegung des historischen Materialismus, in Die Geselleschaft, vol. IX, n. 7
(1932), pp. 136-174; tr. it. di A. Solmi, Nuove fonti per il materialismo storico, in Marxismo e rivoluzione. Studi 19291932, introd. a cura di G. E. Rusconi, Einaudi, Torino 1975, pp. 61-116. Si veda anche: A. Schmidt, Ontologia
esistenziale e materialismo storico in H. Marcuse, in: J. Habermas (a cura di), Risposte a Marcuse, Bari, Laterza, 1969,
pp. 13-47.
72
H. MARCUSE, Kultur und Gesellschaft, I & II, Suhrkamp, Frankfurt am Main 1965; tr. it. di C. ASCHERI, H. ASCHERI
OSTERLOW & F. CERUTTI, Cultura e società: saggi di teoria critica 1933-1965, Einaudi, Torino 1969.
73
H. MARCUSE, Some Social Implications of Modern Technology, in Studies in Philosophy and Social Studies, vol. 9
n.3 (1941), pp. 414-439; tr. it. di G. Pagliaro, Alcune implicazioni sociali della tecnologia moderna, in A. R. L.
GURLAND, O. KIRCHHEIMER, H. MARCUSE, F. POLLOCK, Tecnologia e potere nelle società post-liberali, a cura di G.
Marramao, Liguori, Napoli 1981, pp. 137-170.
133
1928-1929 sulla scienza e del 1930-1931 sull’ontologia tecnica di Aristotele,74 dove si iniziava a
comprendere anche l’ontologia tecnica della scienza moderna basata sul concetto di forza attiva e
passiva nella resistenza inerziale opposta dalla Natura-materia all’azione tecnica (mentre in
Aristotele la forza è una proprietà dell’essere, nella metafisica moderna, con un ribaltamento, è la
forza, l’agire che fonda l’essere); mettendo questa critica in corrispondenza con la razionalità
tecnologica che guida il capitalismo e le società capitalistiche.
Quegli anni lo videro poi coinvolto da Max Horkheimer nel progetto che poi diede vita nel 1944
alla Dialettica dell’illuminismo che vide alla fine quali firmatari Horkheimer e Adorno.
Così, Marcuse realizzò poi da solo quelle opere che rappresentano l’elaborazione dei temi discussi
nella Dialettica dell’illuminismo: tentò anche di mettere insieme freudismo e marxismo, e il lavoro
produttivo assume così connotazioni negative: in Eros e Civiltà (1955)75 vi è la reinterpretazione
della liberazione marxiana del lavoro in termini di liberazione dal lavoro (tecnico), rifacendosi
anche in parte al socialismo utopistico di Charles Fourier (1772-1837); contrariamente a quanto
affermato da Sigmund Freud (1856-1939), è possibile una civiltà che non reprima l’Eros, la
pulsione vitale da Freud individuata quale caratteristica fondamentale della psiche.
Tutta l’opera di Herbert Marcuse, anche dopo la rottura con Heidegger, può essere considerata
come l'elaborazione di un Heidegger-Marxismus. Si tratta di formulare il marxismo, non solo sulla
base della dialettica storica hegeliana, ma anche su una fenomenologia ermeneutico-esistenziale
quale filosofia concreta dell’esistenza: per Marcuse, infatti, l’ontologia trascendentale dell’esistenza
di Heidegger doveva tradursi in una concreta analisi storico-esistenziale del con-essere-umano-nelmondo in tutti i suoi aspetti concreti. Per quest’opera è fondamentale il corso di Heidegger del
74
M. HEIDEGGER (1931), Aristoteles, Metaphysik 1-3. Vom Wesen und Wirklichkeit der Kraft, Klostermann,
Frankfurt am Main 1981; tr. it. di U. UGAZIO, Aristotele, Metafisica 1-3. Sull’essenza e la realtà della forza, Mursia,
Milano 1992.
75
H. MARCUSE, Eros and Civilisation. A Philosophical Inquiry into Freud, Beacon Press 1955, 1966; tr. it. di L. Bassi,
intr. di G. Jervis, Eros e Civiltà, con una nuova prefazione dell’autore, Einaudi, Torino 1964, 1967.
134
1931-1932 su Platone,76 con i riferimenti all’eros come tensione ontologica e alla liberazione
umana.
Si devono individuare le strutture trascendentali dell’esistenza umana, ovvero le condizioni di
possibilità dell’esistere umano che però sono storiche: questa prospettiva, che parte dalla storicità
dell’esserci umano, apre l’orizzonte di una storicizzazione dell’ontologia che rifletta le concrete
condizioni di possibilità storiche, epoca per epoca, dell’esistere umano. La storia dell’ontologia si
dispiega così come una storia del dominio tecnico dell’umanità sulla Natura e sugli altri esseri
viventi, e sul correlato dominio interno alla stessa umanità, di etnie, di generi, di classi e di
individui sugli altri. La riduzione degli esseri umani, degli esseri viventi, degli enti a concetti, a
rappresentazioni, della physis a logos, è strettamente legata a progetti di dominio che riduce tutto a
cose d’uso umano, semplicemente presenti a disposizione dell’arbitrio della volontà di potenza
umana. Bisogna cioè effettuare una critica non solo della riduzione a valore di scambio (a merce
prezzabile, comprabile e vendibile con il denaro), come in Marx, ma anche della riduzione a valore
d’uso umano. Bisogna allora heideggerianamente distruggere la storia dell’onto-logia, evidenziando
come le categorie esistenziali storiche siano categorie della rimozione, della repressione e del
dominio, tipiche di un’esistenza inautentica a cui bisogna contrapporre quelle di una possibile
esistenza autentica. Queste categorie storiche del dominio definiscono di volta in volta un “principio
di realtà” a cui sembra si sia obbligati a sottostare, ma la storicizzazione dell’ontologia mostra come
questo “principio di realtà” non costituisca una struttura ontologica necessaria e insuperabile,
quanto piuttosto una situazione storicamente ed ecologicamente determinata.
Si tratta di comprendere che una certa struttura economica della società non determina soltanto la
sua struttura nei suoi aspetti relazionali, morali, religiosi, giuridici e politici, che a loro volta
retroagiscono sulla struttura economica, ma anche la stuttura biologica e psicologica degli individui:
76
M. HEIDEGGER (1931-1932), Vom Wesen der Wahrheit. Zu Platons Höhlengleichnis und Theätet, a cura di H.
MÖRCHEN, Klostermann, Frankfurt am Main 1988; tr. it. a cura di F. VOLPI, L’essenza della verità, Adelphi, Milano
1997.
135
in altri termini, come lo dirà successivamente Foucault, il potere si traduce anche in una bio-psicopolitica.
L'heideggeriano oblio dell’essere si traduce così, in Marcuse, nella rimozione interna e nella
repressione esterna, collettiva e storica, sociale e politica, di ciò che concretamente costituisce il
nostro essere quale essere vivente. Ma che cosa costituisce il nostro essere di esseri viventi nel
mondo, la nostra Natura, la Natura interna ed esterna?
Marcuse prende sul serio la prospettiva della psicoanalisi freudiana, la sua sfida alla filosofia: non è
possibile arrestarsi a una critica della ragione, a una critica razionale delle metafisiche e delle
ideologie come legittimazioni consapevoli dei modi di vivere caratterizzati dal dominio e dalla
violenza, ma piuttosto bisogna elaborare anche una clinica della ragione, che evidenzi le
motivazioni inconsapevoli, inconsce dei nostri modi di pensare che costituiscono delle
razionalizzazioni di fattori istintuali, emotivi, affettivi: non basta neanche fermarsi alla precomprensione pre-conscia heideggeriana, bisogna rivolgere l’attenzione a ciò che resta inconscio.
Qui, Marcuse si avvale appunto delle indagini biologiche, psicologiche e meta-psicologiche di
Sigmund Freud che caratterizzano questa struttura costitutiva “trascendentale” dell’essere in termini
fisici e biologici come un principio istintuale vitale che determina la nostra pre-comprensione preteoretica e pre-conscia dell’essere, piuttosto come una dimensione inconscia collettiva, che è un
principio non solo di conservazione della vita, ma anche di una sua auto-propagazione e di una sua
auto-trasformazione evolutiva in unità sempre più complesse, e che quindi sarebbe erroneo
caratterizzare in termini di un mero istinto di sopravvivenza egoistica individuale o di mera
sessualità auto-riproduttiva e piuttosto va considerato come quell’impulso fisico al movimento
verso l’altro e al cambiamento, come quell’impulso alla vita, alla sua propagazione e alla sua
trasformazione evolutiva in unità sempre più alte (non spirituali e non frutto di sublimazioni
repressive) che si chiama Eros. Questa prospettiva viene a precisare la precedentemente elaborata
fenomenologia dialettica di Marcuse nei termini dell’identificazione di Eros come ciò che
determina come amore la mobilità della vita delle radici della dialettica di Hegel e
136
nell’individuazione della vera dialettica vitale di Platone, che non è quella delle idee de Il sofista,
ma è quella dell’Eros del Simposio, che anima il dialogo socratico e la vita umana alla ricerca della
bellezza e del bene oggettivi.
Questo Eros è tutt’uno con un “principio del piacere” di co-esistere collettivo, che, a livello conscio
può essere riaffermato, non repressivamente come in una razionalizzazione logico-ontologicagnoseologica, ma piuttosto come volontà consapevole di una co-esistenza autentica in un’Agàpe che
è in sé un principio di felicità non meramente individuale. Secondo Marcuse, questa prospettiva
dell’Eros era propria del primo Platone (o forse di Socrate), e di movimenti cristiani ereticali, ma
certamente questa è anche la prospettiva del cristianesimo originario
e del volontarismo
francescano cristiano che si è contrapposto all’intellettualismo greco e che ha aperto l’orizzonte di
una modernità alternativa a quella del dominante razionalismo.
In Totem e tabù del 191377 e ne Il disagio della civiltà del 1929,78 Freud trattava anche il problema
dell’origine sociale del malessere psichico individuale: è l’umanità ad essere malata di una nevrosi
collettiva che risale al fatto che la Natura è sostituita e repressa dalla cultura, che impone particolari
organizzazioni sociali della vita, i cui istinti sono repressi; la civiltà implica quindi un’infelicità
collettiva inevitabile, che poi solo in alcuni (che non riescono ad accettarla) avrà manifestazioni più
estreme di malessere. Ciò che Marcuse contesta a Freud è l’inevitabilità con cui caratterizzava
questa infelicità, perché non sarebbe mai possibile la costituzione di una civiltà in cui la Natura
umana non sia repressa: per Marcuse, si tratta invece solo di una particolare cultura patriarcale,
innestatasi con l’agricoltura e la zootecnia della rivoluzione neolitica, che sostituisce al piacere di
un’esistenza libera la fatica di un lavoro che si è imposto ai fini del dominio sistematico della
Natura.
77
S. FREUD (1912-1913), Totem und Tabu, in Gesammelte Werke I-XVIII, Fischer, Frankfurt am Main 1960-1968, IX,
pp. 3 e ss.; tr. it., Totem e tabù, in Opere I-XII, a cura di C. L. MUSATTI, Bollati Boringhieri, Torino 1966-1980, VII, pp.
3 e ss.
78
S. FREUD (1912-1913), Das Unbehagen in der Kultur, in Gesammelte Werke I-XVIII, Fischer, Frankfurt am Main
1960-1968, XIV, pp. 421-506; tr. it., Il disagio della civiltà, in Opere I-XII, a cura di C. L. MUSATTI, Bollati
Boringhieri, Torino 1966-1980, X, pp. 553-630.
137
Marcuse valorizza quella parte del pensiero di Freud, che non si ferma cioè all’analisi della
psicologia individuale e alle problematiche sessuali private e diffuse nella società borghese e che
tenta di risolvere le nevrosi e le psicosi, se non la follia, con una terapia di adattamento
dell’individuo alla cultura repressiva, ma che piuttosto si rende conto della necessità di tenere conto
delle dimensioni antropologiche, storiche e sociali collettive della psyche umana e può diventare
strumento di critica e di clinica della cultura e delle razionalizzazioni umane. Non c’è quindi
bisogno di integrare dall’esterno la prospettiva psicologica freudiana con prospettive antropologiche
o socio-politiche ma di svilupparle all’interno di quella; non si tratta di superarne il pansessualismo
ridefinendo l’energia vitale inconscia in termini neutrali, come in Carl Gustav Jung (1875-1961) o
in alcune prospettive neo-freudiane come quella di Erich Fromm (1900-1980), ma piuttosto di
ricomprendere la sessualità all’interno della più profonda concezione freudiana dell’Eros come
inconscio istinto di vita in tutta la sua pienezza e in tutte le sue forme e di riconoscere nell’Eros la
costituzione ontologica materiale dell’esistenza, il trascendentale materiale-biologico “soggettivo”“oggettivo”. La prospettiva di Marcuse è quella di non vedere nell’elemento biologico-materiale
una forma di riduzionismo, ma la specificazione concreta della dimensione vitale dell’esistenza
come base da cui sviluppare ogni analisi. I neo-freudiani “revisionisti” si pongono invece non sul
piano strutturale della Natura, ma sul piano sovrastrutturale e più superficiale della cultura. Con
Marcuse si ha così una psicoanalisi esistenziale ma comunque freudiana, che si basa su
un’ermeneutica heideggeriana e marxista, economico-socio-politica anche degli eventi psichici, per
cui la filosofia diventa una prassi ermeneutica rivoluzionaria di liberazione.
Freud ha esteso il tradizionale concetto di sessualità, perché per lui la sessualità esiste ancora prima
che negli individui si sviluppino gli organi sessuali/genitali; chiaramente, allora, la sessualità
infantile di cui parla Freud è qualcosa di diverso da quello che noi solitamente intendiamo: la nuova
prospettiva con il punto di vista della “legge biogenetica” di Ernst Haeckel (1834-1919) per cui
l’ontogenesi ricapitola in sé la filogenesi. Secondo Freud, nel nostro sviluppo individuale,
rivivremmo le varie fasi dell’evoluzione degli esseri viventi, per i quali l’organo sessuale era prima
138
tutt’uno con l’organo dal quale si otteneva il cibo (la “bocca”), poi era tutt’uno con l’organo dal
quale si espellevano gli escrementi (l’“ano”), poi si avrebbe la fase fallica, un periodo di latenza e
poi la fase genitale. Marcuse non segue la legge biogenetica e la sequenza freudiana delle varie fasi
sessuali, ma ne accetta un aspetto sostanziale: organi, che, nella storia della vita, hanno avuto
funzioni sessuali, poi nell’evoluzione dislocate altrove nell’organismo, hanno mantenuto comunque
una potenzialità di generare piacere svincolata dalla riproduzione della vita; si ha quindi un piacere
sessuale, ovvero una “sessualità”, presente nell’infanzia anche prima dello sviluppo completo degli
organi sessuali e della loro capacità riproduttiva, “perversa” nel senso che non è quella “normale”
legata agli organi sessuali e alla riproduzione, ma di puro piacere, “polimorfa” nel senso che è
legata a una molteplicità di piaceri diversi in relazione a vari organi o zone del corpo. Tutte le
funzioni vitali, tutto il corpo è quindi per Marcuse legato a una sessualità diffusa, indipendente dalle
specifiche funzioni sessuali riproduttive degli organi sessuali: la sessualità è allora l’unirsi della vita
stessa ad altra vita per il solo piacere dell’unità, la modalità che caratterizza la nostra sensibilità
diffusa legata al nostro essere corporeo in contatto con altre vite corporee e quindi il nostro modo di
relazionarci agli altri e al mondo.
Mentre per Freud le varie fasi sessuali infantili erano solo la base per poter comprendere le
patologie psicosessuali dell’età adulta (per questo la sessualità coinvolta è detta “perversa”), per
Marcuse si tratta invece di riscoprire e riattivare la sessualità infantile etero-genitale polimorfa in
tutta la sua innocenza legata al puro piacere di unirsi e relazionarsi all’alterità, precedente
all’organizzazione patriarcale della sessualità della rivoluzione neolitica, in cui la zootecnia induce
a ridurre la sessualità a quella genitale, finalizzata alla riproduzione di esseri viventi (da sfruttare
come forza-lavoro e poi da utilizzare come cibo) e alla considerazione della donna come oggetto da
possedere come mero strumento riproduttivo dell’uomo maschio. Mentre prima anche il mangiare
aveva anche una funzione sessuale di unione, tipicamente con la madre o con la Madre Natura,
dopo la rivoluzione neolitica dell’agricoltura e della zootecnia questo rapporto è ribaltato e l’unione
sessuale è finalizzata alla funzione della fagocitazione, letteralmente per gli altri esseri viventi (il
139
padre-animale è ucciso dall’uomo e la Madre Natura è posseduta solo da lui e forzata a produrre
cibo per lui), metaforicamente all’interno della specie umana in cui l’alterità femminile non è più
l’altro polo di un’unione che dà felicità ma soltanto strumento di riproduzione di sé stesso o di altra
forza-lavoro e oggetto di piacere che viene consumato come un cibo e poi escreto dal resto della
vita.
Il complesso edipico allora solo metaforicamente ha a che fare con il mito di Edipo, perché gli
organi sessuali non sono pienamente sviluppati: si tratta piuttosto di un conflitto affettivo legato al
corpo della madre, alla fine della fase dell’allattamento e all’autonomia nutritiva del bambino che
comporta una separazione dal corpo della madre (non c’è simmetria nel ruolo dei due genitori) ed
eventuale gelosia del padre. Il trauma sta nella separazione dalla madre. La posizione di Marcuse
può essere legata a quella di Sandor Ferenczi (1873-1933), che Marcuse anche richiama. Ferenczi
comprende che la sessualità (anche adulta genitale) è un’altra modalità di relazione con l’altro e con
il mondo, volto a restaurare un’unità fisica e affettiva di totalità vitale, perduta con il progressivo
distacco dalla madre con la nascita e poi con la fine della prima fase nutritiva, su un altro piano e in
un nuovo contesto. Ma questo non è tutto: Ferenczi comprende che, associato a questo trauma, a
livello di un inconscio di specie umana o collettivo, ce n’è uno più profondo, legato alla separazione
dell’umanità dalla madre terra nel neolitico, che, non riconosciuta come madre, viene stuprata
dall’agricoltura (il complesso di Edipo è associato invero a questo evento dell’umanità che segna
l’uscita dalla fase matriarcale), e in cui si colloca la trasformazione parziale dell’Eros vitale in
pulsione di dominio della natura interna ed esterna, di violenza e di morte, cioè in Thanatos, con un
conseguente pervertimento del piacere. Ferenczi va ancora oltre e pensa anche a un altro potenziale
trauma, a livello di un inconscio di vita, legato alla separazione degli esseri viventi dalla prima
madre acqua (Thalassa, 1924), la totalità vitale con la quale i mammiferi tentano di ricostituire
nello stadio pre-natale del liquido amniotico. Gli organi e gli organismi pluricellulari tentano poi di
ricostituire su un altro piano la totalità vitale originaria delle cellule-madri unicellulari attraverso
varie forme di simbiosi e di fusioni: a questo livello si situa però il trauma della fagocitosi cellulare
140
con la perversione di alcune tipologie di cellule, in cui la funzione dell’alimentazione si stacca dalla
funzione sessuale di unione con altre cellule, che invece vengono ridotte a cibo e quindi distrutte. È
possibile prolungare quest’analisi profonda dell’individuo oltre la storia della stessa vita planetaria
fino alla storia fisica del cosmo a partire dall’atomo-uovo primordiale, estendendo la sfera inconscia
di ogni individuo umano fino a un inconscio fisico-cosmico. Si comprende così, attraverso Ferenczi,
come per Marcuse la sessualità, l’Eros, pur essendo un istinto vitale biologico di specie, sia legato a
qualcosa di molto più vasto, alla ricostituzione dell’unità originaria dell’universo e della vita a
livelli sempre più complessi. Questo radicamento della vita biologica e psichica umana nella storia
della specie, della vita e dell’universo, paradossalmente fa superare l’apparente riduttivo
“biologismo” di partenza di Freud e di Ferenczi come di Marcuse, in quanto l’Eros fa sì che la
dimensione individuale e di specie dell’esistenza si trascenda continuamente e non repressivamente
nelle più vaste dimensioni biologiche e fisico-cosmiche dell’esistenza, le cui evoluzioni possono
essere ricomprese in termini di ricostituzioni di una totalità-unità vivente originaria in forme sempre
nuove. Come negli antichi miti, allora non si vedranno più freudianamente e riduttivamente le storie
degli dèi come nient’altro che proiezioni simboliche di organi e desideri sessuali umani, ma al
contrario la sessualità umana, pur radicata nella materialità corporea, è metafora letterale che
determina l’esistenza come ek-sistere fuori di sé, è come una particolare forma, parte-simbolo di
un’unità cosmica e divina di cielo e terra, di spirito e materia, da ritrovare e ricostituire.
Tuttavia, secondo Freud, l’Eros sembra essere limitato e interdetto nella vita umana da un
“principio di realtà” socio-politico che lo renderebbe irrealizzabile; e, in prima approssimazione,
sembra ridotto alla sola sfera umana, in quanto un “principio di realtà” biologico sembra negarne
l’estendibilità ai rapporti con altre specie viventi, riconoscendo necessaria la lotta per la vita e la
violenza interspecifica.
Tuttavia, la prospettiva di Marcuse decostruisce quest’idea di realtà e di necessità, considerandola
solo come legata all’assolutizzazione di una particolare condizione storica, economico-sociopolitica, e di una particolare condizione antropologico-evolutivo-ambientale che è invece
141
contingente: sulla memoria di una condizione protologica dell’umanità, come della condizione
infantile a livello individuale, “edenica”, si fonda l’utopia escatologica di una possibile civiltà
futura fondata su Eros da realizzare attraverso un’azione “rivoluzionaria” a tutti i livelli.
Il principio di realtà economico-socio-politico diventa nella società tardo-capitalistica un “principio
di prestazione” che vincola alla mera produttività economica.
Tuttavia, Marcuse non si riesce a liberare completamente della prima prospettiva pansessualista di
Freud: la trasformazione freudiana, sempre oscillante all’indietro, della sessualità in Eros non è mai
compiuta del tutto neanche in Marcuse, che per superare la posizione freudiana deve effettuare
modificazioni non banali della sua teoria psicoanalitica introducendo una valutazione positiva del
narcisismo e il concetto di sublimazione non-repressiva. Se si fosse compiuta pienamente la
trasformazione della comprensione della sessualità in Eros, come generale istinto vitale legato a una
felicità mai meramente individuale ma inclusiva della felicità dell’altro, si potrebbe parlare di una
cultura, di una morale e di un Logos (o meglio Dialogos) dell’Eros senza bisogno di una
fantomatica
“sublimazione
non-repressiva”.
Marcuse
avrebbe
dovuto
comprendere
che
l’organizzazione genitale della sessualità a fine riproduttivo e moltiplicativo della specie, imposta
da una struttura patriarcale della società, è malata non tanto e non solo perché il resto del corpo è
ridotto a uno strumento di lavoro faticoso, ma piuttosto perché è una trasformazione dell’energia
vitale dell’Eros in Thanatos, in violenza e dominio degli altri viventi e della Natura: la violenza e il
dominio sono legati alla necessità implicata da un progresso demografico abnorme dell’umanità, a
sua volta circolarmente motivato da una volontà di dominio. La sessualità genitale ha motivazioni
vitali e non di puro piacere, ma non è in questo diversa dalle altre forme di sessualità che non sono
di puro piacere individuale, ma di unione con altra vita: il piacere esiste biologicamente per l’unione
vitale, e non l’unione vitale per il piacere individuale; è questo ribaltamento freudiano
dell’effettività biologica dell’Eros che pone in Freud un contrasto ineliminabile fra sessualità e
civiltà e l’impossibilità di una fondazione di un’etica dell’Eros. La sessualità genitale patriarcale è
malata perché è ridotta a stupro maschilista, perché riduce la donna a valore di scambio e a
142
proprietà privata, a mero strumento di piacere e di riproduzione dell’uomo maschio e non è legata a
un’unione libera e felice: la monogamia è stata introdotta per eliminare la conflittualità sociale con
la proprietà, ma comunque riduce l’interscambiabilità della donna quale strumento di piacere e di
riproduzione. La sessualità non-genitale non è tutta uguale: è repressa primariamente soprattutto
quando e perché è quella che veicola l’affettività e la tenerezza, mentre i rapporti fra esseri umani
devono essere distaccati per poter essere rapporti gerarchici e di potere, violenti e non-affettivi. La
sessualità non-genitale sado-masochista non è repressa se non per repressione della violenza a cui
la sessualità è subordinata in questo caso.
Il caso del “principio di realtà biologico” non è che accennato da Marcuse, ma potrebbe essere
sviluppato nei termini seguenti. L’essere umano è stato gettato, fin dalla sua apparizione sulla Terra,
in una condizione ambientale già segnata dalla lotta per la vita, in cui altri animali predatori
esercitavano già la caccia anche nei suoi confronti: in questo contesto, in cui già il solo difendersi
poteva implicare l’uccisione di altri animali predatori, sicuramente un effetto mimetico ha potuto
portare l’essere umano a trasformarsi a sua volta in predatore. Tuttavia, comunque la penuria di
cibo in un certo ambiente, esplorato nella progressiva conquista di più spazi terrestri alla vita, avrà
indotto l’essere vivente (umano) a negare l’Eros nella sfera interspecifica per il fine della mera
sopravvivenza individuale, – quando, cioè, la tensione per la soddisfazione di un bisogno porta
prima a cibarsi di cadaveri, di carogne, la vita umana, come quella di altri animali trasformatisi in
predatori che servono come modelli di una mimesi, inizia a diventare dipendente dalla morte di altre
vite, e si stabilisce una schiavitù della vita dalla morte altrui, fino a indurre a procurarla. L’istinto di
morte, (l’essere-per-la-morte) che era parte della vita e funzione dell’Eros, radicato nella struttura
genetica della vita per farne finire la sofferenza, oltre una certa soglia, con la fine dell’individualità
(“principio del Nirvana”), viene bloccato dall’intelligenza animale con una risposta culturale, che
sembra trovare un’altra soluzione nel farsi predatore e cibarsi di altre vite animali: non era un atto
necessario, l’animale poteva rientrare in un ambiente adatto e ritrovare cibo vegetale; la lotta per la
vita nel senso della predazione animale avviene solo quando un animale vuole permanere, almeno
143
per periodi di tempo rilevanti per l’alimentazione, in un ambiente non adatto alla vita animale (i
ghiacciai artici, zone desertiche o altre comunque sfavorevoli, comunque il mare per i pesci) e la
sua successiva mobilità non lo induce poi a ricambiare dieta. Ci sono ambienti favorevoli e ambienti
sfavorevoli alla vita animale: la lotta per la vita e la selezione naturale avvengono solo negli
ambienti sfavorevoli, che inducono certi animali a diventare predatori di altri. Tutta la potenzaenergia vitale che l’animale ha per vivere ed essere felice massimamente viene reindirizzata contro
l’altro animale che deve essere catturato, ucciso e ridotto a cibo, e diventa violenza, potenza
distruttrice della vita altrui. L’istinto di vita è così trasformato in un istinto distruttivo di altre vite, e
l’organismo stesso è trasformato in una “macchina da guerra” contro altre forme di vita, come
anche lo stesso piacere si lega all’esercizio della violenza: la non accettazione della propria morte
individuale, anche a costo della morte di altri viventi, fa sì che l’istinto di morte sia estrovertito
(l’istinto di morte propria diventa istinto, distruttivo, di morte altrui) e sia autonomizzato dall’Eros e
gli si opponga: diventa Thanatos, la vita si contrappone alla morte e così alla vita stessa. La vita
diventa schiava di Thanatos e diventa predatrice, strumento di violenza e di morte, volontà di
potenza e di dominio che asserve a sé, distorcendolo, il piacere: il principio attivo della vita,
l’energia vitale psichica, Eros non è solo sublimato, ma anche convertito in strumento di morte, in
Thanatos. La razionalizzazione non solo rimuove e reprime Eros ma anche legittima Thanatos.
L’esistenza diventa una lotta fra Eros e Thanatos, e infine scelta e decisione etica e politica fra
autenticità e inautenticità.
Le strutture tecniche e socio-politiche di dominio della Natura esterna e dell’alterità determinano
anche la nostra struttura psichica interna come una struttura di dominio conscio-razionale dell'io e
del super-io sull'Eros inconscio, che qualificano tutte le nostre razionalizzazioni e tutte le nostre
costruzioni culturali come delle funzioni repressive dell'Eros.
Se il lavoro tecnico non è marxianamente l’auto-realizzazione dell'umanità, ma piuttosto dominio
della Natura esterna e fonte dell'alienazione dalla Natura interna, allora è necessaria non tanto una
144
liberazione del lavoro e del lavoratore dipendente, quanto piuttosto una liberazione dal lavoro per
realizzare una nuova civiltà non repressiva dell'Eros.
Lo spazio e il tempo "volgari" o propri delle razionalizzazioni non sono solo astrazioni metafisiche,
ma, in quanto riflessi di strutture tecniche, sociali e politiche di dominio, scanditi dal lavoro, sono
introiettati anche quali categorie psicologiche della repressione dell'Eros, che provoca il disagio
collettivo della civiltà e il malessere dei soggetti individuali in nevrosi, psicosi e follie che
esprimono il rifiuto di una qualsiasi consapevolezza dove si operano le razionalizzazioni repressive
dell'Eros.
L’uomo a una dimensione. L'ideologia della società industriale avanzata (1964)79 ebbe grande
importanza anche per il movimento di rivolta del 1966-1968: Marcuse caratterizzava il movimento
studentesco come nuova “classe rivoluzionaria”. La storia dell’essere heideggeriana veniva tolta dal
suo piedistallo trascendentale e concretizzata in termini della storia economica occidentale: si
passava dalla struttura ontologica trascendentale dell’esistenza umana alla struttura economica
concreta che determina la struttura delle società umane. L’oblio dell’essere che caratterizza l’età
moderna della tecnica è legato allo sviluppo del capitalismo moderno, che costituisce un apriori
storico tecnico-economico come “trascendentale materiale”, che fa sì che dominio tecnico della
Natura e dominio dell’uomo sull’uomo siano strettamente connessi: inautenticità dell’esserci
heideggeriano e alienazione marxiana vengono identificate; l’essere umano viene ridotto a una sola
dimensione consumistica, anche nel pensiero che ne è ideologia (la filosofia analitica soprattutto
che si limita a un’analisi conservatrice del linguaggio che è espressione di potere e di dominio).
Marcuse delinea anche un processo rivoluzionario di liberazione che implica una rivoluzione del
linguaggio del pensiero (Saggio sulla liberazione, 1969).
Theodor Wiesegrund Adorno (1903-1969), sociologo, studioso e filosofo della musica e dell’arte,
filosofo, fu esponente di rilievo della cosiddetta “Scuola di Francoforte”. La sua filosofia,
d’ispirazione hegelo-marxista, si caratterizza soprattutto in contrapposizione a quella di Heidegger,
79
H. MARCUSE, One-Dimensional Man. Studies in the Ideology of Advanced Industrial Society, Beacon Press, Boston
1964, tr. it. di L. & T. Gallino, L'uomo a una dimensione, Einaudi, Torino 1967.
145
nei confronti della quale è estremamente critico: a questa, considerata come irrazionalista,
contrappone il lavoro senza fine del concetto e della negazione. Tuttavia, Adorno non tiene conto
che la prospettiva di Heidegger si basa tutta sulla precedente distruzione dei concetti della
tradizione filosofica e teologica, e lancia l’accusa che Heidegger rinuncerebbe all’analisi dei
concetti e del pensiero critico. D’altra parte, la negativizzazione della dialettica operata da Adorno,
che elimina da quella hegelo-marxiana il momento sintetico, sembra dipendere
dalla critica
esistenzialistica a Hegel da parte di Kierkegaard (a cui dedicò una monografia già nel 1933), e
anche dalla distruzione dei concetti operata da Heidegger e dalla sua reinterpretazione della storia
hegeliana da rivelazione positiva a rivelazione negativa (oblio) dell’essere.80
C’è una critica generica e aprioristica, da parte di Adorno, della metafisica ontologica dell’essere di
Heidegger: il banale fatto che viola la filosofia di Kant viene presentato come un errore di
Heidegger, ma l’ontologizzazione del trascendentalismo kantiano operata da Heidegger è un’altra
prospettiva; che nell’esserci di Heidegger si effettui anche una trascendentalizzazione
dell’esperienza non lo distingue da Kant; che Heidegger non segua il metodo dialettico non può
essere in sé un’obiezione e non se ne può dedurre che si tratti di un “pensiero dell’identità”, mentre
tematizza la differenza ontologica; la critica ideologica marxista di idealismo vale altrettanto poco.
Si tratta di critiche che cercano di mostrare delle inconsistenze nel pensiero di Heidegger, ma non
dall’interno: vengono effettuate dalla presupposizione di un’altra filosofia.
La critica dell’essere come ipostatizzazione della forma grammaticale della copula non è originale
ed è sicuramente desunta dagli studi critici parmenidei.81
80
TH. W. ADORNO, Negative Dialektik, Suhrkamp, Frankfurt am Main 1966; tr. it. di C. A. DONOLO, Dialettica
negativa, Einaudi, Torino 1970. Si vedano anche: M. HORKHEIMER & TH. W. ADORNO (1944, 1947), Dialektik der
Aufklärung. Philosophische Fragmente, Fischer Verlag, Frankfurt am Main 1969; tr. it. di R. SOLMI, introduzione di C.
GALLI, Dialettica dell’illuminismo, Einaudi, Torino 1966, 1997; TH. W. ADORNO, Minima moralia.Reflexionen aus dem
beschӓdigten Leben, Suhrkamp, Frankfurt am Main 1951; tr. it. di R. SOLMI, introd. di L. CEPPA, Minima moralia.
