PONTIFICIA UNIVERSITÀ GREGORIANA FACOLTÀ DI TEOLOGIA —————————————————————— IL MISTERO DELLA SALVEZZA CRISTIANA L’influsso di Ireneo di Lione su Henri de Lubac RICHARD PAVLIĆ Dissertazione per il Dottorato nella Facoltà di Teologia della Pontificia Università Gregoriana ROMA 2010 Vidimus et approbamus ad normam Statutorum Universitatis Roma, Pontificia Università Gregoriana 19/05/2010 PROF. DONATH HERCSIK PROF. SERGIO P. BONANNI ai miei genitori PRESENTAZIONE Henri de Lubac ha riassunto una volta la vera ragione del suo fare teologia dicendo: «L’unica passione della mia vita è la difesa della nostra fede». Tanto è vero che tale apologia della fede cattolica non si esauriva per lui nel replicare, confutare e smentire le affermazioni teologiche dell’ultima ora o le opinioni condivise dai leader tra i teologi del momento presente. Fare teologia significava per Henri de Lubac collocarsi all’interno della fede professata dalla Chiesa vivente e mettersi in ascolto di tale fede ecclesiale così come si è espressa attraverso i tempi, sin dagli albori del cristianesimo fino al momento presente. Non di rado lo stesso de Lubac qualificava il suo auditus fidei come étude(s) historique(s), pur sapendo che proprio attraverso tale studio storico non faceva altro che teologia sistematica. Attraverso un meticoloso lavoro storico, infatti, riscopriva nell’epoca patristica ciò che il Vaticano I avrebbe chiamato il nexus mysteriorum inter se e recuperava il significato primitivo di varie affermazioni e articoli di fede. Una delle (ri-) scoperte di grande valore di Henri de Lubac era la teologia della salvezza abbozzata da Ireneo di Lione. Richard Pavlić si è prefitto, nella presente dissertazione di dottorato, di mettere a fuoco la sinfonia teologica tra il famoso vescovo di Lione e il gesuita che passò la maggior parte della sua vita a Lione, per quanto riguarda la soteriologia. La ricerca di Pavlić si contraddistingue sia per la sua sobrietà e serietà, sia per l’argomento affrontato. Per quanto riguarda il primo aspetto appena menzionato, basta dare un’occhiata all’indice e alla stesura del testo per rendersi conto della sua linearità e limpidità. Come segnalato nel titolo, il lettore incontra nel testo della dissertazione due capitoli che sono dedicati rispettivamente a Henri de Lubac e a Ireneo di Lione. Questi due testi, che costituiscono i due pilastri del presente lavoro, sono incorniciati da un’ampia «Introduzione» e da un’articolata «Sintesi». La chiarezza e la linearità si ritrovano, però, non soltanto al livello di macrostruttura, ma anche al livello di microstruttura della dissertazione e contribuiscono in tal modo a una lettura agevole che permette di cogliere subito i punti decisivi per il ragionamento teologico dell’autore della dissertazione. Per quanto riguarda l’argomento affrontato nella dissertazione, 6 IL MISTERO DELLA SALVEZZA CRISTIANA esso mi sembra davvero nuovo e innovativo nell’ambito teologico odierno. Non conosco, infatti, una ricerca che si sia proposta di mettere a fuoco i legami teologici tra Henri de Lubac e Ireneo di Lione, né in termini generici di teologia, né in termini specifici di soteriologia, né passando da Ireneo a de Lubac, né viceversa guardando da de Lubac indietro verso Ireneo. La presente dissertazione ci documenta un segmento concreto della storia della teologia che ad alcuni potrà sembrare un pezzo di archeologia teologica, che però riveste un’importanza che va al di là delle apparenze e di quanto si ritiene «utile» per la teologia in un determinato momento storico. Donath Hercsik, SJ RINGRAZIAMENTI «Che ha portato Dio di nuovo venendo in terra? Ha portato ogni novità portando Se stesso» (AH, IV, 34,1). Con queste parole di sant’Ireneo, spesso richiamate da Padre de Lubac, ringrazio il Signore perché ha portato Novità nella mia vita! Sono immensamente grato ai miei genitori e i familiari, soprattutto a mia madre Marija, che mi ha insegnato a credere e a pregare. Ancora oggi, ella è per me fonte ed esempio quotidiano di fede e d’amore. Ringrazio il mio vescovo di Gospić-Senj, Mons. Mile Bogović, che mi ha mandato a studiare a Roma, nonostante le mie resistenze. Egli ha saputo incoraggiarmi lungo questi anni di studio. La mia sincera gratitudine si estende al Rettore del Pontificio Collegio Croato di San Girolamo a Roma, Mons. Jure Bogdan, per la sua magnanimità e vicinanza paterna! Grazie anche ai vicerettori del Collegio, Marko Tomić e Željko Majić. Grazie al Padre Szentmártoni, per la sua «presenza discreta e fedele» nel nostro Collegio e nella nostra vita di studio e di spiritualità. Il mio ringraziamento va anche ai miei compagni di studio a Roma, e soprattutto alla mia generazione di studio, Davor Vuković, Mislav Hodžić, Josip Bošnjaković, Denis Barić e Dario Tičić. Con loro ho mosso i primi passi a Roma. Non è stato facile. Grazie al loro supporto amichevole sono riuscito ad arrivare ad oggi. Vorrei esprimere la mia gratitudine anche ai miei amici dalla Croazia, che mi sono stati vicini in questi anni di studio: Andreja Jakubin che, a tutti gli effetti, mi ha dato il suo benvenuto a Roma, Mladen Matika e Sanjin Francetić, che in tutti questi anni di studio mi hanno sempre accompagnato da Trieste a Rijeka e viceversa. Vorrei ringraziare anche mia sorella Elizabeta e la sua famiglia, che mi hanno ospitato a Rijeka, rendendo piacevoli i miei giorni di vacanza. Desidero ringraziare tutti i miei professori della Pontificia Università Gregoriana, particolarmente Padre Donath Hercsik, SJ. È merito suo, se sono riuscito a concludere la mia tesi di licenza. Grazie a questa esperienza ho trovato la forza e il coraggio per cominciare il dottorato. Insieme a Padre Hercsik ho imparato ad amare Ireneo e soprattutto Padre de Lubac e la sua teologia. 