ARIA TERRA ACQUA FUOCO: DA PAGUS AD URBS Il Ratto delle Sabine Fatta Roma, bisognava fare i Romani. Il primo problema che Romolo dovette affrontare fu quello di popolare la sua neonata Città che era già «così potente da poter rivaleggiare militarmente con qualunque popolo dei dintorni» (Livio, Ab Urbe Condita). Poiché le risorse umane locali scarseggiavano, Romolo pensò bene di creare sul Campidoglio l’Asylum, un luogo di rifugio dove potevano trovare riparo fuorilegge, banditi, ladri, assassini e perfino schiavi fuggitivi, ai quali veniva poi concessa la cittadinanza romana. Il problema, però, era ancora irrisolto perché mancavano le donne: senza famiglie, senza posterità, la vita sociale non era possibile. In un primo momento Romolo si comportò da gentiluomo ed inviò ambascerie nei paesi vicini per cercare alleanze e soprattutto mogli. Ma i popoli confinanti, già preoccupati per l’incipiente grandezza di Roma, si rifiutarono di dare le loro figlie in spose a quegli uomini che godevano di pessima fama e consigliarono i Romani di «aprire a Roma un asilo anche per le donne, che allora sarà davvero un degno accoppiamento» (Livio, Op. cit.). I Romani non la presero bene, ma fecero finta di nulla e ricorsero all’astuzia: allestirono dei giochi solenni in onore del dio Conso e invitarono i Sabini, i Ceninensi, gli Antemnati e i Crustumerii allo scopo di rapire le loro donne nel bel mezzo dello spettacolo. Attratta dall’avvenimento, e curiosa di vedere da vicino la nuova città, arrivò moltissima gente. La festa era in pieno svolgimento quando, a un segnale convenuto, Romolo e i suoi uomini estrassero le spade, catturarono le giovani donne prendendole in braccio e misero poi in fuga i loro padri e fratelli. A parziale discolpa dei Romani, gli storici dell’epoca riportarono che non venne rapita nessuna donna maritata, ad eccezione di Ersilia della quale ignoravano la condizione di mater familias. Il numero delle fanciulle rapite varia molto secondo gli autori: per Livio erano 30, per Varrone 527 e per Dionigi 683; Plutarco, invece, fa notare che l’usanza in uso ai suoi tempi (ma anche ai nostri) di sollevare la sposa quando varca per la prima volta la soglia di casa è per l’appunto un ricordo del ratto. Ovviamente, i parenti maschi delle giovani rapite giurarono vendetta. Romolo cercò di placare gli animi spiegando che era stato il dio Conso a consigliare il ratto, dato che i capi dei popoli vicini si erano ingiustamente rifiutati di stipulare alleanze e matrimoni con i Romani. La spiegazione non soddisfece gli offesi e, prima ancora dei Sabini, mossero guerra ai Romani i popoli di tre città oggi scomparse: Caenina (corrisponde alla zona di ponte Mammolo), Antemnae (nell’area di Monte Antenne) e Crustumerium (a nord di Fidene, sulla riva sinistra del Tevere). Romolo le sconfisse e dopo aver ucciso Acrone, re di Caenina, ne spogliò il cadavere per dedicare le sue spolia opima a Giove. Le tre città furono distrutte e i loro abitanti costretti a trasferirsi a Roma. Il Fondatore, poi, affrontò i Sabini, guidati dal loro re Tito Tazio. Nonostante le forze soverchianti del nemico e nonostante il tradimento di Tarpea, che permise ai Sabini di penetrare nell’Arx, la Rocca Capitolina, i Romani, aiutati dal dio Giano e da Giove Statore (“che resiste”, “che ferma”) affrontarono i Sabini guidati da Mezio Curzio e li sconfissero nella battaglia che si svolse nella valle acquitrinosa (dove poi sorgerà il Foro) fra il Campidoglio e il Palatino in un punto che sarà poi chiamato Lacus Curtius1. Sulla vittoria romana, tuttavia, influì non solo l’intervento divino ma soprattutto quello delle donne rapite che, guidate da Ersilia, si gettarono fra i due eserciti chiedendo la pace, con in braccio i figli avuti dai Romani. E pace ottennero. Romolo e Tito Tazio cavalcarono insieme fino al Campidoglio e il tratto di strada che percorsero fra i due popoli festanti fu per questo chiamato Via Sacra. Dopo la battaglia del lago di Curzio, Romolo, sciolse il voto fatto a Giove Statore e gli elevò un tempio nel Foro2. Poi, in segno di riconoscenza verso le donne, le onorò istituendo le Matronalia. La cittadinanza di Roma, così, si accrebbe inglobando i Sabini. Romolo e Tito Tazio fusero i due popoli e stabilirono di regnare insieme regolando la loro successione, alternativamente, fra un romano e un sabino. Romolo, I Re di Roma Stipulata la pace fra Romani e Sabini, Romolo e Tito Tazio condivisero il potere nei primi anni di vita di Roma. Sebbene uniti