Meditazioni della vita offesa, Einaudi, Torino 1954, 1979; TH. W. ADORNO, Jargon der Eigentlichkeit. Zur deutschen
Ideologie, Surkhamp, Frankfurt am Main 1964; tr. it. di P. Lauro, intr. di R. Bodei, Il gergo dell’autenticità.
Sull’ideologia tedesca, Bollati Boringhieri, Torino 1989; TH. W. ADORNO, Philosophische Terminologie, I-II,
Surkhamp, Frankfurt am Main 1973; tr. it. di A. Solmi, Terminologia filosofica, I-II, Einaudi, Torino 1975.
81
Questa critica a Parmenide è svolta nella sua forma più piena negli studi di Guido Calogero (che poi la ripresentò
brevemente in un saggio su Heidegger del 1950: G. CALOGERO, Leggendo Heidegger, in Rivista di filosofia XLI, n.2
146
Tuttavia, la critica di Adorno ad Heidegger è pure in gran parte aggressiva, disordinatamente
insistente, ripetitiva, eccessiva, ideologica, pretestuosa e falsa: Max Horkheimer diceva che la forza
di Adorno stava nello “spirito acuito dall’odio”. Adorno è geniale ma caotico, mischia filosofia a
sociologia
e
psicologia
disordinatamente,
diverte
le
argomentazioni
razionali
critiche
nell’identificazione sarcastica di un presunto gergo dell’autenticità di Heidegger che nasconderebbe
pure romanticismo agrario (anche attraverso una banalizzazione di poesie di Heidegger), idealismo
borghese, banalità, tautologie, violenza, conservatorismo e nazismo. Adorno straparla sì in un gergo
pseudoconcettuale e pseudofilosofico, pseudosociologico e pseudopsicologico, che dà aura
intellettuale a un mero spirito di risentimento e di vendetta dettato da odio ideologico,
comprensibile ma non giustificabile: effettua connessioni deliranti, mascherandole di razionalità,
per il puro gusto di annientare Heidegger, presentato come nichilista che effettua una pseudoteodicea della morte, solo perché fa della morte la cifra della finitezza costitutiva dell’esserci.
Questo significa non volersi confrontare effettivamente con Heidegger per nascondere forse la
dipendenza implicita del suo pensiero. In fondo, pur se non lo avrebbe mai ammesso, la Dialettica
negativa di Adorno (legata a Kierkegaard e Heidegger; non è un caso che tutta la prima parte è
dedicata alla critica dell’ontologizzazione della filosofia operata da Heidegger) e la Dialettica
dell’illuminismo di Horkheimer e Adorno non sono altro che forme di Heidegger-Marxismus, come
quella di Marcuse, e non potrebbero essersi originate (non basta l’opera di Gyorgy Lukacs per
comprenderle) e non potrebbero essere comprese se non nei termini di una variante eretica
heideggeriana del marxismo ortodosso: la variante eretica sta nella critica della scienza e della
tecnica moderne.
Tale dipendenza, invero, emerge chiaramente dall’opera più importante di Adorno, dal fatto che
tutta la critica della razionalità illuministica moderna, della razionalità strumentale e tecnica e del
(1950), pp. 136-149; poi ristampato nella seconda edizione de La scuola dell’uomo, in Scritti di Guido Calogero I,
Sansoni, Firenze 1956, pp. 231-249), che ebbero risonanza internazionale e che già nel 1938 furono presentati in
Germania da una recensione di Kurt von Fritz, ristampata nell’edizione tedesca del 1970 e poi nella seconda italiana del
1977: G. CALOGERO, Studi sull'eleatismo, Tipografia del Senato, Roma 1932, seconda edizione La Nuova Italia, Firenze
1977; tr. ted. di W. Raible, Studien über den Eleatismus, Wissenschaftliche Buchgesellschaft, Darmstadt 1970 & Olms,
Hildescheim-New York 1970.
147
conseguente dominio sulla Natura, condotta da Adorno insieme a Max Horkheimer (1895-1973), è
in qualche modo uno sviluppo della filosofia di Husserl ma soprattutto di Heidegger, anche
attraverso la mediazione storica di Marcuse (si ricordi il saggio del 1941 sulla razionalità
tecnologica), tramite una trasposizione in ambito marxista: sviluppano la loro critica della tecnica e
della razionalità scientifica illuministica soprattutto in Dialettica dell’illuminismo (1944, 1947).
La critica della civiltà moderna nelle sue varie componenti (capitalismo, tecnica, scienza, calcolo,
razionalizzazione) aveva radici diffuse, delle quali tutte Horkheimer e Adorno usufruirono: Max
Weber (1864-1920) già nel 1905 e nel 1922 aveva discusso del processo di razionalizzazione che
contraddistingue la modernità e il capitalismo; Werner Sombart (1863-1941) già dal 1913 aveva
trattato dei rapporti fra tecnica moderna e capitalismo; Oswald Spengler (1880-1936) con Der
Untergang des Abendlandes. Umrisse einer Morphologie der Weltgeschichte (1918-1923) aveva
delineato la decadenza, il tramonto della civiltà occidentale in cui il predominio della scienza
caratterizza l’ultimo stadio; Gyorgy Lukacs (1885-1971) con Storia e coscienza di classe (1923)
aveva iniziato a criticare anche la scienza moderna come prodotto della classe borghese; Max
Scheler (1874-1928), con Sociologia del Sapere del 1924, aveva già tracciato il collegamento fra
tecnica moderna, scienza moderna, capitalismo moderno e volontà di potenza nietzscheana;
Ludwig Klages (1872-1956), con Der Geist als Widersacher der Seele (1929), aveva altresì insistito
contro il dominio tecnico della Natura; Walter Benjamin (1892-1940), con Über den Begriff der
Geschichte (1940-1950) - il cui manoscritto era finito appunto a Horkheimer e Adorno che ne
curarono una prima pubblicazione ciclostilata -, aveva delineato la storia in termini catastrofici
anche se pure messianici.
Già Weber vedeva la specificità del capitalismo moderno in un’organizzazione scientifico-tecnica
del lavoro, basata su una razionalizzazione matematica, su procedure meccaniche di calcolo, cioè su
quella razionalizzazione operata dalla scienza moderna che aveva provocato un disincanto del
mondo. Lukacs comprende che la scienza moderna, di cui l’economia capitalistica moderna è
espressione, che considera le cose e gli stessi esseri umani, come mera forza-lavoro, nel loro valore
148
quantificabile di merce, privati delle loro qualità, è una scienza di classe. Ma soprattutto Scheler,
per primo, a cogliere l’intreccio fra metafisica meccanicista, scienza moderna, tecnica moderna e
capitalismo moderno come espressioni di una nuova forma di umanità borghese, caratterizzata da
un nuovo ethos improntato non all’amore ma all’esplicazione di una volontà sistematica di dominio
della Natura, come reazione compensativa alla consapevolezza della propria nullità nell’universo
infinito. Oltre Husserl, Heidegger e Marcuse, insieme a molti altri, questi autori e testi sono stati
fonti della sintesi dell’analisi della storia di Horkheimer e Adorno.
Una storia auto-critica della razionalità discorsiva umana era stata in qualche modo abbozzata già
da Husserl nella sua conferenza a Wien sulla Crisi dell’umanità europea e la filosofia (Die
Philosophie in der Krisis der europӓischen Menschheit) del 7 e 10 Maggio 1935, pubblicata poi
solo nel 1954 ne La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale, il cui contenuto
in qualche modo deve essere stato conosciuto da Horkheimer e Adorno: ogni razionalità
storicamente determinata nella sua finitezza è unilaterale, e ha una sua tendenza intrinseca ad
assolutizzarsi, che la rende ambivalente nei suoi effetti positivi e negativi.
Per Horkheimer e Adorno, la ragione si presenta, da una parte come mezzo di emancipazione e di
libertà e, dall’altra parte, come ideologia della legittimazione della violenza e del dominio umano
della Natura. Il mito religioso, la filosofia e la scienza moderna hanno rappresentato nella storia
differenti, successivi, sistemi di pensiero che hanno costituito sia processi emancipatori sia
ideologici in una serie crescente di gradi di razionalizzazione della violenza e del dominio sulla
Natura esterna e interna, in un continuum positivo e negativo allo stesso tempo.
Horkheimer e Adorno, pur senza citare direttamente Heidegger, hanno forse avuto a disposizione, in
qualche modo, oltre alle lezioni del 1928-1929 di Heidegger sulla scienza seguite da Marcuse,
qualche versione delle lezioni di Heidegger del 1935 di Introduzone alla metafisica o sulla
metafisica matematica del 1936 (La questione della cosa), su Nietzsche che iniziano già nel 1936 o
della conferenza su L’epoca dell’immagine del mondo del 1938, in cui è già totalmente esposta la
visione critica della scienza e della tecnica. Tuttavia, la dipendenza da Heidegger è comunque
149
spiegabile senza questa ipotesi. Già in Essere e Tempo del 1927, come già detto, Heidegger aveva
delineato l’origine derivata e secondaria della teoria in una pre-comprensione pratica del mondo,
che si ha già per il solo fatto di esistere: in particolare, anche la scienza moderna ha questa origine
in una pre-comprensione pratica, strumentale-tecnica, del mondo in termini di mera utilizzabilità
umana, da cui poi astrae: su questa base svilupperà poi l’idea della tecnica moderna come
presupposto della scienza modena e come massima espressione dell’oblio metafisico dell’essere.
D’altra parte, La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale di Husserl, opera
scritta nel 1936 ma pubblicata solo in parte nel 1937 e poi, in modo “completo”, nel 1954,82 letta e
citata da Horkheimer e Adorno, può costituire l’anello mancante di congiunzione del loro pensiero a
quello di Heidegger. Husserl, come già rilevato, fa così emergere con Heidegger il presupposto
tecnico-pratico e l’astrazione specifica della scienza moderna da considerazioni umane di valore e
di senso, e fornisce a Marcuse e a Horkheimer e Adorno la base per un’analisi marxiana della
scienza moderna come riflesso ideologico della struttura economico-sociale e tecnica della
particolare, storica, Lebenswelt moderna, da cui non può svincolarsi.83 Questa tesi, nei termini di
una stretta connessione strutturale fra pratica economica e pensiero teoretico-scientifico, era stata
presentata anche da Alfred Sohn-Rethel (1899-1990), in un testo noto come Luzerner Exposé del
1936, pubblicato solo nel 1985,84 ma avuto subito da Horkheimer e Adorno.85
Nella migliore delle ipotesi, quella di Husserl, la scienza ha un valore meramente pratico,
strumentale, legato a interessi del mondo della vita, perché non riesce a trascenderlo come la
fenomenologia trascendentale con le sue riduzioni. Nella peggiore, quella della fenomenologia
marxista di Horkheimer e Adorno e di Marcuse, la scienza è l’idealizzazione matematica di pratiche
tecniche di dominio della Natura proprie di una particolare storico-sociale Lebenswelt, che pure,
82
E. HUSSERL (1936), Die Krisis der europäischen Wissenschaften und die transzendentale Phänomenologie, in
Husserliana, Gesammelte Werke, Bd. VI, Nijhoff, Den Haag 1954, 1959; tr. it. di E. FILIPPINI, La crisi delle scienze
europee e la fenomenologia trascendentale, il Saggiatore, Milano 1961.
83
H. MARCUSE, One-Dimensional Man. Studies in the Ideology of Advanced Industrial Society, Beacon Press, Boston
1964, tr. it. di L. & T. Gallino, L'uomo a una dimensione, Einaudi, Torino 1967, pp. 175-182.
84
A. SOHN-RETHEL, Soziologische Theorie der Erkenntnis, a cura di J. Hӧrisch, Suhrkamp, Frankfurt am Main 1985.
85
R. WIGGERSHAUS, Die Frankfurter Schule. Geschichte. Theoretische Entwicklung. Politische Bedeutung, C. Hanser
Verlag, München 1986; tr. it. di P. AMARI & E. GRILLO, La scuola di Francoforte. Storia. Sviluppo teorico. Significato
politico, Bollati Boringhieri, Torino 1992.
150
all’epoca di Galileo, sono legate anche a pratiche economiche di dominio dell’uomo sull’uomo che
richiedevano la quantificazione, la calcolabilità di tutte le cose per la riduzione a merce: la scienza
diventa così anche ideologia di una particolare struttura economica sociale borghese e capitalistica.
Ma è così? Sociologicamente, certo, la scienza moderna è potuto divenire il sapere dominante nelle
nostre società perché effettivamente la quantificazione matematica dei fenomeni permetteva
un’efficienza economica e tecnica mai raggiunta prima. La trasformazione del sapere tecnico in
mezzo metodico sperimentale per la conoscenza scientifica operata da Galileo ha comportato il fatto
che la scienza si è lasciata influenzare dalla tecnica (e dall’economia) producendo già con Descartes
una concezione meccanicistica della Natura; tuttavia, almeno da quando si è creata la netta
separazione fra fisica teorica, fisica matematica e fisica sperimentale, questa ha lasciato ai teorici
una libertà dai modelli meccanici; d’altra parte, i limiti dei modelli tecnici decretati da nuovi
esperimenti hanno determinato, già alla fine dell’Ottocento, la distruzione della concezione
meccanicistica e la creazione di teorie matematiche sì, legate a nuovi esperimenti sì, ma libere da
quella originaria e da ogni Lebenswelt: con l’indeterminazione sperimentale-matematica quantistica,
per esempio, seppure la fisica resta matematica come dice Husserl, lo è in una maniera che segna i
limiti di qualsiasi matematizzabilità della Natura e che fa crollare anche la possibilità di essere usata
come ideologia del capitalismo. Se la scienza moderna con la sua razionalizzazione matematica,
come detto da Weber, aveva portato al “disincanto del mondo”, quella contemporanea, con la fisica
relativistica, quantistica e del caos, mostra i limiti di qualsiasi razionalizzazione matematica e porta
al “reincantamento della Natura”.86
Nei termini di Marcuse,87 che rende chiaramente comprensibile quanto è espresso magmaticamente
e caoticamente, e con riferimenti non sempre espliciti, nella Dialettica dell’illuminismo, la
86
I. PRIGOGINE & I. STENGERS, La Nouvelle Alliance. Métamorphose de la Science, Gallimard, Paris 1979; tr. it. di P.
D. NAPOLITANI, La Nuova Alleanza – metamorfosi della scienza, Einaudi, Torino 1981.
87
H. MARCUSE, One-Dimensional Man. Studies in the Ideology of Advanced Industrial Society, Beacon Press, Boston
1964, tr. it. di L. & T. Gallino, L'uomo a una dimensione, Einaudi, Torino 1967, pp. 175-182; H. MARCUSE, On Science
and Phenomenology, in Boston Studies in the Philosophy of Science II, a cura di R. Cohen & M. Wartofsky, Humanities
Press, New York 1965, tr. it. di C. Camporesi, Sulla scienza e la fenomenologia, in Critica della società repressiva,
Feltrinelli, Milano 1968, pp. 56-68.
151
conseguenza più generale di questa analisi de La crisi delle scienze europee e la fenomenologia
trascendentale di Husserl è che la ragione teoretica, almeno nella sua forma scientifica e
matematica che viene a prevalere nell’illuminismo, è in effetti una ragione pratica volta al dominio
della Natura, una ragione tecnica. La stessa ragione scientifica non si auto-comprende in questa sua
essenza, ha in sé degli elementi di irrazionalità, cioè non controllati dalla ragione, e come tale si
trasforma in parte in non-ragione. Così, secondo Husserl, la razionalità scientifica, distaccandosi dal
fondamento filosofico, fa crollare il progetto umanistico moderno della ragione. In definitiva,
seppure con altre finalità rispetto ad Heidegger - cioè per contrapporre al pensiero scientifico una
nuova fondazione trascendentale del pensiero filosofico -, Husserl già nel 1936 ha tratto prima di
Heidegger stesso, almeno in forma di pubblicazione, alcune conseguenze implicite di Essere e
tempo e del corso del 1928-1929 di Heidegger sulla scienza e sulla tecnica. Tuttavia, con la
concezione non-strumentale, non-antropologica della tecnica, almeno a partire dagli anni cinquanta,
Heidegger coglie l’aspetto rivelativo dell’essere della tecnica (per Heidegger l’essere non si rivela
più soltanto nella auto-manifestazione spontanea delle cose come fenomeni per noi, ma anche, con
un distacco notevole dalla fenomenologia husserliana, ma anche nella manifestazione forzata dalla
tecnica, come in un esperimento, con fenomeni – non “noumeni” – che si situano al di là
dell’esperienza umana e sono coglibili solo da strumenti tecnici), e quindi della scienza moderna
che usa la tecnica con finalità non-tecniche, mentre per Husserl la scienza moderna può avere solo
un valore pratico-strumentale e solo finalità pratico-tecniche.
Si comprende adesso come Horkheimer e Adorno siano arrivati a riconsiderare, sulla base della
prospettiva di Heidegger e Husserl, in un contesto marxista di teoria critica della società, la
trasformazione della ragione illuministica, a cui pure si deve il progresso culturale e materiale, nella
sua assolutizzazione scientifico-tecnica, in
ideologia del
dominio, ovvero in
termini
dell’identificazione marxiana di sapere mitico-religioso e ideologia, in mito.
La Dialettica dell’Illuminismo, opera fra le più rappresentative della Scuola di Francoforte, da
questo punto di vista si situa all’interno di quella corrente del marxismo occidentale, che si distanzia
152
nettamente dal marxismo ortodosso: la struttura economica della società è determinata non soltanto
e primariamente dalla proprietà dei mezzi di produzione, ma piuttosto dai mezzi di produzione
stessi, cioè dalla strumentazione tecnica della produzione, ovvero dalla tipologia del dominio
tecnico della Natura; già il dominio tecnico della Natura instaura una struttura gerarchica della
società. La tipologia della tecnica moderna è determinata dalla scienza moderna, e questa, a sua
volta, nelle nostre società è ormai storicamente determinata, come sua finalità presupposta, dalla
tecnica che si vuole realizzare, dal dominio tecnico della Natura che si vuole raggiungere.
Così, rifacendosi in parte a Lucaks, si distingue dal marxismo ortodosso, anche precisamente per la
critica della scienza moderna, che viene radicalizzata: se Marx, infatti, voleva costituire un
socialismo “scientifico”, basato sul paradigma della scienza moderna come conoscenza certa e
oggettiva, nella Dialettica dell’Illuminismo la scienza moderna è considerata come essenzialmente
ideologica e vista per ciò che ne fa una legittimazione del dominio tecnico della Natura e degli altri
viventi da parte dell’essere umano. La nascita della scienza moderna viene considerata criticamente
da Horkheimer e Adorno, come collegata alla nascita del capitalismo: l’origine della forma moderna
di dominio dell’uomo sull’uomo, alla base del capitalismo moderno, viene fatta risalire alla
medesima origine del dominio dell’uomo sulla Natura e sull’animale e anche di quello sulla donna:
l’esigenza della matematizzazione e della quantificazione della Natura che dà origine alla scienza
moderna deriverebbe dallo spirito del capitalismo moderno volto alla determinazione di tutte le cose
come merce, in termini del denaro come equivalente di scambio, secondo una razionalizzazione
dell’organizzazione del lavoro con un calcolo matematico-economico esatto del profitto.
E’ proprio questa enfasi sul sapere come dominio sulla Natura, ottenuto attraverso la tecnica che,
come evidenziano Horkheimer e Adorno, sarà poi la base dell’illuminismo borghese e del dominio
dell’uomo sull’uomo:
Ciò che non si piega al criterio del calcolo e dell’utilità, è, agli occhi dell’illuminismo, sospetto. [...] L’illuminismo è
totalitario. [...] il numero diventa il canone dell’illuminismo. Le stesse equazioni dominano la giustizia borghese e lo
scambio di merci. [...] la società borghese è dominata dall’equivalente. Essa rende comparabile l’eterogeneo
153
riducendolo a grandezze astratte. Tutto ciò che non si risolve in numeri, e in definitiva nell’uno, diventa per
l’illuminismo, apparenza; e il positivismo moderno lo confina nella letteratura 88.
Il testo ha sostanzialmente quattro parti: il primo capitolo, sul Concetto di illuminismo, era stato
dettato da entrambi a Gretel Adorno, con l’excursus sull’Odissea che era stato concepito da Adorno
e quello sull’Histoire di Juliette di Sade da Horkheimer; la seconda parte, L’industria culturale.
Quando l’illuminismo diventa mistificazione di massa, fu abbozzata da Adorno e completata da
Horkheimer; come terza parte, gli Elementi dell’antisemitismo. Limiti dell’illuminismo, abbozzati
da Horkheimer, furono sviluppati da Adorno; i testi aforistici, Appunti e schizzi, della parte finale
furono scritti da Horkheimer con brevi aggiunte di Adorno, per gettare luce sull’intero libro che
aveva una struttura non unitaria, quale raccolta di saggi. Come dattiloscritto fu pubblicato come
ciclostilato nel 1944, mentre venne pubblicato effettivamente solo nel 1947.
Adorno ed Horkheimer hanno capito bene che tutta la critica della modernità e, in generale, della
razionalità, della storia del pensiero filosofico e scientifico come oblio metafisico dell’essere
culminante nel moderno dominio tecnico della Natura, effettuata da Heidegger, secondo il corso del
1928-1929 e secondo l’identità di essere e Physis stabilita ancora più nettamente dallo stesso
Heidegger nelle lezioni del 1935 poi pubblicate nel 1953 come Einführung in die Metaphysik, e
ripresa da Marcuse nel 1941, poteva essere presentata senza bisogno di ontologizzazioni, senza
bisogno di introdurre il concetto di essere, formulando il tutto nei termini della critica del dominio
della Natura. Nel testo delle lezioni di Heidegger del 1935, l’inquietante, spaventosa, violenza
dell’essere umano sulla Natura, di cui sono espressione anche il linguaggio e il pensiero, emergeva
come radicata fin nella storia più antica dell’umanità, nella cultura greca di cui prima espressione
era l’opera di Omero, e veniva analizzata nell’Antigone di Sofocle; si trasformava poi nella
“macchinazione” propria della modernità e della sua tecnica legata al pensiero calcolante della
scienza moderna.
88
M. HORKHEIMER & TH. W. ADORNO (1947), Dialektik der Aufklärung. Philosophische Fragmente, op. cit., pp. 14-15.
154
Horkheimer e Adorno illustrarono l’ambivalenza della razionalità discorsiva umana, nella sua
positività oltre che nella sua negatività, usando l’interpretazione delle opere d’arte in termini di
filosofia della storia della Teoria del Romanzo di Lukacs, attraverso soprattutto l’analisi
dell’Odissea di Omero e l’opera di De Sade, mostrando nel poema mitologico la presenza della
ragione illuministica e nella seconda la demitologizzazione della razionalità.
Ulisse, nell’analisi del dodicesimo canto dell’Odissea, è l’esempio massimo di quella particolare
forma di ragione che poi sarà analizzata in termini di metis, cioè della ragione strumentale che
emergerà soprattutto dall’illuminismo: Ulisse che sente il canto delle sirene, ma previene la loro
seduzione; Ulisse che aveva ideato il cavallo di Troia, Ulisse che disse a Polifemo di chiamarsi
nessuno (ou tis) per creare un gioco di parole che avrebbe eliminato la possibilità di identificarlo
come colpevole.89 Se la metis è così antica, si ritrova espressa nel mito e addirittura è la forma di
ragione già dell’uomo cacciatore e predatore, allora si comprende come Horkheimer e Adorno
abbiano fatto dell’Illuminismo una categoria trans-epocale applicabile a tutta la storia nei termini di
una razionalità strumentale volta al dominio umano della Natura e dell’uomo sull’uomo, all’interno
di un movimento dialettico hegelo-marxista senza sintesi. Tuttavia, come verrà discusso, la ragione
non è solo metis, ragione pratica strumentale tecnica, ma anche logos, ragione discorsiva teoretica
pura che è astratta da un dialogos, e vanno comprese nei dettagli storici le loro formazioni e
trasformazioni. Trasformare il mito e l’illuminismo in categorie trans-epocali non implica, però,
soltanto una particolare filosofia della storia, condivisibile o non condivisibile, ma anche una sorta
di meta-storia strutturale sincronica come quella di Splengler e non diacronica, e pure una storia
trascendentale come la storia fenomenologica trascendentale di Husserl o la storia dell’essere di
Heidegger.
Le differenze rispetto a Husserl, Heidegger e Scheler, stanno, quindi, oltre che nella declinazione
marxiana, critica esplicitamente del ruolo del capitalismo, soprattutto nelle specifiche
interpretazioni di alcuni fondamentali snodi storici. Laddove Husserl considera Galileo all’origine
89
M. DETIENNE & J.-P. VERNANT, Les ruses de l'intelligence – Les mètis des Grecs, Flammarion, Paris 1974, tr. it. di
A. GIARDINA, Le astuzie dell'intelligenza nell'antica Grecia, Laterza, Roma-Bari 1978.
155
della razionalità strumentale moderna, Heidegger, rispetto a Husserl e Scheler, non solo afferma
anche l’aspetto rivelativo della tecnica e della scienza moderna, ma anche individua in Descartes la
svolta epocale dell’esistere umano che si manifesta in una metafisica soggettivistica, umanistica,
meccanicistica, matematica, pre-determinante il futuro nella prospettiva dell’anticipazione
aprioristica matematica: per Heidegger è infatti fondante una pre-comprensione ontologicometafisica che può ritrovarsi, nella sua completezza, solo in Descartes. Horkheimer e Adorno
individuano, complementarmente, ma più in Francis Bacon l’affermarsi di una razionalità
strumentale moderna, con la prospettiva epistemologicamente consapevole che identifica il sapere
con il potere e la scienza con il dominio tecnico della Natura.
Anche la ragione del personaggio di Sade, Juliette, come quella di Sade e di Nietzsche, è metis,
ragione strumentale che demistifica le possibilità di una fondazione razionale della morale. Scheler
vede in Nietzsche soprattutto colui che ha svelato l’origine del dominio tecnico della modernità
nell’umanità inferiore e impotente, più nel risentimento che nella vera volontà di potenza;
Heidegger, invece, collega direttamente la volontà di potenza di Nietzsche al compimento della
metafisica soggettivistica moderna e alla consapevolezza della sua identità con il dominio tecnico
della Natura; Horkheimer e Adorno vedono in Nietzsche colui che ha de-mitologizzato
illuministicamente la stessa razionalità illuministica, oltre che la religione e la morale, rivelando la
pura volontà di potenza (o il risentimento) volta al dominio della Natura, che sta sotto la stessa
razionalità: Sade e Nietzsche hanno portato alle estreme conseguenze il processo illuministico di
formalizzazione della ragione. Kant aveva mostrato che non si può fondare alcuna morale sulla
ragione teoretica pura e che anzi, data come assunta, la morale richiedeva dei postulati della ragione
pratica. Tuttavia, non essendo la morale fondata sulla ragione pratica, ed essendo invece la ragione
pratica fondata sulla morale, la ragione pratica potrebbe costituirsi diversamente che in Kant, come
freddo calcolo formale e vuoto di contenuti, in base a fini pratici non morali, ma tecnicostrumentali: essa così, in Sade e Nietzsche legittima la violenza, la crudeltà, l’assassinio, il dominio,
identificandosi con essi in una trasvalutazione di valori.
156
Già all’interno di questa prima parte si innestano le riflessioni sull’antisemitismo, che, invero,
pervadono tutto il testo come il nucleo centrale più o meno evidente.
La critica della cultura e della civilizzazione, invero, sorta già come risposta all’abisso del male
riaperto dalla prima guerra mondiale del 1914-1918, a partire da Il tramonto dell’Occidente di
Oswald Spengler, si specifica qui, a seguito della seconda guerra mondiale e del già avviato (nel
1944) sterminio degli ebrei con la Shoàh, prima in una critica della modernità dell’Illuminismo e
poi si estende a tutta la storia della cultura e della razionalità (anche filosofica).
Horkheimer e Adorno danno interpretazioni diverse delle cause della Shoàh, che si susseguono, si
sovrappongono e si confondono all’interno della Dialettica dell’illuminismo e dei suo stessi
capitoli: questa circostanza rispecchia in parte le oscillazioni degli autori fra una tesi e un’altra, ma
anche la stessa dialettica contraddittoria che sola può cogliere la complessità della storia e della
realtà. Si deve tenere conto, senz’altro insieme, di fattori antropologici come fattori sacrificalirituali legati ai meccanismi del capro espiatorio, di fattori psicologici individuali e di massa della
violenza, di fattori sociologici ed economici legati alla struttura della società, di fattori politici legati
alle forme totalitarie dello stato, di fattori culturali, religiosi, filosofici, scientifici e tecnici.
Tuttavia, volendo dare un’interpretazione della Shoàh all’interno del più vasto fenomeno
dell’antisemitismo nella storia, Horkheimer e Adorno fanno prevalere le ragioni generali,
antropologiche e psicologiche, che possono essere fatte valere lungo tutto il dipanarsi della storia,
trascurando le specifiche, determinate ragioni storiche differenziate nei luoghi e nelle epoche.
Le cause della Shoàh come forma estrema dell’antisemitismo sono quindi ascritte alla trans-epocale
trasformazione dell’illuminismo in mito ideologico legittimante la violenza, ma questo sembra
riduttivo e generico, paragonabile ad altrettanto riduttive successive attribuzioni, seppure per nulla
elaborate come in Horkheimer e Adorno, da parte di Heidegger, all’epoca della tecnica e della sua
razionalità: un tentativo di ricondurre fenomeni singolarissimi, come la Shoàh, ad una legge
universale antropologica, storica o psicologica.
157
Le tesi sull’antisemitismo contenute nella Dialettica dell’illuminismo sono, infatti, in gran parte,
divagazioni generali filosofiche, psicologiche e sociologiche sulla violenza e sulle sue origini, sulla
violenza rituale e sul meccanismo del capro espiatorio. Laddove è abbozzato un discorso storico, si
cerca di derivarlo erroneamente dal Cristianesimo, ma senza una effettiva analisi storica: si divaga,
invece, in maniera “odiosa”, sulla superiorità dell’Ebraismo sul Cristianesimo come idolatria.
Più profonda è una prospettiva sintetizzabile in una frase scritta da Max Horkheimer in Eclisse della
ragione (1947) (questo testo, desunto da una serie conferenze, che si possono comunque far risalire
alla collaborazione con Adorno, è una sorta di esposizione più lineare di alcune tesi contenute in
Dialettica dell’illuminismo): “Si potrebbe dire che la follia collettiva imperversante oggi, dai campi
di concentramento alle manifestazioni apparentemente più innocue della cultura di massa, era già
presente in germe nell’oggettivazione primitiva, nello sguardo con cui il primo uomo vide il mondo
come una preda”.90
Questa affermazione è correlabile al tentativo, forse più interessante effettuato da Horkheimer e
Adorno, di comprendere la psicologia “sadica” dell’antisemitismo analizzando i testi di Sade e di
Nietzsche, riconoscendo nel loro pensiero il sovvertimento dello spinoziano amor intellectualis dei
in un amor intellectualis diaboli91 fino a una sorta di divinizzazione di ciò che per il giudeocristianesimo era considerato peccato:92 dal punto di vista storico, si tratta del fallimento, della
sconfitta del cristianesimo occidentale,93 la cui predicazione dell’amore cade sotto i colpi della
critica della ragione illuministica portata al suo estremo. Dopo Darwin, la violenza nella lotta per
l’esistenza è elevata a legge di Natura: è la scienza, la teoria scientifica dell’evoluzione delle specie
che legittima per prima la violenza. La violenza non è più legata alla “caduta”, al peccato originale
90
M. HORKHEIMER, Eclipse of reason, Oxford University Press, Oxford-New York; tr. it. di E. VACCARI SPAGNOL,
Eclisse della ragione. Critica della ragione strumentale, Einaudi, Torino 1969, p. 151.
91
M. HORKHEIMER & TH. W. ADORNO (1944, 1947), Dialektik der Aufklärung. Philosophische Fragmente, Fischer
Verlag, Frankfurt am Main 1969; tr. it. di R. SOLMI, introduzione di C. GALLI, Dialettica dell’illuminismo, Einaudi,
Torino 1966 e poi 1997, p. 100.
92
M. HORKHEIMER & TH. W. ADORNO (1944, 1947), Dialektik der Aufklärung. Philosophische Fragmente, Fischer
Verlag, Frankfurt am Main 1969; tr. it. di R. SOLMI, introduzione di C. GALLI, Dialettica dell’illuminismo, Einaudi,
Torino 1966 e poi 1997, p. 112.
93
M. HORKHEIMER & TH. W. ADORNO (1944, 1947), Dialektik der Aufklärung. Philosophische Fragmente, Fischer
Verlag, Frankfurt am Main 1969; tr. it. di R. SOLMI, introduzione di C. GALLI, Dialettica dell’illuminismo, Einaudi,
Torino 1966 e poi 1997, p. 115-116 e 119-120.
158
che ci conduce fuori dall’Eden di Genesi 1.29-30. La morte di Dio decretata dalla filosofia di
Nietzsche che ha acquisito consapevolezza della nuova scienza, con la genealogia della morale
demistificata anche con la ripresa dei sofisti antichi, libera l’esercizio libero e consapevole della
violenza, prima repressa e che ora entra positivamente nella nuova auto-comprensione dell’umanità,
e quindi di una nuova forma di umanità.
Se Nietzsche aveva accusato il giudeo-cristianesimo di essere una religione del risentimento dei
deboli e degli schiavi, che così fantasticavano una vendetta divina futura finale annientatrice dei
loro oppressori in un inferno, come la Gheenna gerosolimitana, in cui sarebbero stati inceneriti,
secondo Horkheimer e Adorno è invece il “sadismo” nietzscheano a derivare dal risentimento:
l’uomo forte, il prototipo del super-uomo di Nietzsche, si risente del fatto che il debole si ribelli al
suo naturale dominio e quindi reagisce con crudeltà distruttiva e sterminatrice. 94 Forse, Horkheimer
e Adorno hanno presente una possibile derivazione storica dell’antisemitismo nazista
dall’atteggiamento di Nietzsche nei confronti dell’ebraismo, ma preferiscono risolvere l’ipotesi
storica in una di psicologia generale per comprendere tutte insieme le varie forme di antisemitismo
contro gli ebrei considerati come ribelli vendicativi nella superstizione della futura apocalittica
punizione divina dei loro avversari, dal primo pogrom (termine russo per “devastazione”) romano
del 38 d. C. ad Alessandria d’Egitto ai pogrom russi per la rivoluzione fallita del 1905 fino al 1944
(e avrebbero potuto dire, se avessero scritto dopo il 1944, fino al massacro staliniano del 1953).