8 IL MISTERO DELLA SALVEZZA CRISTIANA Ringrazio di cuore tutti quelli che mi hanno accompagnato con la preghiera e con un aiuto amichevole, in modo particolare il mio caro amico Zlatko Sudac, a cui mi lega un’amicizia fraterna sin dai nostri primi giorni nel Seminario a Rijeka. Nella sua generosità, ha sempre saputo aiutarmi e starmi vicino, soprattutto in questi ultimi anni di studio a Roma, quando dovevo comprare un nuovo computer o qualche libro di più. Con il suo aiuto è stato possibile realizzare anche la presente pubblicazione. INTRODUZIONE 1. Presentazione del lavoro Per rendere più chiaro e sinottico il nostro lavoro, in questa introduzione generale vorremmo sia illustrare l’argomento della nostra tesi e il metodo di ricerca utilizzato sia indicare i limiti entro i quali si colloca il nostro studio. Presenteremo quindi brevemente l’itinerario della ricerca e introdurremo i temi dottrinali del lavoro legati al concetto di salvezza cristiana. Similmente a quanto accade con la questione dell’uomo in genere, così, anche la questione particolare concernente la sua salvezza può essere affrontata da diverse prospettive. Dato che il nostro approccio al tema della salvezza assume un punto di vista cristiano, partiamo dalla problematica generale riguardante l’uomo: essa, nell’ambito dell’antropologia cristiana, è strettamente connessa alla rivelazione biblica e si sviluppa nella riflessione teologica attraverso i concetti di «grazia» e di «divinizzazione», con una diversità di accentuazioni tra Oriente e Occidente cristiano. 1.1 Argomento della tesi La nostra ricerca, come’è indicato dal titolo – Il mistero della salvezza cristiana. L’influsso di Ireneo di Lione su Henri de Lubac –, cerca di proporre, a partire dagli scritti ireneo-lubachiani, una rivalutazione della concezione biblico-patristica dell’uomo e della sua salvezza. Creato a immagine e somiglianza di Dio, l’uomo è chiamato ad una vita di comunione con Dio. Grazie a questa chiamata, la vita di comunione con Dio o la visione di Dio, viene interpretata come l’unico fine ultimo dell’uomo. Questa concezione realistica dell’uomo, propria ed esclusiva della teologia biblica e patristica, viene minacciata dallo sviluppo di certe linee di pensiero di stampo neoscolastico sull’uomo che, per spiegare l’assoluta gratuità della grazia e della salvezza, introducono nella teologia cattolica alcuni elementi nuovi, tra i quali il nuovo principio antropologico illustrato dal concetto di «natura pura». Tale concetto, da parte di de Lubac, 10 IL MISTERO DELLA SALVEZZA CRISTIANA viene considerato come «un’ipotesi insufficiente» ed incapace di assicurare la piena gratuità del soprannaturale per un’umanità reale. Rinunciando a questa ipotesi antropologica astratta, de Lubac invita a ritornare al «realismo degli antichi», il quale non soltanto non minaccia la vera gratuità della grazia divinizzante, ma presenta anche il vantaggio di riuscire a considerare l'uomo nella sua natura concreta e con il suo unico fine ultimo, quello soprannaturale. Sviluppando il concetto di «mistero del soprannaturale», de Lubac ricorre alla concezione di Tommaso sul desiderium naturale, cercando di ritrovare una comprensione migliore della vocazione e della dignità dell’uomo. Oltre alla dottrina di Tommaso, possiamo però constatare che negli scritti di de Lubac riecheggia anche la dottrina dei Padri in tutta la sua profondità. Possiamo pertanto prendere in prestito proprio da un padre, Ireneo, un’espressione in grado di sintetizzare il suo pensiero: «Gloria Dei, vivens homo» (AH, IV, 20,7). Lo scopo del nostro lavoro è quello di dimostrare la corrispondenza esistente tra la dottrina lubachiana e le concezioni biblico-patristiche che si caratterizzano per il forte realismo e ottimismo antropo-teologico e il senso dell’unità e del mistero. Quest’ultimo viene inteso come «mistero salvifico di Cristo» nel quale converge il «mistero dell’uomo» e grazie al quale l’uomo viene elevato a quell’«ordine soprannaturale», in cui si superano gli apparenti paradossi del dogma, e dove tutti i misteri della nostra fede trovano il loro Centro e la loro Unità. Per esaminare più approfonditamente le concordanze con il pensiero patristico che la dottrina lubachiana rivela di possedere, la nostra ricerca prenderà in esame uno dei Padri più rappresentativi del mondo patristico, Ireneo di Lione, considerato dagli esperti della teologia cristiana dei primi secoli «il dottore della dogmatica» e ritenuto «superiore per profondità e istinto dogmatico a tutti gli altri» (Orbe). Anche l’istinto teologico del giovane de Lubac, come lui stesso afferma nella sua Mémoire sur l'occasion de mes écrits, ancor prima di scrivere la sua prima pagina teologica, lo portava a scegliere proprio gli scritti di Ireneo di Lione come sua letteratura preferita1. Per constatare come questa letteratura non abbia mancato di esercitare un influsso importante sulla forma mentis antropo-teologica di de Lubac, basta dare un’occhiata alle note e agli indici delle opere di de Lubac dove si può riconoscere un continuo riferimento alla dottrina di Ireneo. Lo riconosciamo soprattutto in Catholicisme di de Lubac – il suo «libroprogramma» – e nelle sue opere dedicate al tema della Chiesa e della Sacra Scrittura. Rispetto a queste opere, negli scritti sul «soprannaturale», invece, troviamo un riferimento a Ireneo meno esplicito, anche se proprio in questi scritti, a cui intendiamo fare riferimento con particolare attenzione nella —————————– 1 «Al ritorno dalla guerra del 1914-1919, durante il primo semestre del 1920, passato a Canterbury, ero stato sedotto dalle Confessioni di sant’Agostino e dagli ultimi tre libri dell’Adversus Haereses di sant’Ireneo». MEM, 184. Cfr. Hercsik, 20. INTRODUZIONE 11 nostra ricerca, riconosciamo un notevole influsso della dottrina ireneiana. Obiettivo del nostro lavoro sarà proprio quello di dimostrare che l’impostazione fondamentale a livello antropo-teologico di de Lubac è molto vicina a quella presente nella dottrina di Ireneo. Quest’ultima è rintracciabile – seppur in maniera implicita – negli scritti lubachiani, dove è riproposta mediante un linguaggio teologico più attuale. 