in un unico popolo, i Quiriti, Romolo lo divise in tre tribù: i Ramnenses, i Romani, che prendevano il nome da Romolo; i Titientes, i Sabini, da Tito Tazio; i Luceres, genti di varia provenienza3. I Sabini, detti anche Curiti in quanto originari di Curi (Passo Corese), andarono a vivere sul Colle che da loro prese nome di Quirinale4 e su questo Tito Tazio stabilì la sua regia. I Romani, invece, continuarono a vivere sul Palatino e Romolo continuò a vivere vicino alla capanna di Faustolo, in una altrettanto semplice capanna chiamata pomposamente domus Romuli. In campo religioso, Sabini e Romani partecipavano alle rispettive feste e riti sacri, senza eliminare nessuno di quelli che ciascun popolo aveva fino a quel momento celebrato singolarmente. Poi, a detta di Plutarco, dopo cinque anni Tito Tazio cadde in un’imboscata a Lavinio e Romolo rimase solo a governare in una forma di monarchia unica nella storia del mondo: un re elettivo che saliva al trono perché scelto dal popolo e non per diritto di successione. Il Re divise ognuna delle 3 tribù in 10 curie5 (in totale 30 curie), ciascuna delle quali si suddivideva a sua volta in 10 decurie che si riunivano in assemblee (comizi curiati) nelle quali venivano prese a maggioranza le più importanti decisioni circa la vita dei cittadini. Nel governo della Città, Romolo era coadiuvato dal Consiglio degli Anziani (un organo che era anche responsabile dell’elezione del Re), composto di 100 membri6 divisi in Patres (Patrizi), i capi delle famiglie (gens, gentes) più importanti, che appartenevano al Consiglio per diritto di nascita, e Coscripti (Aggiunti), scelti fra i plebei per particolari meriti. In seguito sarà chiamato Senatus (da senex, “vecchio”). Le assemblee si riunivano nel Comizio nella valle del Foro. Ogni curia contribuiva all’esercito fornendo una centuria (100) di fanti e una decuria (10) di cavalieri. Romolo divise i cittadini in due grandi classi sociali: i Patrizi e la moltitudine dei cittadini che poi, in epoca repubblicana, saranno chiamati Plebei (da plebs, “moltitudine”, “calca”). Questi non avevano alcun diritto politico e la loro unica forma di tutela era quella di diventare cliens, “cliente”, di un patrizio offrendogli servizi in cambio di protezione. La tradizione gli attribuisce la compilazione del primo calendario in base al quale l’anno era composto di dieci mesi ed iniziava con il mese da Romolo dedicato a Padre Marte: marzo. Sebbene fortemente impegnato “a fare i Romani”, Romolo, tra riforme e istituzioni, trovò anche il tempo di “fare Roma” più grande: conquistò Medullia (nei pressi di Sant’Angelo Romano), Fidene (Castel Giubileo) e Cameria (nord est di Roma) e sconfisse la città etrusca di Vejo che costrinse ad una tregua di cento anni ottenendone in cambio i territori dei Septem pagi (“Sette villaggi”, ad ovest del guado sul Tevere, la futura Isola Tiberina). Plutarco, nella sua Vita di Romolo, narra che, inorgoglito delle vittorie, «con grande arroganza abbandonò la precedente tendenza democratica per sposare un modello di monarchia assoluta, opprimente ed intollerabile». Romolo, abbandonate le semplici vesti di pastore, indossava un mantello purpureo e una toga bordata di porpora, dava udienza assiso su un trono, attorniato da alcuni giovani, chiamati celeres (“veloci”, una specie di guardia del corpo del re, poi abolita da Numa Pompilio) e si faceva precedere da dodici littori (dal latino lictores, da ligare, “legare”) recanti ognuno la scure, simbolo del potere esecutivo, che spuntava dalle verghe di betulla “legate a fascio” con stringhe di cuoio rosso. In realtà, l’istituzione dei littori derivava dagli Etruschi, ma Romolo li stabilì in numero di dodici per alludere alla visione dei dodici avvoltoi che gli aveva consentito di essere il Fondatore prescelto. Ormai il Consiglio degli Anziani era tale solo di nome in quanto di fatto Romolo era il solo a governare e i Patres avevano l’unico privilegio di essere informati per primi sulle decisioni prese dal Re. Romolo governò per 37 anni poi un giorno, il 5 o il 7 luglio del 716 a.C., all’età di 57 anni rese l’anima agli Dei e la sua morte, come la sua nascita, fu legata ad un avvenimento prodigioso e sovrannaturale. Romolo stava passando in rassegna l’esercito schierato alla Palus Caprae7 nel Campo di Marte, quando si verificò una eclissi di sole, accompagnata da un violento temporale. In quel buio improvviso, squarciato dai lampi, si scatenarono un vento impetuoso e una pioggia torrenziale