Tuttavia, ancora questa trasformazione della storia in psicologia generale non permette più di
comprendere come si sia potuti arrivare alla Shoàh. La descrizione e l’interpretazione, date da
Nietzsche, del popolo ebraico come popolo di deboli e schiavi ribelli alla radice della storica
rivoluzione cristiana (e allora estendibile all’origine di quella bolscevica russa, in cui erano
coinvolti molti ebrei russi), risentiti e covanti dentro di loro odio e spirito di una vendetta infinita da
consumare con l’incenerimento infernale dei loro avversari in una morte eterna determinata
94
M. HORKHEIMER & TH. W. ADORNO (1944, 1947), Dialektik der Aufklärung. Philosophische Fragmente, Fischer
Verlag, Frankfurt am Main 1969; tr. it. di R. SOLMI, introduzione di C. GALLI, Dialettica dell’illuminismo, Einaudi,
Torino 1966 e poi 1997, pp. 103-106 e 117-118.
159
dall’apocalisse finale, hanno certamente indotto in menti come quella di Hitler odio e intolleranza
anti-ebraici fino all’idea della soluzione finale di annientare il popolo ebraico (con gli altri ribelli)
incenerendolo nell’inferno terreno di un Konzentrationslager corrispondente a quanto da loro
fantasticato, con prima una pena di lavoro forzato (Arbeitslager) e poi di sterminio
(Vernichtungslager).
Secondo Horkheimer e Adorno, c’è una costruzione della propria identità attraverso la coscienza
della ragione che opera la rimozione e la repressione inconscia della natura interna istintuale
dell’eros, e, corrispondentemente, una costruzione dell’identità dell’altro, come potenziale oggetto
della propria violenza che così è liberata, attraverso la proiezione su di esso della figura del
persecutore violento e minaccioso, da cui quindi bisogna difendersi eliminandolo.95
Si tratta della “teoria della persecuzione” prodotta dal paranoico che proietta fuori di sé volonta di
complotto e di dominio. Questa costruzione d’identità è solitamente un processo inconscio, che
sfugge alla coscienza, alla consapevolezza della ragione, che così è messa “fuori servizio”, e
determina uno stato di malattia psichica, un tipo di follia, la paranoia. Secondo Horkheimer e
Adorno, nel “fascismo/nazismo” tutto ciò assume una dimensione politica, in cui il sistema
allucinatorio diventa norma: il fascismo e l’antisemitismo vengono così intepretati come una follia
collettiva, una malattia diffusa della ragione.
Tuttavia, questa intepretazione non coglie un fatto essenziale: nel caso del nazionalsocialismo,
questa costruzione d’identità collettiva del popolo tedesco contrapposta a quella del popolo ebraico
non resta un meccanismo inconscio del quale la ragione non ha coscienza determinandole una
malattia, un non-funzionamento, ma è una teoria consapevolmente e pubblicamente sviluppata da
una razionalità seppure ideologica. Alla teoria storico-filosofica di Nietzsche del popolo ebraico
come popolo sacerdotale, di schiavi deboli e impotenti, che giudicano gli altri con spirito di
risentimento e di vendetta, che si ribellano operando rivoluzioni e che interpretano la storia in
95
M. HORKHEIMER & TH. W. ADORNO (1944, 1947), Dialektik der Aufklärung. Philosophische Fragmente, Fischer
Verlag, Frankfurt am Main 1969; tr. it. di R. SOLMI, introduzione di C. GALLI, Dialettica dell’illuminismo, Einaudi,
Torino 1966 e poi 1997, pp. 201-202.
160
termini di una vendetta operata da Dio per loro nei confronti dei loro nemici, si aggiungono la teoria
biologica ma ideologica della superiorità della razza ariana e dell’inferiorità ebraica, la teoria
politica della persecuzione come estensione della rivoluzione bolscevica all’intera Europa da parte
dell’ebraismo mondiale e la produzione di documenti pseudo-storici come i protocolli dei savi di
Sion96 che proverebbero la verità effettiva di un complotto mondiale che cessano così di essere
fantasie individuali paranoiche, la teoria mussoliniana dell’estensione della lotta di classe a guerra
mondiale da parte delle nazioni proletarie contro quelle plutocratiche. Tutte queste teorie sono
quindi costruzioni razionali consapevoli, seppure ideologiche, che hanno presa su popoli che la
prima guerra mondiale ha riempito di odio nazionalistico nei confronti di altri popoli.
Questo
accade
nel
momento
storico
in
cui
è
possibile
far
superare
la
soglia
dell’epistemologizzazione sia agli istinti violenti, sia all’odio, sia a meccanismi psicologici inconsci
di proiezione che ora sono trasformati in espliciti mezzi consapevoli e razionali di costruzione e di
propaganda di una ideologia della violenza e dello sterminio: sono frutto di una ragione (guidata da
un’anima) malvagia, non malata come pensano Horkheimer e Adorno. La struttura costitutiva della
razionalità ideologica è sì la stessa della follia paranoide, ma trasposta sul piano della coscienza:
questo significa che la razionalità ideologica strumentale all’esercizio della violenza e alla
realizzazione del dominio usa coscientemente gli stessi strumenti allucinatori della ragione malata
del paranoide per affermarsi e per assicurare a questa nuova forma di umanità malvagia il piacere
che gli deriva ormai solo dalla crudeltà e dalla violenza che riproduce lo stato primitivo di
predazione per soddifare la fame con cibo carneo.97
La politica di sfruttamento e di sterminio di Hitler e del nazionalsocialismo non deriva quindi da
una perdita della ragione bloccata da paranoia nella sua funzione repressiva e di controllo degli
96
M. HORKHEIMER & TH. W. ADORNO (1944, 1947), Dialektik der Aufklärung. Philosophische Fragmente, Fischer
Verlag, Frankfurt am Main 1969; tr. it. di R. SOLMI, introduzione di C. GALLI, Dialettica dell’illuminismo, Einaudi,
Torino 1966 e poi 1997, p. 204.
97
R. EISLER (1946-1949), Man Into Wolf – An Anthropological Interpretation of Sadism, Masochism, And
Lycanthropy, Routledge, London 1951; tr. it. M. Doni, a cura di M. Doni & E. Giannetto, Uomo lupo. Saggio sul
sadismo, il masochismo e la licantropia, Medusa, Milano 2011; E. GIANNETTO, Robert Eisler e l’origine della violenza
nel carnivorismo, in M. Doni & E. Giannetto (a cura di), R. EISLER, Uomo lupo. Saggio sul sadismo, il masochismo e la
licantropia, Medusa, Milano 2011, pp. 13-29.
161
istinti violenti, ma da una ragione ideologica che legittima e libera gli istinti violenti che si diffonde
attraverso mezzi di propaganda consapevolmente gestiti e i cui contenuti violenti sono sempre
consapevolmente recepiti da una nuova forma di umanità coscientemente violenta, malvagia. Non
c’è più bisogno di auto-inganni mediati da meccanismi psicologici che rimuovono nell’inconscio
sentimenti di odio e risentimenti o di proiezione.
Horkheimer e Adorno, tuttavia, ritengono che l’antisemitismo e il fascismo o nazionalsocialismo
siano una forma di follia paranoide, usando la teoria psicoanalitica freudiana della proiezione
morbosa che ne individua la sostanza come “la traslazione sull’oggetto di impulsi socialmente
vietati del soggetto. Sotto la pressione del Super-io, l’io proietta come intenzioni maligne nel
mondo esterno le velleità aggressive provenienti dall’Es (che rappresentano, per la loro virulenza,
un pericolo per l’io stesso), e ottiene così di liberarsene nella reazione a questa realtà esterna, sia
(nella fantasia) come identificazione col presunto malvagio, sia (nella realtà) come pretesa legittima
difesa”.98 Non si rendono però conto che nel regime nazionalsocialista questi impulsi non sono più
socialmente vietati, anzi la discriminazione razziale e la violenza antisemita diventano leggi!
Secondo Horkheimer e Adorno, la percezione è di fatto una forma di proiezione, la proiezione delle
impressioni esterne dei sensi che costituisce il mondo esterno, come l’io stesso è la proiezione delle
impressioni interne che vengono distinte dalle altre. La proiezione è un meccanismo psichico
animale che è funzionale nella lotta per la vita. Nella riflessione, che è costitutiva della ragione
discorsiva, la proiezione della percezione è resa consapevole e si supera l’identificazione fra
l’oggetto esterno e ciò che è frutto della proiezione, l’unità pre-logica che non distingue fra io e
mondo, fra natura interna e natura esterna, e si riesce a riconoscere l’alterità nella sua antitesi all’io.
Ogni forma di conoscenza del mondo è quindi legata a una proiezione psicologica e antropologica.
Non è quindi la proiezione in sé il problema, secondo Horkheimer e Adorno, ma la proiezione
irriflessa, inconsapevole, incontrollata: questa non permette più di riconoscere e accettare le
98
M. HORKHEIMER & TH. W. ADORNO (1944, 1947), Dialektik der Aufklärung. Philosophische Fragmente, Fischer
Verlag, Frankfurt am Main 1969; tr. it. di R. SOLMI, introduzione di C. GALLI, Dialettica dell’illuminismo, Einaudi,
Torino 1966 e poi 1997, pp. 206-207.
162
differenze e l’alterità, il mondo. Mondo e alterità vengono compresi soltanto in termini di ciò che è
proiettato su di essi in un delirio paranoide d’impotenza e d’onnipotenza insieme, in termini di fini
pratici e strumentali soggettivi, dell’io che si dilata all’infinito, con fissazioni e ossessioni. Se la
percezione è legata a una proiezione morbosa, anche la razionalità che si costituisce su di essa è
malata, anche la conoscenza costruita su di essa è patologica: così, la razionalità diventa solo
funzionale al dominio, strumentale alla sopraffazione degli altri animali e degli altri umani nella
lotta per la vita; così, idealismo, razionalismo, realismo, oggettivismo, positivismo sono forme
patologiche di conoscenza, dove la proiezione morbosa permette di colmare con certezze
paranoiche l’abisso d’incertezza che caratterizza il mondo per la nostra comprensione.
Solo un pensiero che non riduce a identità le cose, non assolutizzandosi nella sua presunzione di
verità, ma continuamente, dialetticamente, auto-nega, contraddicendole, le verità raggiunte, sfugge
alla patologia delirante. “Di fronte alla follia assoluta”, i dominati si devono ribellare; “solo nella
liberazione del pensiero dal dominio, nell’abolizione della violenza” sarebbe possibile essere ebreo,
sarebbe possibile una società umana non malata, un’umanità vera: la questione ebraica potrebbe
essere così un punto di svolta per tutta l’umanità.99
L’interpretazione dell’antisemitismo si avvale così di una critica psicoanalitica del sapere, in
termini essenzialmente freudiani, in cui però la ragione, come la coscienza e l’io, non è analizzata
come un mero processo di razionalizzazione, legata a repressione e sublimazione degli istinti, ma
piuttosto è considerata come “deformata” dalla follia, ammalata: non solo la razionalità ideologica
che legittima la violenza è considerata come malata, ma anche la “normale” razionalità filosofica è
ritenuta come patologica, equiparata alla follia. La fissazione della ragione in una verità assoluta
positiva non contraddetta dialetticamente è così considerata come una forma di delirio paranoide.
La storia della filosofia è quindi la storia di malattie psichiche più o meno gravi, di varie forme di
follia, di neurosi e di nevrosi dell’umanità che non si auto-comprende, ma si auto-inganna. Qui si
99
M. HORKHEIMER & TH. W. ADORNO (1944, 1947), Dialektik der Aufklärung. Philosophische Fragmente, Fischer
Verlag, Frankfurt am Main 1969; tr. it. di R. SOLMI, introduzione di C. GALLI, Dialettica dell’illuminismo, Einaudi,
Torino 1966 e poi 1997, p. 214.
163
cortocircuita non solo la distinzione fra normale e patologico, ma anche la distinzione fra ragione e
follia: se le varie forme di razionalizzazione sono equiparate a varie forme di follia, non c’è più
“cattiva coscienza” ma solo “coscienza malata”, non c’è più male ma solo malattia secondo la
versione secolarizzata della medicina moderna. Questa tesi si distingue, perciò, anche da quella di
Martin Luther, secondo la quale la ragione è schiava del peccato, perché luteranamente la coazione
non è legata a un mero malfunzionamento della ragione dovuto a una malattia psichica e la ragione
è “malata” solo nel senso della scelta volontaria del male che la orienta nelle sue finalità. Si delinea
così pericolosamente la prospettiva d’interpretare anche l’antisemitismo come una forma di
malattia, che pure può implicare una de-responsabilizzazione etica e una sottovalutazione della
ferocia umana volontaria: c’è differenza fra follia e ragione volta al male.
Tuttavia, l’analisi di Horkheimer e Adorno coglie qualcosa di fondamentale: che anche la
razionalità si articola attraverso procedure che sono tipiche della follia, come quelle della follia: la
ragione volta al male è simile alla ragione ammalata; la follia, come nel nazismo dell’epoca della
morte di Dio, assurge a ragione. Solo la metafora di Paolo in 1Cor. 3.19, secondo cui “la sapienza
di questo mondo è follia dinanzi a Dio”, può esprimere qualcosa di simile.
Come si può comprendere questa analogia strutturale individuata da Horkheimer e Adorno?
Effettivamente, la razionalità discorsiva strumentale si era costituita nel neolitico con l’associazione
e la scomposizione di immagini in fonemi, cioè con la coltivazione e il controllo del linguaggio in
una scrittura alfabetico-fonetico-lineare e quindi con la produzione di una cultura: mentre la
scrittura ideogrammatica o geroglifica aveva costituito il pensiero visivo come tutt’uno con la
percezione (visiva), l’associazione di immagini a fonemi, che venivano a sostituire via via le
immagini, portò alla costituzione di un pensiero verbale astratto dalla percezione (visiva). Questa
traduzione di immagini in fonemi avvenne prima come un processo consapevole, poi, a poco a
poco, divenne un processo automatico, inconsapevole, inconscio, con la trasmissione di questa
tecnica fin da bambini, che causò l’interiorizzazione di questo processo, per cui all’immagine della
pianta fu associato il fonema “pianta”. Così, la percezione visiva si fuse con questo processo
164
interiore di traduzione e sulla cosa percepita si proiettò inconsapevolmente la “parola-concetto”
esteriorizzandola. A questo punto al mondo dei sensi è sostituito il mondo linguistico della ragione
discorsiva del pensiero verbale: questo comporta un processo di idealizzazione e di
universalizzazione e astrazione nella parola-concetto che sostituisce il concreto singolo esistente e
che comporta un processo di estraniazione e alienazione dell’essere umano dalla Natura. La
razionalizzazione della Natura interna ed esterna si produce come una fantasia allucinatoria per cui
non percepiamo più cose, ma idee: proiettando inconsapevolmente sulle cose le parole-concetti, la
razionalizzazione opera come una malattia psichica. Ma questa razionalizzazione si compie
pienamente quando, con la nascita della filosofia greca, si afferma la necessità di un distacco
teoretico dalle cose, che eviti qualsiasi interesse pratico nei loro confronti ma anche qualsiasi
coinvolgimento affettivo-emotivo: questo processo definisce la stessa ragione in opposizione alla
sfera istintuale e alla sfera delle emozioni, degli affetti e dei sentimenti, che vengono rimossi dalla
sfera razionale; è solo in questo contesto teoretico puro che la parola si trasforma completamente in
un concetto puro che si staglia al di là dell’esperienza che è sempre affettivo-emotiva; il pensiero
verbale diventa un pensiero logico-verbale, dove logico indica la forma di razionalità pura.
Ragionamento diventa un’argomentazione puramente logica, secondo un procedere secondo
implicazioni puramente logiche che escludono quelle affettivo-emotive: questo modo di procedere è
sicuramente ripreso da quello già esistente della matematica, che, da un certo momento del neolitico
in poi, pure ha a che fare con oggetti ideali e universali che non suscitano affetti ed emozioni e la
cui connessione è puramente logica; d’altra parte, sempre nello stesso periodo, l’economia aveva
esteso la considerazione matematica anche a tutte le cose terrene, anche se poi la valutazione di esse
è legata appunto a interessi pratico-economici, che pure sono esclusi dalla ragione teoretica pura
filosofica. La razionalizzazione filosofica proietta così sulle cose percepite concetti puri, in una più
grave forma di allucinazione, perché percepire-concepire il mondo come qualcosa, nel quale non
siamo coinvolti affettivamente ed emotivamente, ci estrania e ci aliena da esso: il mondo della
Natura è fagocitato da questo mondo di concetti umani che lo uccide per nutrirsene.
165
La razionalità della scienza moderna, invece, non è più meramente teoretica: nelle sue radici
teologiche, la conoscenza della volontà di Dio, che si costituisce come legge della Natura, non è più
possibile attraverso la ragione teoretica pura, attraverso la contemplazione, ma sta nel compierla,
nell’azione produttrice di fenomeni. Così, non si basa sul distacco della visione che è il senso della
distanza, sulla contemplazione, ma sul distacco dell’azione strumentale-tecnica, operante non più su
cose del mondo ma su artefatti che sono loro modelli tecnico-meccanici, propria dell’esperimento.
La conseguenza di ciò è che facilmente si finisce per confondere mondo tecnico e mondo naturale e
per proiettare sulla Natura il mondo meccanico dell’esperimento: si ha così la concezione
meccanicistica della Natura, che nasce dalla simulazione meccanica della Natura e delle azioni
umane; il mondo della Natura è fagocitato nel mondo meccanico-tecnico. La concezione
meccanicistica della Natura, che esclude non solo la sfera affettivo-emotiva e dei sentimenti ma
anche quella dell’etica del rispetto della Natura e della vita, perché queste sono ridotte ai loro
modelli tecnico-meccanici, a macchine, diventa così l’ideologia del dominio tecnico della Natura e
dell’uomo sull’uomo, e la razionalità sperimentale si trasforma in una razionalità tecnica,
strumentale.
Logos filosofico e logos matematico-tecnico diventano forme di alienazione dalla Natura nel
momento in cui si affermino come forme esclusive di conoscenza e postulino l’esclusione della
sfera affettivo-emotiva ed etica dalla nostra comprensione del mondo. L’esclusione della sfera
affettivo-emotiva ci libera positivamente dagli affetti, dalle emozioni, dai sentimenti negativi come
la paura e l’odio, ma purtroppo elimina anche gli affetti, le emozioni, i sentimenti positivi come la
speranza, la fiducia e l’amore, rendendoci pericolosamente indifferenti e riducendo la ragione a una
questione di freddo calcolo logico. Da qui, l’essenziale ambivalenza della pura razionalità teoretica,
che così può essere declinata eticamente ma anche strumentalmente, economicamente e
utilitaristicamente: il logos, come ragione teoretica pura, che non è espressione di eros, può
trasformarsi in metis. D’altra parte, il logos teoretico matematico basato sulla tecnica sperimentale
si è effettivamente trasformato in metis del dominio tecnico della Natura e dell’uomo sull’uomo.
166
Considerare le cose al di là della nostra esperienza positiva o negativa ci apre a una rivelazione
delle cose che l’esperienza negativa non permetterebbe, ma il distacco-distanziamento dalle cose,
oltre a procurare dis-affezione, comporta la perdita della possibilità di quella rivelazione più
profonda che si ha solo nella prossimità-intimità dell’amore.
Le cose nella loro pienezza vitale, le loro verità, sfuggono così alla ragione e si manifestano invece
solo nella perdita della ragione, nella follia: questo ci porta a una tesi radicale opposta a quella di
Horkheimer e Adorno, ed elaborata da Foucault a partire da Heidegger.100 Solo abbandonando la
ragione, si squarcia il velo con cui la ragione ricopre le cose: la razionalizzazione produce conflitti
istintuali, interiori ed esteriori, individuali e sociali che esplodendo traumaticamente producono la
perdita della ragione, ma questo malessere non libera completamente i sensi dal potere proiettivo
allucinatorio della ragione e si instaura una situazione patologica, in cui la razionalizzazione che
gira a vuoto permette solo degli squarci di verità dei sensi e degli istinti.
Questo vuol dire che il problema non è la follia; al contrario, è la ragione che, quando esautora i
sensi, gli affetti, le emozioni e i sentimenti e si assolutizza da essi, è il frutto di un male, che è
l’anestetizzarsi volontario del cuore per poter commettere il male senza tentennamenti.
L’assolutizzarsi malvagio della ragione è strutturalmente simile alla sua perdita, alle sue malattie:
questo spiega l’errore di Horkheimer e Adorno.
Nella progettazione di un dominio tecnico, meccanico, sistematico della Natura, a partire dalla
rivoluzione neolitica, il linguaggio naturale e la scrittura matematica non vengono più usati per
esprimere o per evocare e per comprendere, ma per ingannare, cioè si articolano come metis, come
una mechané, una macchina, un artificio per ingannare la Natura, si trasformano essi stessi in
strumenti tecnici ideologici di dominio: il logos si fa metis e l’ideologia, poi come retorica sofistica
che inganna e auto-inganna anche gli esseri umani, sono mechané, macchine, che si legano alla
100
M. FOUCAULT, Histoire de la folie à l’âge classique, Gallimard, Paris 1961, suivi de Mon corps, ce papier, ce feu et
La folie, l’absence d’œuvre, 1972; tr. it. F. FERRUCCI, E. RENZI & V. VEZZOLI, Storia della follia nell’età classica,
Rizzoli 1963, con l'aggiunta di La follia, l'assenza di opera e Il mio corpo, questo foglio, questo fuoco, 1976, 1988, e
con la restituzione e integrazione del testo originario, anche con la prefazione alla prima edizione, ad opera di B. Catini,
a cura di M. Galzigna, 2011.
167
sottomissione agricola della Terra e a un allevamento-sfruttamento sistematico umano di alcune
specie e uno sterminio sistematico di altre specie.
Dalla libera associazione di immagini e dalla libera espressione vocale si passa a un linguaggio e a
una scrittura in cui si fissa, in un’articolazione di documenti pratici e tecnici, giuridici, economici,
geometrici e di misure e di calcolo, e in racconti mitici: si tratta delle prime culture, in cui i discorsi
hanno un carattere prescrittivo di leggi che regolano l’esistenza sociale, o descrittivo di rapporti
economici, o performativo di calcoli, di misure e di operazioni tecniche di dominio, e in cui i miti
hanno il ruolo costitutivo di un’autocomprensione dell’umanità. I segni sono strutturati in discorsi e
in testi, sono prodotti e riprodotti artificialmente al di là dell’esperienza immediata ed effettiva,
sono fissati in simulazioni ideali-virtuali delle cose da controllare per pre-orientare o per regolare
l’azione, o per legittimarla nei miti. Questo andare “al di là” dell’esperienza immediata ed effettiva
nella virtualità interiore ed esteriore dei segni che rende presenti le cose virtualmente nella loro
assenza, permette di considerare le cose “indipendentemente” dall’essere umano e permette di
rivelarne parzialmente la natura, ma la virtualità stessa le occulta. L’immaginazione onirica legata a
desideri e paure si è trasformata in una ragione discorsiva, ma non per questo si è liberata dalle sue
forme allucinatorie e deliranti razionalizzandole.
La cultura è stata la coltivazione sistematica, ossessiva, strumentale-funzionale al controllo totale
delle cose, di pratiche discorsive ideologiche del regno-dominio umano sulla Terra e sulle altre
specie, instaurato con l’agricoltura e la zootecnia: nelle pratiche discorsive le cose sono
virtualmente prodotte, raccolte, prese, com-prese, “capite”, catturate come prede. Questi miti
servono a legittimare il dominio umano attribuendo a dèi la volontà sacrificale, cioè proiettando su
altri esseri potenze superiori (celesti) la volontà sistematica di uccidere gli altri animali, di tenerli in
allevamento per essere sempre a disposizione per i sacrifici, di partecipare al pasto umano di carne
animale: si tratta certamente di una “proiezione malvagia” che costituisce una sorta di fantasia
allucinatoria consapevole in cui è proiettata nel cielo una lotta per il dominio. La ritualizzazione
collettiva dell’uccisione per una volontà e una finalità superiori la permettono come imposta da una
168
legge divina e non la fanno apparire eticamente come una violenza, ma come un atto tecnico
neutrale compiuto con distacco e indifferenza. La filosofia reagisce a questo mito come ideologia
della violenza basata sulla paura e le contrappone una razionalità teoretica pura e distaccata, ma
un’auto-fondazione della razionalità pura (“illuminismo” nella terminologia di Horkheimer e
Adorno) e una fondazione razionale dell’etica umana sono impossibili perché auto-contraddittori
(“auto-distruzione dell’illuminismo”) e si cade nella metafisica, che è una forma “secolarizzata” e
razionalizzata del mito (seppure la filosofia di Nietzsche possa rappresentare, come per Horkheimer
e Adorno, l’esito estremo dell’illuminismo nella sua demistificazione della fondazione razionale
dell’etica, essa è, come compreso da Heidegger, un’altra forma di metafisica, anzi il culmine della
metafisica soggettivistica umanistica).
Presunte teorie scientifiche, non sperimentali, presentano residui metafisici e si costituiscono come
ideologie. Come nella lotta-per-la-vita, assunta come legge evolutiva nella teoria di Darwin, che
proietta consapevolmente la teoria di Malthus della società umana sulla intera comunità dei viventi,
la mechané ingannatrice, ideologica, si costituisce come la “proiezione malvagia” su tutti i viventi
della volontà di dominio degli esseri umani quali animali predatori carnivori, come una teoria della
persecuzione di ogni specie e di ogni individuo che le costituisce nei confronti degli umani, o in
quanto animali predatori o in quanto portatori di malattie, come virus o batteri o insetti, o ancora in
quanto soggetti di una possibile proliferazione minacciosa, da cui la specie umana dovrebbe
difendersi come da una sorta di “complotto universale” da parte delle altre specie nei confronti degli
umani. La “malvagità della proiezione” spiega anche il delirio di onnipotenza del dominio totale
della Natura, la considerazione schizofrenica della duplice natura umana (materiale e spirituale) e
del mondo suddiviso in uomo e Natura, in umano e animale, in umano e non-umano, in mondo
ideale e sensibile, in celeste e terrestre; la paura paranoica smisurata degli altri viventi che si traduce
nell’ossessività altrettanto paranoica che caratterizza la sistematicità della cattività a cui sono ridotti
gli altri viventi, la sistematicità della “punizione”-tortura che costituisce l’allevamento e lo
169
sfruttamento, la sistematicità dello sterminio di alcune specie considerate più pericolose (come
disinfestazione da insetti o derattizzazione).
Ma la ragione discorsiva, legata al pensiero verbale, è intrinsecamente legata al dominio della
Natura e al male? Horkheimer e Adorno pensano di no, e credono che è solo una ragione malata ad
essere causa del male, quando si astrae da una dialettica. Tuttavia, non si rendono conto che una
dialettica concreta va intesa come un effettivo dialogo, e appunto, nel momento in cui la ragione
discorsiva si costituisce come tale, astraendosi dall’affettività e dall’emotività, astraendo il
linguaggio dal dialogo e usando il linguaggio non per rivolgersi all’alterità ma per ridurre l’alterità a
oggetto in una rappresentazione che la astrae dalla coesistenza rispettosamente etica del dialogo, si
assolutizza come espressione individuale soggettiva umana e diventa non meramente malata, ma
violenza funzionale all’azione violenta di predazione e dominio umano: è possibile una filosofia
non violenta solo come una radicale auto-critica della ragione come progetto malvagio di dominio.
Horkheimer e Adorno, considerando la storia come una dialettica di mito e illuminismo, per risalire
oltre l’origine della filosofia dal mito, non riescono però a superare l’orizzonte di una razionalità
totalizzante, presente in entrambi anche se con aspetti diversi: trasformano la dialettica di ragione e
fede cristiana che caratterizza efettivamente la storia dell’occidente, in una dialettica in cui la fede è
vista solo nel suo aspetto negativo di mito ideologico, e quindi non scorgono la possibilità di
un’alternativa valida alla ragione: anche la negatività è riassorbita nell’“astuzia della ragione”
hegeliana seppure considerata negativamente, in un panlogismo. L’impossibilità di auto-fondazione
della ragione, tentata dall’epoca moderna e fallita, è reinterpretata nel senso positivo di una ragione
che si auto-supera: l’auto-comprensione dell’umanità resta nella mera razionalità; la psicoanalisi
critica della filosofia è condotta solo per sanare la ragione. Non si riescono a cogliere gli estremi
non-razionali della più feroce e malvagia violenza e dell’amore più sublime che caratterizzano
l’umanità nella storia della sua esistenza. La follia è solo negativa, e solo ragione malata: non c’è
spazio per la ferocia come espressione di un “cuore” malvagio che si traduce in una ragione
malvagia, né per un superamento positivo della razionalità malvagia in una follia non negativa. Non
170
c’è spazio per la “follia” positiva della fede e dell’amore, per una fede “positiva”, quale espressione
di un “cuore” impregnato dell’amore come chiave della comprensione del mondo e dell’alterità,
della Natura e degli altri viventi: la “ragione del cuore” di Pascal, ripresa in qualche modo da Max
Scheler e da Heidegger, è misconosciuta.
Un passo avanti è comunque fatto nel processo di liberazione dall’antropocentrismo, ripensando il
rapporto uomo-animale. Scrive Horkheimer:
“Vista in sezione, la struttura sociale del presente dovrebbe configurarsi all’incirca così: su in alto i
grandi magnati dei trust dei diversi gruppi di potere capitalistici che però sono in lotta tra loro; sotto
di essi i magnati minori, i grandi proprietari terrieri e tutto lo staff dei collaboratori importanti; sotto
di essi – suddivise in singoli strati – le masse dei liberi professionisti e degli impiegati di grado
inferiore, della manovalanza politica, dei militari e dei professori, degli ingegneri e dei capufficio
fino alle dattilografe; ancora più giù i residui delle piccole esistenze autonome, gli artigiani, i
bottegai, i contadini e tutti quanti, poi il proletariato, dagli strati operai qualificati meglio retribuiti,
passando attraverso i manovali fino ad arrivare ai disoccupati cronici, ai poveri, ai vecchi e ai
malati.
Solo sotto tutto questo comincia quello che è il vero e proprio fondamento della miseria, sul quale si
innalza questa costruzione, giacché finora abbiamo parlato solo dei paesi capitalistici sviluppati, e
tutta la loro vita è sorretta dall’orribile apparato di sfruttamento che funziona nei territori semicoloniali e coloniali, ossia in quella che è di gran lunga la parte più grande del mondo.
Larghi territori dei Balcani sono una camera di tortura, in India, in Cina, in Africa la miseria di
massa supera ogni immaginazione. Sotto gli ambiti in cui crepano a milioni i coolie [“servitori
indigeni”] della terra, andrebbe poi rappresentata l’indescrivibile, inimmaginabile sofferenza degli
animali, l’inferno animale nella società umana, il sudore, il sangue, la disperazione degli animali.
171
Questo edificio, la cui cantina è un mattatoio e il cui tetto è una cattedrale, dalle finestre dei piani
superiori assicura effettivamente una bella vista sul cielo stellato”.101
Già nella prima pagina della sezione iniziale della Dialettica, Horkheimer e Adorno citano Francis
Bacon che attesta che “la superiorità dell’uomo è nel sapere, su questo non c’è alcun dubbio”102.
La Dialettica identifica Bacone come colui che ha evidenziato l’identità tra sapere e potere e quindi
il presupposto del dominio tecnico della Natura che è identificato con il fondamento della scienza
moderna:
Il felice connubio, a cui egli pensa, fra l’intelletto umano e la natura delle cose, è di tipo patriarcale: l’intelletto che
vince la superstizione deve comandare alla natura disincantata. Il sapere, che è potere, non conosce limiti, né
nell’asservimento delle creature, né nella sua docile acquiescenza ai signori del mondo. Esso è a disposizione, come
tutti gli scopi dell’economia borghese, nella fabbrica e sul campo di battaglia, così di tutti gli operatori senza riguardo
alla loro origine. […] La tecnica è l’essenza di questo sapere. Esso non tende a concetti e ad immagini, alla felicità della
conoscenza, ma al metodo, allo sfruttamento del lavoro altrui, al capitale. [...] Ciò che gli uomini vogliono apprendere
dalla natura, è come utilizzarla ai fini del dominio integrale della natura e degli uomini. 103
La scienza moderna va colta quindi più che nella fondazione metafisico-filosofica che le diede
Descartes, invece nell’auto-fondazione “antifilosofica” di Bacone. Bacon è colui che nel XVII
secolo cercò di dare una legittimazione teologica alla prospettiva del dominio: egli infatti, interpreta
il racconto della Genesi secondo una teologia del lavoro, come se l’uomo avesse ricevuto da Dio il
dominio assoluto sul resto del creato, un dominio poi andato perduto a causa del peccato originale e
quindi da riconquistare attraverso la tecnica e la nuova scienza.104 Proprio questa legittimazione
teologica ha razionalizzato la visione dell’uomo come padrone e “artefice” della Natura, in cui sono
compresi tutti gli altri animali, per cui essa viene caratterizzata da una nuova essenza, che ha in sé il
101
Heinrich Regius (Max Horkheimer), Dӓmmerung. Notizen in Deutchland, Oprecht & Holbling, Zürich 1934; «Il
grattacielo», da Crepuscolo. Appunti presi in Germania 1926-1931, Einaudi 1977, pp. 68-70.