1.2 Limiti e metodo della ricerca La nostra ricerca sugli scritti di de Lubac si concentra soprattutto sulle sue opere dedicate all’argomento del «soprannaturale»: Surnaturel (1946); «Le mystère du surnaturel» (1949); Augustinisme et théologie moderne (1965); Le Mystère du surnaturel (1965); Petite catéchèse sur Nature et Grâce (1980). Alle altre opere di de Lubac, sopratutto a Catholicisme (1938), a Mémoire sur l'occasion de mes écrits (1989) e a La Lumière du Christ (1941), ricorreremo per fondare alcune argomentazioni necessarie alla realizzazione dell’itinerario del nostro lavoro. Data la quantità degli scritti lubachiani, siamo costretti a fare una selezione, prendendo in considerazione prevalentemente quelli che riguardano il nostro argomento. Riguardo alle dispute teologiche nate dal confronto tra le diverse interpretazioni circa il «soprannaturale» in de Lubac, essendo il tema già stato elaborato da vari autori, ci limiteremo a fornire soltanto alcune nozioni necessarie. Prima di cominciare la nostra esposizione della dottrina lubachiana, inoltre, cercheremo di chiarire brevemente i concetti principali legati alla dottrina sul soprannaturale. Non prenderemo dunque in considerazione tutte le critiche mosse all’impostazione antropo-teologica di de Lubac, ma per rendere più chiaro il suo pensiero e la sua intuizione teologica, ci serviremo soprattutto delle due critiche di J. Alfaro: una riguardante l’interpretazione lubachiana del concetto di desiderium naturale di Tommaso; l’altra concernente la «mancanza del carattere cristico e incarnazionale» nella dottrina sul soprannaturale di de Lubac. Tra le opere di Ireneo ci soffermeremo soprattutto sugli ultimi tre libri dell’Adversus haereses (AH, III–V) e sull’Epideixis, restando però nei limiti di trattazione della nostra ricerca, che si occuperà del tema della salvezza negli scritti lubachiani. Pertanto tralasceremo alcuni degli aspetti del tema della salvezza presenti negli scritti ireneiani, come per esempio quelli sviluppati nell’ambito dell’escatologia ireneiana a proposito della morte, dell’Anticristo o del «millenarismo ireneiano». Il nostro tentativo di presentare gli aspetti corrispondenti tra la dottrina lubachiana e il pensiero patristico, si limita dunque all’individuazione di alcune impostazioni dottrinali sul tema della salvezza sia nella dottrina ireneiana che negli scritti lubachiani. La nostra ricerca, vuole, infatti, dimostrare la forte corrispondenza esistente tra la dottrina lubachiana e l’impostazione antropo-teologica ireneiana. Nel nostro percorso argomentativo, 12 IL MISTERO DELLA SALVEZZA CRISTIANA però, ci limiteremo allo studio del tema della salvezza negli scritti lubachiani sul «soprannaturale» e alla ricerca di una conferma dell’impostazione lubachiana nella relativa dottrina di Ireneo di Lione. Il nostro lavoro, lascia dunque uno spazio aperto per un’ulteriore discussione teologica e per un possibile sviluppo futuro di questo tema. Riteniamo, infatti, che il nostro tentativo potrebbe essere allargato ad altri campi e ad altri punti d’incontro fra le dottrine di Ireneo e di de Lubac, e che lo stesso studio generale degli scritti di de Lubac si potrebbe estendere alla ricerca di altre conferme della sua dottrina provenienti dal vasto campo della letteratura patristica, abbondantemente presente nel suo pensiero e nelle sue opere. Nella realizzazione della nostra ricerca, abbiamo fatto una scelta metodologica d’inversione cronologica, facendo precedere l’esposizione della dottrina di de Lubac a quella della dottrina di Ireneo. Questo aiuta noi, e il lettore della tesi, a incontrarsi dapprima con la dottrina di de Lubac, per poi a rileggerla o ripensarla alla luce della dottrina del «dottore dogmatico». In questo modo diventano chiare le diverse accentuazioni con cui de Lubac affronta i diversi aspetti della dottrina ireneiana. Quest’opzione metodologica, infine, ci offre un nuovo punto di vista sulla relativa dottrina di de Lubac sul «soprannaturale» e sul suo concetto di salvezza cristiana in generale. Per una questione di esattezza e obiettività, la nostra ricerca prenderà in considerazione gli studi precedenti degli autori più degni e più competenti, le cui ricerche riguardano il nostro tema: Ladaria (l’aspetto antropologico in generale e la dottrina ireneiana), Hercsik e Guibert (l’aspetto cristologico della dottrina lubachiana), Orbe (la dottrina ireneiana). 1.3 L’itinerario della ricerca Il lavoro si compone di due capitoli, uno sulla dottrina lubachiana e l’altro sulla dottrina ireneiana, preceduti da un’introduzione generale e uniti in una sintesi conclusiva. Nell’introduzione generale cercheremmo di presentare l’argomento in maniera precisa e di mostrare l’originalità della tesi, i limiti e il metodo della ricerca, e il breve itinerario seguito lungo il lavoro. Segue un’introduzione alla materia della tesi nella quale si offre una presentazione generale dei temi teologici della salvezza, dell’antropologia teologica, della grazia e della divinizzazione. Sono tutti elementi dottrinali, inerenti al tema di questo lavoro, che s’incontreranno nei capitoli successivi nell’ambito delle relative dottrine di Ireneo e di de Lubac. Il capitolo dedicato alla dottrina del «soprannaturale» in Henri de Lubac si compone di quattro