che costrinsero tutti a darsi alla fuga, in cerca di riparo. Quando il temporale cessò e il sole tornò a risplendere, tutti uscirono dai loro rifugi, tutti tranne Romolo, sparito nel nulla. Alla plebe, inquieta per la sparizione del suo Re, fu detto che Romolo era stato portato in Cielo dagli Dei, così come a suo tempo era accaduto ad Enea, ed era divenuto un dio egli stesso. Per dare maggiore credibilità all’accaduto fu fatto venire da Alba un vecchio compagno di Romolo, Proculo Giulio, il quale raccontò che «stamattina o Quiriti, verso l’alba, Romolo, padre di questa citt{, è improvvisamente sceso dal cielo e apparso davanti ai miei occhi. (...) Va e annuncia ai Romani che il volere degli Dei è che la mia Roma diventi la capitale del mondo. Che essi diventino pratici nell’arte militare e tramandino ai loro figli che nessuna potenza sulla Terra può resistere alle armi romane» (Tito Livio, Ab Urbe condita). Infine, chiedeva di essere onorato come un dio con il nome di Quirino e reclamava un tempio in suo onore. Senatus Populusque Romanus lo accontentarono, istituirono in suo onore le feste delle None Caprotine e lo relegarono fra i miti anziché dargli un posticino fra le pagine della storia: se avessero scelto di farne un personaggio storico avrebbero dovuto riportare che in realtà tutta la faccenda era stata solo uno squallido regicidio. Infatti, come racconterà Plutarco (che era greco e dunque poco propenso a nascondere i “fattacci” dei Romani), «...essendo Romolo mancato in un attimo, non fu più vista alcuna parte del suo corpo, né reliquia delle sue vesti. Per cui alcuni s’immaginano che i senatori, avendolo assalito e trucidato nel tempio di Vulcano, ne avessero smembrato il corpo, e ripostane ognuno una parte in seno, l’avessero portato via» (Questioni Romane). Dopo la morte di Romolo la Città cadde in preda a disordini di ogni tipo. Secondo i patti, al romano Romolo sarebbe dovuto succedere un re sabino, ma i Romani erano poco inclini a mettere sul trono un re “straniero” e la lotta per la successione al trono aprì aspri conflitti fra le famiglie romane. Tra il 753, anno della Fondazione, e il 509, primo anno della Repubblica, trascorrono 244 anni durante i quali si avvicendano Sette Re, con una media di 35 anni di governo a testa: troppi anni per un regno e troppo pochi il numero dei Re. Basandosi sulla tradizione più consolidata, a Romolo successero il sabino Numa Pompilio (715-672 a.C.), il romano Tullo Ostilio(672-640 a.C.), il sabino Anco Marcio(640-616 a.C.) e gli etruschi Tarquinio Prisco (616-579 a.C.), Servio Tullio (578-535 a.C.) e Tarquinio il Superbo (534-510 a.C.). Conso Antichissima divinità romana, dai caratteri misteriosi e discussi. Livio lo definiva “Nettuno Equestre”, Plutarco “Dio del Consiglio” e Dionigi “un genio ineffabile, guida e custode dei segreti disegni”. Tutti gli antichi autori ne parlano a proposito del “Ratto delle Sabine” e gli attribuiscono il consiglio dato a Romolo di rapire le donne. In origine Conso rappresentava probabilmente il seme generatore (conserere, “seminare”, “piantare”) e questa ipotesi è avvalorata dal fatto che le feste in suo onore, Consualia, si svolgevano due volte l’anno: dopo la semina (15 dicembre) e dopo il raccolto (21 agosto). Era spesso affiancato alla dea Ops8 che assicurava l’abbondanza dei raccolti. In epoca arcaica Conso era venerato con un altare sotterraneo in una valle sempreverde di mirti sacri a Venere, detta Valle Murcia. In questo luogo, dove poi Tarquinio Prisco costruirà il Circo Massimo, Conso viveva nascosto ed invisibile, per tutto il tempo che intercorreva fra una festa e l’altra: simbolo del seme affidato alla terra e che in esso rimane nascosto sino al suo germoglio. Ed infatti, un’altra etimologia fa derivare il nome Conso da condere, “nascondere”. Livio, parlando del Ratto delle Sabine, fa risalire a Romolo l’istituzione dei Consualia: «Romolo organizza apposta dei giochi solenni in onore di Nettuno equestre e li chiama Consualia. Quindi ordina di invitare i popoli vicini». Plutarco narra invece che Romolo «in primo luogo fece diffondere la notizia che era stato ritrovato, nascosto sottoterra, un altare di un dio: dio che era chiamato Conso, che secondo alcuni vuol dire consigliere (...) secondo altri il dio era Poseidone equestre». Proprio per l’accostamento a Nettuno (il gr. Poseidone), cui era sacro il cavallo, nei giorni dei Consualia l’ara del dio veniva dissotterrata e Conso era celebrato con corse di cavalli e di