102
M. HORKHEIMER & TH. W. ADORNO (1944, 1947), Dialektik der Aufklärung. Philosophische Fragmente, Fischer
Verlag, Frankfurt am Main 1969; tr. it. di R. SOLMI, introduzione di C. GALLI, Dialettica dell’illuminismo, Einaudi,
Torino 1966 e poi 1997, p. 11.
103
M. HORKHEIMER & TH. W. ADORNO (1944, 1947), Dialektik der Aufklärung. Philosophische Fragmente, Fischer
Verlag, Frankfurt am Main 1969; tr. it. di R. SOLMI, introduzione di C. GALLI, Dialettica dell’illuminismo, Einaudi,
Torino 1966 e poi 1997, p. 12.
104
K. THOMAS, Man and the Natural World, Penguin Books, London 1983, tr. it. di E. Negri Monater, L'uomo e la
natura. Dallo sfruttamento all'estetica dell'ambiente 1500-1800, Einaudi 1994.
172
marchio di fabbrica umano, l’immagine del dominio umano come essere-per-lo-sfruttamentodell’uomo:
[L]a divisione fra Dio e uomo appare davvero irrilevante.. [...] Come signori della Natura, Dio creatore e spirito
ordinatore si assomigliano. La somiglianza dell’uomo con Dio consiste nella sovranità sull’esistente, nello sguardo
padronale, nel comando.
Il mito trapassa nell’illuminismo e la Natura in pura oggettività. Gli uomini pagano l’accrescimento del loro potere con
l’estraniazione da ciò su cui l’esercitano [...]. Lo scienziato conosce le cose in quanto è in grado di farle. Così il loro insé diventa per-lui. Nella trasformazione l’essenza delle cose si rivela ogni volta come la stessa: come sostrato del
dominio. Questa identità fonda e costituisce l’unità della Natura 105.
Insieme alla legittimazione teologica, la scienza moderna, e quindi l’illuminismo, hanno inglobato
in sé anche il mito antropocentrico e violento del dominio dell’uomo su tutta la Natura e sugli altri
esseri viventi, e, quando con l’illuminismo Dio è fatto uscire di scena, la ragione umana si
assolutizza come puro dominio legittimato dalla conoscenza scientifica, perché il dominio
intellettuale si basa ormai sul dominio tecnico.
Dal mito, la scienza moderna ha ripreso, secolarizzandolo, il sacrificio della Natura e degli altri
viventi: tutto viene sacrificato al dominio tecnico o intellettuale dell’essere umano. Come il Cristo,
simbolo della solidarietà della sofferenza di tutti gli esseri nella loro singolarità vivente, l’animale è
portato al sacrificio verso il laboratorio come un nuovo Golgota, dove, anche lui innocente, sarà
giustiziato sull’altare della scienza tecnico-sperimentale:
[V]ittime sì, ma nessun Dio. La sostituibilità si rovescia in fungibilità universale... [...] e non è in luogo o in
rappresentanza, ma frainteso come mero esemplare, che il coniglio percorre la via crucis del laboratorio106.
Coniglio e atomo sono considerati come meri universali, come concetti universali. La fisica
moderna, infatti, aveva dovuto riprendere l’atomismo per poter fondare il sistema del mondo
copernicano, ma si basava sulla realtà del vuoto, che ora doveva essere sperimentalmente provato
producendolo. Robert Boyle, al contrario di Torricelli e di Pascal che idearono esperimenti
105
106
M. HORKHEIMER & TH. W. ADORNO (1947), Dialektik der Aufklärung. Philosophische Fragmente, op. cit., p. 17.
M. HORKHEIMER & TH. W. ADORNO (1947), Dialektik der Aufklärung. Philosophische Fragmente, op. cit., p. 18.
173
“incruenti”, volle basare questa prova sull’agonia e sulla morte di varie specie animali (ne uccise a
migliaia) tenute sotto una “campana di vetro” dalla quale estraeva l’aria con una pompa
pneumatica: qui, un essere vivente qualsiasi era sostituibile con qualunque altro, anche di differente
specie, universalizzato nella sua funzione di vittima sacrificale. Horkheimer e Adorno non tengono
però conto che nella fisica quantistica, l’atomo come l’elettrone riacquista la sua singolarità, e che
l’indeterminazione quantistica riguarda anche il vuoto che non è quindi mai provabile come tale; e
che l’indeterminazione quantistica attribuita anche al “gatto di Schrӧdinger” comporta
un’indeterminazione sulla vita e sulla morte che non permette più alcuna prova sacrificale, seppure
nella medicina contemporanea gli esperimenti sacrificali di animali siano ancora condotti.
L’illuminismo è dunque per Horkheimer e Adorno il delirio di onnipotenza di dominare il mondo
da parte dell’essere umano sotto una maschera di razionalizzazione, e come tale esso diviene un
fenomeno ben più esteso dell’illuminismo storico-filosofico di fine Settecento; attraverso le varie
fasi della storia che dialetticamente si alternano dal mito alla filosofia greca, dalla filosofia alla
scienza moderna, si staglia un continuum di violenza:
La “fiducia incrollabile nella possibilità di dominare il mondo” che Freud attribuisce anacronisticamente alla magia,
corrisponde solo al dominio del mondo secondo il principio di realtà ad opera della scienza posata e matura. Poiché le
pratiche localizzate dello stregone cedessero il posto alla tecnica industriale universalmente applicabile, era prima
necessario che i pensieri si rendessero indipendenti dagli oggetti, come avviene nell’Io conforme alla realtà 107.
La pretesa della scienza moderna come sapere certo e assoluto non è che un mito tra i miti, essa è
ideologica quanto quella del mito arcaico. I “moderni” non sono allora superiori agli “antichi”; gli
occidentali, fondatori della scienza moderna, non sono parte di una civiltà superiore rispetto a quelle
delle etnie “primitive”. Essi hanno semplicemente assunto a scienza sistematica, il dominio tecnico
della Natura e degli altri viventi, al fine di legittimarne lo sfruttamento totale. La Dialettica fa
crollare tutta l’ideologia del progresso nella scienza moderna che effettua una violenza, uno stupro
107
M. HORKHEIMER & TH. W. ADORNO (1947), Dialektik der Aufklärung. Philosophische Fragmente, op. cit., p. 19.
174
della Natura, uno sterminio di massa degli altri esseri viventi, premeditati con la crudeltà di un
pensiero reificato a calcolo.
Alla base della modernità si trova dunque un sapere puramente strumentale, volto, per sua stessa
ammissione, a dominare e a sottomettere la Natura alla volontà dell’essere umano. Con la
concezione meccanicistica che con la scienza moderna si va imponendo la Natura non è più
considerata come animata e vivente; piuttosto, essa è vista solo come un mero mezzo per
raggiungere determinati fini: il guadagno, il possesso, il dominio, il vantaggio di una ristretta
minoranza di individui facenti parte della specie umana. Questa reificazione della Natura investe
anche la figura dell’animale, come spiegano Horkheimer e Adorno nella sezione Uomo e Animale:
l’animale diventa per l’uomo il principale elemento su cui proiettare tutti gli elementi considerati
negativamente – prima fra tutte l’irrazionalità – al fine di riaffermare la propria superiorità e di
giustificare il suo dominio violento. Questa antitesi ripresa dalla modernità, come viene spiegato
nella Dialettica, ha origini molto antiche nella storia dell’uomo occidentale:
L'idea dell'uomo, nella storia europea, trova espressione nella distinzione dall'animale. Con l'irragionevolezza
dell'animale si dimostra la dignità dell'uomo. Questa antitesi è stata predicata con tale costanza e unanimità da tutti gli
antenati del pensiero borghese – antichi ebrei, stoici e padri della Chiesa – e poi attraverso il Medioevo e l'età moderna,
che appartiene ormai, come poche altre idee, al fondo inalienabile dell'antropologia occidentale. Essa è ammessa anche
oggi. I behavioristi se ne sono scordati solo in apparenza. Che essi applichino agli uomini le stesse formule e i risultati
che essi stessi, liberi da catene, ottengono, nei loro orrendi laboratori fisiologici, da animali indifesi, conferma la
differenza in forma particolarmente malvagia. La conclusione che essi traggono dai corpi mutilati degli animali non si
adatta all'animale in libertà, ma all'uomo odierno. Egli prova, facendo violenza all'animale, che egli, ed egli solo in tutta
la creazione, funziona – liberamente e di sua propria volontà – con la stessa cieca e automatica meccanicità dei guizzi
convulsi delle vittime incatenate che il tecnico utilizza ai propri scopi. Il professore alla tavola anatomica li definisce
scientificamente riflessi, l'aruspice all'altare li aveva stamburati come segni degli dei108.
C’è qui ancora una critica radicale della moderna scienza sperimentale, che effettua esperimenti
biologici su animali in laboratorio, secondo la medesima vecchia logica sacrificale che spingeva gli
antichi sacerdoti a sacrificarli per un proprio debito o vantaggio-credito, comunque per uno scambio
economico con Dio.
108
M. HORKHEIMER & TH. W. ADORNO (1947), Dialektik der Aufklärung. Philosophische Fragmente, op. cit., p. 263.
175
La ragione, assunta come tratto distintivo dell’uomo dall’animale, è diventata anche strumento
tecnico di calcolo per il dominio umano, e la storia, che può essere scritta solo con parole e
attraverso concetti, è storia scritta dai vincitori uomini, che raccontano a loro gloria le loro gesta di
conquista109.
All’animale è stata negata l’anima dal sapere moderno, e ai carnefici umani manca qualsiasi
nozione di psicologia animale, sempre negletta; non ci si cura dell’angoscia o della felicità dei non
umani:
Nella psiche animale sono presenti – in forma germinale – i singoli sentimenti e bisogni dell’uomo, e anche gli elementi
dello spirito...110
Degli animali si dà notizia nei giornali solo in riferimento a danni causati per gli uomini, ma
Horkheimer e Adorno ci prospettano uno sguardo sulla guerra anche dal punto di vista degli esseri
non-umani, descrivendone il quotidiano sterminio:
[S]i possono trovare a volte gli incendi nei circhi e la morte per avvelenamento di grossi animali. Si ricordano gli
animali, quando i loro ultimi esemplari, della stessa specie del pazzo medioevale, periscono fra inauditi tormenti,
in quanto rappresentano una perdita di capitale per il proprietario, che, all’epoca del cemento armato, non ha
saputo proteggere dal fuoco i suoi fidi. In Africa, l’ultima terra che fosse ancora inutilmente disposta a proteggere
dalla civiltà le loro povere greggi, sono solo di ostacolo all’atterraggio dei bombardieri nella guerra in corso. Così
vengono totalmente liquidati.
Per lo scopo sanguinoso del dominio la creatura è mero materiale. [...] badare all’animale non è più solo un
sentimentalismo, ma un tradimento verso il progresso. Secondo la buona tradizione reazionaria Goering ha
connesso la protezione degli animali con l’odio razziale [...].111
Nel loro manifesto intento di dare voce a tutti coloro che non ne hanno, gli autori della Dialettica
portano alcuni esempi dei massacri compiuti ogni giorno dall’uomo, massacri perpetrati per sete di
dominio, di potere, di possesso, per realizzare i propri fini a scapito di creature innocenti, che sono
svilite allo stato di merci o a quello di materiale di scarto di cui liberarsi. Coloro che si impegnano a
sovvertire quello che è riconosciuto da Horkheimer e Adorno come il fondamento stesso
dell’ideologia illuminista, ovvero la distinzione gerarchica dell’uomo dall’animale non-umano
109
M. HORKHEIMER & TH. W. ADORNO (1947), Dialektik der Aufklärung. Philosophische Fragmente, op. cit., pp. 263264.
110
M. HORKHEIMER & TH. W. ADORNO (1947), Dialektik der Aufklärung. Philosophische Fragmente, op. cit., p. 264.
111
M. HORKHEIMER & TH. W. ADORNO (1947), Dialektik der Aufklärung. Philosophische Fragmente, op. cit., p. 271.
176
finalizzata allo sfruttamento selvaggio di questo, sono tacciati, nei casi migliori, di sentimentalismo
e, nei peggiori, di essere, come Horkheimer e Adorno, nemici del progresso e dell’umanità. Ma,
come mostrano Horkheimer e Adorno, il sentimento di compassione e rispetto verso i viventi
umani e non umani è invece ciò che potrebbe e dovrebbe essere l’essenza dell’umanità. 112 Come si
è accennato precedentemente, infatti, la violenza dell’uomo sull’animale e sulla Natura è presentata
nella Dialettica anche come l’origine e il modello costitutivo della violenza dell’uomo sull’uomo:
nel momento in cui l’uomo trasforma e legge come oggetti Natura e animali non-umani, egli pone
le basi per considerare meri oggetti anche i suoi simili. E’quindi anche nell’accoglimento
dell’animale nel progetto di liberazione umana che si distingue il “materialismo” francofortese da
quello del marxismo tradizionale: quest’ultimo manifesta i suoi limiti proprio nella sua mancanza di
solidarietà con la Natura e con i viventi non umani e proprio per questo non riesce del tutto a
superare le posizioni idealiste su cui si fonda la cultura del dominio.
In questo completo oblio e ribaltamento dei valori, in questa totale alienazione da essi al punto che i
diritti fondamentali non sono più riconosciuti e attribuiti ad alcune categorie di individui allo stesso
modo che agli animali non-umani, la filosofia di Horkheimer e Adorno adotta un approccio critico,
volto alla soppressione e alla decostruzione sistematica di tutte le teorie che promuovono
l’ingiustizia, e si propone di mettere in discussione i loro presupposti e di svelare la loro falsa
coscienza. Smascherando con Nietzsche la morale umana, troppo umana, Horkheimer e Adorno
aprono però l’orizzonte di possibilità di una nuova etica “animalista”, esprimendosi con decisione
contro la barbarie dello sfruttamento perpetrato ogni giorno dall’uomo sulle creature non umane, al
punto che nei loro scritti Horkheimer, Adorno e Marcuse non esiteranno a paragonare il massacro
dell’industria zootecnica ai campi di concentramento nazisti. Adorno, invero, affermò che:
Le atrocità sollevano un'indignazione minore, quanto più le vittime sono dissimili dai normali lettori, quanto più sono
"more", "sudice", dago. Questo fatto illumina le atrocità non meno che le reazioni degli spettatori. Forse lo schema
sociale della percezione presso gli antisemiti è fatto in modo che essi non vedono gli ebrei come uomini. L'affermazione
112
M. HORKHEIMER & TH. W. ADORNO (1944, 1947), Dialektik der Aufklärung. Philosophische Fragmente, Fischer
Verlag, Frankfurt am Main 1969; tr. it. di R. SOLMI, introduzione di C. GALLI, Dialettica dell’illuminismo, Einaudi,
Torino 1966 e poi 1997, pp. 106-109 e 125-126.
177
ricorrente che i selvaggi, i negri, i giapponesi, somigliano ad animali, o a scimmie, contiene già la chiave del pogrom.
Della cui possibilità si decide nell'istante in cui l'occhio di un animale ferito a morte colpisce l'uomo. L'ostinazione con
cui egli devia da sé quello sguardo – "non è che un animale" – si ripete incessantemente nelle crudeltà commesse sugli
uomini, in cui gli esecutori devono sempre di nuovo confermare a se stessi il "non è che un animale", a cui non
riuscivano a credere neppure nel caso dell'animale (Minima moralia, n. 68).
e queste frasi sono probabilmente all’origine della più diffusa espressione “Auschwitz inizia quando
si guarda ad un macello e si pensa: sono solo animali”113.
Con queste significative e potenti parole, Adorno rivelò sia la crudeltà e la barbarie dell’industria
zootecnica che la possibilità ideologica di equiparare delle minoranze umane agli animali stessi,
presi come sistema di riferimento negativo, al fine di poter riservare loro lo stesso trattamento, cioè
lo sfruttamento e lo sterminio.
Ancora una volta, l’idea che fonda questo pensiero è quella che gli animali del mondo esistano per
loro stessi, che essi non esistano per essere sfruttati e sterminati dal genere umano: non si tratta
soltanto di superare una forma di discriminazione come quella dei neri che non sono nati per
servire i bianchi o come quella delle donne che non sono nate per essere sottomesse agli uomini, ma
di uno sterminio continuato che costituisce il male assoluto che è la cifra dell’esistenza di tutta la
storia dell’intera umanità carnivora.
La sintesi operata da Jean-Paul Sartre (1905-1980) fra marxismo e heideggerismo si articola
soprattutto intorno alle radici esistenzialistiche del pensiero di Heidegger, svolte in termini
puramente ateistiche a partire dall’occultamento operato da Heidegger nei confronti della matrice
cristiana kierkegaardiana. Sartre riuscì a diffondere l’esistenzialismo al di là dell’ambito filosofico
non solo per la sua coniugazione con l’impegno politico marxista, ma anche per la sua traduzione in
opere letterarie e teatrali di grande suggestione, di cui il romanzo La nausea (1938) (traduzione
dell’angoscia e della noia esistenziali di Heidegger) rappresenta il momento più espressivo (vinse il
premio Nobel per la letteratura nel 1964, che con atto politico rifiutò).
113
Th. W. Adorno, citato in Christa Blanke, Da Krähte der Hahn: Kircke für Tier? Eine Streitschrift, Verlag am
Eschbach, Eschbach/Markgräflerland 1995.
178
Norman Oliver Brown (1913-2002) ha sviluppato ulteriormente, e in maniera indipendente, la
prospettiva di Eros e Civiltà di Marcuse: Marcuse aveva cercato di storicizzare l’analisi freudiana
della civiltà, ma in effetti aveva solo impostato teoreticamente questo tentativo. Brown, in La vita
contro la morte. La concezione psicoanalitica della storia (1959), ha cercato invece di sviluppare
pienamente la prospettiva di una storia della civiltà e della cultura umane.
Marcuse è stato molto critico nei confronti di Norman Oliver Brown: Marcuse era incline a
sottolineare tutte le sottigliezze filosofiche ed estremamente critico nei confronti di Brown, perché
Brown rivalutava, a modo suo, le idee di Fromm e ricadeva nella “mistica”. Secondo Brown il
problema è quello di considerare pienamente la psicoanalisi come un chiave di lettura della storia e
anche come il fondamento di una nuova antropologia.
La chiave di lettura storica si basa sulla questione del ritorno del rimosso non solo nella vita della
coscienza individuale, ma anche nella storia del pensiero umano. Da questo punto di vista, anche
Brown critica i neo-revisionisti freudiani, che mettono l’accento sulla cultura e si rifà all’Eros che,
come quello di Marcuse, è di base biologica, ma in qualche modo continua a trascendersi in quello
che possiamo chiamare anche Agàpe; la stessa critica, in qualche modo, va fatta alla prospettiva di
Jung, perché il fatto che Jung consideri un’energia di base del tutto indifferenziata rispetto all’Eros,
fa sì che sostanzialmente non si possa distinguere fra una cultura, fra un logos, fra un discorso che
sia legato all’Eros o a una sublimazione repressiva dell’Eros: per Jung, tutto sta sullo stesso piano
in una prospettiva psicologica spiritualistica, e la sua psicologia analitica perde quella prospettiva
critica freudiana nei confronti della civiltà; non solo, si perdono così alcune caratteristiche storiche
della fede cristiana originaria, per cui il radicamento dell’anima nel corpo è fondamentale.
Prima di tutto occorre fare una considerazione di carattere antropologico, e cioè che l’uomo non si
distingue dagli altri animali per una particolarità simbolica, per esempio quale è in un certo senso la
visione della psiche junghiana, ma ritornando a Freud, anche con Marcuse, dice che quello che
distingue l’essere umano dagli altri animali è la nevrosi, la malattia psichica derivata da un
complesso edipico che si traduce nell’uccisione della paternità animale e nello stupro della madre
179
Terra. Quindi l’individuo rivive questo problema filogenetico della separazione nei confronti della
Natura.
Dopo che nella filosofia greca diventa dominante con Platone il dualismo anima-corpo (mantenuto
in parte anche nella distinzione aristotelica forma-materia) che si riflette nel dualismo mondo
celeste – mondo sublunare, l’anima in qualche modo sarà distaccata dalla sua base biologica
fondamentale e tutto ciò che è terrestre e sensibile-corporeo viene svalorizzato rispetto a ciò che è
ideale-spirituale. La razionalizzazione filosofica dominante rimuove tutto ciò che è corporeoinferiore.
A un certo punto, a livello delle proiezioni consapevoli, delle rappresentazioni consce tipiche della
cultura umana, ciò che è stato rimosso torna prepotentemente. Il Cristianesimo originario si
diffonde e si afferma nella società occidentale, perché diviene la fede degli schiavi e perché
squarcia il velo della razionalità occidentale e fa riemergere alla coscienza dell’umanità ciò che è
rimosso: la nostra finitezza, la nostra corporeità, la nostra sofferenza e la nostra morte che non sono
eluse neanche dalla divinità.
L’anima e il corpo in qualche modo non sono assolutamente distinguibili. La stessa anima è indicata
con il termine aramaico naphsha (ebraico nephesh), lo stesso vocabolo che indica allo stesso tempo
la vita, l’anima e sé stessi. Laddove si traduce “perdere l’anima”, si intende “perdere la vita”:
l’anima non è considerata come un cosa separata, qualche cosa che si deve liberare dal corpo come
in Platone. Questa idea di unità tra anima e corpo è visibile, secondo Norman Oliver Brown,
soprattutto nella prospettiva finale escatologica. La resurrezione della carne significa che, a
differenza di altre prospettive, nel caso del cristianesimo originario, la salvezza finale non è intesa
come qualche cosa da raggiungere per via puramente spirituale. Al contrario del buddhismo, per
esempio, in cui l’idea del nirvana è legata a una prospettiva diversa relativamente alla salvezza dal
ciclo della vita e della morte, comunque spiritualista: la vita in sé viene vista come male, come
dolore, di cui ci si deve liberare.
180
L’unica prospettiva di fede, che invece vuole salvare il corpo, la realtà corporale dell’essere umano,
della vita e della Natura, è il Cristianesimo, dove si prospetta una vita futura, redenta, di corpi, che
hanno caratteristiche diverse da quelli attuali, ma che costituiscono comunque il corpo liberato dal
dolore e dal male.
C’è ovviamente una dialettica che riguarda il rimosso: se il Cristianesimo è la rivelazione del
rimosso, in cui la rivelazione nel senso del divino è anche la rivelazione del rimosso della storia
dell’umanità, lo è non solo a livello della questione della base corporale dell’esistenza umana, non
solo a livello della rivalutazione completa dell’Eros (anche se nella forma conscia dell’Agàpe, come
in I Giov. 4.8 e 16 e nell’inno all’amore di Paolo in I Corinzi 13), ma anche e soprattutto è
rivelazione del rimosso, in quanto rivelazione della violenza fondamentale che ha costituito la base
della civiltà, che ha visto il passaggio dalla fase matriarcale alla fase patriarcale con la violenza
sulla madre Natura. Si tratta della rivelazione antropologica della violenza fondamentale costitutiva
della società, di cui in parte parlerà, in altri termini, René Girard (1923-2015): nella storia del Cristo
messo in croce, c’è la manifestazione del meccanismo del capro espiatorio, della violenza umana
nei confronti degli altri animali e della Natura, che si legittima nel rito sacrificale nel Tempio
attaccato da Gesù secondo i Vangeli (Gesù viene consegnato dal sommo sacerdote ebreo ai romani
come ribelle per questa violazione blasfema dei riti sacrificali nel Tempio).
La dialettica della storia è certo complessa, perché questa rivelazione, da parte di Gesù e del
Cristianesimo originario, del rimosso dell’umanità, nascosto e legittimato dalla religione ebraica
sacerdotale dominante, è poi nuovamente ricoperta da nuove rimozioni, repressioni all’interno della
storia del Cristianesimo occidentale successiva.
La verità dell’inconscio manifestata viene ad essere ricoperta dal pensiero della filosofia greca che
si sovrappone al Cristianesimo. Nel confronto tra Cristianesimo e filosofia occidentale, il
Cristianesimo si adatta alla filosofia occidentale e assume, con Agostino prima e poi attraverso
Tommaso, il carattere di una vera e propria filosofia, tradendo questa rivelazione originale.
181
Questa è la situazione che da questo punto di vista si viene a formare fino al periodo del
Rinascimento, quando c’è un altro evento fondamentale della storia dell’Occidente, che va inteso
ancora una volta nei termini del rimosso e del represso. Questo evento fondamentale è quello della
Riforma Protestante, che è un tentativo di ripristinare la rivelazione originale del Cristianesimo
soprattutto da un punto di vista della denuncia della repressione e del dominio nel mondo di ciò che
possiamo associare alla pulsione di morte.
Dal punto di vista del protestantesimo di Lutero, il mondo è soprattutto dominio del diavolo. In
qualche modo, questa figura rappresenta una rivelazione senza mezzi termini di ciò che domina il
mondo occidentale, la pulsione di morte, che ha represso l’eros.
Da questa prospettiva, Brown
lega a temi sviluppati soprattutto da Fromm e da Marcuse a
proposito della caratterizzazione della civiltà basata sulla violenza e sulla repressione a una
particolare fase che Freud aveva individuato nella storia individuale come fase anale. La fase anale
è la fase più dominata dalla pulsione di morte, in cui si formano quei caratteri tipici della civiltà
repressiva, a cui si legano il sadismo e il masochismo complementari. Civiltà in cui predomina il
dominio dell’uomo sull’uomo e dell’uomo sulla natura, che ha le caratteristiche di riproduzione dei
caratteri definiti all’interno dei caratteri della fase anale.
Il protestantesimo rivela ciò che era stato rimosso, il carattere sadico anale della civiltà dal carattere
repressivo in cui domina la pulsione di morte sull’eros che è il corrispettivo dell’amore: è evidente,
secondo N. O. Brown, dalla denuncia da cui parte Lutero nei confronti della Chiesa. Lutero se la
prende con le gerarchi ecclesiali e con il Papa, che viene visto come l’Anticristo, proprio perché in
quella contingenza storica la Chiesa aveva mercificato anche le cose spirituali, vendeva la salvezza,
le indulgenze: nel vendere le cose spirituali, si ha la riduzione anche dello spirito a merce. Lutero si
scagliava contro l’onnipervasività di questa strutturazione della società, in cui non solo le cose
materiali diventavano merce e oggetto di scambio, ma anche l’anima, come culmine del capitalismo
che si qualifica come dominio del diavolo, il cui verbo o il cui sterco è il denaro.
182
Da questo punto di vista, allora la rivelazione sul rimosso è la rivelazione anche di ciò che
costituisce le caratteristiche della civiltà repressiva e in questo senso c’è tutta un’analisi
antropologica della funzione del denaro da parte di Brown.
Mentre il logos dovrebbe essere il logos dell’amore, dell’eros, come scambio effettivo, come dono,
nel momento in cui lo scambio viene sottoposto allo scambio di denaro tutto questo non significa
altro che una separazione, linguaggio del diavolo, nei termini in cui dia-ballo in greco indica il
separare, mentre il simbolo (da sym-ballo) indica l’unione. Allora, il denaro, in termini
psicoanalitici, è ciò in cui si esprime la pulsione di morte e quindi la critica della società
capitalistica da parte di Brown si fa più profonda rispetto alla critica effettuata da Marcuse e da
Fromm, in quanto individua nella stessa produzione del denaro l’essenza della pulsione di morte.
In particolare, poi, Brown effettua una ricerca sull’antropologia del denaro e la lega a questa
visione psicoanalitica. In particolare, si riferisce alle origini del denaro. Quale è stata la prima forma
di denaro istituita nelle società umane? Secondo Brown, il denaro emerge come modalità di
scambio tra le persone solamente con la rivoluzione neolitica, con l’introduzione dell’agricoltura e
della zootecnica. Le origini del capitalismo stanno sostanzialmente nella stessa produzione del
denaro, è la stessa origine di quell’evento traumatico che ha caratterizzato la separazione dalla
natura, che ha caratterizzato l’uomo come animale nevrotico, che ha caratterizzato l’uomo nei
termini di un’organizzazione della società di tipo patriarcale e della sessualità di tipo genitale. È
tutto un unicum, che nella visione di Brown diventa ancora più chiaro che nell’analisi di Marcuse e
di Fromm, perché risale alle radici antropologiche.
In particolare, le prime forme di denaro quali erano? Erano date da bestiame, era il bestiame l’unità
di scambio e questo bestiame lega la questione del denaro e la questione della zootecnia alla
questione del sacrificio, della religione come culto sacrificale, che usava il bestiame per il sacrificio
e in qualche modo diventava l’unità di scambio tra gli uomini, laddove il sacrificio aveva questo
ruolo fondamentale nell’ambito della religione del neolitico.
183
Il denaro ha questa caratteristica, che lo lega alla violenza del culto sacrificale, e ciò ci fa capire
ancora di più come il Cristianesimo, che si era scagliato contro i culti sacrificali, aveva rivelato
quest’altro aspetto del rimosso, di violenza e della pulsione di morte dominante nell’organizzazione
delle società dal neolitico in poi: la violenza non solo a livello della natura, nella sua
caratterizzazione di terra che viene coltivata, ma anche nella caratterizzazione della violenza contro
gli altri viventi, sia nella forma della zootecnica, che nella forma dei culti sacrificali.
Ancora un volta qui ci può essere un legame con la prospettiva di Girard: però qui non c’è un
riferimento al sacrificio di un uomo all’interno della società, c’è un riferimento al sacrificio di altri
esseri viventi animali e al modo distorto della relazione tra l’uomo e la natura.
Il denaro, quindi, ha questa funzione simbolica mortale, sacrificale. E questo, dal punto di vista
antropologico, si radica ancora di più in questa questione, in cui si vede il dominio della pulsione di
morte.
Più profondamente, Norman Oliver Brown, che riprende Levi-Strauss, fa notare che “in nessun
luogo l’istituzione del dono di Natale è così elaborata come nell’America capitalistica, come se la
psicologia del “prendere” che domina durante tutto l’anno fosse cancellata ed espiata in un rito
annuale che si rifà alla psicologia arcaica del dare”: la psicologia dell’economia arcaica del dono si
basa sulla colpa, perché “ciò che il donatore vuole perdere è la colpa”. Si comprende il dono nella
sua forma arcaica come il tentativo di ripartizione della colpa nella ripartizione del cibo carneo nel
rito sacrificale collettivo in cui si uccidevano gli animali per mangiarli: ucciderli ritualmente e
collettivamente ripartiva la colpa e così mangiarli insieme. La fondazione della società umana è
sacrificale, nella violenza sulle altre specie: lo scambio di doni è primitivamente scambio di cibo
sacrificale, e per questo la prima forma in cui si incarna il denaro come equivalente di scambio è
materialmente l’animale da sacrificare, della cui vita ci si è impossessati. Così, la ricchezza
costituita dall’accumulo di denaro è accumulo di vite di cui ci si è impossessati per ucciderle e
mangiarle, e quindi accumulazione di colpa: così con il primo tipo di scambio, l’origine del
commercio nel dono è sacrificale, è colpevole scambio di colpe; così la società si costituisce e si
184
riunisce nel tempio che è pure mercato, come prima forma di società mercantile-borghese con una
borghesia che è l’umanità intera che scambia qualcosa che non è suo, come la base di
un’associazione per delinquere costituita da un’umanità intera mafiosa che si ripartisce i delitti (i
“lavori”) e le colpe. Ogni debito di denaro è un debito della colpa, è un peccato originario.
Ma poi venne Yeshua (Gesù), che attaccò il sistema sacrificale-mercantile del tempio, che predicò
con Osea “misericordia, non sacrifici (di vite animali)”, che annunciò un’altra società, basata su un
altro tipo di dono, sul dono della propria vita e non sul dono sacrificale-mortale di altre vite, per cui
lo stesso nostro nascere come essere umani poteva essere qualcosa di diverso del dono di una vita
come strumento di morte, ma come dono effettivo di una vita che accumula vita e non morte: questo
è il senso del vero Natale. E istituì un altro tipo di pasto comunitario, una comunione basata non su
altre vite uccise ma sul dono di sé agli altri che è l’amore, sul dono di sé costituito da un pane e da
un vino che non comportano spargimento di sangue (è chiaro che il riferimento evangelico ai pesci
non può che essere allegorico e che Gesù non li mangiò e non li distribuì: trasformò i pescatori in
“pescatori di uomini; poteva dire “questo è il mio corpo”, nel senso arcaico secondo il quale l’uomo
è ciò che mangia, solo se il suo cibo era solo pane e non carne, poteva dire “questo è il mio sangue”
se la sua bevanda era solo vino e non sangue animale).
Dono di Natale dovrebbe quindi essere dono d’amore, di vita, dono di sé, e non dono di denaro,
dono di commercio, dono di colpa, di morte e di sacrificio di altre vite. L’uomo occidentale
contemporaneo non comprende più questo cambio del senso cristiano del dono e continua a vivere
nell’economia arcaica del dono del delitto e della colpa ma senza più provare colpa alcuna, avendo
perso anche qualsiasi senso di colpa, nella sua irredimibile dannazione consapevolmente vissuta
nella gioia di accumulare doni di morte, di una economia della morte che oggi domina.
Una delle analisi più interessanti a cui si applica Brown è quella appunto di avere in qualche modo
sfatato una visione unilaterale del protestantesimo come quella che aveva operato il sociologo Max
Weber. In Weber, è esplorato il collegamento tra l’etica protestante, soprattutto calvinista, e
l’efficienza in un qualsiasi lavoro come forma di opera intramondana (una volta eliminato il
185
monachesimo), e, quindi, la nascita del capitalismo. Ma, per Brown, Weber non si era reso conto di
quanto questa verità fosse successiva a Lutero e legata allo sviluppo del Protestantesimo.
Sicuramente, invece, non rappresentava l’aspetto originario del pensiero luterano, che era invece
quello di denuncia del capitalismo che costituiva il massimo potere di Satana nel mondo, della
pulsione di morte.