sezioni. Dopo una breve presentazione della biografia e delle opere di de Lubac con una introduzione al tema del «soprannaturale» INTRODUZIONE 13 nei suoi scritti, segue la prima sezione nella quale cerchiamo di chiarire l’uso dei concetti di «natura» e di «soprannaturale» nel corso della storia della teologia cattolica, con particolare attenzione al concetto di «natura pura» e alla sua interpretazione neoscolastica alla quale si oppone la dottrina lubachiana sul «soprannaturale». In seguito viene precisato il concetto proprio di «soprannaturale» in de Lubac, evidenziando la sua maniera peculiare di utilizzare i termini neoscolastici. Nel corso dello studio, teniamo conto anche di una certa «evoluzione» del linguaggio lubachiano, evidente nell’arco di tempo che va dalla sua prima (Surnaturel, 1946) alla sua ultima (Petite catéchèse sur Nature et Grâce, 1980) opera sul «soprannaturale». La seconda sezione sul «soprannaturale» si sofferma sull’impostazione antropologica di de Lubac e sul suo tentativo di ritrovare, attraverso la «semplicità degli antichi» e la prospettiva biblica, la vera e piena idea cristiana dell’uomo che, secondo la visione lubachiana, viene inteso come «spirito creato e aperto». Nella presentazione del tentativo di de Lubac di ritrovare l’intuizione originale di Tommaso attorno al concetto del desiderium naturale, ci serviremo della critica di Alfaro all’interpretazione lubachiana del desiderio naturale inteso nel senso «assoluto», desiderio che secondo Alfaro, non corrisponderebbe all’affermazione della gratuità assoluta del soprannaturale. Servendoci della seconda critica di Alfaro sull’assenza del carattere cristico e incarnazionale all’interno della dottrina lubachiana del «soprannaturale», ci introdurremo allo sforzo compiuto da de Lubac nel ricercare una sintesi teologica in grado di far superare gli apparenti paradossi della fede. Nella terza sezione sul «soprannaturale», partendo dall’aspetto cristologico della dottrina lubachiana e seguendo la linea delle ricerche di Hercsik e Guibert, cercheremo di presentare lo sforzo di sintesi lubachiano. Così tenteremo anche di rispondere alle due summenzionate critiche di Alfaro. Basandoci sull’articolo La lumière du Christ (1941) – l’unico scritto lubachiano dal titolo cristologico – e sull’undicesimo capitolo di Catholicisme (1938), scopriremo che è proprio la cristologia di de Lubac, nonostante il suo carattere diffusamente più implicito che esplicito, quella che rivela l’unità e la sintesi di tutte le sue opere. Nella novità assoluta di Cristo, percepibile solo con «gli occhi della fede», de Lubac scopre il mistero sintetico di Cristo, di colui che era vivo e attivo come «principio di sintesi» nei primi discepoli di Cristo e nei Padri della Chiesa. È dunque il «mistero sintetico di Cristo» come «Centro vivo» e «Tout du Dogme» nel quale si supera anche oggi «il paradosso del Dogma». La quarta sezione dedicata al «soprannaturale» è una sintesi conclusiva nella quale ci serviremo delle testimonianze dello stesso de Lubac espresse in Mémoire sur l’occasion de mes écrits (1989). In sintonia con queste stesse testimonianze dell’autore, presenteremo la sua dottrina sul «soprannaturale» nella prospettiva dell’aspetto cristologico della sua teologia e del 14 IL MISTERO DELLA SALVEZZA CRISTIANA suo constante richiamo alla dottrina dei Padri, giungendo alla conclusione che le sue opere sul «soprannaturale» vanno inserite nel loro contesto storico e collocate nel quadro dell’intera sua opera teologica. In questo senso, attraverso una «cristologia nascosta», presente piuttosto nello «spirito» delle sue opere, si scopre che è proprio la persona di Cristo il cuore e la sintesi delle opere e della teologia di de Lubac (Hercsik). Da questo punto di vista la dottrina sul «soprannaturale» si mostra in sintonia con la visione biblico-patristica. Gli elementi della dottrina lubachiana che mostrano tale sintonia sono: – la visione realista e unitaria dell’uomo che esclude ogni dualismo ipotetico, – il senso dell’unità e del mistero – il mistero di Dio che fonda il mistero dell’uomo e il mistero dell’uomo che converge nel mistero di Cristo, – il concetto di divinizzazione dell’uomo attraverso l’azione interiore e trasformatrice di Cristo che porta l’uomo verso il suo fine soprannaturale – l’affermazione dell’unico fine ultimo dell’uomo che è la vita eterna, – la visione della libertà dell’uomo evidente attraverso la libera risposta dell’uomo all’invito della grazia divina offerto in Cristo – la salvezza viene da Dio come un dono assolutamente libero e in nessun modo acquistabile con le forze naturali dell’uomo, – la realtà del peccato e la visione della salvezza come liberazione dalla schiavitù del peccato in forza del sacrificio nuovo di Cristo. Tutti questi elementi vengono sintetizzati nel paragrafo del nostro lavoro «Il mistero salvifico di Cristo», dove si fa riferimento a La Lumière du Christ e soprattutto alla Petite catéchèse sur Nature et Grâce, scritto in cui il nostro autore riprende la sua dottrina sul soprannaturale, riassumendola e chiarendola, fino ad enunciare la «conclusione» a cui è giunto. In tutti gli elementi sopra elencati, si può chiaramente riconoscere l’eco della dottrina di Ireneo annunziata in questo lavoro nel paragrafo conclusivo sulla dottrina lubachiana. Il capitolo dedicato al concetto di salvezza cristiana nella teologia di Ireneo di Lione si compone di tre sezioni. Dopo una breve presentazione della biografia e delle opere di Ireneo, segue un’introduzione generale alla dottrina del vescovo lionese. Si fa menzione dei concetti principali della sua dottrina e si presentano i limiti entro i quali si sviluppa la nostra indagine negli scritti ireneiani. Ci