asini inghirlandati con fiori di campo. Nel 272 a.C., dopo la resa di Taranto, il console Papirio Cursore fece costruire un tempio dedicato a Conso sull’Aventino, probabilmente nei pressi delle terme Surane (adiacenze chiesa di S. Prisca). Ersilia Hersilia, “Rugiada”, secondo la tradizione riportata da Plutarco era l’unica donna sposata fra quelle rapite dai Romani, ma a tale proposito precisa che «i rapitori non lo sapevano; ciò dimostra che i Romani giunsero al ratto non per violenza o per compiere un’ingiustizia, ma (...) spinti da gravissime necessit{». Un’altra versione, citata da Macrobio9, sostiene che Ersilia fosse andata in sposa al romano Ostilio al quale diede un figlio, Osto Ostilio, nonno di Tullo Ostilio, terzo Re di Roma. La leggenda più diffusa, quella riferita da Plutarco, narra invece che Ersilia divenne la moglie di Romolo al quale diede due figli, una femmina ed un maschio: Prima e Aollio, poi chiamato Avilio. Quando Romolo fu elevato fra gli Dei, seguì il marito nell’apoteosi e onorata con il nome di Hora Quirini. Le fonti classiche non si dilungano oltre né ci dicono che fine fecero i figli di Romolo. Spolia opima Letteralmente “spoglie”, “bottino ricco”. Questo tipo di consacrazione consisteva nella dedica dell’armatura, delle armi e degli effetti personali che il comandante romano toglieva al comandante nemico ucciso in singola tenzone. «Romolo tagliò all’interno dell’accampamento romano una quercia molto grande, dandole la forma di un trofeo e vi appese le armi di Acrone. (...) Egli personalmente, indossata una veste, mise sulla testa dai lunghi capelli una corona di alloro. Sollevando il trofeo, che teneva appoggiato sulla spalla destra, camminò intonando i canti della vittoria, seguito dall’esercito e accolto dai cittadini con gioia e stupore. Questa processione costituì un modello a cui ispirarsi per quelle future da celebrare. Il trofeo fu dedicato a Giove Feretrio» (Plutarco, Vita di Romolo), al quale Romolo innalzò un tempio sul Campidoglio. «Portando le spoglie del comandante nemico ucciso (...) Romolo salì sul Campidoglio. Lì, dopo averle poste sotto una quercia sacra ai pastori, insieme con un dono, tracciò i confini del tempio di Giove e aggiunse al dio un cognome: “Io Romolo, re vittorioso, offro a te, Giove Feretrio, queste armi regie, e dedico il tempio tra questi confini (...) in modo che sia dedicato alle spoglie ricche che coloro che verranno dopo di me porteranno qui dopo averle sottratte a re e comandanti uccisi in battaglia”. Questa è l’origine del primo tempio consacrato a Roma» (Tito Livio, Ab Urbe condita). Il tempio di Giove Feretrio - secondo la tradizione il primo edificio sacro costruito a Roma - fu dedicato a Giove in quanto Feretrius, un epiteto che alcuni studiosi fanno derivare da fero, “portato”, perché a lui venivano “portate”, offerte le spolia opima, o da ferculum, una sorta di barella sulla quale venivano trasportate le spolia. Più verosimilmente, Feretrius vuol dire “che colpisce” (da ferire, “colpire”, “uccidere”) e non a caso il signum di Giove Feretrio era una pietra dura, custodita nel tempio, che Carandini identifica con un’ascia preistorica che rappresentava il fulmine e con la quale veniva immolata una scrofa al termine della ovatio che concludeva la processione che dalla Velia si snodava lungo la via Sacra fino al Campidoglio. Sempre secondo Carandini, il tempio si trovava nell’area del Palazzo dei Conservatori e in origine era una capanna con un’ara antistante. Ricostruito più volte, il tempio - il cui aspetto è conosciuto solo da una moneta del 44 a.C. - sorgeva su un alto podio gradinato, era di dimensioni piuttosto ridotte, aveva quattro colonne sulla fronte e una ricca trabeazione. La dedica delle spolia opima fu ripetuta soltanto altre due volte nella lunga storia di Roma: nel 437 a.C. da Aulo Cornelio Cosso che dedicò le spolia di Lars Tolumnius, re di Veio; nel 222 a.C. da Marco Claudio Marcello che dedicò le spolia di Viridomaro, re dei Galli Insubri. Tarpea È una delle figure più ambigue della mitologia romana, tanto che nel ciclo leggendario che la riguarda passa dal ruolo di traditrice a quello di eroina. La tradizione più diffusa narrava che la giovane, figlia di Spurio Tarpeio, comandante delle guardie del Campidoglio, si era perdutamente innamorata di Tito Tazio. Aiutata da una serva (o dalla nutrice), Tarpea fece sapere al re sabino di essere pronta a tradire Roma, a patto che egli la sposasse. Tito Tazio accettò e la giovane