L’altra cosa che Brown contempla, nella sua analisi della storia in relazione alla questione
psicoanalitica, è la denuncia che Lutero fa della ragione, che viene chiamata da Lutero la “puttana
del diavolo”, cioè la ragione ha questa funzione di razionalizzazione conscia di una realtà inconscia
dell’eros. Quindi, la prevalenza, il predominio della ragione sulla rivelazione che solitamente viene
visto in termini di emancipazione razionalistica, poi illuministica, di liberazione dalla religione,
viene, al contrario, vista da Brown appunto in senso negativo, perché significa il predominio a
livello delle rappresentazioni culturali della storia dell’umanità della razionalizzazione conscia e
della rimozione del sistema, rispetto a ciò che invece costituiva la verità dell’inconscio che veniva
rivelata dalla religione.
È da notare che N. O. Brown non ha fini apologetici, perché non è sostanzialmente un cristiano, se
non in senso molto lato, ma soltanto cerca di reinterpretare gli eventi epocali culturali della storia
della caratterizzazione dell’anima del mondo in termini psicoanalitici.
Da questo punto di vista, allora, Brown recupera l’analisi critica della scienza moderna, che era
tipica del marxismo, come un prevalere della ragione sulla rivelazione e della razionalizzazione
conscia sulla verità dell’inconscio. E secondo Brown questo è evidente dal fatto che la scienza
moderna è tutt’uno con il progetto del capitalismo moderno. Questa legittimazione della ragione
moderna sulla rivelazione è una repressione dell’eros.
Allora, le categorie della ragione, come ad esempio sono state assolutizzate da Kant, che voleva
fondare con
la sua filosofia l’universalità della scienza moderna, le categorie del soggetto
trascendentale, a cui avevamo fatto riferimento all’inizio con Freud, non sono soltanto categorie
dell’Io e quindi che non tengono conto di ciò che è l’inconscio, non sono soltanto da essere
186
reinterpretate come ad esempio le reinterpreterà Jung sostituendo le categorie consce con le
categorie
inconsce
colletive
che
strutturano
affettivamente-emotivamente
l’esperienza
dell’individuo, ma sono anche da denunciare criticamente come categorie della repressione.
E bisogna in qualche modo pensare al di fuori di queste categorie, dare una nuova rappresentazione
che prescinda da esse, come quella del tempo riconsiderato da Marcuse: caratteristica di tutte le
rivoluzioni è una ridefinizione del tempo e del suo computo, segnando l’inizio di una nuova era. Per
esempio, nella rivoluzione francese si cambiano i nomi dei mesi, o, come si è fatto in altri casi, si
riinizia il computo degli anni come anche, ingannevolmente, nel fascismo. Le vere rivoluzioni
rompono con le categorie spazio-temporali che sono le categorie della repressione.
Allora, contro questo prevalere della ragione repressiva, contro questo instaurarsi di un logos
repressivo, si deve immaginare la ribellione del Romanticismo, che si oppone all’Illuminismo. La
visione romantica della Natura e della psiche rappresenta un altro momento particolare della storia,
in cui si dà un ritorno del rimosso. In questo senso, dal punto di vista di Brown, si deve recuperare
una nuova visione dell’arte e della poesia come linguaggio dell’eros. Allora, l’arte e la poesia non
vanno interpretate negativamente, come aveva fatto Freud come anche nei confronti della religione.
Ma la religione, l’arte e la poesia possono costituire questo ritorno del rimosso, questa rivolta contro
la repressione operata attraverso razionalizzazioni.
Anche in questo caso c’è un continuo intervento del rimosso: il positivismo rappresenta un altro
momento in cui prevale una visione conscia e repressiva, contro la quale, a loro volta, si
schiereranno varie rivoluzioni nelle rappresentazioni nuove a livello culturale. Esse rappresentano
questo mondo del rimosso e sia le rivoluzioni della scienza sia la stessa psicoanalisi vanno
interpretate in questo modo, con il ritorno del rimosso.
Allora, la convergenza o la complementarità tra rappresentazione nuova della Natura e
rappresentazione nuova della psiche, che poteva sembrare strana o particolare nella visione di Jung,
acquista un nuovo significato, perché questa nuova scienza e questa nuova rappresentazione della
187
psiche data dalla psicoanalisi sono una nuova istanza di liberazione dell’eros che tende a scrollarsi
le rappresentazioni sovrastrutturali della repressione.
Quanto Jung aveva pensato in termini così ingenui viene reinterpretato da Brown, superando
l’opposizione con Freud, in termini dell’eros.
La psicoanalisi che cosa è? Essa viene ad essere oggetto di una stessa indagine psicoanalitica, non
solo nei termini in cui ciò era stato fatto da Jung ,il quale diceva che la psicoanalisi freudiana
rappresentava una prospettiva particolare di un particolare tipo psicologico, quindi dandone una
spiegazione puramente individualistica e legata al tipo psicologico di chi l’aveva creata. Qui, la
psicoanalisi stessa viene vista in una visione più ampia a livello di rappresentazione collettiva
rappresentando, nella misura in cui Freud sacrifica l’eros alla civiltà, questo nuovo mezzo
prepotente della sublimazione repressiva delle forze dell’eros. E, quindi, non si tratta più di fare una
psicoanalisi della psicoanalisi nel senso di relativizzarla, ma comprendere questo fenomeno della
vera psicoanalisi come una nuova rivelazione dell’inconscio come lo erano state nel passato le
religioni, in particolare quella cristiana.
Allora, addirittura, non solo non c’è opposizione tra psicoanalisi e religione cristiana, ma stanno
sullo stesso piano di una rivelazione dell’inconscio. Brown dice che forse la stessa rivelazione
dell'inconscio così come caratterizzata dal Protestantesimo era stata ancora più potente nella
denuncia della pulsione di morte, perché ad un certo punto lo stesso Freud aveva riconosciuto il
diritto alla civiltà, il diritto alla sublimazione, alla repressione contro le istanze dell’inconscio e
dell’eros.
A questo punto qual è l’esito auspicato di questa storia delle rappresentazioni della Natura e della
psiche da parte di Brown? Bisogna che queste forze, questi linguaggi dell’inconscio e della Natura,
dell’eros che caratterizza la psiche, convergano in una grande sintesi finale che porti ad una civiltà
non repressiva. La poesia, l’arte, la religione e la psicoanalisi devono unire le proprie forze per
contrastare la pulsione di morte.
188
La pulsione di morte ancora oggi si ripresenta in maniera fortissima, dato lo sviluppo della attuale
società umana, delle particolari conseguenze degli sviluppi della scienza moderna interpretata
sempre in termini tecnicistici; ma una certa nuova epistemologia, come nota Brown, dimostra come
fallace la prospettiva meccanicista legata al dominio tecnico della Natura, dimostra come la scienza
contemporanea ci mostri una nuova immagine della Natura liberata dalla razionalizzazione, da
queste forze di pulsione di morte che rendono la razionalizzazione a fini di dominio della Natura. In
particolare, Brown enfatizza il pensiero di Whitehead, come figura che più di altre ha compreso
questa nuova intaerpretazione della Natura, fondando le basi di una nuova epistemologia. Quindi a
questa nuova sintesi finale, a questa convergenza delle varie forze dell’eros contro la pulsione di
morte, deve contribuire anche questa nuova consapevolezza della scienza contemporanea.
Quale sarà lo scenario di questa nuova civiltà non repressiva? Ha alcune caratteristiche mutuate da
Marcuse: la liberazione dal lavoro, non solo dell’uomo, dalla alienazione che il lavoro comporta,
ma anche la liberazione della Natura e dell’eros, a tutti i livelli. Questa civiltà la possiamo
naturalmente pensare nei termini escatologici in cui il Cristianesimo ha pensato il Regno di Dio con
la Resurrezione della carne, che significa il corpo redento e liberato dalla pulsione di morte.
Infatti, l’ultimo capitolo di questo libro si intitola appunto “La resurrezione della carne”.
Albert Schweitzer (1875-1965) invece rifondò l’etica sulla biologica volontà di vita (associabile
all’Eros appena discusso e sviluppato dalla stessa volontà di vita di Schopenhauer trasformata in
una invertita metafisica della sessualità), che si trasforma in consapevole Agàpe, e analizzò la storia
della civiltà e dell’etica da questa prospettiva.
9. La filosofia matematica
La nascita delle geometrie non-euclidee nella prima parte dell’Ottocento, come già detto nel
paragrafo su Husserl. fu all’origine della grande crisi dei fondamenti della matematica, che si estese
a tutte le discipline matematiche: all’aritmetica, all’algebra, all’analisi, alla teoria degli insiemi, alla
logica. Prima però che la logica subisse la stessa sorte, si prospettò, come già detto, la convinzione
189
di poter risolvere il problema dei fondamenti della matematica risalendo alla logica come
fondamento univoco e certo. La prospettiva che ne conseguì fu chiamata logicismo ed ebbe la sua
massima espressione nei Principia Mathematica (1910-1913) di Bertrand Russell (1872-1970) e
Alfred North Whitehead (1861-1947).
Russell aveva pensato che fosse possibile costruire una filosofia matematica, basata su un’analisi
logico-matematica del linguaggio. Russell in Introduzione alla filosofia matematica (1919) ne
delineò le caratteristiche fondamentali.
Sembrava possibile così trasferire il rigore della matematica a tutto il pensiero filosofico. Di questa
prospettiva, l’opera più rappresentativa è il Tractatus-logico-philosophicus (1921) di Ludwig
Wittgenstein (1889-1951). Per Wittgenstein, si tratta di riconoscere i limiti di esprimibilità del
pensiero, che sono dati dai limiti del linguaggio, rigorosamente analizzato in termini logicomatematici. Gli enunciati della logica e della matematica sono considerati “analitici”, cioè veri
apriori: per essere tali non possono che essere delle tautologie, ovvero non fanno altro che
esplicitare quanto è implicito nei loro termini. Gli altri enunciati devono concernere il mondo come
totalità dei fatti attingibili dall’esperienza, come tutto ciò che accade, come la totalità degli stati di
cose sussistenti: essi raffigurano il mondo, non in termini iconici, ma in termini logici, con
immagini logiche, cioè è possibile istituire fra essi e il mondo dei fatti una corrispondenza
biunivoca, matematicamente definita. Questa corrispondenza è possibile se la forma logica degli
enunciati coincide con la forma della realtà. Gli enunciati sono veri o falsi a seconda che lo stato di
cose affermato sussista nel mondo o no. Nessi causali fra i fatti non sono fatti, sono quindi residui
metafisici che vanno eliminati dalle scienze naturali. Tutto ciò che si afferma oltre i fatti è
metafisica, ed è insensato. La filosofia non è altro che il chiarimento di ciò che può essere detto
all’interno di un linguaggio rigorosamente costruito in termini logico-matematici: si tratta di una
cura che elimini le “malattie” del linguaggio, mostrando l’insensatezza degli enunciati della
metafisica.
190
Gli enunciati del linguaggio esprimono come il mondo è, ma “che il mondo è” non è oggetto di
possibile riflessione filosofica è il mistico, resta cioè qualcosa di ineffabile. La filosofia si deve
quindi arrestare di fronte ai limiti del linguaggio e riconoscere che c’è qualcosa di indicibile: su ciò
di cui non si può parlare si deve tacere. La filosofia si arresta quindi di fronte a tutti i problemi che
costituiscono il senso dell’esistenza umana, che è razionalmente inattingibile. Anche l’attribuzione
di valori alle cose è affermare qualcosa che va oltre i fatti, ma non è insensato allo stesso modo
della metafisica: l’etica non può essere una disciplina filosofica, ma solo una prassi di vita. Così,
svolto il suo compito di chiarificazione, la filosofia si può autodissolvere, come si può togliere via
una scala, dopo che si è saliti nel luogo in cui si voleva arrivare. E così lo stesso Wittgenstein si
allontanò dalla filosofia, facendo vari lavori.
Tornò alla riflessione filosofica solamente quando si rese conto che era necessaria una nuova
impostazione del problema filosofico, cosa che portò da ultimo alla stesura delle Ricerche
filosofiche, pubblicate postume (1953). Wittgenstein si rese conto che la pluralità delle logiche
matematiche non consentiva la costruzione di un pensiero filosofico, fondato sull’univocità della
logica matematica. Si presentava ormai una pluralità di “giochi linguistici”, che non potevano
contare su un fondamento razionale univoco che ne privilegiasse uno sugli altri. Non esistendo un
fondamento razionale univoco, l’esistenza di una pluralità di giochi linguistici può essere compresa
solo in termini di radici storiche e antropologiche: non c’è più una sola forma logica che
corrisponde alla forma della realtà, ma la pluralità delle forme linguistiche corrispondono alla
pluralità delle forme di vita umana che le generano. La pluralità delle forme linguistiche si dà
quindi in corrispondenza alla varietà storica e antropologica delle forme di vita umana. La filosofia
occidentale stessa non è altro quindi che un prodotto etnico-culturale, una etno-filosofia. La scienza
è un’etno-scienza, la matematica un’etno-matematica, che varia da cultura a cultura, da una forma
di vita a un’altra.
191
L’esito della filosofia matematica è in Wittgenstein alla fine lo stesso crollo della metafisica
occidentale, già accertato, con diversi strumenti, dall’esito della filosofia in Nietzsche o in
Kierkegaard.
Contemporaneamente all’opera di Wittgenstein, e in parte anche da questa influenzata, si sviluppò
la filosofia del cosiddetto “neo-positivismo logico” o “neo-empirismo logico”, soprattutto nei due
centri di Wien e di Berlin, dove si crearono dei veri circoli filosofici. Del circolo di Vienna, fra altri,
si può ricordare Rudolf Carnap (1891-1970) che, nel 1928, pubblicò Der logische Aufbau der Welt
(La costruzione logica del mondo). Più originale il contributo di Hans Reichenbach (1891-1953),
del circolo di Berlino, perché più a dentro nelle rivoluzioni della fisica di quegli anni. Già nel 1920,
con Relativitätstheorie und Erkenntnis apriori (Teoria della relatività e conoscenza a priori),
gettava le basi della critica del trascendentalismo kantiano a partire dalla determinazione
aposteriori, dall’esperienza-esperimento della geometria del mondo come una cronogeometria noneuclidea a quattro dimensioni. In Philosophie der Raum-Zeit-Lehre (Filosofia dello spazio e del
tempo), nel 1928, Reichenbach poteva affermare la relatività della stessa geometria, e, nel 1944,
con I fondamenti filosofici della meccanica quantistica, affermare la determinazione aposteriori,
dall’esperienza-esperimento, della stessa logica del mondo che si rivela una nuova logica
quantistica con un terzo valore di verità indeterminato, oltre il vero e il falso. La sua prospettiva fu
poi sintetizzata in La nascita della filosofia scientifica (1951).
Nel frattempo, il cosiddetto teorema di Leopold Lӧwenheim (1878-1957) e Thoralf Skolem (18871963) aveva stabilito la non-adeguatezza espressiva, la non-caratterizzabilità e non-unicità dei
modelli (esistono anche modelli non-isomorfi) per teorie formali con finanche un numero infinito
numerabile di assiomi (pari cioè al numero infinito dei numeri naturali): l’ambiguità semantica non
è solo del linguaggio naturale, ma anche della matematica.
Tuttavia, l’esito finale della filosofia matematica è però dato soprattutto dai due teoremi
rivoluzionari di Kurt Gӧdel (1906-1978), formulati nel 1930 e nel 1931. Si tratta di due teoremi
che si applicano a una qualunque teoria formale che parta finanche da un numero infinito
192
numerabile di assiomi. Gӧdel dimostra un primo teorema per cui una tale teoria è sempre
incompleta, cioè al suo interno si presentano sempre degli enunciati indecidibili, di cui non si può
dimostrare né la verità né la falsità. E un secondo teorema per cui all’interno di una tale teoria non
si può mai dimostrare l’enunciato che attesta la sua non-contraddittorietà.
Questi teoremi mostrano che all’interno della stessa logica matematica si può sviluppare una
riflessione formale (meta-matematica) sui limiti della matematica stessa (non solo dell’approccio
formalista hilbertiano). Come il teorema d’indeterminazione di Werner Heisenberg (1901-1976),
formulato nel 1927, costituiva una riflessione formale sui limiti della fisica stessa, della misurabilità
sperimentale e della calcolabilità matematica delle grandezze fisiche a livello microscopico.
I teoremi di Gӧdel dimostrano però i limiti di una qualunque teoria scientifica: la scienza non può
costituire un sapere assoluto, completo e certo della propria non-contraddittorietà. Anche la scienza
moderna non ha quindi comunque un fondamento certo. Questa non è solo una debolezza della
scienza moderna, ma anche la sua forza, perché dimostra la possibilità di mettere in discussione
criticamente i propri fondamenti.
D’altra parte, i limiti della razionalità scientifica, quale forma più rigorosa di razionalità, sono i
limiti della stessa razionalità filosofica: neanche una teoria filosofica può basarsi su un numero di
principi-assiomi maggiore dell’infinito numerabile, data la finitezza di ogni possibile costruzione
razionale umana. I teoremi di Gӧdel rappresentano così la più rigorosa dimostrazione del crollo
della metafisica occidentale.
La filosofia analitica contemporanea, che si rifà all’ideale della filosofia matematica di un’analisi
rigorosa del linguaggio su una base logico-matematica, non ha mai tenuto conto dell’impossibilità
di un fondamento univoco di un sapere assoluto, completo e certo della propria noncontraddittorietà.
193
10. La condizione post-moderna
Le reazioni di Husserl ed Heidegger alla crisi del pensiero filosofico moderno, pur nella loro
parziale originalità, non costituivano che la riproposizione di precedenti metafisiche e non hanno
potuto arginarla che momentaneamente. Nel frattempo, la crisi delle scienze è esplosa, nella prima
metà del Novecento, in una serie di rivoluzioni fra cui spiccano quelle della fisica, quali le teorie
della relatività, la fisica dei quanti.
D’altra parte, gli eventi storici della seconda guerra mondiale con la soluzione finale dello sterminio
di milioni di ebrei, il cui simbolo è Auschwitz, hanno decretato nei fatti il crollo del paradigma
dominante della modernità quale auto-affermazione dell’umanità occidentale nel dominio tecnico
della Natura con la falsificazione dei suoi miti di progresso e di emancipazione politica. A questi
eventi ne sono poi seguiti altri che hanno ulteriormente aggravato la situazione: primi fra tutti, la
falsificazione del marxismo nell’esito sovietico e la crisi ecologica. L’abisso del male del mondo si
è riaperto in una forma ancora più sconvolgente.
Questo crollo del paradigma dominante della modernità può essere interpretato o nel senso
dell’apertura di una nuova fase della modernità, una tardomodernità in cui possono acquisire nuova
rilevanza paradigmi prima minoritari, o nel senso dell’apertura di una nuova età post-moderna. Le
due locuzioni alternative enfatizzano rispettivamente maggiori elementi di continuità o di
discontinuità rispetto alla modernità, ma corrispondono comunque a una stessa situazione storica.
10.1 Jean-François Lyotard e la fine delle grandi narrazioni
Jean-François Lyotard (1924-1998) ha caratterizzato questa situazione come la “condizione postmoderna” (La condizione post-moderna. Rapporto sul sapere, 1979): si tratterebbe, dal punto di
vista filosofico, della fine delle “grandi narrazioni” o dei “metaracconti”, ovvero delle “ideologie”,
cioè di quei sistemi di pensiero religiosi, filosofici, scientifici, psicoanalitici, tecnico-economici o
politici, che, presentandosi come fondati su principi assoluti, cercavano di legittimare la prassi di
vita umana. Si tratterebbe cioè della fine non solo della fede religiosa come sistema di pensiero,
come all’origine della modernità, ma anche di tutti quei sistemi di pensiero laici che ne avevano
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preso il posto e che si rivelano quali altrettante forme di fede laica senza fondamento teoretico.
Questi sistemi sono caduti sotto il peso di una critica teorica interna dei fondamenti e di una critica
esterna che li ha falsificati nella prassi sullo scenario della storia stessa.
Quello che ne risulta è non solo la frammentazione dei saperi che non possono essere più
onnicomprensivi, la loro pluralità irriducibile, ma anche la loro temporalizzazione e la
localizzazione, la loro etnicizzazione, la loro relativizzazione in termini di pratiche discorsive o non
discorsive legate a forme di vita e a contesti etnico-culturali senza fondamento teoretico. La
trasformazione delle nostre società in società multiculturali e multietniche, a partire dalla seconda
metà del Novecento, ha portato alla relativizzazione non solo della religione, ma anche della
filosofia e delle scienze.
10.2 Roland Barthes e la semiologia contro l’impero dei segni
Roland Barthes (1915-1980) elabora una semiologia come studio generale della cultura (Elementi di
semiologia, 1964) all’interno del linguaggio in cui è possibile comprendere le diverse forme di
segni: una scienza dei segni, una semiologia è possibile solo a partire dalla linguistica, perché vi
sono immagini e altri tipi di simboli che sono asemantici e acquistano un significato solo quando
ricondotti al linguaggio verbale; si tratta di un ribaltamento della prospettiva desaussuriana. Già a
partire da questa riflessione si può notare come al massimo la prospettiva di Barthes si possa
definire come post-strutturalista, e non strutturalista.
La cultura umana, come insieme di saperi teoretici e saperi pratici che sono legati a un saper fare e
hanno aspetti di “materialità”, può essere considerata come una gerarchia di sistemi semiotici. La
cultura umana non è un semplice riflesso sovrastrutturale di una certa forma di vita con le sue
strutture economiche ma nella sua “materialità” tecnica svolge essa stessa un ruolo strutturale
primario nell’organizzazione della vita umana. Non solo: tutta la vita sociale ed economica si
costituisce nel linguaggio come un sistema di segni; tutto allora è struttura e sovrastruttura. La
gerarchia interna in cui si articola è legata al fatto che alcuni sistemi semiotici, corrispondenti a certi
195
saperi disciplinari, svolgono un ruolo di fondamento e di legittimazione degli altri e della
complessiva forma in cui si organizza la vita umana.
Per lungo tempo nella storia dell’occidente, ma non solo, la religione, come pratica cultuale e come
sapere teoretico quale teologia, ha costituito il sistema semiotico di fondamento di tutti gli altri e di
riferimento per l’organizzazione della vita umana dei segni; dopo questo ruolo è stato svolto anche
dalla politica e dalla scienza moderna. Si è passati così mitologie e ideologie religiose “verticali”
che hanno costituito delle metafisiche pansemiotiche religiose, a delle mitologie e ideologie socioeconomico-politiche “orizzontali” che hanno costituito nuove metafisiche pansemiotiche sociali
(Mythologies, 1957), in cui tutto rimanda non più a Dio secondo la prospettiva della signatura
rerum, ma direttamente a un ordine socio-economico-politico, che non ha più bisogno di una
legittimazione divina.
La semiologia diventa così semioclastia, in una prospettiva di riforma del marxismo,
smascheramento dei meccanismi di significazione dell’ideologia che manipola le coscienze e le vite
e che legittima i poteri, le violenze, le ingiustizie: la mitologia e l’ideologia si presentano come
significazioni comuni, innocenti nella finzione di relazioni naturali e non arbitrarie fra significante e
significato, spaziano dagli articoli giornalistici alle pubblicità, dalle immagini di copertina alla
moda vestiaria, dai cibi ai costumi, dal cinema o dalla letteratura commerciale ai saggi divulgativi o
conservatori, tutte cose che legittimano le convenzioni delle società borghesi. La mitologia e
l’ideologia
sono
sistemi
semiologici
secondari
che
si
strutturano
su
altri
pre-esi
stenti, veicolano significazioni parassite di altre che si innestano nel linguaggio e che riducono ad
altri significati superiori a partire da una presunta (ma invero arbitraria) iconicità asemantica che
rimanda a un ordine di poteri, instaurando, materialmente e idealmente, un impero dei segni
(L’impero dei segni, 1970).
Il linguaggio stesso è “fascista” (Lezione, 1977), impone un certo tipo di dire che riflette una
gerarchia di poteri diffusi. Se l’oriente giapponese, attraverso l’influenza del buddhismo zen, induce
a nientificare il potere dei segni nel vuoto, tendendo a una de-semiotizzazione della realtà, anche
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questa de-semiotizzazione può essere giocata a sostegno dei poteri. Oltre lo smascheramento della
semiologia, è la letteratura, la scrittura poetica che contrasta la microfisica del potere che è attiva
nel linguaggio, smascherandola e decostruendola. Seppure la riflessione di Barthes sulla scrittura è
stata riassorbita nel decostruzionismo di Derrida e la prospettiva di Derrida non sarebbe
comprensibile senza l’analisi di Barthes, la prospettiva è molto diversa. La morte dell’autore (1968)
teorizzata da Barthes è molto diversa da quella strutturalista, foucaultiana e derridiana: quello che è
eliminato è l’autore esterno al testo, a favore di un autore che è rintracciato all’interno della scrittura
stessa, nelle varie funzioni discorsive come quella dell’io narrante o altre corrispondenti meno
dirette. La morte dell’autore è un atto volontario dell’autore che nella vera scrittura letteraria
trascende sé stesso e consegna la propria vita agli altri, decide di vivere nel senso che gli daranno
gli altri in una polifonia.
La scrittura di Barthes diventerà negli ultimi anni, anche a causa del lutto della madre nel 1977 che
sarà per lui devastante, sempre più personale, non più teoretica-descrittiva, ma costituita da testi in
cui la sua riflessione è direttamente connessa alla sua vita (Frammenti di un discorso amoroso,
1977; La camera chiara, 1980). Qui è Barthes, che, da innamorato, da persona coinvolta, contro i
discorsi ideologici e di potere, che parla d’amore, imbastisce frammenti di un discorso amoroso in
una società che non gli dà più valore, e opera una transvalutazione dei valori borghesi per cui la
sentimentalità dell’amore è equiparata a oscenità; è Barthes che direttamente, da persona in lutto,
parla della morte in una società che la esorcizza e la rimuove considerandola oscena come l’amore,
e opera una semiotropia, una trasformazione dei segni che, come le fotografie singolari, come la
foto del giardino d’inverno della madre,fanno risorgere i morti a una vita nuova.
10.3 Gilles Deleuze e Felix Guattari
Gilles Deleuze (1925-1995), filosofo, e Felix Guattari (1930-1992), psicoterapeuta anomalo,
tentarono invece di costruire una filosofia che mette insieme differenti istanze provenienti dalla
scienza moderna, dall’arte, dalla psicoanalisi esistenziale, dal marxismo e dalla filosofia di
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Nietzsche. Deleuze (Nietzsche e la filosofia, 1962; Differenza e ripetizione, 1968) si era posto il
problema di salvare l’alterità senza ridurla all’identità, di rispettare la differenza senza ridurla
all’uguaglianza. La dialettica hegeliana o marxista non era riuscita a salvare l’alterità negando il
principio logico della non-contraddizione: aveva ridotto l’alterità al negativo, in qualche modo
subordinandola ancora all’identità positiva, e poi la sintesi l’annullava ad una nuova identità
positiva che l’aveva fagocitata. L’alterità e la differenza vanno mantenute in quanto tali e non sono
mai riducibili ad unità. L’alterità e la differenza sono alla base di una molteplicità che costituisce il
reale come temporalità di un divenire radicale mai riducibile all’essere statico: si può così
riformulare l’esito della filosofia di Nietzsche senza più legarla alla volontà di potenza, ma partendo
piuttosto da una differenza di potenziale energetico; si tratta di un concetto ripreso dalla fisica, non
compromesso con eventuali soggettivistiche volontà di dominio, ma che piuttosto rimanda alla
potenza creatrice della Natura di cui l’essere umano è solo un caso. L’interpretazione della volontà
di potenza di Nietzsche in termini di una volontà creatrice artistica più che di dominio, non è l’esito
di un lavoro filologicamente fedele alla lettera nietzschiana, quanto piuttosto di una trasformazione
della stessa filosofia di Nietzsche in una nuova filosofia che non presenti più come fondamentale la
concezione della vita in termini di un dominio violento del singolo sugli altri, ma piuttosto di una
differenza motrice e creatrice nel rispetto dell’alterità. L’identità stessa è ripensata in termini di una
differenza che la precede: l’identico è solo il ripetersi del differente, statico è solo il ripetersi del
mutamento, eterno non è l’essere ma solo il divenire, cui va ricondotta la stessa idea nietzschiana
dell’eterno ritorno che non va pensato come un ciclo identico che si ripete, ma una differenza che si
ripete non riproducendo mai lo stesso stato precedente. Deleuze e Guattari (L’Anti-Edipo.
Capitalismo e schizofrenia I, 1972) sviluppano insieme questa filosofia della differenza di Deleuze,
innestandole degli elementi derivati dalla psicoanalisi. Le differenze di potenziale energetico si
qualificano così in termini di flusso di desiderio: la tematizzazione della realtà umana, non più in
termini di volontà di potenza nietzschiana, avviene ora in termini di un desiderio inconscio, che non
deve più essere represso come nella psicoanalisi freudiana per la costituzione della società, perché
198
non ha più una connotazione puramente individuale e meramente sessuale, ma piuttosto preindividuale, pre-personale e presoggettiva, che attraversa e costituisce i corpi e le identità. Il flusso
di desiderio è quindi intrinsecamente e originariamente relazionale e sociale, ed è
l’individualizzazione di esso che costituisce una sorta di arresto del flusso se l’individuo si chiude
su sé stesso e sul suo piacere privato egoistico. Il desiderio di Deleuze e Guattari ha più
caratteristiche dell’agape cristiano che non dell’eros greco: non nasce da una mancanza, ma da
un’eccedenza, da una differenza positiva come surplus che ne genera la dinamica, ed ha carattere
relazionale e non legato al piacere individualistico. In maniera infelice, però, per caratterizzare
questo flusso, Deleuze e Guattari introducono la metafora della “macchina desiderante”, che si
contrappone al soggetto individuale ma anche alla struttura statica dello strutturalismo: questa
metafora rischia di dare una connotazione meccanicistica al divenire, che è considerato dalla
prospettiva di una sorta di una filosofizzazione radicale di una fisica quale dinamica energetica e di
una microfisica del desiderio. Si voleva così contrapporre, sempre sulla scia di una modifica dello
strutturalismo dominante in Francia, con impeto anarchico rivoluzionario, alle strutture del potere
delle macchine del desiderio.
La critica della metafisica dell’essere, della dialettica marxista e della psicoanalisi, li induce alla
teorizzazione di una schizo-analisi: eliminata la riduzione delle contraddizioni sociali al dramma
familistico privato dell’Edipo freudiano, Deleuze e Guattari colgono nella schizofrenia, al di là della
patologia clinica, il paradigma di una nuova possibilità del pensiero, che superi la riduzione
dialettica delle contraddizioni a sintesi positiva, ovvero di “logica schizofrenica” (in cui
l’affermazione è delle contraddizioni del divenire e l’alterità non è ridotta a negazione), che sola
potrebbe cogliere l’irrazionalità folle e le contraddizioni del reale e portare a una liberazione del
pensiero e a un’azione sociale antagonista alle strutture del potere. La microfisica del potere va
battuta da una microfisica del desiderio che diventa una micropolitica di flussi, di turbolenze e
vortici sociali impredicibili che fanno saltare, destabilizzandole, anche le macrostrutture
istituzionali del potere.
199
In Rizoma (il rizoma è un tubero, che è contrapposto all’albero e alla radice) già del 1976 (poi
ricompreso come introduzione in Mille piani) si presenta una forma di pensiero “rizomatico” che,
non binario-dualistico o non procedente per opposizioni logiche, e non gerarchico arborescente che
si costituisce in un tronco principale da cui si diramano le altre parti, invece procede in più
direzioni-associazioni, attraverso una molteplicità potenzialmente infinita di connessioni, e non più
ordinato in una sequenza lineare, nel seguire una corrispondente realtà “rizomatica”, complessa per
l’intreccio di connessioni dinamiche: un pensiero contrapposto al pensiero arborescente-deduttivo, a
un pensiero delle radici che costituiscono un fondamento, a un pensiero gerarchico, lineare della
tradizione metafisica (Rizoma girò già tradotto, come ciclostilato, nel 1977 nel movimento
studentesco italiano che lo accolse come progetto di liberazione, di un nuovo modo anarchico di
vivere e di pensare). Il pensiero come rizoma è un processo temporale, contingente che può sempre
ricadere in irrigidimenti arborescenti o in radicamenti che lo chiudono in sé.
In Millepiani. Capitalismo e schizofrenia II del 1980, si realizza una filosofia positiva del divenire,
della differenza, della frammentazione, della pluralità, delle molteplicità, delle singolarità, della
località, della temporalità e della relatività, dei processi e delle transizioni di fase, del caos
molecolare ed evolutivo, una filosofia che articola la microfisica del desiderio in una metageometria e in una meta-topologia (in geometrie e in topologie relativistiche dello spazio-tempo
metaforizzate) degli eventi nella loro singolarità impredicibile e nella loro ecceità, e si costituisce su
più piani autonomi e indica non tanto e non soltanto una deriva dei saperi, ma la stessa realtà come
divenire di differenze energetiche, sulla scia del prospettivismo leibniziano rivisitato da Nietzsche
per superare tutte le metafisiche delle rappresentazioni razionali e tutte le dialettiche delle
opposizioni logiche. Il pensiero di Deleuze e Guattari non è antropocentrico, non fissa una
discontinuità fra esseri umani e altri animali, ma non si è mai articolato in un’etica animale. La
prospettiva di Deleuze e Guattari, tuttavia, nella misura in cui non effettua un’analisi critica
profonda delle teorie matematiche e fisiche che metaforicamente usa, ricade in una meta-fisica
materialistica e meccanicistica (nell’abolizione della soggettività considerata come epifenomeno),
200
seppure non nella metafisica dei solidi criticata da Henri Bergson (1859-1941),114 ma in alternativa
metafisica dei fluidi, dei liquidi.