soffermeremo soprattutto sugli ultimi tre libri dell’Adversus haereses (AH, III–V) e sulla Epideixis, dove si trovano i principali punti dottrinali della dottrina di Ireneo. La prima sezione è un’esposizione degli elementi antropologici della dottrina ireneiana. Si presenta l’apporto della riflessione antropologica di Ireneo sviluppatasi in opposizione agli insegnamenti eterodossi. Tra gli aspetti antropologici della dottrina ireneiana, la nostra ricerca, seguendo lo studio di Antonio Orbe, sceglie quelli che riguardano la dimensione INTRODUZIONE 15 salvifica. La dottrina di Ireneo costruita attorno al concetto di salus carnis ci offre una visione unitaria e realistica dell’uomo dal momento della sua creazione secondo il progetto di Dio, e lungo il processo della sua vita terreste intesa come la via verso la salvezza, verso la vita di comunione con Dio. Si evidenzia la forte caratterizzazione trinitaria e cristologica dell’antropologia ireneiana proveniente dalla dottrina biblica contenuta nei primi capitoli del libro della Genesi e delle lettere paoline. Ponendo l’accento sul concetto dell’«uomo-carne», la visione di Ireneo si distingue da quella gnostica ed ecclesiastica (filo-origeniana). Attraverso un’esegesi di due versetti della Genesi (Gen 1,26 e 2,7), Ireneo ci offre una visione unitaria della creazione dell’uomo. La sua dottrina sulle «Mani di Dio» – il Logos e lo Spirito Santo presenti e attivi nella creazione dell’uomo – e sull’uomo creato e plasmato «a Immagine e Somiglianza di Dio», intende l’uomo come essere trinitariamente e cristologicamente determinato già al momento della sua creazione. La dignità dell’uomo appare così evidente, fin dalla creazione, nel suo essere collocato al centro di tutta la creazione e nel suo essere chiamato alle altezze di Dio e alla visione di Dio. Seguendo la dottrina paolina e legando i misteri della creazione dell’uomo e dell’incarnazione di Cristo, Ireneo esprime la dignità del corpo umano e l’inseparabilità dell’antropologia cristiana dalla cristologia. Basandosi sulla visione tripartita dell’uomo (carne-anima-spirito) in Paolo, Ireneo sviluppa la sua visione dell’uomo «spirituale» e «perfetto» nella quale l’accento cade sempre sull’«uomo-carne» inserito nel disegno salvifico di Dio a partire già dal momento della sua creazione e capace di ricevere lo Spirito di Dio. La realtà del peccato anche se minaccia il disegno salvifico di Dio, non può distruggerlo. Così il realismo di Ireneo viene accompagnato dal suo ottimismo teologico fondato sulla fiducia nella bontà di Dio Padre che è la prima causa della salvezza umana e che, passando attraverso il dramma del peccato, si manifesta sotto forma di redenzione e di liberazione dell’uomo. Seguendo il parallelismo paolino Adamo-Cristo e legando il mistero del peccato di Adamo e la riconciliazione di Cristo, Ireneo ci dona una spiegazione indiretta del peccato originale e ci mostra di nuovo l’inseparabilità delle sue impostazioni antropo-teologico-cristologiche. La seconda sezione sulla dottrina di Ireneo tratta della domanda sulla salvezza dell’uomo. Prima di presentare il nucleo della dottrina ireneiana nella sua dimensione soteriologica, ci soffermeremo sulla dottrina paolina abbondantemente presente negli scritti ireneiani con particolare attenzione al legame inseparabile che intercorre fra l’antropologia e la cristologiasoteriologia, alla visione dell’uomo ordinato a Cristo attraverso i misteri dell’Incarnazione e Risurrezione, all’universalità dell’offerta della salvezza e all’accentuazione dell’assoluta novità di Cristo mediante il quale si compiono la ricapitolazione dell’uomo in Cristo e la sua adozione filiale. 16 IL MISTERO DELLA SALVEZZA CRISTIANA Dopo l’analisi degli elementi paolini presenti nella dottrina di Ireneo, segue l’esposizione della dottrina propria ireneiana costruita attorno ai concetti di redenzione e di «divinizzazione». Rifacendoci allo studio di Orbe e appoggiandoci al documento della Commissione Teologica Internazionale del 1994 – «Alcune questioni sulla teologia della redenzione» –, cercheremo di presentare il concetto ireneiano di «ricapitolazione». In uno spirito fortemente paolino, attraverso i misteri di Cristo dell’Incarnazione e della Risurrezione, Ireneo presenta la salvezza dell’uomo, da una parte come liberazione dell’uomo dal dominio di Satana e la ricapitolazione della storia anteriore dell’umanità (il terminus a quo), e, dall’altra, come ripristino dell’immagine e della somiglianza di Dio e come ristabilimento dell’unione dell’uomo con Dio (il terminus ad quem). A questi due aspetti della salvezza abbiamo dedicato due paragrafi. Il primo riassume la dottrina ireneiana sulla salvezza costruita attorno ai concetti di liberazione, redenzione e ricapitolazione dell’uomo in Cristo attraverso i misteri dell’Incarnazione e della Risurrezione, mentre il secondo paragrafo è dedicato al concetto di «divinizzazione», inteso sia come sintesi che come un aspetto della dottrina ireneiana sulla salvezza dell’uomo. Anche se Ireneo non parla esplicitamente di «divinizzazione» e non usa i termini theopoiein [θεοποιειν] e theopoiesis [θεοποίησις], la sua soteriologia implica la dottrina della «divinizzazione». Egli è stato il primo a offrire un tentativo d’interpretazione teologica del fatto della «divinizzazione», precisandone l’origine e le condizioni, legandola ai misteri di Cristo, alla sua incarnazione e risurrezione, mediante i quali l’uomo diventa partecipe della vita divina, aprendo così la strada agli sviluppi teologici successivi. Nella terza sezione cerchiamo di presentare la dottrina di Ireneo in una sintesi costruita attorno ai concetti di unità e di gratuità. Tali concetti sono quelli in grado di riassumere la dottrina di