riuscì a farlo entrare con il suo esercito nell’Arx Capitolina. Tito Tazio, però, non mantenne la promessa e la fece uccidere dai suoi soldati che le lanciarono addosso i loro pesanti scudi. Un’altra versione del mito offre un’immagine meno romantica di Tarpea che avrebbe tradito in cambio di “ciò che Tito Tazio e i suoi soldati portavano al braccio sinistro”, intendendo i preziosi bracciali d’oro con i quali si ornavano i Sabini. Questi ripagarono la traditrice schiacciandola sotto il peso dei loro scudi, “che portavano al braccio sinistro”. I Romani, poi, “giustiziarono” a loro volta il cadavere della giovane lanciandolo dalla rupe che da lei prese nome - Mons Tarpeius, Rupe Tarpea - e dalla quale, da allora, furono gettati i criminali in genere e i traditori in particolare. Comunque siano andati i fatti, i mitografi romani cercarono di scagionare Tarpea dall’infamia del tradimento e versioni più recenti della leggenda originaria raccontavano che la giovane aveva solo fatto finta di tradire Roma. La sua richiesta di darle “ciò che portavano al braccio sinistro” avrebbe avuto l’unico scopo di farsi consegnare gli scudi dai soldati sabini che sarebbero così entrati indifesi nella Cittadella. I Sabini, accortisi dell’inganno, l’avrebbero trucidata nel modo descritto. Quest’ultima versione ebbe tale consenso popolare che i Romani le tributarono un culto locale sul Campidoglio, onorandola come un’eroina. Al di là delle versioni più o meno favorevoli a Tarpea, è certamente più realistico che si tratti di una mistificazione storica: come poteva Spurio Tarpeio avere una figlia giovinetta visto che Roma era stata fino a pochissimo tempo prima una città senza donne? La verità storica è un’altra: l’Arce Capitolina cadde in mano ai Sabini perché i Romani non seppero difenderla e il mito della traditrice Tarpea fu solo una menzogna degli storici di parte per coprire una disfatta militare. Matronalia Si svolgevano alle Calende di marzo in onore di Giunone Lucina. Il tempio dedicato a Giunone Lucina sull’Esquilino era stato consacrato il primo marzo del 375 a.C. e Ovidio afferma che Romolo era nato il primo marzo e che proprio in questo giorno le donne sabine rapite dai Romani si recarono sul campo di battaglia e riuscirono a far cessare la guerra fra Sabini e Romani. Secondo Plutarco, le Sabine si gettarono «tra le armi e i cadaveri, piangendo e urlando, come invasate da un dio, e andarono incontro ai mariti e ai padri; alcune tenevano tra le braccia i figlioletti» (Vita di Romolo). Le Matronalia, cui partecipavano solo le donne sposate, presentavano alcune analogie con i Saturnalia: in quel giorno le serve e le schiave godevano di ampia libertà e le loro padrone preparavano e servivano una cena in loro onore. In quel giorno i mariti colmavano le mogli di attenzioni e facevano loro molti regali fra i quali non potevano mancare un umbella (ombrellino parasole), in segno di onore e tutela, e una clavis (chiave), simbolo propiziatorio di facili parti. None Caprotine Erano feste talmente antiche che persino gli autori classici facevano fatica a ricostruirne il mito originario discordando sia sul giorno del culto che sulla divinità al centro dei riti. Plutarco (Vita di Romolo) le chiama indifferentemente Poplifugia o None Caprotine e afferma che si riferiscono entrambe alla scomparsa di Romolo sia perché il rito consisteva nel simulare la fuga del popolo e la confusione che si era scatenata al momento dei fatti, sia perché la commemorazione avveniva alla Palus Caprae. Però questa ipotesi di un’unica festa è contraddetta dagli altri mitografi e persino dallo stesso Plutarco in un’altra sua opera (Vita di Camillo). Il Vaccai (Feste di Roma antica) dimostra che in effetti si trattava di due feste distinte, ma connesse in quanto entrambe celebravano in due giorni diversi due fasi di un unico avvenimento: le Poplifugia (5 luglio) in ricordo della fuga del popolo e della gran confusione, le None Caprotine (7 luglio) la sparizione di Romolo. Se sul significato delle Poplifugia sembra che non vi siano dubbi, sull’origine e significato delle None Caprotine non tutti gli autori sono d’accordo. Varrone, Plutarco e Macrobio, infatti, fanno risalire l’istituzione della festa ad un avvenimento accaduto intorno al 390 a.C. Approfittando della debolezza in cui versava Roma dopo l’invasione dei Galli guidati da Brenno, i Latini assediarono la Città e chiesero in riscatto ai Romani le loro giovani vergini, come unica alternativa ad una totale