Bergson era stato il riferimento filosofico anche della nuova epistemologia della fisica del caos e
della complessità di Ilya Prigogine (1917-2003).115
Si tratta di un progetto filosofico che converge con quello dello storico della scienza Michel Serres
(1930) che aveva riscontrato il risorgere della fisica epicurea-lucreziana nella novecentesca fisica
del caos e analizzato la corrispondente geometria frattale: 116 “C’era una volta l’età dell’oro. Dove e
quando, lo ignoro. Dopo, si dice, vennero l’età del bronzo e il secolo del ferro. Miti o storie,
sempre di metalli. Dei metalli o della pietra: levigata, tagliata, neolitica o paleolitica. Sappiamo
parlare soltanto di solidi, sappiamo scrivere soltanto sui solidi. Perché? A causa del loro ordine e del
loro legame. Coerenza , rigore e rigidità, la molecola cristallina locale qui è più o meno la stessa di
quella laggiù, prolunga la sua identità, la sua monotonia, sotto l’effetto di un forte vincolo. Così si
scrive la storia dove il locale ritorna al globale secondo la ripetizione di una legge omogenea. Il
discorso non è diverso dalla materia dura su cui è scritto. Meccanica dei sistemi solidi.
Ecco le acque , cataratte e flussi, fiumi e turbolenze , della fisica epicurea. Il locale qui fa scorrere la
sua debole viscosità, senza intaccare eccessivamente il volume globale. I vincoli svaniscono non
lontano dal suo intorno. Vi sono, come si dice, dei gradi di libertà. Il turbine si forma e si disfa,
nell’incertezza, ma ovunque, altrove, la pianura è calma, secondo i casi. Spazio seminato di
circostanze.
Inventare la storia e le età delle acque”.117
10.4 Michel Foucault e la genealogia storica
114
G. DELEUZE, Le Bergsonisme, PUF, Paris 1966; tr. it. di F. SOSSI, Il bergsonismo, Feltrinelli, Milano 1983.
I. PRIGOGINE & I. STENGERS, La Nouvelle Alliance. Métamorphose de la Science, Gallimard, Paris 1979; tr. it. di P.
D. NAPOLITANI, La Nuova Alleanza – metamorfosi della scienza, Einaudi, Torino 1981; e, anche, con un testo diverso:
I. PRIGOGINE, La nuova alleanza – uomo e natura in una scienza unificata; tr. it. a cura di R. MORCHIO, Longanesi,
Milano 1979.
116
M. SERRES, Hermes I-V, Minuit, Paris 1969-1980; tr. it. del vol. V di E. Pasini & M. Porro, Passaggio a Nord-Ovest,
Pratiche, Parma 1984.
117
M. Serres, La naissance de la physique dans le texte de Lucrèce, Paris 1977, tr. It. Di P. Cruciani e A. Jeronimidis,
Palermo 1980.
115
201
Il pensiero di Michel Foucault (1926-1984) ha radici soprattutto nel pensiero di Nietzsche e di
Heidegger e nello strutturalismo. Gli inizi, legati a una critica della psicoanalisi e della psicologia
dominanti, si rifanno alla psicoanalisi esistenziale di Ludwig Binswanger (1881-1966), che aveva
inaugurato un’analisi esistenziale dell’essere-nel-mondo che superasse il dualismo psiche/corpo su
cui si basava la stessa psicoanalisi freudiana e la caratterizzazione del malessere nei termini di una
patologia medica estesa alla psyche: si trattava di ricomprendere il malessere, prima considerato
come malattia psichiatrica o nevrosi o psicosi, come un modo diverso di essere-nel-mondo, un
modo diverso di esistere, guardando al malessere non dall’esterno ma fenomenologicamente come
un vissuto interno dell’esserci, pur non riducendo i fenomeni inconsci alla coscienza come in
Husserl. In questo contesto, Foucault riprende inoltre, attraverso la mediazione di Sartre, la critica
di Heidegger a Kant volta alla valorizzazione dell’immaginazione trascendentale, per elaborare a
partire da una fenomenologia del fenomeno inconscio del sogno una sorta di “onirica
trascendentale” che ribaltasse completamente il rapporto fra sogno e ragione all’interno della
tradizione filosofica occidentale: la ragione risulta così secondaria rispetto al sogno, che costituisce
la forma originaria dell’esperienza del pensiero umano e dell’esperienza della libertà (Introduzione
a Sogno ed esistenza di L. Binswanger, 1954).
Ma un ribaltamento ancora più radicale della tradizione filosofica occidentale e del suo
razionalismo è effettuato da Foucault qualche anno dopo a partire dalla tematizzazione
fenomenologica della follia come esperienza vissuta al di là della sua medicalizzazione psichiatrica
(Storia della follia nell’età classica, 1961). La critica al razionalismo filosofico moderno è svolto
anche attraverso una critica dell’esclusione della follia dall’esperienza del pensare effettuata da
Descartes, con la sua identificazione della follia con la sragione: su questo punto si aprirà una
polemica con Jaques Derrida. Il ritorno all’esperienza stessa della follia è da comprendersi nella
prospettiva di un ritorno al fenomeno stesso della follia attraverso l’epoché husserliana applicata a
tutta la ragione e più ancora attraverso la distruzione heideggeriana della psicologia, della
psicoanalisi, della psicopatologia e della psichiatria. Husserl non gli basta perché la follia, come il
202
sogno, sfugge a una fenomenologia della coscienza che cerca di ricondurre l’immaginario onirico e
del folle proprio di un’attività inconscia a significati concettuali.
Il concetto di malattia mentale o psichica viene distrutto ed emerge l’esperienza di un diverso modo
di essere-nel-mondo. Foucault però si oppone all’interpretazione puramente soggettivistica del
Dasein e considera, al di là di un’originaria inautenticità umana dell’essere-nel-mondo, la
trasformazione del mondo che questa inautenticità comporta rendendolo a sua volta inautentico.
L’inautenticità del mondo economico, sociale, politico in cui vive il singolo rende impossibile
un’autentica dimensione spazio-temporale dell’Umwelt e un autentico Mitwelt, un autentico
Miteinandersein. Non ci si può fermare all’analisi formale ontologica dell’esistenza, ma bisogna
comprendere le concrete condizioni antropologiche e storiche dell’esistenza che provocano come
reazione, al di là delle razionalizzazioni sovrastrutturali, complesse strategie di sopravvivenza che
però non permettono di eliminare la sofferenza ma invece l’acuiscono in una rottura radicale col
mondo inautentico e le sue razionalizzazioni ideologiche: le contraddizioni reali del mondo si
traducono in conflitti interni. Foucault così scrive la storia della follia come storia della sua
costruzione sociale e della violenza che il mondo esercita sui “folli” come capri espiatori della sua
follia. Così, Foucault va molto oltre Binswanger: la follia non è solo un modo diverso di essere-nelmondo, ma rappresenta l’unica esperienza autentica della verità, in grado di superare le
mistificazioni della realtà ad opera della ragione attraverso processi di razionalizzazione che mirano
prima di tutto a un’esorcizzazione della morte. Da un punto di vista storico, la stessa esperienza del
Cristo e del cristianesimo che fino al rinascimento si manifesta nell’Elogio della follia di Erasmo da
Rotterdam (1466-1536) si caratterizzano in termini dell’esperienza autentica della follia. La follia
della croce e dell’amore cristiano a partire dal XVII secolo, nonostante il giansenismo, Port-Royal e
Pascal, non è più considerata come una sragione o una contro-ragione, ma come una ragione
superiore: solo con Dostojevskij e Nietzsche, dice Foucault, ritorna la gloria della follia del Cristo,
attorniato da tutti i folli del mondo di cui si è preso cura; la follia è stata parte del cammino di
Passione cui Dio ha preso parte e che così ha glorificato e redento. Ma ora non è più Follia
203
l’incarnazione di Dio nell’essere umano, ma follia è solo la caduta dell’uomo nella bestia senza
ragione, segno più evidente della sua colpevolezza e quindi della misericordia divina. C’è una
razionalizzazione del Cristianesimo senza più alcuna richiesta di abbandono delle pretese di
certezza della ragione: già dal IV secolo almeno il Cristianesimo si costruisce come teologia
filosofica, ma i dogmi restano come misteri inaccettabili, inspiegabili dalla ragione; solo con
Cartesio si passa ad un soggettivismo filosofico di una metafisica cristiana (il cristianesimo ridotto a
visione del mondo, dice Heidegger); mentre per Luther la ragione è la “puttana del diavolo”, per
Cartesio la ragione è il fondamento di tutta la fede.
Si profila quindi la necessità di una storia non della psicologia, ma una storia di quella esperienza
segregata e internata della follia con la legittimazione della psicologia e della psichiatria, della
separazione di ragione e follia. La necessità di una storia della separazione del sogno dalla ragione.
La necessità di una storia della separazione dell’Oriente dall’Occidente. Con la Storia della follia
Foucault inaugura una riflessione filosofica, che invero si è trasformata sostanzialmente in
un’indagine storica del tipo della genealogia nietzschiana delle pratiche discorsive in relazione alle
altre pratiche umane, che ne mettesse in evidenza le motivazioni ideologiche di dominio all’interno
di una vera e propria dinamica microfisica del potere nelle relazioni umane: l’esclusione e la
patologizzazione della follia viene criticata non solo attraverso una critica teoretica filosofica
astratta, ma mostrando tutta la storia concreta di violenza e di potere, delle istituzioni che l’hanno
“definita” e costretta fisicamente come un’anormalità.
Per superare il soggettivismo, Foucault si riconduce alla prospettiva strutturalista che integra con
Nietzsche ed Heidegger. Da Ferdinand de Saussure (1857-1913), che aveva elaborato uno
strutturalismo linguistico, lo strutturalismo aveva evidenziato nei vari campi del sapere (Claude
Lévi-Strauss (1908-2009) in antropologia, Georges Dumézil (1898-1986) nella storia delle religioni,
Louis Althusser (1918-1990) nella storia economica marxista) la priorità delle forme simbolicoculturali sui soggetti umani che le praticano, trasformando una struttura storica prodotta da soggetti
storici in un trascendentale oggettivo.
204
Così, Foucault va alla ricerca di quelle strutture storiche ma trascendentali del sapere e del potere,
come le epoche dell’essere di Heidegger ma integrate con la storia concreta che le realizzerebbe.
La modalità è simile a quella individuata da Foucault, sulla base dell’interpretazione di Kant data da
Heidegger118, come relazione sussistente fra la Critica della ragion pura e la Antropologia dal
punto di vista pragmatico di Kant119, e che portò Foucault a presentare l’essere umano come un
“allotropo empirico-trascendentale”120, per cui il trascendentale è sempre storico e deriva
dall’empirico.
In Le parole e le cose (1966) delinea così, sulla falsariga della storia delle scienze naturali di
Thomas Kuhn (1922-1996) che aveva individuato le rivoluzioni scientifiche in termini di grandi
“paradigmi”,121 una storia delle scienze umane, che comprendono anche la filosofia, in termini di
cambiamenti di un’“episteme” individuata in termini di invarianti semiotici epocali, comuni a più
discipline. Con Kant l’unità della mathesis si spezza, fra ciò che è analitico e ciò che è sintetico, e
fra ciò che è fondato trascendentalmente e ciò che non lo è. Da Kant, le scienze venivano a
distinguersi fra quelle apriori e quelle aposteriori senza fondazione trascendentale, e dove le forme
deduttive della logica e della matematica sono applicate solo frammentariamente e localmente.
Sono gli ambiti disciplinari in cui si dà un discorso sulla vita, sul lavoro e sul linguaggio in cui si
concretizza l’esistenza dell’uomo, ovvero nella biologia, nell’economia e nella filologia, che
determinano concretamente la finitezza del sapere sull’uomo e le sue condizioni di possibilità e che
allo stesso tempo costituiscono il quadro di riferimento per le scienze umane che hanno come nuovo
oggetto appunto l’uomo. Le scienze, che studiano storicamente l’uomo che vive, l’uomo che lavora
118
M. HEIDEGGER (1929), Kant und das Problem der Metaphysik, Klostermann, Frankfurt am Main 1973 4, tr. it. di M.
E. Reina a cura di V. Verra, Kant e il problema della metafisica, Laterza, Roma-Bari 1981.
119
M. FOUCAULT, Introduction à l’Anthropologie, in E. KANT, Anthropologie du point de vue pragmatique, a cura di D.
Defert, Fr. Ewald e F. Gros, Vrin, Paris 2008, pp. 7-79; tr. it. di M. BERTANI & G. GARELLI, Introduzione
all’Antropologia di Kant, in I. KANT, Antropologia dal punto di vista pragmatico. Introduzione e note di Michel
Foucault, Einaudi, Torino 2010, pp. 9-94. L’edizione italiana non restituisce però il testo di Kant come tradotto da
Foucault, ma lo traduce dall’originale tedesco; nell’indice dei nomi, l’Heidegger conosciuto e citato da Kant viene
identificato con Martin Heidegger, citato nella presentazione francese come colui che ha influenzato quest’opera di
Foucault!
120
M. FOUCAULT, Les mots et les choses, Gallimard, Paris 1966 ; tr. it. di E. PANAITESCU, Le parole e le cose, Rizzoli,
Milano 1967.
121
T. Kuhn, The Structure of Scientific Revolutions, University of Chicago Press, Chicago1962; tr. it. di A. Carugo, La
struttura delle rivoluzioni scientifiche, Einaudi, Torino 1969.
205
e l’uomo che parla, non ritrovano mai però questo soggetto umano se non come un oggetto
storicamente determinato dalla biologia, dall’economia e dalla filologia, e caratterizzano così questo
soggetto come storico, finito, relativo. Non solo: la vita, il lavoro, il linguaggio sono quegli ambiti
in cui heideggerianamente l’uomo è gettato nel suo essere-nel-mondo, ambiti che lo precedono e lo
sovrastano e ne mostrano la finitudine radicale perché è vissuto dalla vita, è prodotto dal lavoro, è
parlato dal linguaggio, immerso nelle loro storie diverse. Se è da queste scienze che si svilupperà
un’analitica della finitudine, termine che rimanda alla Daseinsanalyse a cui Foucault è legato, pure
queste si configurano all’interno di una metafisica dell’uomo come soggetto trascendentale che
diventa necessariamente oggetto del sapere, cioè di un’antropologia filosofico-metafisica che si
sostituisce alla teologia filosofica o di una metafisica antropologica. Con Nietzsche ed Heidegger, e
poi con lo strutturalismo epistemico che dissolve il soggetto epistemico in delle strutture
semiotiche, Foucault arriva ad affermare la fine dellla metafisica antropologica e dell’uomo e la
necessità di una completa analitica della finitudine alla Heidegger ma concreta, sviluppata anche
attraverso l’attività antiepistemica della psicoanalisi, dell’etnologia e della linguistica che
distruggono la metafisica dell’uomo, evidenziandone sul piano del sapere e dell’essere il fondo
impensabile e impensato, inconscio individuale e collettivo da cui emerge come un effetto di
superficie.
L’originalità di Foucault sta nel metodo archeologico-strutturale (L’archeologia del sapere, 1969),
nell’analisi storica concreta che dà contenuto alla prospettiva heideggeriana rispetto alle
individuazioni delle condizioni di vita inautentiche, ovvero di dominio e di potere, che determinano
l’episteme, nel rilievo dato allo snodo kantiano all’interno della classicità/modernità e alla correlata
questione delle scienze umane. Volendo distruggere il soggettivismo coscienzialistico di Husserl e
seguendo la prospettiva heideggeriana della non strumentalità e non antropologicità del linguaggio,
Foucault vuole risalire alle pratiche discorsive come cose stesse, come fenomeni indipendenti dai
soggetti umani: una fenomenologia delle pratiche discorsive è una sorta di fisica, di dinamica
interna delle pratiche discorsive che ne sveli l’architettura interna, che riveli come si formino da
206
queste delle discipline attraverso la chiusura di universi del discorso e la cancellazione arbitraria
delle interferenze, delle connessioni, in un’archeologia che fa emergere gli strati più nascosti, in
particolare gli invarianti che costituiscono le varie forme di episteme, e che non riguardano i
significati per i soggetti né i significanti puri che caratterizzano la struttura formale delle pratiche,
quanto le relazioni fra le “parole” e le “cose”, ovvero ciò che qualifica le pratiche discorsive come
tali rispetto al mondo e non rispetto a un soggetto. Questa ricerca di invarianti è però comunque una
ricerca di essenza delle pratiche, seppure storica, e fa trascurare le devianze, le pratiche minoritarie
e non dominanti che sole possono spiegare la transizione da un’episteme a un’altra. La genealogia
poi mette in evidenza l’essenza storica del sapere come potere, nelle sue varie articolazioni
disciplinari e discorsive, cioè la dinamica esterna delle pratiche discorsive, in quanto legittimazione
del potere e della violenza e in quanto progetto di potere e di violenza codificatore e regolatore delle
altre pratiche non discorsive umane in una sorta di trasformazione semiotica del kantismo in quanto
“strutturano” comunque le condizioni di possibilità dell’esperienza della vita e non solo della
conoscenza.
Certamente, lo spostamento dai discorsi alle pratiche discorsive permette di considerare i discorsi
all’interno della complessità delle pratiche umane, cosa che permette di analizzare molto meglio
quella dinamica che a livello discipline si suddivide nell’attestazione di un interno e di un esterno,
perché le discipline si situano solo a un livello del sapere distinto dalle altre pratiche umane, mentre
al livello delle pratiche cade il confine fra discorsivo e non discorsivo, fra sovrastruttura ideale e
struttura materiale. Non c’è più da una parte la complessità del sapere e dall’altra la complessità
della storia umana o del mondo, ma c’è un’unica complessità in cui anche le formazioni discorsive
sono eventi fra altri eventi della storia e del mondo: non si tratta più di una storia delle idee da una
parte e storia delle istituzioni, storia socio-economico-politica dall’altra; si tratta di una storia del
mondo umano in tutta la sua complessità.
Nascono così i grandi progetti storiografici (Nascita della clinica, 1963; Sorvegliare e punire.
Nascita della prigione, 1975; Storia della sessualità, 1976, 1984) intorno a una serie di esperienze
207
negate o controllate anche attraverso la costituzione di dispositivi teorici razionali che attraversano
varie pratiche discorsive, come i lavori sulla storia delle scienze umane, della medicina e della
psicoanalisi, sulla storia della follia e della sessualità che si avvalgono di un complesso intreccio di
apparati teorico-critici. Nell’ultimo periodo, Foucault sviluppa la prospettiva della cosiddetta biopolitica, che analizza come il potere controlli i corpi e la vita.
10.5 Jean Baudrillard e la seduzione
In un famoso testo del 1977, Dimenticare Foucault, Jean Baudrillard (1929-2007) contesta a
Foucault la trascendentalizzazione di queste strutture del sapere e del potere: la microfisica del
potere analizzata da Foucault, per quanto de-centralizzi la nozione classica del potere, che lo
identificava con il potere statale-politico, non raggiunge quella conclusione che ne sarebbe stata
l’esito necessario. La disseminazione del potere mostrerebbe che non esistono strutture
trascendentali del potere, che sono solo una costruzione teorica che ipostatizza il potere a partire
dalle libere scelte dei soggetti umani che non sono vincolate da alcuna struttura trascendentale
storica. A loro volta, le strutture del sapere non derivano necessariamente da strutture di potere, ma
più in generale sono generate da una libertà creativa. In una serie di testi, dal Sistema degli oggetti
del 1968, alla Società del consumatore: miti e strutture del 1970, fino a Per una critica
dell’economia politica del segno, del 1972 e Lo specchio della produzione del 1973, Baudrillard
aveva mostrato che il mondo dei segni non costituisce marxianamente una mera sovrastruttura
ideologica della struttura economica, ma esso stesso presenta un aspetto economico, con un suo
valore d’uso e di scambio, e svolge quindi un ruolo determinante la stessa struttura economica: anzi
lo stesso mondo degli oggetti, soprattutto nelle società post-industriali, si costituisce come un
mondo di segni sociali e produce una genesi ideologica di bisogni che fa sì che sia il consumo a
determinare la produzione e quindi la struttura economica della società. Le strutture delle società
contemporanea sono determinate dalle forme di comunicazioni dei segni, mediatiche, informatiche,
virtuali. Al modo della produzione degli oggetti, alla stessa ermeneutica dell’interpretazione, in una
critica radicale anche della psicoanalisi come economia energetica del desiderio e di un presunto
208
femminismo, Baudrillard contrappone il modo della seduzione (femminile) dell’apparizione degli
oggetti-soggetti de-semiotizzati al di là di ogni riduzione a un senso, a un significato, a una verità, a
una realtà che sono sempre prodotti della ragione: al posto della profondità del senso razionale o
inconscio, dell’intelletto o del sesso materiale (che è pure un effetto del discorso), bisogna ritornare
agli abissi superficiali della seduzione simbolica pura, in cui la Natura, la donna, le cose seducono i
soggetti (Della seduzione, 1979), ma non sono mai comprensibili razionalmente in discorsi di
verità. La loro immersione in un sistema di segni ci preclude l’accesso alla reale realtà degli oggetti
e ci consegna solo una versione simulata di realtà o di iperrealtà che sostituisce e provoca la
scomparsa della realtà. La de-materializzazione della realtà è tutt’uno con la fine delle
rappresentazioni razionali, la fine della storia e della politica, che caratterizzano la post-modernità.
All’economia dei segni, Baudrillard (Lo scambio simbolico e la morte, 1976) contrappone lo
scambio simbolico come dono (potlach), studiato in antropologia da Marcel Mauss (1872-1950)
come caratteristico delle società arcaiche, e che solo può decostruire il sistema economico dei segni:
secondo Baudrillard, l’esorcizzazione e l’esclusione della morte nelle nostre società è alla base di
tutti gli altri meccanismi di esclusione e discriminazione.
11. Jacques Derrida e il carnofallogocentrismo
Al di là delle soluzioni specifiche che ha dato ad alcuni problemi filosofici, l'importanza del
pensiero di Jacques Derrida (1930-2004) sta senz'altro in una serie di questioni critiche che ha
aperto. Il pensiero di Derrida è stato parte fondamentale anche della mia formazione, cosa che mi
spinse, ormai nel lontano 1988, ad andare a seguire le sue lezioni a Parigi.
Derrida parte da un’apertura sull'antropologia e sul mito portando all’attenzione filosofica l'opera
dell'antropologo André Leroi-Gourhan: questi ha messo in evidenza come nel Neolitico, con
209
l'invenzione della scrittura alfabetico-fonetico-lineare, ci sia stata la contrazione di un pensiero
complesso ad un pensiero lineare.122
Prima di questa transizione, i simboli sono disposti o su superfici bidimensionali o su volumi
tridimensionali, non sono direttamente legati o subordinati a fonemi, a suoni, e non sono ordinati in
una sequenza lineare come poi lo saranno con l’invenzione della scrittura fonetico-alfabetica
lineare: sono simboli multidimensionali e non-lineari, sono ideogrammi in cui le associazioni di
idee sono molteplici e in varie direzioni. Si tratta di un pensiero per immagini, multidimensionale,
non-lineare e complesso. A tali ideogrammi sono associate delle fonetizzazioni non univoche,
legate a dei rituali religiosi. Forse, alla scrittura fonetico-alfabetica, affermatasi intorno al 3000 a.
C., poi lineare, è da connettersi l’evento epocale più importante nella storia del pensiero umano: al
pensiero per immagini multidimensionale non lineare e complesso che si estrinsecava nei primi
simboli si sostituisce quasi totalmente un pensiero logico-verbale, linguistico, unidimensionale,
lineare e sequenziale. Si tratta di una riduzione estrema della complessità del pensiero per immagini
che resterà vivo solo in parte come sfondo ultimo su cui si fonda comunque il pensiero logicoverbale. Il pensiero matematico geometrico e la scrittura matematica non-fonetica e in parte nonlineare attuali sono residui di quell’arcaico pensiero complesso. Ed esito di ciò sarà il predominare
di una cultura scritta su quell’orale nel mondo greco del VI sec. a.C. e il separarsi di un logos dal
mythos con l’emergere di una nuova forma di sapere logico-filosofico, separato dalla religione, che
si oppone al sapere mitico, nella sua ricerca di un fondamento fisso, stabile, certo e univoco del
sapere: un sapere quello del logos basato ormai sulla scrittura lineare e non più su ideogrammi
associati in maniera multidimensionale come il mythos.
Derrida - pur non evidenziando che nelle considerazioni di Leroi-Gourhan era in questione la
possibilità stessa di una fondazione autonoma della filosofia che comunque ha le sue radici nel mito
(essendo impossibile una qualsiasi mito-logia filosofica) e va compresa antropologicamente in
modo concreto al di là della mera asserzione di un etnocentrismo occidentale - ha cercato
122
A. Leroi-Gourhan, Le geste et la parole: I. Techinque et langage; II. La mémoire et les rythmes, A. Michel, Paris
1964-65, tr. it. di F. Zannino, Il gesto e la parola, voll. I & II, Einaudi, Torino 1977, vol. I, pp. 221-254.
210
d’interpretare tali pratiche simboliche ideogrammatiche originarie come un’archi-scrittura trattabile
ancora all’interno di un nuovo sapere filosofico e ha interpretato la storia della metafisica
occidentale, dai presocratici ad Heidegger, come storia della metafisica della scrittura fonetica,
come storia del logos come phoné: come storia del logofonocentrismo, cui si contrappongono la sua
decostruzione e il nuovo sapere filosofico come grammatologia. quale scienza dei segni scritti.123
Qui Derrida eredita da Heidegger la convinzione di un continuum costitutivo della storia della
metafisica occidentale come storia, senza fratture, della metafisica dell'essere come presenza e
come onto-teologia, e la specifica ulteriormente come storia della metafisica del logos come phoné,
inserendovi dentro anche Heidegger.
Ora, non c'è dubbio che si può far risalire l'origine della metafisica alle astrazioni implicite nella
prima scrittura alfabetico-fonetico-lineare con la transizione da pratiche simboliche evocative e
iconiche a pratiche di segni denotativi e in parte convenzionali e arbitrari, la cui economia di
dominio della Natura e degli altri viventi è stata costitutiva della riduzione metafisica soggettivistica
di questi a concetti umani. Tuttavia, già la caratterizzazione heideggeriana della storia della
metafisica come un continuum senza soluzione di una onto-teologia è fallace: la storia del pensiero
cristiano non è tutta inscrivibile in esso; il Logos del Cristianesimo non è identificabile con il logos
della filosofia greca, e di ciò era consapevole la stessa prima riflessione di Heidegger.
L’esistenza di un simbolismo iconico non fonetico sulla scrittura alfabetico-fonetico-lineare viene
trasformata da Derrida in una priorità della scrittura sul linguaggio parlato, cosa ben diversa. In
questa prospettiva, Socrate e Platone (nel Fedro) determinano la tradizione filosofica successiva sul
primato del logos come parola parlata, come voce che si dà, per Platone, nel dialogo interiore
dell’anima con sé stessa, come costitutiva dell’anima stessa.
Derrida riprende così le tesi strutturaliste sul linguaggio elaborate da Ferdinand de Saussure:
considera quindi come primaria la struttura trascendentale della scrittura, per superare una
prospettiva soggettivistica e umanistica, come Heidegger voleva tematizzando l’essere, ma, per
123
J. Derrida, De la grammatologie, Minuit, Paris 1967, tr. it. di R. Balzarotti et al., Della grammatologia, Jaca Book
1969, pp. 5-7 e 97-100.
211
Derrida, però, non è possibile andare oltre i limiti della scrittura, e quindi questa dimensione non
soggettivistica e non-umanistica va ritrovata nella scrittura stessa; un testo scritto può essere
considerato indipendentemente da un soggetto umano che lo produce. Per lo strutturalismo
linguistico, il significato non risiede nell’intenzionalità del soggetto, in quello che il soggetto vuole
dire, ma nasce all’interno della struttura, dalle differenze fra i termini. Che non si possa andare oltre
i limiti della scrittura comporta però non solo che non si possa ricercare un significato esterno ad
essa, ma anche che non si possa determinare univocamente un significato anche interno alla
scrittura: eliminato un significato esterno, si può dare una molteplicità di significati potenzialmente
infinita, con una disseminazione del senso, con una deriva dei significati inarrestabile e non con una
mera polisemia. Mentre il linguaggio parlato indica la presenza di un soggetto, ed è quindi, per
Derrida, legato a una metafisica della presenza a un soggetto e di un soggetto, al contrario la
scrittura indica un’assenza, è la “traccia” di un’assenza, di qualcosa di mai attingibile, e la traccia è
segno di una differenza assoluta (différance) che non è più fra essere ed ente, ma fra scrittura ed
essere che cancella del tutto l’essere e il suo senso. La metafisica per Heidegger riduttiva dell’essere
ad enti semplicemente presenti viene reinterpretata da Derrida come metafisica della presenza a un
soggetto e di un soggetto, tipica del linguaggio parlato e della subordinazione ad esso della scrittura.
Il voler trovare o dare un senso per un soggetto, proprio del logos come linguaggio parlato, è non
solo pretesa illusoria ma anche violenza del soggetto umano, che riduce tutto a sé. Se questa
violenza si qualifica subito come propria del pensiero e della cultura occidentale, il logo-fonocentrismo si qualifica subito come un etno-logo-fono-centrismo. Ma c’è di più: perché in effetti nel
logos si strutturano e si legittimano tutte le relazioni di dominio, tutti i rapporti di violenza. Così, la
violenza dell’uomo maschio occidentale nei confronti della donna fa dell’etno-logo-fono-centrismo
un etno-fallogo-fono-centrismo, e la violenza sugli altri animali determina un etno-carno-fallogofono-centrismo. La metafisica del logos è così espressione non solo del dominio tecnico sulla
Natura come in Heidegger, ma della violenza del soggetto maschio occidentale carnivoro. Non è
212
possibile però, per Derrida, proporre una nuova filosofia priva di violenza, perché questa è insita nel
linguaggio: si può solo denunciarla e smascherarla.
L’esito della prospettiva di Derrida è quindi nichilistico nei confronti dell’ermeneutica: non c’è più
la prospettiva di una comprensione di un testo o della testualità generale propria della scrittura, ma
resta solo una molteplicità di interpretazioni. Derrida vorrebbe presentare questa sua prospettiva
come realizzazione della “morte di Dio” annunciata da Nietzsche, che qui si traduce nella morte del
senso. Tuttavia, il prospettivismo di Nietzsche è differente, è costitutivo della realtà del mondo
come per Leibnitz, e non è espressione di una deriva dei sensi di un testo.
La distruzione fenomenologica della metafisica operata da Heidegger e che porta a un’ontologia
ermeneutica si traduce in Derrida in una de-costruzione dei testi del logos, dei suoi sensi, attraverso
una deriva linguistico-interpretativa, attraverso la sovrapposizione di un’ipertestualità che si svolge
su testi molteplici paralleli per superare la linearità del pensiero sequenziale che si costituisce nella
scrittura alfabetico-fonetico-lineare. La deframmentazione di un testo fino alla disseminazione del
suo senso ha avuto applicazione nella critica letteraria fin anche dei testi biblici, dove il
decostruzionismo ha rappresentato un nuovo paradigma.
Seppure, la critica della violenza del logos della metafisica occidentale sia condivisibile in tutti i
suoi aspetti, è la specificità attribuita alla scrittura rispetto al logos che non convince: il logos
diventa cifra della metafisica dell’anima, invero, solo quando si astrae dalla concreta situazione di
dialogo e diventa soliloquio egoico che astrae e quindi nega l’altro; in questa prospettiva, anche la
scrittura è parola astratta dal dialogo concreto, e, anche quando si presenta sotto forma
apparentemente dialogica, è puro monologo escludente l’alterità. Pensare che la scrittura o un testo
si possa considerare come oggetto puro, indipendente dal soggetto che scrive, è un’illusoria
astrazione, e la disseminazione del senso non è indipendente da una pluralità infinita di atti
soggettivi arbitrari, che non fanno che moltiplicare all’infinito il soggettivismo.
213
La metafisica non è allora della phoné, in quanto tale e in quanto costitutiva dello spirito, come pure
Derrida ha pensato,124 ma della scrittura fonetica in quanto contrazione del pensiero astratto dalla
vita cui i simboli mitogrammatici erano sempre legati. E, in ogni caso, e contrariamente a quanto
affermato da Derrida, la metafisica non è solo metafisica della scrittura fonetica: anche la scrittura
non fonetica ha una parte fondamentale nella storia della metafisica occidentale, ed è questo che fa
comprendere come la metafisica non è della phoné in quanto tale. Quale scrittura non fonetica?
Certamente non i mitogrammi originari. La scrittura non fonetica della matematica e della scienza
ha avuto un ruolo fondamentale nella storia della metafisica: la scienza non è estranea o contraria
all'imperialismo del logos e del fallogocentrismo.125
Già nel momento in cui, nella rivoluzione neolitica, i simboli matematici aritmetici e geometrici
perdono il loro valore evocativo e diventano rappresentazioni e strumenti di calcolo e di misura, o
sostituti sacrificali nel pensiero, per il conteggio di capi di bestiame da allevare o da sacrificare e
per la misura di appezzamenti di terreni agricoli, essi costituiscono un logos mathematikòs di una
metafisica in cui i viventi e la Natura sono ridotti a quantità interscambiabili e che si pone come
ideologia e progetto di un dominio tecnico, di uno sfruttamento, di un assassinio sistematico degli
altri viventi e dello stupro agricolo della Natura archetipo della violenza fallocentrica sulla donna.126
Il pensiero topologico parmenideo e il pensiero geometrico platonico, ormai funzionali ad una
metafisica dell'essere come presenza da cui è stato escluso il tempo, costituiscono un logos
mathematikòs su cui si edifica una cosmologia e un'astronomia metafisica legata ad un'ontoteologia astrale che sarà dominante non solo nella filosofia e nella scienza greche ma anche nel
medioevo: la metafisica matematica platonica del cerchio e della sfera dominerà in astronomia e
cosmologia fino alla sua decostruzione con Giordano Bruno e Johannes Kepler.127
124
J. Derrida, La voix et le phenomenon, PUF, Paris 1967, tr. it. a cura di G. Dalmasso, introduzione di C. Sini, La voce
e il fenomeno, Jaca Book, Milano 1968; C. Sini, I segni dell'anima. Saggio sull'immagine,Laterza, Roma-Bari 1989.