Ireneo nella prospettiva del nostro tema e della relativa dottrina lubachiana sul «soprannaturale». In questa linea, nel paragrafo conclusivo presenteremo l’elenco degli elementi dottrinali di Ireneo che ci sembrano più importanti: – il primato dell’iniziativa divina: la salvezza proviene da Dio creatore e salvatore; – la «predestinazione» dell’uomo alla salvezza: l’uomo creato e plasmato a Immagine e Somiglianza di Dio è trinitariamente e cristologicamente determinato e inserito nel percorso della storia verso il suo unico fine ultimo – la vita di comunione con Dio, cioè la visione di Dio; – la chiamata universale alla salvezza riguarda ogni uomo partecipe dell’unica «natura» umana concepita soprattutto come sarx [σαρξ] creata e plasmata; – l’apertura dell’uomo alla «ricezione di Dio» mediante l’inabitazione dello Spirito Santo che «entra nella composizione» dell’uomo rendendolo uomo «spirituale e perfetto»; INTRODUZIONE 17 – la debolezza umana e il realismo del peccato sono incapaci di minacciare l’unico disegno salvifico in Cristo; – la realizzazione della salvezza nel percorso storico mediante gli eventi di Cristo, l’incarnazione e la risurrezione; – la necessità della Chiesa e dei sacramenti, soprattutto del battesimo e dell’Eucaristia, attraverso i quali si realizza l’«incorporazione a Cristo»; – l’affermazione della libertà dell’uomo e della necessità della sua libera collaborazione con la grazia mediante l’adesione di fede e di amore e quindi mediante le opere che ne conseguono, cioè «le opere dello Spirito»; – l’affermazione della possibile perdizione eterna come conseguenza della libera scelta dell’uomo di venire meno alla collaborazione con l’offerta della salvezza; – il carattere progressivo della salvezza; – l’affermazione dell’assoluta necessità della grazia per la salvezza; – l’affermazione dell’assoluta gratuità della salvezza. Nella sintesi conclusiva del nostro lavoro, divisa in tre sezioni, facciamo una rilettura degli scritti lubachiani per meglio riconoscere sia le somiglianze e i parallelismi dottrinali sia le relative differenze nel metodo e nelle accentuazioni antropologiche fra Ireneo e de Lubac. Per di più in tale analisi si evidenzia anche il carattere particolare della cristologia e della prospettiva dottrinale lubachiana. Nella prima sezione, in vista dell’argomento su cui si vuole sviluppare la nostra tesi, cerchiamo di presentare gli elementi principali della dottrina lubachiana sul «soprannaturale» in consonanza con la relativa dottrina di Ireneo. A tal fine abbiamo scelto tre punti di vista o tre aspetti dottrinali. Il primo è il realismo e l’ottimismo antropo-teologico come sfondo dottrinale in cui si forma la dottrina ireneo-lubachiana, nella quale emerge il primato di Cristo. A partire dalla riflessione sulla realtà di Cristo e dei suoi misteri, Ireneo e de Lubac sviluppano le loro dottrine sull’uomo e sulla Chiesa, mantenendo sempre un approccio ottimistico alla questione della salvezza dell’uomo. Il secondo aspetto è costituito dal forte senso ireneo-lubachiano dell’unità e del mistero, che permette ad entrambi di conciliare la concezione biblica dell’unicità della natura umana, in quanto chiamata alla vita di comunione con Dio – con la conseguente offerta di salvezza universale in Cristo, con la verità dell’assoluta gratuità della grazia. In questo contesto, la nostra rilettura degli scritti lubachiani si estende alla sua opera Catholicisme, che offre un forte contributo all’affermazione dell’esistenza di una consonanza dottrinale fra Ireneo e de Lubac. Il terzo aspetto, infatti, unisce i primi due e ci mostra la capacità ireneo-lubachiana di preservare una visione d’insieme dell’uomo e della sua salvezza e di mostrare l’inseparabilità delle verità dottrinali dalla vita di fede. Osserviamo così come sia Ireneo che de Lubac affermino la necessità di collegare il mistero – che non è altro che Cristo stesso, punto di partenza obbligatorio sia per la riflessione 18 IL MISTERO DELLA SALVEZZA CRISTIANA teologica che per quella antropologica –, al suo approfondimento attuale nella vita di fede chiamata mistica. Una delle caratteristiche fondamentali della mistica cristiana, a differenza della «mistica naturale» e delle mistiche «non-cristiane», sta proprio nella sua apertura al mistero, con cui si trova in un rapporto di «reciproca fecondazione e inadeguatezza». La seconda sezione focalizza l’attenzione sulle differenze di accentuazione antropologica fra Ireneo e de Lubac dovute alla diversità dei rispettivi metodi con cui entrambi combattono le dottrine dualistiche sull’uomo, sia quelle degli gnostici, sia quelle dei «teologi moderni». Queste differenze individuano due prospettive diverse che non implicano però un’opposizione dottrinale. La sezione continua con un breve riferimento al già menzionato carattere particolare della «cristologia implicita» e «indiretta» di de Lubac e alle critiche espresse da altri autori a questo proposito. Gli elementi antropo-teologici principali della dottrina di Ireneo, presente anch’essa in un modo implicito negli scritti lubachiani sul «soprannaturale», ci aiutano a comprendere meglio gli argomenti con cui de Lubac difende il suo metodo «storico» di carattere «astratto». Essi, inoltre, ci permettono di riconoscere un’impronta cristologica implicita presente proprio nella dottrina lubachiana sul «soprannaturale». Il mistero unente e sintetico di Cristo – «Verbum unum» – il «Tout du Dogme» –, è per de Lubac «il punto di partenza» che determina la sua prospettiva dottrinale il cui influsso/conferma si può riconoscere nell’impostazione antropologica del Concilio Vaticano II: «In realtà solamente nel mistero del Verbo incarnato trova vera luce il mistero dell’uomo» (GS 22). La Conclusione, offre, al termine del nostro lavoro, un breve riassunto in cui si getta uno sguardo complessivo sul percorso compiuto. La ricerca ha preso le mosse dalla domanda fondamentale sull’uomo e sulla sua salvezza, ed è stata condotta attraverso l’incrocio tra Ireneo di Lione e Henri de Lubac, mostrandone l’unità e la continuità dottrinale. 