distruzione dell’Urbe. Gli uomini di Roma, ovviamente, esitavano a piegarsi a tali disonorevoli condizioni, quando una bella schiava di nome Filotide (o Tutola) propose ai Romani uno stratagemma che avrebbe salvato donne e onore: lei e alcune graziose schiave, vestite da donne libere, si sarebbero recate nell’accampamento dei Latini, li avrebbero circuiti e poi fatti ubriacare. A questo punto i Romani sarebbero entrati indisturbati nel campo nemico. Il Senato acconsentì e tutto si svolse come programmato da Filotide. Infatti, quando tutti i Latini, ubriachi, caddero in un sonno profondo, Filotide, dall’alto dei rami di un fico selvatico, fece con una lampada il segnale convenuto di via libera ai Romani che giunsero di corsa e massacrarono tutti i Latini. In ricordo dell’eroico gesto di Filotide e delle sue compagne furono istituite le None del Fico o None Caprotine (da caprifico, fico selvatico) alle quali potevano partecipare tutte le donne, sia libere che serve, tanto che la festa era anche chiamata Ancillorum Festum, Festa delle Serve. La festa si concludeva con l’offerta alle donne di un grande banchetto allestito sotto una pergola di rami di fico selvatico. Altre interpretazioni della festività riferivano che le None Caprotine così si chiamavano in onore di Giunone Caprotina, venerata in tutto il Lazio con il nome di Giunone Sospita (Protettrice), alla quale in quel giorno si sacrificava sotto un fico selvatico offrendo alla dea la linfa dell’albero. A Roma i riti si svolgevano nel tempio di Giunone Sospita nel Foro Olitorio (San Nicola in Carcere) che ospitava una statua della dea che sia Cicerone che Festo descrivono ornata con una doppia veste cinta alla vita, armata di lancia e scudo e il capo coperto con una pelle di capra le cui zampe erano annodate sul petto, da cui l’appellativo caprotina. Ovatio e Triumphus Ovatio: l’ovazione, o piccolo trionfo, era una cerimonia con cui venivano resi gli onori a un generale vittorioso. L’origine della parola è controversa fin dall’antichità. La maggior parte degli autori vi vede la radice latina ovis, pecora, animale immolato al termine della cerimonia. Dionigi la fa derivare dalla parola greca euòi, (evoè), grido di gioia delle baccanti, Festo dalla parola ovantes, a sua volta derivata dal grido gioioso “O! O!” lanciato dai soldati vittoriosi. L’ovatio, decretata dal Senato romano, veniva concessa in occasione di guerre di minore importanza, quando il nemico non era degno di Roma (ad esempio pirati e schiavi), quando il conflitto si era concluso con poco o nessun spargimento di sangue o non c’era stato pericolo per l’esercito. Poteva essere accordata anche ad un generale che aveva condotto una campagna vittoriosa nel corso di una guerra non ancora conclusa. Il generale al quale era dedicata l’ovatio entrava in città a piedi (nel trionfo su una biga trainata da due cavalli bianchi), indossava la toga praetexta del magistrato (una toga con una striscia color porpora, a differenza dei generali trionfanti che indossavano la toga picta, completamente viola e ornata con ricami d’oro) e si cingeva la fronte con la corona ovalis, una corona di mirto, in luogo della corona triumphalis di alloro. Il Senato non precedeva il generale, come avveniva nel trionfo, e di solito i soldati non partecipavano alla parata. Triumphus: il trionfo (dall’etrusco triumpe; in origine questo termine designava una musica e una danza) era la più alta onorificenza militare concessa dal Senato al comandante vittorioso di una guerra che avesse visto almeno cinquemila nemici caduti. In età imperiale fu concesso solo agli Imperatori. In origine era una pratica religiosa di purificazione dell’esercito vittorioso che tornava dalla guerra ma già in epoca repubblicana si era trasformata in una sfarzosa dimostrazione del potere romano: nel corteo veniva esibito il bottino di guerra e fatte sfilare grandi tavole su cui erano incisi i dati e gli avvenimenti salienti della campagna militare. Su una di queste tavole, nel suo trionfo del Ponto, Cesare fece scrivere il celebre veni, vidi, vici. Il trionfo era occasione di grande festa popolare alla quale partecipavano in massa i cittadini che acclamavano il trionfatore con grida di esultanza e lancio di fiori. Il corteo, aperto da trombe, si articolava in tre parti. Il primo settore era riservato al bottino e alle tavole esplicative portati a piedi e su lunghe colonne di carri; dietro a questi, gli ostaggi e i prigionieri in catene. La parte centrale del corteo