125
J. Derrida, Della grammatologia, op. cit., p. 6.
126
E.R.A. Giannetto, Saggi di storie del pensiero scientifico, op. cit., pp. 37-41.
127
E.R.A. Giannetto, Saggi di storie del pensiero scientifico, op. cit., pp. 43-87 e 199-231.
214
La geometria meccanica di Archimede costituisce un logos mathematikòs technikòs che si identifica
con una metis mechaniké128 e sarà poi la base, nel corso della rivoluzione scientifica che portò alla
scienza moderna, della successiva riduzione della fisica a tecnica meccanica attraverso l'istituzione
del metodo meccanico-sperimentale galileiano, ovvero della scienza a tecnica; sarà la base della
concezione meccanicistica della Natura e degli animali ridotti da esseri viventi e animati a macchine
quale metafisica soggettivistica legata a un'onto-teologia meccanica e a una meccanizzazione e a un
dominio tecnico della Natura e dei viventi non umani, ormai consapevolmente epistemologizzato
quale scienza moderna non più sterilmente contemplativa ma tecnicamente produttiva secondo un
fallogocentrico baconiano <<parto maschio del tempo>>.129
Con la geometria analitica cartesiana, che, seppure riduce gli iconici simboli geometrici in arbitrari
convenzionali segni algebrici, permette di ricondurre ogni astratta dipendenza funzionale
matematica a un pensiero di immagini diagrammatiche,130 e con l'analisi del calcolo differenziale la
scienza moderna porta a provvisorio compimento la metafisica occidentale dell’essere come
presenza, della riduzione dell’essere ad ente semplicemente presente nella riduzione della Natura e
dei viventi a macchine deterministiche, costituite di mera materia inerte e passiva, quali meri oggetti
a disposizione dell'arbitrio manipolatorio tecnico della volontà di potenza del soggetto umano.131
Ma c'è di più: la scrittura non fonetica matematica, quale rappresentazione geometrica meccanica o
algoritmo di calcolo meccanico non ha svolto un ruolo fondamentale soltanto nella caratterizzazione
metafisica della Natura come oggetto, ma anche nella caratterizzazione metafisica del soggetto
umano come soggetto di conoscenza scientifica, come soggetto trascendentale quale controparte
dell'oggettivizzazione meccanica della Natura. Il soggetto trascendentale kantiano che, secondo
128
M. Detienne & J.-P. Vernant, Les ruses de l'intelligence – Les mètis des Grecs, Flammarion, Paris 1974, tr. it. di A.
Giardina, Le astuzie dell'intelligenza nell'antica Grecia, Laterza, Roma-Bari 1978.
129
E.R.A. Giannetto, Saggi di storie del pensiero scientifico, op. cit., pp. 63-65 e 235-266.
130
G. Pasqui, La scrittura delle scienze sociali, Jaca Book, Milano 1996.
131
E. Giannetto, Heidegger and the question of physics, in Proceedings of the "Conference on Science and
Hermeneutics" (Veszprém 1993), M. Feher, O. Kiss & L. Ropolyi, eds., Reidel, Dordrecht 1999, pp. 225-245; E.
Giannetto, "L'esterno dell'interno": il "paradigma" fisico dell'energia, in Le comunità scientifiche tra storia e sociologia
della scienza. Atti del Workshop (18-20 Aprile, 1991), a cura di G. Battimelli & E. Gagliasso, Serie di Quaderni della
Rivista di Storia della Scienza, n. 2 (1992), pp. 335-344; E. Giannetto, The Epistemological and Physical Importance of
Gödel's Theorems, in First International Symposyum on Gödel's Theorems, a cura di Z. W. Wolkowski, World
Scientific, Singapore 1993, pp. 136-147.
215
Adorno ripreso da Derrida,132 ha espunto da sé ogni traccia di vitalità e di animalità per porsi
cartesianamente come pura sostanza pensante, non è altro che l'introiezione nell'uomo della
soggettività matematica-sperimentale-tecnica della scienza moderna che preordina secondo la
calcolabilità e la misurabilità l'esperienza umana: le forme a priori dell'intuizione, che caratterizzano
il soggetto trascendentale come soggetto formale al di là dei particolari soggetti empirici, non sono
altro che l'introiezione della forma-spazio della scrittura non fonetica della geometria e della formatempo della scrittura non fonetica dell'aritmetica, dell'algebra e dell'analisi. Che queste forme vuote
siano introiettate dalla scrittura matematica è evidente dal fatto che devono garantire la certezza e
l'univocità della conoscenza scientifica.
Non è allora la voce, la phoné a costituire il soggetto umano come spirito, come pura sostanza
pensante dell'idealismo, ma la scrittura non fonetica matematica che costituisce come tale il
soggetto della conoscenza della scienza moderna quale soggetto matematico-sperimentale del
dominio tecnico della Natura e dei viventi non umani.
Il fondamento dello stesso carno-fallogocentrismo denunciato da Derrida,133 il fondamento
epistemologico cioè dell'etnocentrismo e del maschilismo occidentale, dell'antropocentrismo e dello
specismo che costituisce il nucleo profondo del moderno soggetto umano quale maschio carnivoro
occidentale è la scrittura non fonetica matematica.
Se quindi è la scrittura matematica ad aver costituito la base della caratterizzazione della Natura
come puro oggetto meccanico di un soggetto umano formale che la trascende e che la domina, al di
là di ogni controversia speculativa filosofica, si può allora decretare il crollo della metafisica
occidentale e dello stesso carnofallogocentrismo.
Con la costruzione delle geometrie non-euclidee già dalla prima metà dell'Ottocento, delle algebre
non commutative, delle aritmetiche e delle analisi non standard, delle teorie degli insiemi e delle
logiche matematiche devianti, ovvero con la pluralizzazione di scritture matematiche alternative e
132
J. Derrida, L'animal que donc je suis, a cura M.-L. Mallet, Galilée, Paris 2006, tr. it. di M. Zannini, a cura di G.
Dalmasso, L'animale che dunque sono, Jaca Book, Milano 2006, pp. 150-155.
133
J. Derrida, <<Il faut bien manger>> ou le calcul du sujet, intervista con Jean-Luc Nancy, in Cahiers Confrontation
20, 1989, ripresa poi come Après le sujet qui vient in Points de suspension, Galilée, Paris 1992.
216
incompatibili fra loro, si è delineata la “decostruzione” del fondamento univoco e certo della
metafisica occidentale e del carnofallogocentrismo.134
Con le rivoluzioni della fisica del Novecento, con le teorie della relatività, del caos e dei quanti, si è
delineato il crollo del materialismo meccanicistico e deterministico e della sua controparte, ovvero
dell'idealismo matematico alla base della metafisica occidentale quale progetto di dominio tecnico
della Natura e dei viventi non umani in una prospettiva carnofallogocentrica.135
In particolare, con le teorie della relatività si distrugge la metafisica dell'essere come presenza e
della riduzione dell'essere a ente semplicemente presente, si distrugge la concezione volgare del
tempo e si delinea la dimensione fondamentale del tempo autentico-proprio degli eventi, di un
Dasein fisico che caratterizza non solo l’essere umano ma tutte le parti della Natura quali viventi. 136
Nella fisica contemporanea si delinea l'auto-dissoluzione del logos mathematikòs quale metis
mechaniké del dominio umano violento sulla Natura e sugli altri viventi e quindi del
carnofallogocentrismo per altro ancora imperante nelle società umane.137
Non siamo destinati quindi a restare prigionieri del carnofallogocentrismo, della sua logica
sacrificale, violenta, carnivora e anche cannibalica della fagocitazione, reale o simbolica nella sua
forma sublimata del logos come phoné della scrittura alfabetico-fonetico-lineare, dei suoi linguaggi
e delle sue concettualizzazioni, di cui sarebbero partecipi anche i vegetariani o i vegani più
radicali.138 La prassi di vita di etica radicale vegana del cristianesimo originario o comunque
effettivo139, come amore universale e rispetto per ogni vita, in cui si fa esperienza di un altro Logos
che è Dia-logos e distrugge la logica sacrificale della fagocitazione reale o simbolica nel pasto
eucaristico è il corrispettivo concreto di quella teoria/teologia negativa fatta di quei teo-remata
134
E. Giannetto, The Epistemological and Physical Importance of Gödel's Theorems, op. cit.; E.R.A. Giannetto, Saggi
di storie del pensiero scientifico, op. cit., pp. 299-305.
135
E. Giannetto, Heidegger and the question of physics, op. cit.; E.R.A. Giannetto, Saggi di storie del pensiero
scientifico, op. cit., pp. 299-437.
136
E. Giannetto, Heidegger and the question of physics, op. cit.; E.R.A. Giannetto, Saggi di storie del pensiero
scientifico, op. cit., pp. 317-325.
137
E. Giannetto, Physis, Bios, Psyché e Logos: note verso una fisica come dissoluzione delle pratiche simboliche, in
Metaxù 8, 1989, pp. 43-60.
138
J. Derrida, <<Il faut bien manger>> ou le calcul du sujet, op. cit.
139
E. Giannetto, Il Vangelo di Giuda –traduzione dal copto e commento, Medusa, Milano 2006.
217
negativi che costituiscono l'auto-dissoluzione del logos mathematikòs quale metis mechaniké, che
può ridonare all'uomo quell'esperienza del mondo, della Natura, di cui le sue concettualizzazioni
intrinsecamente carnofallogocentriche lo avevano privato e che, all'opposto di quanto pensato da
Heidegger,140 è propria di ogni parte minima della Natura, di ogni vivente, di ogni animale senza le
fagocitazioni simboliche, o meglio dia-boliche, delle concettualizzazioni umane.
11.1 Heidegger, Levinas, Derrida: il Cristianesimo originario e la filosofia
La consapevolezza, solo recentemente raggiunta dai critici e neppure unanime, di una radice etica
cristiana continuamente operante nella filosofia di Heidegger, cambia completamente la prospettiva
del rapporto Heidegger-Levinas dal punto di vista della storia della filosofia. La critica di
Emmanuel Lévinas (1906-1995) ad Heidegger, effettuata sulla base di una rivendicata priorità
dell’etica come disciplina filosofica sull’ontologia, si rivela quantomeno un fraintendimento, perché
l’ontologia di Heidegger nasce dall’ esperienza etica, è basata sulla vita etica cristiana, anche se poi
la ontologizza. Levinas pone l'etica come "filosofia prima" e come metafisica che contrappone
all'ontologia: l'ontologia si confronta con un essere astratto e generale che costituisce una totalità
che schiaccia la singolarità degli esistenti; l'etica, invece, nel teorizzare l'esperienza dell'altro apre
alla trascendenza, all'infinito, a Dio come Assolutamente Altro, e diventa quindi metafisica.
Jacques Derrida (1930-2004) vede in Levinas141, e nell’irruzione con lui della tradizione ebraica in
quella della filosofia occidentale, un’alternativa alla tradizione greca cui associa non solo Husserl
ma anche Heidegger, ma anche questo è, almeno in parte, un grave fraintendimento. Heidegger,
invero, anche se non ci riesce, sulla scia di Kierkegaard introduce per primo nella tradizione greca
l’esperienza storica ed esistenziale del Cristianesimo originario per distruggere la tradizione
filosofica e teologica occidentale, l’astrazione teoretica della metafisica greca che si distacca dalla
140
M. Heidegger, Die Grundbegriffe der Metaphysik – Welt – Endlichkeit – Einsamkeit, Klostermann, Frankfurt am
Main 1983, tr. it. di P. Coriando, Concetti fondamentali della metafisica – Mondo – finitezza – solitudine, Il melangolo,
Genova 1999, § 42, pp. 230-232, § 47, p. 252; J. Derrida, L'animale che dunque sono, op. cit., pp. 199-222.
141
J. DERRIDA (1964), Violence et metaphysique. Essai sur la pensée d’Emmanuel Levinas, in L'écriture et la
différence, Seuil, Paris 1967; tr. it. di G. POZZI, Violenza e metafisica. Saggio sul pensiero di Emmanuel Levinas, in La
scrittura e la differenza, Einaudi, Torino 1971, pp. 99-198, in particolare pp. 102-106.
218
vita, per distruggere quel “ferreo ligneo” sorto dalla mistione del Cristianesimo medioevale con una
metafisica platonico-aristotelica, che si riduce a onto-teologia. Levinas disconosce il suo maestro e
Derrida in parte difende Heidegger142 rispetto ai fraintendimenti di Levinas, ma in parte legittima
Levinas in quest’operazione consapevolmente perseguita, perché Heidegger si era macchiato di
adesione al nazismo. Levinas fraintende in parte l’essere di Heidegger come un concetto metafisico
generale, anziché considerarlo nelle singolarità esistenziali degli enti: come concetto metafisico
generale precluderebbe l’esperienza effettiva dell’altro nella sua singolarità e ci sarebbe una
violenza teoretica della luce rivelatrice dell’essere143. Al contrario è invece vero che l’esperienza
etica originaria dell’alterità, propugnata da Levinas in relazione all’epifania del volto degli altri
(seppure solo umani, per Levinas), è l’esperienza etica che sta dietro la tematizzazione dell’essere
come con-essere-con-altri-nel-mondo alla base dell’onto-logia heideggeriana; il problema di
Heidegger è che, ontologizzando trascendentalmente l’etica, la neutralizza.
Levinas, che pensa l’io e l’altro assolutizzati come del tutto separati originariamente, non riuscirà
mai a potere colmare questa distanza che è già un’astrazione metafisica soggettivistica.
Chiaramente, Levinas parte dal presupposto non dichiarato di voler trovare nel pensiero di
Heidegger le radici del totalitarismo politico violento nazista e crede di poter ritrovare una totalità
nell’essere come concetto metafisico generale in cui le alterità singolari sarebbero schiacciate 144:
questo, però, non può che essere un fraintendimento malevolo, perché per Heidegger l’essere si dà
solo nelle singolarità degli altri a cui è legata la propria esistenza; queste singolarità non sono mai
riducibili o riconducibili a una totalità chiusa e anonima, ma costituiscono l’apertura originaria del
nostro essere singolare proprio perché l’essere si dà infinitamente in ulteriori alterità. La metafisica,
la teologia e l’ontologia della tradizione filosofica occidentale che Heidegger vorrebbe distruggere
sono la forme ideologiche del totalitarismo e della violenza della politica. Solo che il pensiero di
142
J. DERRIDA (1964), Violenza e metafisica. Saggio sul pensiero di Emmanuel Levinas, in La scrittura e la differenza,
op. cit., pp. 170-198.
143
J. DERRIDA (1964), Violenza e metafisica. Saggio sul pensiero di Emmanuel Levinas, in La scrittura e la differenza,
op. cit., pp. 106-138.
144
E. LEVINAS, Totalité et Infini. Essaie sur l’extériorité, Nijhoff, La Haye 1961; tr. it. di A. Dell’Asta, Totalità e
infinito. Saggio sull’esteriorità, Jaca Book, Milano 1980.
219
Heidegger astrae comunque l’essere dagli enti per superare il soggettivismo ontologico dell’io e per
dare una fondazione ontologica all’etica, per evitare la violenza della metafisica: così, per dare
forma filosofica trascendentale a quell’autentico pensiero non-violento, che è proprio
dell’escatologia etica del Cristianesimo originario, lo ingabbia in una tematizzazione trascendentale
dell’essere di una legge etica-ontologica che rischia di nullificare la moralità in termini di scelta
esistenziale.
Come spiega anche Derrida145, la pre-comprensione dell’essere è secondo Heidegger anche precomprensione pre-concettuale e pre-teoretica della divinità, precedente qualsiasi teologia o qualsiasi
opzione teoretica fra teismo e ateismo: per questo, Derrida146 dice che la prospettiva di Heidegger
non va confusa con alcuna teologia negativa (o più in generale con un’ontologia negativa), in
quanto comunque teoria; si può parlare, in una maniera non considerata da Derrida, di teo-logia
negativa (onto-logia negativa) in Heidegger, solo intendendo così un logos divino o dell’essere e
non teoretico umano. Ma in effetti l’ontologia di Heidegger riconduce la pre-comprensione a teoria.
Levinas coglie qui, inoltre, in Heidegger, però, un aspetto di paganesimo che
Derrida non
intravvede147. Questo perché l’ebraismo di Levinas, legato a una tradizione dominante nel
giudaismo, vede Dio come un Infinitamente Altro rispetto all’essere che è la Physis: questo fare
della Physis il luogo della manifestazione della divinità è per Levinas una sorta di divinizzazione
della Natura. Per Heidegger, invece, nella modernità, la Riforma Protestante, che recupera
quell’ebraismo, è all’origine di un processo di de-divinizzazione della Natura che porta
all’umanismo antropocentrico e preclude anche la pre-comprensione del senso di Dio148 (è da qui
che deriverebbe un’accusa metafisica all’ebraismo?). Heidegger, poi, riconsidera la Physis greca dal
145
J. DERRIDA (1964), Violenza e metafisica. Saggio sul pensiero di Emmanuel Levinas, in La scrittura e la differenza,
op. cit., pp. 182, 185-188, 192-194; M. HEIDEGGER (1946-1947), Brief über den “Humanismus”, Klostermann,
Frankfurt am Main 1976, tr. it. a cura di F. Volpi, Lettera sull’umanismo, Adelphi, Milano 1995 e in Segnavia, pp. 267315.
146
J. DERRIDA (1964), Violenza e metafisica. Saggio sul pensiero di Emmanuel Levinas, in La scrittura e la differenza,
op. cit., pp. 187-188.
147
J. DERRIDA (1964), Violenza e metafisica. Saggio sul pensiero di Emmanuel Levinas, in La scrittura e la differenza,
op. cit., pp. 185-187.
148
M. HEIDEGGER (1938), Die Zeit des Weltbildes, in Holzwege, Klostermann, Frankfurt am Main 1950; trad. it. a cura
di P. CHIODI, L’epoca dell’immagine del mondo, in Sentieri interrotti, La Nuova Italia, Firenze 1968, 1984, pp. 71-101;
E. R. A. GIANNETTO, Un fisico delle origini. Heidegger, la Natura e la scienza, Donzelli, Roma 2010, pp. 181-187.
220
punto di vista del pensiero dell’essere, legato comunque ad una prospettiva teologica cristiana:
l’essere non è Dio, la Physis come essere diventa dono, grazia, come il pensiero che è rivelazione e
non più discorso filosofico umano. Nel Cristianesimo originario, con cui Heidegger si è confrontato,
la prospettiva della Shekinàh ebraica si è radicalizzata nella considerazione dello Spirito Santo
come Ruchàh Qadòsh che vivifica la Natura dall’interno e nel rilievo del farsi carne del Logos
divino, rendendo la Physis ripiena di Dio. Solo che Heidegger antropocentricamente riduce il Logos
divino della Physis al logos umano.
Secondo Heidegger, Dio non è riducibile a un ente sommo, a un ente infinito, come determinazione
ontica dell’essere: sarebbe considerarlo come un ente fra altri enti, e l’infinito, rileva Derrida 149, non
permette una determinazione. La pre-comprensione dell’essere come con-essere-con-altri-nelmondo, formandosi solo in un’esperienza etica ontica, che Heidegger invece trascendentalizza, non
può, cristianamente, non basarsi sull’Amore che costituisce gli enti in questa connessione originaria
che precede qualsiasi azione etica umana: la pre-comprensione del con-essere implicitamente è precomprensione dell’Amore che è Dio150, e tale pre-comprensione, dopo la rottura originaria di questo
con-essere da parte dell’essere umano (“peccato originale”, un oblio totale della Physis), nella storia
dell’essere non potrebbe che basarsi sulla rivelazione storica di Dio-Amore in Gesù, che Heidegger
però come storia empirica trascura; chiaramente, questo non può essere un dato di un pensiero
filosofico umano, ma di un pensiero che deriva dalla fede che viene considerata da Heidegger solo
negli studi di Fenomenologia della vita religiosa.151 L’essere-di-Dio (che cristianamente è quindi
l’Amore che costituisce la trama degli enti della Physis), quindi è considerato implicitamente da
Heidegger all’origine della stessa differenza ontologica e dell’essere come con-essere152, ma non
149
J. DERRIDA (1964), Violenza e metafisica. Saggio sul pensiero di Emmanuel Levinas, in La scrittura e la differenza,
op. cit., pp. 192-194.
150
A questa conclusione sembra giungere Derrida: J. DERRIDA (1964), Violenza e metafisica. Saggio sul pensiero di
Emmanuel Levinas, in La scrittura e la differenza, op. cit., p. 188 e relativa nota.
151
M. HEIDEGGER, Phänomenologie des religiösen Lebens. 1. Einleitung in die Phänomenologie der Religion (WS
1920/21), a cura di M. JUNG e T. REGEHLY. 2. Augustinus und der Neuplatonismus (SS 1921). 3. Die philosophischen
Grundlagen der mittelalterlichen Mystik (1918/19) a cura di C. STRUBE, in Gesamtausgabe LX, Klostermann, Frankfurt
am Main 1995; tr. it. di G. GURISATTI, a cura di F. VOLPI, Fenomenologia della vita religiosa, Adelphi, Milano 2003.
152
J. DERRIDA (1964), Violenza e metafisica. Saggio sul pensiero di Emmanuel Levinas, in La scrittura e la differenza,
op. cit., p. 192.
221
può essere tematizzato come in Levinas, altrimenti si ricade nella metafisica e nella teologia che
riducono Dio a concetto, la verità a possesso umano e portano a un totalitarismo politico violento.
La possibilità di un pensiero non-violento, aspirazione di Levinas e negata da Derrida153, è invece
potenzialmente correlabile all’esito parzialmente non-filosofico e non greco della filosofia di
Heidegger, alla prospettiva di un pensiero poetante non oggettivistico, di un pensiero non umano
come rivelazione della Physis, come dono e come grazia da una parte e come rammemorazione,
ringraziamento e “pietà” (Amore) dall’altra: questo era implicito nell’inizio di Heidegger, volto a
superare il teoreticismo devitalizzante della filosofia greca, cui, sulla scia di Kierkegaard 154 pure
criticato per il suo soggettivismo, contrapponeva l’esperienza di esistenza autentica del
Cristianesimo originario.
In definitiva, in maniera nascosta e discreta – neanche Derrida se ne è reso conto155 -, è solo con
Heidegger che il Cristianesimo, dopo la sua confusione medioevale con la metafisica platonicoaristotelica, sarebbe potuto entrare nel pensiero occidentale, come radicale alterità al pensiero
filosofico greco, se Heidegger stesso non avesse ricondotto la Physis e l’esistenza all’antica
tematizzazione intellettualistica dell’ontologia greca dell’essere, che persiste anche nell’esito ultimo
heideggeriano presuntamente non-filosofico. Nell’ontologizzazione dell’etica e della storia operata
da Heidegger, questa rischia di restare chiusa nella dimensione comunque teoretica del pensiero e di
non manifestarsi nella prassi di vita se non di essere completamente elusa.
D’altra parte, Derrida ha ragione nel criticare l’idea heideggeriana del linguaggio come “dimora
dell’essere”,156 come luogo privilegiato in cui si possano incontrare le cose stesse, i fenomeni si
153
Derrida nega la possibilità di uscire fuori dal pensiero filosofico come logos umano che già nella predicazione fa
violenza alle cose: J. DERRIDA (1964), Violenza e metafisica. Saggio sul pensiero di Emmanuel Levinas, in La scrittura
e la differenza, op. cit., pp. 188-191, 194-197.
154
Derrida discute il rapporto fra Levinas e Kierkegaard: J. DERRIDA (1964), Violenza e metafisica. Saggio sul pensiero
di Emmanuel Levinas, in La scrittura e la differenza, op. cit., pp. 138-141.
155
J. DERRIDA (1964), Violenza e metafisica. Saggio sul pensiero di Emmanuel Levinas, in La scrittura e la differenza,
op. cit., pp. 196-198.
156
La critica di Derrida ad Heidegger si articola in molti testi, ma non è sempre condivisibile: J. DERRIDA, Geschlecht.
Différence sexuelle, différence ontologique, in J. DERRIDA, Psyché. Inventions de l’autre, Éditions Galilée, Paris 1987;
tr. it. di G. Scibilia, Geschlecht. Differenza sessuale, differenza ontologica, in J. DERRIDA, La mano di Heidegger, a
cura di M. Ferraris, Laterza, Roma-Bari 1991, pp. 3-29; J. DERRIDA, Geschlecht II: Heidegger’s hand, conferenza
pronunciata nel marzo 1985 presso la Loyola University di Chicago in occasione di un convegno organizzato da John
222
possano manifestare in sé stessi: si tratta comunque di un linguaggio umano, soggettivo, non si esce
quindi dal soggettivismo; c’è sempre uno scarto insuperabile fra il linguaggio e l’essere; il
linguaggio umano non è quello della Natura che ne comprende molteplici non umani; non si esce
dagli errori di prospettiva umana attribuendoli all’essere o alla Physis. Si riducono quindi le cose a
logos umano e si ricade comunque in una metafisica idealistica e soggettivistica umana: Derrida
chiama questa prospettiva “logocentrismo”, o “fallogocentrismo” evidenziando gli aspetti
patriarcali e maschilisti di questa cultura del logos, o anche “carno-fallogocentrismo” facendo
riferimento agli aspetti del logos come linguaggio umano, specista, antropocentrico modellato sul
carnivorismo e sulla fagocitazione umana di altri esseri viventi.157
Tuttavia, la proposta “positiva” di Derrida di risalire a una “archiscrittura” originaria, precedente il
linguaggio e la scrittura fonetica, a una scrittura iconica, ideogrammatica, indipendente dai soggetti
parlanti, indagata dalla scienza della grammatologia158, non permette di oltrepassare comunque la
soggettività umana e chiude la possibilità di qualunque accesso alle cose stesse, riducendo tutto il
sapere a un gioco scritturale che non è esente da un’ideologia, da una metafisica trascendentale che
non permette nemmeno alcun accesso etico alle cose e al mondo159.
Sallis, e successivamente pubblicata negli atti del convegno Deconstruction in Philosophy, University of Chicago Press,
Chicago 1987; poi come La main de Heidegger (Geschlecht II), in J. DERRIDA, Psyché. Invention de l’autre, Éditions
Galilée, Paris 1987; tr. it. di G. Scibilia, La mano di Heidegger, in J. DERRIDA, La mano di Heidegger, a cura di M.
Ferraris, Laterza, Roma-Bari 1991, pp. 31-79; J. DERRIDA, Heidegger’s Ears. Geschlecht IV: Philopolemology (conf.
del settembre 1989 alla Loyola University di Chicago), in J. Sallis (a cura di), Reading Heidegger. Commemorations,
Indiana University Pr., Bloomington – Indianapolis 1993, tr. it. di G. Chiurazzi, L’orecchio di Heidegger.
Filopolemologia, in J. DERRIDA, La mano di Heidegger, a cura di M. Ferraris, Laterza, Roma-Bari 1991, pp. 81-170; J.
DERRIDA, Heidegger et la question. De l'esprit et autres essais, Flammarion, Paris 1990; J. DERRIDA, De l'esprit:
Heidegger et la question, Galilee, Paris 1987; tr. it. di G. ZACCARIA, Dello spirito: Heidegger e la questione, Feltrinelli,
Milano 1989.
157
J. DERRIDA, <<Il faut bien manger>> ou le calcul du sujet, intervista con Jean-Luc Nancy, in Cahiers
Confrontation 20, 1989, ripresa poi come Après le sujet qui vient in Points de suspension, Galilée, Paris 1992; J.
DERRIDA, Après le sujet qui vient in Points de suspension, Galilée, Paris 1992 ; J. DERRIDA, L'animal que donc je suis, a
cura M.-L. Mallet, Galilée, Paris 2006, tr. it. di M. ZANNINI, a cura di G. DALMASSO, L'animale che dunque sono, Jaca
Book, Milano 2006.
158
J. DERRIDA, De la grammatologie, Minuit, Paris 1967, tr. it. di R. BALZAROTTI et al., Della grammatologia, Jaca
Book 1969.
159
Si veda anche la critica di Habermas a Derrida: J. HABERMAS, Il sopravanzamento della filosofia temporalizzata
dell’originario: la critica di Derrida al fonocentrismo, in Der philosophische Diskurs der Moderne. Zwölf Vorlesungen,
Surkhamp, Frankfurt am Main 1985; tr. it. di Emilio & Elena Agazzi, Il discorso filosofico della modernità. Dodici
lezioni, Laterza, Roma-Bari 1987, terza edizione 1991, pp. 164-188.
223
12. Luce Irigaray e la filosofia di genere
Luce Irigaray (1930) ha tentato di dare concretezza al discorso di Derrida sul fallogocentrismo,
fondando una vera e propria filosofia femminista della differenza sessuale (Speculum. L’altra
donna, 1974; L’oblio dell’aria, 1983; Amo a te, 1992; Essere due, 1994; La via dell’amore, 2002;
Condividere il mondo, 2008) cercando di de-costruire soprattutto la centralità del fallo maschile nel
pensiero psicoanalitico di Sigmund Freud (1856-1939) e di Jacques Lacan (1901-1981) e in
generale in tutto il pensiero filosofico occidentale, e di gettare le basi di un nuovo linguaggio e di
una nuova cultura dell’amore non maschilista. Il rapporto fondamentale nella formazione
psicologica della personalità e dell’identità e della differenza sessuale è il rapporto con la madre:
all’origine della civiltà ci fu non l’assassinio del padre, come per Freud, ma della donna madre, e
questo fu l’atto inaugurale di una società e di una cultura patriarcali e maschiliste, basate sulla
negazione del femminile. All’ordine simbolico lacaniano del logos del padre e del fallo va
sostituito, con Julia Kristeva (1941) (Séméiôtiké. Ricerche per una semanalisi, 1969; La rivoluzione
del linguaggio poetico, 1974), l’ordine semiotico della madre e della donna, delle immagini del
linguaggio dell’inconscio femminile, rimosso dalla coscienza maschile.
224
13. La tradizione italiana
“Si può dire che il tratto peculiare del pensiero italiano della prima metà del Novecento sia la sua
integrale storicizzazione. Con questo termine non mi riferisco soltanto alla consapevolezza, pure
netta nei suoi principali esponenti, della determinatezza storica della propria, come di ogni altra,
filosofia; quanto piuttosto alla tendenza, tacita o proclamata, a farsi esso stesso storia o, per usare
un’espressione più carica di risonanze, ‘pensiero in atto’ – inteso nel senso, insieme dell’azione e
dell’attualità...Rompendo con una concezione tradizionalmente intellettualistica, il pensiero italiano
novecentesco si ricollega, nello stesso tempo, ai caratteri profondi della propria genealogia. E ciò
non solo perché porta a compimento la vocazione pratica, o civile, che fin dalle sue radici la
connota. Ma anche perché fornisce una risposta radicale alla questione, posta drammaticamente
nella stagione precedente, dello scarto insanabile tra ‘la scienza e la vita’ – dell’eccedenza che
quest’ultima manifesta rispetto a tutti i tentativi di comprenderla concettualmente. La soluzione
adesso avanzata sta nel ribaltamento dell’ottica con cui il problema era stato fino allora guardato:
anziché cercare, invano, di costringere la vita nei parametri formali della filosofia, conferire alla
filosofia i caratteri concreti della vita. Per potere attingere una falda vitale refrattaria alla
dimensione del concetto, un pensiero che voglia essere all’altezza del proprio tempo non può che
calarsi in essa, facendosi appunto ‘pensiero vivente’. Ma perché ciò sia possibile – è l’ultimo, e più
drastico, passaggio del ragionamento – esso deve incrociare la politica o, meglio, riscoprire la
propria costitutiva politicità. Solo in questo modo, operando praticamente nel mondo, la filosofia
può davvero rivitalizzarsi, riconoscersi in una storicità che fa tutt’uno col movimento inesauribile
della vita...condiviso il progetto di fare della pratica filosofica una potenza storica destinata a
cambiare il mondo”. Così, Roberto Esposito descrive il pensiero filosofico italiano del
Novecento160. La filosofia italiana si ripropose il compito di delineare il carattere pratico di tutta la
filosofia, non solo della filosofia della Natura e della storia: tutta la filosofia si deve trasformare in
filosofia pratica. Rispetto al grande paradigma greco-tedesco dominante in filosofia, quello
160
R. ESPOSITO, Pensiero vivente. Origine e attualità della filosofia italiana, Einaudi, Torino 2010, pp.150-151.
225
teoretico, la filosofia italiana non poteva che risultare teoreticamente povera, ma questo è un
giudizio in base a un presupposto che invece dovrebbe essere dimostrato.