2. Il concetto di salvezza cristiana Per introdurre la riflessione sul tema della salvezza in de Lubac, nella quale cercheremo di precisare l’influsso dottrinale di Ireneo di Lione, vorremmo partire da una considerazione più generale dei temi che svilupperemo in maniera più dettagliata nella nostra riflessione successiva. La prima domanda che ci poniamo, come suggerisce il titolo stesso del nostro lavoro, è quella riguardante il significato del concetto di «salvezza cristiana». Ci chiediamo in che cosa consista la salvezza cristiana, «da dove» essa venga, e chi sia il suo destinatario. Quest’ultima domanda ci colloca all’interno dell’ambito più ampio dell’antropologia cristiana, dove la modalità dell’approccio all’uomo è sempre biblicamente segnata: si parte sempre dall’uomo nella sua situazione INTRODUZIONE 19 concreta e nella sua relazione con Dio2. Nella Sacra Scrittura, infatti, troviamo che l’immagine della salvezza è connessa alla realtà del peccato e del bisogno che l’uomo ha di aiuto e di liberazione dalle conseguenze del peccato stesso. A livello dell’esperienza storica, la salvezza biblica si realizza inizialmente attraverso il rapporto personale fra Dio e il suo popolo eletto, per assumere in seguito, attraverso la missione salvifica di Gesù Cristo, un significato universale (Gv 1,1-16)3. Nell’ambito della fede cristiana si è sviluppata una ricca riflessione teologica sulla salvezza che, partendo dalle verità rivelate, ha dato luogo a ricche formulazioni riguardanti la dottrina della grazia. Partendo dalle enunciazioni bibliche sulla grazia e attraverso una breve presentazione dello sviluppo storico-dottrinale, nei paragrafi successivi introdurremo i temi dottrinali di questo lavoro in cui la domanda sulla salvezza tocca il tema del rapporto fra «natura» e «soprannaturale», fra l’uomo nella sua situazione storica concreta e la grazia salvifica di Dio offerta in modo universale in Cristo – unico salvatore4. In particolare, vorremmo soffermarci sul concetto cristiano di «divinizzazione», legato al tema della grazia nelle diverse accezioni che esso riveste nell’Oriente e nell’Occidente cristiano5. Nonostante le differenze espressive, la tradizione cristiana comune ha preservato la visione biblica tradizionale dell’uomo creato a immagine e somiglianza di Dio, liberamente e gratuitamente chiamato alla vita di comunione con Dio. Di queste verità fondamentali della fede cristiana, i nostri due autori, Ireneo di Lione e Henri de Lubac, sono testimoni e difensori, come cercheremo di dimostrare nelle prossime pagine di questo lavoro6. 2.1 La questione sull’uomo: l’antropologia cristiana L’antropologia cristiana ha come oggetto la visione cristiana dell’uomo e tratta della persona umana a partire dai pronunciamenti della fede concernenti il rapporto dell’uomo con Dio, con gli altri uomini, con il mondo e con se stesso. Il compito dell’antropologia cristiana consiste nel fare un discorso non tanto sulla natura o sull’essenza dell’uomo, quanto piuttosto sulla sua salvezza, sia a livello del popolo che del singolo (Profeti, Paolo, Agostino)7. A tal scopo l’antropologia cristiana attinge dalla Bibbia e dalla teologia. L’antropologia biblica non offre una riflessione sistematica sull’uomo ma si concentra sulle testimonianze della Scrittura individuandone gli aspetti costitutivi del rapporto uomo-Dio. La comprensione biblica —————————– 2 Cfr. Introduzione, par. 2.1 di questo lavoro. Cfr. Introduzione, par. 2.2 di questo lavoro. 4 Cfr. Introduzione, par. 2.3 di questo lavoro. I concetti dottrinali di «natura», di «soprannaturale» e di «natura pura», li presenteremo nell’introduzione alla dottrina lubachiana sul «soprannaturale». Cfr. cap. I, sez. 1. di questo lavoro. 5 Cfr. Introduzione, parr. 2.4-2.5 di questo lavoro. 6 Cfr. capp. I-II e Sintesi di questo lavoro. 7 Cfr. J. SPLETT, «Antropologia (I)», 258. 3 20 IL MISTERO DELLA SALVEZZA CRISTIANA dell’uomo e della sua condizione non è mai riferita direttamente all’uomo e alla sua condizione «in sé», ma cerca di comprendere l’uomo e la sua condizione in relazione a Dio e ai temi che Lo concernono, in riferimento a Gesù Cristo, alla creazione e alla storia della salvezza, alla vita e alla morte, al peccato e alla giustificazione, alla salvezza e al giudizio8. Anche l’antropologia neotestamentaria, approfondita soprattutto da Paolo e da Giovanni, poggia sui concetti veterotestamentari, tra i quali quello di peccato e di redenzione riveste il ruolo più importante nella comprensione della questione dell’uomo9. A tal proposito si deve necessariamente allargare l’orizzonte e dopo aver assodato che la fede cristiana non è l’unica fonte di conoscenza sull’uomo, occorre prendere in considerazione i contributi provenienti da altri generi di conoscenza che cercano di dire una parola sull’uomo. La riflessione cristiana sull’uomo dovrà quindi arricchirsi dei dati e delle intuizioni forniti dalle scienze umane, dalla filosofia e dall’esperienza della nostra vita quotidiana. L’antropologia teologica, dunque, dovrebbe sempre proporsi di ripensare in maniera nuova i propri enunciati, sia per non perdere mai il contatto con l’esperienza umana e le scienze antropologiche profane, che per poter continuare a svilupparsi grazie alla luce sempre nuova e profonda che promana della relazione dell’uomo con Dio mediante la persona di Cristo. Il punto di partenza della visione dell’uomo in quanto