era riservata al trionfatore: funzionari, magistrati e senatori precedevano il carro del trionfatore seguito dai parenti maschi a cavallo. Il trionfatore stava ritto su un carro sfarzosamente decorato e trainato da quattro cavalli che da Cesare in poi saranno bianchi. Portava le antiche insegne regali: indossava vesti di porpora ricamate d’oro e una corona d’alloro sulla testa; nella mano destra teneva un ramoscello d’alloro e nella sinistra uno scettro d’avorio. Uno schiavo gli sorreggeva sul capo una pesante corona d’oro e, affinché non suscitasse l’invidia degli Dei e per metterlo in guardia dalla presunzione, gli ripeteva continuamente: «Ricordati che devi morire! Guardati attorno! Ricordati che sei solo un uomo!». Il corteo era chiuso dall’esercito che marciava al ritmo di inni militari, di canti agli Dei e di canzonacce di scherno rivolte al trionfatore. Il momento culminante del trionfo era il sacrificio nel tempio di Giove Capitolino che veniva celebrato non appena arrivava la notizia che nel vicino Tullianum era avvenuta l’esecuzione di almeno uno dei prigionieri nemici. Infine, il trionfatore offriva un banchetto pubblico ai soldati e ai cittadini. Secondo le ipotesi più accreditate questo era il percorso del corteo: iniziava nel Circo Flaminio (Portico d’Ottavia), costeggiava l’area del Teatro di Marcello ed entrava nel Foro Olitorio, attraversava l’area sacra di S. Omobono, imboccava il vico Iugario ed entrava nella piazza del Foro Romano. A questo punto tornava indietro per il Vicus Tuscus, entrava nel Foro Boario, percorreva la valle Murcia (Circo Massimo), costeggiava il Palatino in corrispondenza dell’attuale via di S. Gregorio, entrava nuovamente nel Foro percorrendo la via Sacra e risalendo il Clivo Capitolino giungeva al Tempio di Giove Capitolino. Tullianum «Per intimorire la crescente audacia criminosa» e perché ormai i cittadini «non distinguevano più fra le azioni giuste e le ingiuste, e avvenivano dei delitti senza che se ne scoprisse l’autore» (Tito Livio) Tullo Ostilio (III Re) - prendendo ad esempio il carcerem dei circhi, vale a dire lo steccato che tratteneva i cavalli prima della corsa - “inventò” il carcere, ovvero un luogo dove rinchiudere i delinquenti prima della loro ultima corsa verso la morte... Altri autori affermavano che il carcere era detto Tullianum perché sorgeva presso un tullus, una sorgente, o dalla sua forma a tholos (un ambiente circolare che si restringe verso l’alto). In generale si ritiene che l’edificio originario fosse una cisterna che raccoglieva le acque del Campidoglio, prosciugata alla meglio e chiusa da una copertura in legno. Nei secoli successivi la copertura in legno fu sostituita da una in muratura e su questa venne edificato un secondo ambiente, comunicante con il sottostante attraverso una botola. Il piano superiore ospitava i detenuti in attesa di giudizio, mentre nel piano inferiore venivano eseguite le condanne a morte mediante strangolamento eseguito a mani nude. Un cunicolo collegato con il Tevere permetteva una rapida eliminazione dei cadaveri. Gli scrittori romani distinguevano il carcer (piano superiore) dal tullianum sotterraneo in quanto la carcerazione era sconosciuta alla giustizia romana che prevedeva come condanna solo l’esilio o la pena capitale. Il Carcer e le vicine Lautumiae (nei pressi dell’attuale Clivo Argentario), altri ambienti del carcere così chiamati perché ricavati entro antiche cave di tufo (da latomiae, “pietre tagliate”), erano prigioni più miti, relativamente confortevoli, nelle quali i carcerati, ad esempio, potevano ricevere le visite di parenti e amici. Si narra che il poeta Nevio (III sec. a.C.) abbia scritto due commedie in carcere. Per quanto riguarda il Tullianum, invece, «il suo aspetto è ripugnante e spaventoso per lo stato di abbandono, l’oscurit{, il puzzo», scrive Sallustio e con il quale concordano tutti gli storici dell’antichità che lo descrivono come un luogo talmente orrendo che alcuni condannati preferivano suicidarsi piuttosto che esservi rinchiusi. Fu questo il caso di Erennio Siculo, un aruspice amico di Caio Gracco, che si tolse la vita battendo la testa contro uno stipite dell’ingresso prima di essere rinchiuso nel carcere. Svetonio, nella Vita di Tiberio, riferisce che poiché una antica legge vietava l’uccisione nel carcere di una vergine, questa veniva violentata dal carnefice prima di essere giustiziata. Una lapide posta all’entrata del piano superiore ricorda che qui furono giustiziati, fra