In Italia, che non ha vissuto la riforma protestante ma ha avuto solo l'umanesimo e il rinascimento,
oltre la scienza galileiana, questa opposizione di pensiero e fede non c'è mai: anche il contrasto
galileiano è esteriore, perché Galileo tenta una conciliazione fra pensiero e fede, come Bruno, non
mettendo limiti alla ragione per la fede, ma semplicemente ponendo una distinzione di due ambiti
ermeneutici separati ma illimitati: da una parte il libro della Bibbia, dall'altro il libro della Natura,
dove questo non è più fruibile secondo la vecchia metafisica greca teoretica ma dalla prassi di un
soggetto scientifico universale senza bisogno di soggettivizzare individualisticamente la fede che
resta legata alla comunità della Chiesa cattolica-universale. Così, in Italia, l'esito della modernità
non sarà anti-religioso o post-religioso e ateo come in Germania (o in Francia che ha conosciuto la
rivoluzione) attraverso una secolarizzazione che rifonderà
la modernità in senso deistico o
panteistico o ateo, ovvero non-cristiano, ma sarà cristiano-cattolico laddove, oltre la persistenza di
una metafisica neo-scolastica o ontologica cattolica, anche il più radicale immanentismo, da una
parte, dell'attualismo di Gentile si qualificherà come cristiano-cattolico, e, dall'altra parte, dello
storicismo di Croce arriverà alla spiegazione del Perché non possiamo non dirci cristiani (1942), in
una secolarizzazione e in un laicismo che si presentano non anti-cristiani ma come inveramenti
filosofici del Cristianesimo. La filosofia italiana non parte da Bruno, ma dalla rivoluzione
gioachimita e francescana, da una parte all'origine della storia dello spirito in cui si spiritualizza la
storia e si storicizza lo spirito, e d'altra parte all'origine del volontarismo e della prassi di vita,
distruttrici della metafisica greca e all'origine dell'umanesimo e del rinascimento. Posta sul piano
strettamente storico degli eventi, la modernità si presenta con varie facce perché in alcuni contesti ci
sono stati certi eventi come la Riforma che ha prodotto l'opposizione fra ragione e fede, e in altri
contesti come quello italiano cattolico non ci sono stati; e questo, come fa notare Esposito con
strumenti di geofilosofia deleuziana più che nazionalista hegeliana o poi spaventiana,
indipendentemente dalla costituzione di uno stato nazionale che in Italia si è formato solo dopo con
226
il Risorgimento, e quindi anche la secolarizzazione politica (con la negazione del potere temporale
della Chiesa e la confisca dei suoi beni e la riduzione ad un punto geometrico del suo territorio di
sovranità) è arrivata molto più tardi.
Ma in chi si realizzò effettivamente questo progetto di una filosofia pratica?
In Italia, fu Giovanni Gentile (1875-1944) con il suo libro su La filosofia di Marx (1899) a
enfatizzare la prospettiva di Marx come una filosofia della prassi. Maurice Blondel (1861-1949),
oltre e diversamente da Marx, aveva pure cercato di ritematizzare l’importanza fondamentale
dell’azione per la filosofia161 e insieme ad altri esponenti del modernismo cristiano del primo
Novecento ebbe una certa influenza sulla filosofia italiana.
161
M. BLONDEL, L’Action. Essai d’une critique de la vie et d’une science de la pratique, Alcan, Paris 1893 e poi Puf,
Paris 1950, 1973; tr. it. a cura di S. Sorrentino, L’azione. Saggio di una critica della vita e di una scienza della prassi,
San Paolo, Cinisello Balsamo (Mi) 1993, 1997.
227
14. Lo storicismo di Benedetto Croce
Anche Benedetto Croce (1866-1952) ebbe, in qualche modo, un percorso parallelo e divergente
insieme da quello di Gentile. Tanto che si parla, per riferirsi ad essi congiuntamente, di neoidealismo italiano. Il loro pensiero è stato messo da parte nel dopoguerra e poi dimenticato: la
qualifica di Gentile quale filosofo del fascismo è stata certo determinante, ma ancora di più la
volontà di chiudere i conti con il fascismo in una maniera netta ma superficiale, condannando tutta
la cultura italiana di quel periodo come arretrata e chiusa alle istanze esterne. Nel dopoguerra, in
Italia, sono dilagate le mode di praticamente tutte le correnti di pensiero non-italiano,
dall'esistenzialismo all'ermeneutica, dal marxismo alla fenomenologia, dal neo-positivismo alla
filosofia analitica. Croce fu soprattutto uno storico e fece coincidere la storia con la filosofia. C’è
l’influenza della teoria di Vico del verum/factum. Se la filosofia è conoscenza della realtà e la realtà
si presenta all’essere umano nella storia, allora la filosofia non può che identificarsi con la stessa
storia. Non fu un professore universitario e scrisse soprattutto sulla rivista da lui fondata nel 1903,
La critica, cui collaborò anche Gentile fino alla rottura del 1924. Fu senatore, presidente del partito
liberale ed ebbe grande influenza sulla storia politica italiana, dal 1925 con il suo manifesto degli
intellettuali antifascisti a dopo la fine della seconda guerra mondiale. Nel 1893 pubblicò La storia
ridotta sotto il concetto generale dell’arte. Anche Croce iniziò a misurarsi con Marx, su spinta
anche di Gentile, con dei saggi scritti fra il 1896 e il 1899 poi raccolti in un volume: Materialismo
storico ed economia marxista è del 1900. Seguirono nel 1902 Estetica come scienza
dell’espressione e linguistica generale, nel 1905 Lineamenti di una logica come scienza del
concetto puro, nel 1906 Ciò che è vivo e ciò che è morto della filosofia di Hegel, nel 1909 Logica
come scienza del concetto puro e Filosofia della pratica. Economia ed etica, nel 1915 Contributo
alla critica di me stesso, nel 1917 Teoria e storia della storiografia, testi in cui si dipanava quella
che chiamò “filosofia dello spirito”.
Lo spirito andava inteso, sulla scia della riforma dell’hegelismo tentata da Bertrando Spaventa
(1817-1883), come soggetto conoscente umano e non più come lo spirito assoluto di Hegel. La
228
storia come l’arte riguarda il concreto individuale ed è il risultato dell’azione degli esseri umani
concretamente esistenti. Croce concretizza la concezione della conoscenza come prodotto del
processo storico di Hegel, anche attraverso la ripresa della prospettiva del materialismo storico che
non aveva accettato gli schemi ideali aprioristici di spiegazione: si trattava di de-teologizzare e di
de-metafisicizzare la filosofia di Hegel. L’analisi marxiana del capitalismo è, invece, per Croce,
legata a un presupposto morale di giustizia, perché anche la teoria del plusvalore non tiene conto,
per esempio, di un fattore come il ruolo del capitale nella formazione del valore della merce.
La prima distinzione fra le attività dello spirito è quella fra attività teorica che riguarda la
conoscenza e attività pratica che è legata a obiettivi da realizzare nell’azione. Estetica e Logica
costituiscono rispettivamente la conoscenza dell’individuale e la conoscenza dell’universale. Le
attività pratiche sono l’economia come volizione dell’individuale e l’etica come volizione
dell’universale. La volizione effettiva coincide con l’azione. Ma mentre l’azione deriva dalla
volontà del singolo, l’accadimento storico deriva dal complesso di tutte le volontà individuali, del
tutto, ovvero dello spirito universale. A queste quattro forme d’attività dello spirito corrispondono
quattro categorie, quella del bello, del vero, dell’utile e del buono. Fra queste quattro forme, vi è
circolarità dello spirito, l’una presupponendo l’altra o convertendosi nell’altra, senza bisogno di un
rinvio a una realtà esterna.
La filosofia non ha un ruolo trascendentale al di là di queste attività dello spirito, ma il suo tipo di
conoscenza si dà solo all’interno di queste forme di attività: non costituisce un sapere separato.
L'arte, per Croce, è il momento aurorale dello spirito, come emergere dell'intuizione-immagine dalla
notte della psiche, il “sogno della vita teoretica”: è legata a quella speciale forma di conoscenza
creativa che è l'intuizione, una forma di pensiero per immagini che si oggettivano in un'espressione,
una conoscenza immediata e pre-logica, pre-concettuale che non distingue fra fantasia e realtà, una
forma di attività dello spirito autonoma dalle altre (erronee sono perciò le estetiche edonistiche,
utilitaristiche o etiche che subordinano il bello all’utile o al buono): si tratta di un'attività espressiva
interiore che solo secondariamente si estrinseca in delle opere; da questo punto di vista, non c'è più
229
distinzione delle arti, ma solo delle opere artistiche. Nel Carattere lirico dell’intuizione artistica del
1908, nel Breviario di estetica del 1912, in Il carattere di totalità della espressione artisitica (1917)
e in La poesia del 1936 si fa strada l'idea della cosmicità dell'arte come sintesi a priori di sentimento
e immagine e della critica come sintesi di pensiero e di sensibilità, ovvero sintesi di contenuto e
forma: laddove il sentimento ha una catarsi in un’immagine pura, qui pure si mostra la presenza di
motivi trascendentali nella filosofia di Croce, che, pur presentandosi come uno storicismo legato
alla storia concreta, presenta dei tratti di trascendentalismo nel riconoscimento del ruolo attivo del
soggetto conoscente nella conoscenza storica.
Il linguaggio ha un’origine fantastica o poetica, e, in questo senso, ogni essere umano che esprime il
suo vissuto in immagini fa poesia: homo nascitur poeta.
La logica, invece, come conoscenza dell'universale, è una conoscenza per concetti, che però
presuppone la conoscenza intuitiva individuale propria dell'estetica: i concetti sono come delle idee
platoniche incarnate nelle cose individuali, come le forme aristoteliche, che Croce indica come
universali concreti. Concetto è la bellezza o la bontà, ma non 'cane' o 'casa' che sono 'pseudoconcetti', in quanto legati a una molteplicità di intuizioni individuali non sussumibili in un
universale: si tratta di 'pseudo-concetti' empirici. Ci sono poi anche degli universali non concreti e
non esperibili, come le forme matematiche, per esempio geometriche, che sono dei 'pseudo-concetti
astratti'. Così, le scienze naturali empiriche sono legate a pseudo-concetti empirici, e fanno parte
dell'attività pratica dello spirito e non hanno quindi valore teoretico o conoscitivo; le scienze
matematiche sono legate a pesudo-concetti astratti e sono vuote di contenuto e quindi solo strumenti
utili per attività pratiche, per contare o misurare.
Che Croce non abbia compreso pienamente la portata filosofica della scienza moderna, vedendone
solo l’aspetto strumentale, di contro a una presunta vera universalità concettuale filosofica è certo e
che abbia contribuito a un paradigma dominante di sottovalutazione della scienza è altrettanto vero,
ma che Croce o l’idealismo abbiano contrastato o ritardato lo sviluppo della scienza è impossibile,
perché la scienza italiana di quell’epoca non è seconda
a quella di alcun altro paese: è la
230
storiografia del dopoguerra giustamente autocritica, ma pure negativamente distruttiva dell’identità
culturale italiana, ad aver creato un falso problema.
La logica non è più anteposta alla fenomenologia come in Hegel, cioè non si dà indipendentemente
dalla vita dello spirito. La filosofia non è, come in Hegel, una sintesi finale in cui si ha la fine della
storia.
Il pensiero filosofico è quindi un pensiero superiore che articola verbalmente concetti in un
linguaggio, che dà loro forma di giudizi universali o individuali: la filosofia è quindi un sistema di
concetti che attraverso un giudizio universale costituisce delle idee, ma trova espressione in giudizi
individuali storici, in cui elemento logico universale dei concetti ed elemento empirico individuale
si legano in una sintesi della conoscenza storica che, nel Croce maturo, si distingue quindi dall'arte
come conoscenza meramente intuitiva ed individuale: la filosofia è sintesi apriori logica di concetto
ed intuizione.
La filosofia è storia e muta storicamente: non si può costruire quindi una metafisica che dia accesso
a verità eterne sovra-storiche, né esiste una filosofia definitiva che valga sempre: la filosofia è la
stessa storia dello spirito in tutte le sue forme di attività, e si concretizza, in un dato momento, come
risposta ai problemi di quel momento. Questa storia non si presenta, come in Hegel o in Marx, come
una mera dialettica degli opposti, ma piuttosto come una dialettica anche dei distinti (lo spirito è
unità dei distinti, di cui ognuno è sintesi di opposti), come arte, religione e filosofia, in un
superamento del panlogismo hegeliano che aveva decretato la risoluzione di tutte le attività dello
spirito nella filosofia. Il concetto senza l'intuizione è vuoto.
L'economia è una forma autonoma di attività pratica dello spirito, che tende all'utile, mentre l'etica
(Croce sviluppa un'etica del lavoro) dipende dall'economia nel legare il bene all'utile senza ridurlo
però all'utile. La religione è ridotta da Croce all'etica, alla filosofia e per i miti alla poesia e
all'estetica, come all’economia per l’organizzazione ecclesiastica. Il diritto e la politica si riducono
in qualche modo all'economia con l'uso di pesudo-concetti: non c'è primato dello stato sugli
individui, ma è fondamentale la volontà individuale. La storia però non è dei singoli, ma
231
dell'umanità nel suo complesso. Le res gestae si danno solo nell'historia rerum gestarum, nella
storiografia come conoscenza dell'universale concreto: la filosofia si qualifica quindi come quella
parte della storiografia che è la sua metodologia, il chiarimento delle sue categorie di conoscenza.
La storia è sempre contemporanea nel senso che ha a proprio oggetto l'attività pratica dello spirito,
l'azione etica e politica per l'interesse che il passato può avere per il presente: non giudica
eticamente, non è giustiziera, ma giustificatrice nella comprensione degli eventi. Ma, nei saggi che
compongono La storia come pensiero e come azione (1938), è sottolineato il ruolo emancipatorio
della storia per fondare l'azione efficace nella storia, per la lotta contro il “male” e per il progressivo
realizzarsi della libertà; Croce delinea così una “religione della libertà” di una storia etico-politica
come azione, anche in parte superando la visione hegeliana per cui coincidono essere e doveressere, realtà e razionalità con la riduzione della realtà del male a mero momento negativo della
storia solo per opposizione e non in sé, tanto da fargli giustificare anche la guerra. Croce cambierà
pensiero fino alla fine della sua vita, diventando meno ottimista e parlando di una forza bestiale che
è sempre presente nell’umanità e che costituisce un’irredimibile peccato originale che può portare a
La fine della civiltà (1946).
232
15. Giovanni Gentile e l’idealismo attuale
Gentile cercò di riacquisire
gli esiti marxisti ad un idealismo post-hegeliano: si trattava di
riconoscere l’inconciliabilità della marxiana filosofia della prassi con la concezione del
materialismo storico e di riacquisire all’idealismo la verità secondo cui “quando si conosce, si
costruisce, si fa l’oggetto, e quando si fa o si costruisce un oggetto, lo si conosce; dunque l’oggetto
è un prodotto del soggetto”. Così, Gentile, ribadendo la posizione di Vico ne assumeva anche
l’inversa.
Si spostava così dalla statica idea platonico-hegeliana al processo concreto del pensare,
considerando il pensiero una vera attività, in cui unitariamente stabiliva un’identità di teoria e
prassi; si trattava di ristabilire la dialettica dello spirito come actus purus, differente dall’actum
aristotelico statico in quanto potenzialmente infinita attività dinamica. Questa è la filosofia
dell’attualismo, del pensiero come atto puro.
Il riferimento di Gentile è alla Riforma cattolica di Gioberti del 1856-1857, e al modernismo
cattolico: alla poligonia del cattolicesimo come universalismo che contiene tutti. Invece, per Gentile
non c’è opposizione fra pensiero e fede, ma fra pensiero greco e fede. Gentile, nel 1906, scrive I
saggi di filosofia dell’azione del Laberthonnière, compreso in Il modernismo fra religione e
filosofia, e contrappone all’idealismo greco antico, quello moderno, cristiano, che considera la
verità non statica o già fatta, ma dinamica, storica come nella rivelazione, e Dio stesso non quello
greco immobile, perché Dio agisce e ama, s’incarna, come avrebbe compreso Hegel nella
fenomenologia.
La soggettivizzazione fichtiana dell'hegelismo operata da Bertrando Spaventa e compiuta in Gentile
lo ha de-realizzato, risogettivizzando l'idealismo, e ha ricondotto la storia del mondo a storia
dell'essere umano come nella materializzazione marxista della dialettica storica hegeliana, ma
trasponendo il piano della prassi sul piano del pensiero, dando concretezza al pensiero, anche
politica o etica, ma allo stesso tempo riducendo la storia, la politica, l'etica alla dimensione del
pensiero. L’essere di Gioberti diviene così immanente al pensiero. Gentile contrapponeva al
233
materialismo della cultura illuministica francese una nuova prospettiva religiosa che s’inverava
nella filosofia e che riprendeva lo spiritualismo di Rosmini e Gioberti.
L’attualismo o idealismo attuale, preannunciato nel 1911, vede in una pubblicazione del 1912,
L’atto del pensare come puro. Nel 1913 escono i saggi della Riforma della dialettica hegeliana e il
Sommario di pedagogia come scienza filosofica. Nel 1916 appare la Teoria generale dello spirito
come atto puro, insieme a I fondamenti della filosofia del diritto. Il Sistema di logica come teoria
del conoscere è in due volumi, il primo del 1917 e il secondo del 1923.
Si tratta di un soggettivismo immanentistico assoluto, che rende la storia, la natura e Dio come
immanenti al pensiero. La stesso spazio e lo stesso tempo non sono più i connotati materiali
dell’attività pensante, ma sono prodotti del pensiero.
Alla dialettica del pensato di Hegel, Gentile contrappone la dialettica del pensiero pensante, al logo
astratto un logo concreto che non presuppone astrattamente un mondo dato indipendentemente dal
pensare stesso: questo comporta che la fenomenologia dello spirito non presuppone la logica come
sua legge apriori, ma la logica si dipana nella stessa fenomenologia. Per Gentile, la logica
aristotelica è la logica del logo astratto, mentre la logica dialettica hegeliana è la logica del logo
concreto. L’altro dal pensiero è quindi posto dal pensiero stesso e non può essere altro che il
pensiero pensato, che si è fissato ed è diventato fatto, natura. Per poterci essere dialettica, però, la
sintesi non può essere finale, ma originaria, altrimenti non ci potrebbe essere movimento da un
opposto all’altro, che costituiscono dei pensati e come tali sono fissi. Il pensiero pensante racchiude
in sé soggetto e oggetto del pensiero. Conoscere è quindi riconoscere nel pensiero pensante
l’identità degli opposti, in qualche modo identificare e inglobare l’alterità nell’identità: gli altri non
esistono realmente fuori dall’io trascendentale. Il pensiero pensante, l’atto stesso del pensare è però
il soggetto trascendentale e non l’io empirico che è un dato: si tratta quindi di un processo autocostruttivo e non una sostanza statica. Comunque, questa prospettiva rischia non solo di risolversi in
un solipsismo trascendentale, ma anche di risolvere la stessa dialettica nell’identità, come anche di
risolvere il male a una mera astrazione superata dal bene attuale.
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Le scienze naturali ricadono quindi nel logo astratto, riducendo ad oggetto, a dati empirici di
soggetti empirici, la natura: la Natura vera, cioè la realtà, si deve identificare invece con la stessa
attività dello spirito e la vera scienza con la filosofia del pensiero pensante. Le scienze naturali
costituiscono delle astrazioni che hanno valore meramente pratico, e che inglobano in sé una
posizione filosofica naturalistica, materialistica e meccanicistica.
L’arte rappresenta il sentimento come soggettività, la religione, a quella antitetica, la negazione del
soggetto in quell’oggetto che è Dio. La vera arte si realizza con la sua morte e il suo dissolversi
nella sintesi della filosofia. Lo stesso vale per la religione. La filosofia fonde insieme arte e
religione in una sintesi che le supera, che è propria del pensiero pensante: laddove la religione pone
un processo di creazione del soggetto da parte di Dio, cioè di eteroctisi, nella filosofia il soggetto
trascendentale è artefice della propria auto-creazione, ovvero dell’autoctisi, e si rivela quindi come
lo stesso Dio, non più concepito come un oggetto trascendente. La filosofia sostituisce alla
rivelazione la conoscenza, alla grazia la volontà produttrice del bene, a Dio come oggetto
trascendente un soggetto che si identifica misticamente con esso, all’immortalità dell’io empirico
l’assenza di morte per l’io trascendentale. Il male è solo un momento nella dialettica del pensiero
pensante, che nel momento in cui ne è consapevole lo supera come un errore. In questa prospettiva,
Gentile riconosce al cristianesimo lo statuto della religione più alta, inverata dalla filosofia: infatti,
il dogma dell’incarnazione, ovvero il dogma dell’Uomo-Dio in qualche modo è considerato
inverato in quel processo del pensiero pensante in cui io umano e Dio vengono a coincidere.
La stessa pedagogia di Gentile considera l’educazione come auto-educazione e riduce in qualche
modo l’altro da educare alla soggettività dell’educatore che lo pensa.
Se la storia è anche interna al pensiero pensante, allora non c’è differenza fra res gestae e historia
rerum gestarum: la storia s’identifica con la stessa storia della filosofia, e quindi con la filosofia in
quanto processo del pensiero pensante: così per fare filosofia occorre fare storia della filosofia e per
fare storia della filosofia occorre fare filosofia.
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Per Gentile, c’è quindi una profonda unità dello spirito e non si devono distinguere varie forme di
attività come in Croce: non c’è neppure possibile distinzione fra teoria e prassi, perché il conoscere
è un fare. In effetti, però, Gentile riduce la prassi a teoria, più che la teoria a prassi: al di là dei
giochi di parole, che vorrebbero ridefinire il pensiero pensante come un’attività pratica, costruttiva e
non passiva come la contemplazione, si tratta sempre di un’attività teoretica che ha fagocitato
dentro di sé la prassi come prassi del pensiero.
Nel 1943, nel momento in cui si istituisce la repubblica di Salò, Gentile scrive Genesi e struttura
della società, pubblicato poi postumo nel 1946. Qui, si confronta con il tema della società e dello
stato etico hegeliano: neanche in questo caso però riesce a superare la sua posizione di
soggettivismo immanentistico, per cui la società è già e solo contenuta all’interno dell’io
trascendentale. Si tratta quindi di una società trascendentale (societas in interiore homine) e l’eticità
è già tutta dispiegata nel pensiero pensante dell’io trascendentale: l’unità di logica ed etica è quindi
considerata in termini di una riduzione dell’etica alla logica dialettica. Lo stato è la coscienza del
volere come volere comune e universale, e non è quindi un dato istituzionale, ma un atto stesso che
crea la nazione. La legge è volontà voluta dallo stato come autocoscienza del soggetto
trascendentale come volontà universale, come volontà volente universale, a cui devono subordinarsi
le volontà individuali. Non si può definire una libertà individuale al di fuori della società
trascendentale che si costituisce in stato, e la vera libertà è una libertà che riconosce
consensualmente allo stato il diritto di una forza coattiva degli individui. L’etica politica di Gentile
trova così la sua forma più alta nello stato etico, portando a una legittimazione dello stato totalitario
fascista. Certo, il fascismo di Mussolini è soprattutto prassi rivoluzionaria e poi statale che legittima
la violenza, ma non su un piano ideale che come tale è ancora marxianamente inteso come ideologia
che costituirebbe un’astrazione teorica dall’effettiva azione politica: non si può quindi identificare
con il neo-idealismo gentiliano, che, però, attraverso l’affermazione dell’identità di teoria e prassi e
della società trascendentale con lo stato etico-politico ne costituì un personale tentativo di
legittimazione ideologica.
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16. Dopo Croce e Gentile
Antonio Gramsci (1891-1937) ebbe un’esistenza condizionata dalla condanna e dal carcere dove fu
dal 1928 alla morte per attività anti-fascista; ne nacquero i cosiddetti Quaderni del carcere in cui si
trovano le sue riflessioni più mature. Cercò una via personale al marxismo: fece proprie le istanze
gentiliane di identificazione di teoria e prassi, ribaltandola marxianamente in una filosofia della
prassi materiale; allo stesso modo, fece proprie le istanze della storia etico-politica di Croce che lo
portarono a una rivalutazione, rispetto alla storia puramente economica marxiana, del momento
dell’ideologia rivoluzionaria, non considerata più come una mera sovrastruttura passiva, ma come
un’attività in grado di produrre un cambiamento della struttura economica della società, svolgendo
un ruolo di egemonia culturale: l’intellettuale deve risultare organico al partito e all’azione
rivoluzionaria.
Mentre il pensiero di Croce, nonostante la qualifica del suo pensiero come una filosofia non
definitiva e contingente, come risposta storica a particolari problemi storici, diede vita, da parte dei
suoi allievi, sostanzialmente a una scolastica crociana, il pensiero di Gentile, o meglio, l’attualismo
si configurò come un movimento volto alla concretezza del pensiero, anche in direzioni molto
diverse da quella di Gentile.
Si distingue solitamente una destra gentiliana, sostanzialmente volta a riaprire una metafisica
ontologica cattolica: legati a questa tendenza si possono ricordare Armando Carlini (1878-1959) e
Augusto Guzzo (1894-1986). Si può poi anche ricordare Vincenzo La Via (1895-1982), che, data la
coincidenza di pensiero e realtà nell’attualismo, lo trasformò in un “realismo attuale” in cui non è
l’essere ridotto al pensiero, ma è il pensiero a essere ricondotto a un darsi dell’essere, con tratti
simili alla posizione di Heidegger in cui vi è rivelazione dell’essere nel pensiero.
Alla sinistra gentiliana, si riconducono l’idealismo etico di Giuseppe Saitta (1881-1958), il
problematicismo di Ugo Spirito (1896-1979), che arriva a conclusioni che riconducono la filosofia e
il pensiero in atto allo spirito scientifico problematizzante tutto. Anche Guido Calogero (19041986), viene legato alla sinistra gentiliana e all’attualismo. Tuttavia, il fraintendimento
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dell’attualismo come movimento con l’idealismo attuale di Gentile, ha fatto sì che il pensiero di
Calogero venisse appiattito su quello di Gentile, senza che si comprendesse che ne costituiva
un’alternativa radicale.
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17. Guido Calogero e la filosofia del dialogo
Guido Calogero (1904-1986) nasce a Roma nel 1904. Il padre, Giorgio, di origini messinesi,
studioso di letteratura francese, si era però interessato di filosofia etica e politica su cui aveva
pubblicato alcuni volumi, in particolare sul socialismo anarchico e sul pensiero di Tolstoj. La
madre, Ernesta Michelangeli, era la prima donna laureata in lettere all’Università di Messina, aveva
pubblicato un testo sulla donna in Grecia ed era figlia di Luigi Michelangeli, studioso e docente di
filologia greca. Nel 1920, Guido, educato alla letteratura pubblicò il suo primo libro: di poesie. In
università iniziò a studiare letteratura e filologia greca e solo dopo cambiò e studiò filosofia. Nel
1924 fece l’esame di storia della filosofia con Giovanni Gentile, mettendolo in difficoltà: portò tutto
Platone in greco. Si laureò subito dopo, nel 1925, con Gentile con una tesi sulla logica di Aristotele:
da questa tesi, nacque il volume su I fondamenti della logica aristotelica (1927).
Ma già del 1925 era un saggio in cui aveva definito in una prima forma la sua filosofia (Coscienza e
volontà). Ottenne la libera docenza in Storia della filosofia antica già nel 1927 (a ventitré anni) e
andò con una borsa di studio ad Heidelberg. Poi fu per tre anni incaricato di Storia della filosofia
antica all’università La Sapienza di Roma. Del 1928 è la traduzione e l’introduzione al Simposio di
Platone. Già dal 1929 fu schedato come antifascista per attività sovversiva. Dal 1929 iniziò la
collaborazione all’Enciclopedia Italiana Treccani fino al 1937, per cui scrisse migliaia di voci.
Vinse la cattedra a 27 anni, nel 1931, e andò a insegnare a Firenze. Del 1932 sono gli Studi
sull’eleatismo; nel 1934 si trasferì a Pisa dove nel 1935, finito lo straordinariato, fu nominato
professore ordinario in Storia della filosofia. A Pisa iniziò a tenere corsi anche alla Scuola Normale.
Non poté trasferirsi in altre università per la mancata adesione al partito fascista. Nel 1937 ottenne
la laurea in giurisprudenza a Siena, anche temendo l’espulsione dall’università: già dal 1937 infatti
aveva iniziato l’attività clandestina, ponendosi come un punto di riferimento per l’elaborazione del
Manifesto del liberalsocialismo, con Aldo Capitini (1899-1968) nel 1940. Pubblicò nel 1934-1936
il Compendio di Storia della Filosofia, La conclusione della filosofia del conoscere, è del 1938 (del
1960 è una seconda edizione ampliata). Del 1939 è La scuola dell’uomo (1956, in seconda edizione
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ampliata), del 1944 Il metodo dell’economia e del marxismo, del 1945 la Difesa del
Liberalsocialismo, del 1946 Etica, giuridica, politica, del 1947 Estetica, semantica, istorica, del
1948 Logica, gnoseologia, ontologia, tre volumi (scritti in gran parte in carcere) che costituiranno le
Lezioni di Filosofia. Calogero fu arrestato il 27 Gennaio del 1942 a Firenze, sospeso e poi destituito
dalla cattedra universitaria. Poi fu condannato a 2 anni di confino e mandato al confino a Scanno,
negli Abbruzzi. Fu liberato, ma nel 1943 fu di nuovo recluso nel carcere di Bari e liberato solo dopo
la destituzione di Mussolini del 25 Luglio. Fu poi reintegrato come docente all’università di Pisa,
mentre nella prospettiva liberalsocialista, in contrasto con Croce, fondò il Partito d’Azione nel
1942-43. Dal 1948 al 1950 fu visiting professor in Canada e negli Stati Uniti.
Una sua nuova prospettiva filosofica è presentata in Logo e dialogo che è del 1950, e poi nella
Filosofia del dialogo del 1962.
Dal 1950 al 1955 fu direttore dell’istituto italiano di cultura a Londra. All’università di Roma tornò
ad insegnare Storia della filosofia antica dal 1950 al 1954 e fino al 1966 Storia della filosofia, e poi
passò a Filosofia Teoretica che insegnò fino al 1975, e nel 1981 divenne professore emerito. Nel
1967 era apparsa la Storia della logica antica, sui presocratici. Le sue pubblicazioni appurate sono
più di duemila.
E' molto importante questa doppia formazione insieme a questa doppia tipologia di ricerca, da una
parte di storia della filosofia, in particolare antica, e di filosofia teoretica, che lo ha sempre
caratterizzato. La visione della storia della filosofia, che Calogero si è fatto e che trova un primo
compimento nell'opera didattica del Compendio di Storia della filosofia, è quella che è stata seguita
fin qua: si tratta appunto del riconoscimento dell'intellettualismo greco che si contrappone al
volontarismo cristiano. Nel momento in cui il volontarismo cristiano, dopo la parentesi conciliativa
medioevale, si emancipa dalla filosofia teoretica pura espressione dell'intellettualismo greco, sorge
la modernità: il pensiero moderno è un inveramento filosofico della prospettiva cristiana della fede.
Ma questo non è che lo schema generale.
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Calogero è stato considerato quasi sempre essenzialmente come storico della filosofia antica,
mentre la sua produzione teoretica è stata sottovaluta. La filosofia di Calogero è stata spesso
considerata come una mera variazione della posizione di Gentile: questo è accaduto anche per
l’iniziale presentazione del suo pensiero come il vero attualismo. Eventualmente, gli si è
riconosciuto il tentativo di integrare all’interno della prospettiva di Gentile quella di Croce: anche in
questo caso presentato dallo stesso Calogero come una sorta di inveramento del crocianesimo; per
cui sostanzialmente la sua filosofia non sarebbe originale, ma una sorta di sintesi, più o meno
plausibile o riuscita, di quelle due prospettive.
In verità, negli anni, Calogero ha operato una distruzione del neo-idealismo italiano di Gentile e di
Croce, e con questo, considerato come culmine di tutta una tradizione filosofica occidentale, greca e
intellettualistica, di tutta la filosofia nella sua mono-logicità e prospettato una nuova filosofia del
dialogo.
Alla certezza logico-gnoseologico-metafisica del cogito, ergo sum, per Calogero va sostituita la
certezza della volontà della fede morale di un tecum loquor, ergo es. All’esistenza dell’io,
l’esistenza degli altri, dei tu.
Si tratta dell’amo, dunque sono di Sibilla Aleramo (1876-1960). L’amamus, ergo sumus di Roger
Garaudy (1913-2012). Noi è il pronome filosofico. Noi non siamo se non per gli altri che ci
riconoscono come tali, non siamo se non negli altri. Noi non conosciamo se non con gli altri. Questa
è la condizione di possibilità della nostra esistenza e della nostra consapevolezza del mondo. Questa
nostra condizione non è un male metafisico, ma costituisce la nostra possibilità di comprendere la
realtà dell’Amore. Ricadiamo in questo male, che non è metafisico ma morale, se non trascendiamo
la nostra condizione soggettiva e individuale e umana nell’Amore.
L’angoscia autentica non è mai egoistica, ma è un’angoscia per gli altri; non è mai per un nostro
astratto essere nulla, ma per il nulla che noi siamo senza gli altri, nella separazione dagli altri. Si
può essere felici soffrendo quando si ama, non perché masochisticamente si provi piacere soffrendo,
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ma perché l’amore permette di partecipare della felicità altrui superando i limiti del proprio ego: è
questo che intende san Paolo in I Corinzi 7.29-31.
Il male fisico, la sofferenza e la morte costituiscono altresì la condizione di possibilità per
trascendere la propria soggettività individuale e conoscere la realtà dell’Amore. Si soffre e si muore
per Amore. Il problema del male si risolve nell’Amore. Il bene non è il bene individuale, ma è
l’Amore: l’Amore vince la sofferenza, la morte, il male individuale, superandoli, proprio come il
senso della vita non è nella propria ma in quella degli altri. La soluzione del problema teologico e
filosofico del male non è metafisica, ma morale.
I Giov. 3.14 Noi sappiamo che siamo passati dalla morte alla vita, perché amiamo i nostri fratelli e
le nostre sorelle. Chi non ama rimane nella morte. Questo si contrappone a Esodo 3.14: Io sono
colui che sono.
Dio non esiste metafisicamente: Dio esiste nell’Amore, l’Amore è Dio (I Giov. 4.8 e 16). Chi non
ama, ricade nel nulla.
Calogero chiarisce il senso della vita per tutti attraverso la prospettiva etica cristiana: non solo si
deve agire per la felicità degli altri nel superamento dell’egoismo e si deve imparare a essere felici
per gli altri seppure individualmente sofferenti, ma questo ci fa capire che la nostra vita ha senso
anche se solo sofferenza, anche se la morte ci coglie in un fallimento individuale o lo segna, perché
il senso della nostra vita è nella realizzazione della vita di altri, anche della vita di altri “futuri”.
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