tanti, i partigiani di Caio Gracco, i partecipanti alla congiura di Catilina, Vercingetorige, re dei Galli, e Giugurta, re di Numidia, il quale, prima di morire, non seppe trattenersi dal beffeggiare i suoi carnefici: «Come è freddo questo vostro bagno, Romani!». Per esservi stati detenuti S. Pietro e S. Paolo, secondo una tradizione nata nel IV secolo, l’edificio fu per secoli un luogo di culto cristiano consacrato a S. Pietro in Carcere fino a quando, nel 1597 l’Arciconfraternita dei Falegnami fece iniziare sopra al carcere la costruzione della Chiesa di S. Giuseppe dei Falegnami. La denominazione di “Carcere Mamertino” con la quale è oggi indicato è di epoca medievale. Accanto al Tullianum vi erano le cosiddette Scalae Gemoniae (grossomodo l’attuale scalinata che fiancheggia la chiesa di S. Giovanni dei Falegnami), una scalinata scavata nel tufo che secondo un’etimologia popolare deriverebbe il suo nome da gemo, cioè dai “gemiti” dei condannati prima della loro esecuzione nel Tullianum. Su questa scala venivano anche esposti i corpi dei giustiziati prima di essere gettati nel Tevere. Note 1] Lacus Curtius: uno spazio irregolare che indica l’ultimo avanzo dell’antichissima palude del Foro. All’origine della sua denominazione troviamo due leggende. La prima narra che nel 362 a.C. in quel punto si aprì una profonda voragine che non si riusciva a richiudere. I Romani interrogarono l’Oracolo che rispose che la voragine si sarebbe richiusa solo se vi fosse stato gettato quanto Roma aveva di più caro. Il giovane Marco Curzio, ritenendo di essere “quanto di più caro” aveva Roma, in groppa al suo cavallo si gettò nella voragine che si richiuse seduta stante sopra di lui. Un piccolo bassorilievo posto in loco nel Foro mostra il sacrificio di Curzio. La seconda leggenda fa riferimento ad un avvenimento più antico: nel 445 a.C. il console Caio Curzio avrebbe recintato questa voragine aperta dalla caduta di un tremendo fulmine. 2] Tempio Giove Statore: attualmente la teoria più accreditata lo colloca nel cosiddetto tempio di Romolo (figlio di Massenzio) nel Foro. Probabilmente il santuario di epoca romulea consisteva semplicemente in un altare circondato da uno steccato o da un basso muro. Il tempio vero e proprio fu costruito nel III secolo a.C. all’epoca della terza guerra contro i Sanniti e custodiva una statua di Giove rappresentato con la folgore nella mano destra e le gambe affondate in un blocco di pietra ad indicare la fermezza del dio nell’arrestare i nemici. 3] Luceres: secondo Tito Livio erano di origine incerta, secondo altri autori erano gli abitanti delle zone boscose intorno a Roma (da lucus, “bosco”), secondo altri ancora erano o genti di origine etrusca condotte a Roma da un lucumon, un re, o discendenti da Lucero, re dei Rutuli (Ardea). 4] Gli storici moderni affermano che il Collis Quirinalis era abitato da popolazioni sabine ancor prima della Fondazione ed era così chiamato da un tempio in onore del dio sabino Quirinus fatto costruire, secondo la leggenda, da Modio Fabidio, figlio del dio. 5] Curia: dall’arcaico co-viria, “riunione di uomini”. 6] Plutarco racconta che Romolo e Tito Tazio non tennero mai consiglio in comune. Ognuno di loro deliberava separatamente con i 100 Anziani del proprio Consiglio che poi si riunivano in uno stesso luogo per deliberare unitamente. 7] Palus Caprae: un’area paludosa formata da un piccolo fiume, l’Acqua di Amnia Petronia, che scendeva dal Quirinale e raggiungeva Campo Marzio. Corrisponde all’incirca all’area poi occupata dal Pantheon, dalle terme di Agrippa e dal teatro di Pompeo. La palus fu bonificata da Agrippa e trasformata nello stagnum (la piscina delle terme fatte da lui costruire) dal quale fuoriusciva l’Euripus, un canale scoperto che convogliava le acque verso il Tevere, all’altezza dell’attuale Ponte Vittorio Emanuele II. 8] Ops: dea italica dell’abbondanza (ops, “ricchezza”, “risorsa”), soprattutto agricola. In suo onore si celebravano gli Opeconsiva (25 agosto) e gli Opalia (19 dicembre). Faceva parte di una serie di divinità minori introdotte da Tito Tazio ed aveva una cappella nel Foro dove potevano entrare solo le Vestali e il Pontefice Massimo. 9] Ambrosio Teodosio Macrobio: scrittore latino (IV-V sec.) di origine greca o africana. Fu tra gli ultimi grandi rappresentanti della cultura pagana in un’epoca in cui era ormai trionfante il cristianesimo. È noto soprattutto per Saturnalia, vasta opera enciclopedica in sette libri pervenutaci incompleta.