oggetto dell’antropologia teologica, è quindi la sua duplice condizione, di creatura creata ad immagine e somiglianza di Dio e chiamata alla comunione con il suo Creatore, e di peccatore «graziato» in Cristo. Questa è la visione cristiana dell’uomo nella quale la salvezza in Cristo viene offerta gratuitamente ad ogni essere umano10. La gratuità della salvezza pone l’uomo nella condizione di una certa dipendenza da Dio, alla luce della quale egli è continuamente chiamato ad intendere se stesso come essere costantemente orientato verso il suo Creatore. La visione cristiana dell’uomo, dotato di autocoscienza e libertà, deriva dunque dal mistero nel quale l’uomo si trova inserito e dal quale è, allo steso tempo, definito. L’uomo, infatti, sperimenta se stesso all’interno di un continuo contatto con l’ineffabile. Tale esperienza, se da un lato gli offre una dimensione in cui identificarsi, dall’altra gli permette di riconoscersi come soggetto distinto e a sé stante. Fondamentalmente l’uomo è dipendente dal mistero nel quale riconosce e ritrova la sua essenziale apertura all’infinito ed è nella tensione di tale apertura che ritrova se stesso e trova Dio come l’unico «fondamento permanente dell’apertura dell’esistenza umana»11. —————————– 8 Cfr. R. PESCH, «Antropologia (II)», 263. Cfr. R. PESCH, «Antropologia (II)», 267. 10 Cfr. L.F. LADARIA, Antropologia teologica, 5-9. 11 Cfr. K. RAHNER, «Uomo», 559-560. 9 INTRODUZIONE 21 L’antropologia teologica intrattiene uno stretto rapporto con la cristologia, nel quale quest’ultima dovrebbe svolgere la funzione di «criterio e norma» dell’antropologia teologica12. Fin dai primi secoli si sviluppa una cristologia che indica esplicitamente Cristo come vero uomo che si pone sia come modello reale per ogni uomo che come modello ideale per una riflessione teologica sull’uomo. In tale prospettiva venivano chiariti tutti gli aspetti del discorso sull’uomo e non emergeva il bisogno di una antropologia teologica. Possiamo, infatti, constatare che gran parte delle affermazioni sull’uomo fatte nell’ambito della teologia cattolica (risurrezione, grazia santificante…) nasce direttamente dalla riflessione offerta e sviluppata all’interno della cristologia. Con l’uso della metafisica, dell’etica e della psicologia di Aristotele nello sviluppo dei problemi teologici, partendo da san Tommaso, la dottrina sulla grazia nella teologia occidentale acquista la sua «caratteristica nota antropologica»13. La teologia occidentale del XX secolo si propone l’obiettivo di «rielaborare la dottrina sistematica della grazia alla luce del proprio contesto e di sviluppi interni e esterni»14. Questo tra l’altro include: l’illustrazione e la chiara correlazione dei due aspetti della teologia della grazia, di quello teologico in senso stretto (grazia come azione gratuita di Dio) e di quello antropologico (importanza di questo gratuito interessamento di Dio per l’umanità dell’uomo); la riformulazione di problematiche centrali in categorie storiche e personali: la considerazione piuttosto statica del rapporto fra natura e grazia, quasi si trattasse di due strati («piani») dell’umanità tra loro indipendenti cede il posto a una considerazione storico-salvifica del rivolgersi gratuito di Dio alla sua creazione e una visuale dinamica integrale dell’uomo quale creatura cui è donata la grazia […]15. 2.2 Fondamenti biblici La stessa creazione dell’uomo la si può già ritenere un atto appartenente al progetto della salvezza. L’uomo creato a immagine e somiglianza di Dio è sin dall’inizio chiamato a divenire un libero interlocutore di Dio (Cfr. Gen 1–2). Con il peccato l’uomo rifiuta la vocazione divina alla libera comunione con Lui (Gen 3). Perde la sua libertà e diventa schiavo del peccato. Dio inaugura la sua opera di salvezza umana come passaggio dalla schiavitù alla libertà, e l’uomo la riceve come un trasferimento dallo stato di schiavo allo stato di «figlio adottivo»16. Ci sono, quindi, due componenti inseparabili che —————————– 12 Cfr. K. RAHNER, «Antropologia (III)», 283. Nello stesso luogo Rahner aggiunge che tuttavia non è conveniente progettare l’antropologia teologica prendendo le mosse dalla cristologia in modo unilaterale. 13 Cfr. J. AUER, «Grazia (II)», 368-369. 14 Cfr. B.J. HILBERATH, «Dottrina della grazia», 45. 15 B.J. HILBERATH, «Dottrina della grazia», 45. 16 Cfr. B. SESBOÜÉ, Gesù Cristo, I, 226-227. 22 IL MISTERO DELLA SALVEZZA CRISTIANA costituiscono la salvezza cristiana: l’affrancamento dal peccato e l’ingresso nella vita di Dio. Nell’Antico Testamento il concetto di salvezza ha un carattere progressivo le cui radici si trovano nelle esperienze concrete legate alla liberazione da situazioni di malattia, di schiavitù, di prigionia, e dal nemico17. Già nella Genesi, però, vengono messi in speciale relazione la colpa e la miseria, la conversione e la salvezza. Questi sono elementi strettamente correlati, come illustra il racconto biblico delle origini riferendosi alla caduta e al peccato originale (Gen 3; 4,1-16; 6–8; 11,1-9; 12,1-3). Se l’uomo soffre a causa della colpa, Dio, però, gli offre una nuova possibilità. La salvezza, infatti, diviene proprio la strada per giungere alla liberazione dalla prigionia del peccato, la strada per una trasformazione interiore e un nuovo rapporto con Dio. Negli scritti profetici di Ezechiele si annuncia il dono di un cuore nuovo, l’apertura dei sepolcri, la rianimazione mediante il soffio di Dio. La trasformazione interiore è collegata alle conseguenze politiche di una liberazione concreta: «Vi prenderò dalle genti… e vi condurrò sul vostro suolo», e con l’instaurazione di un nuovo rapporto con Dio: «Voi sarete il mio popolo e io sarò il vostro Dio» (Ez 36,24.28; cfr. 36,24–37,14). La salvezza in quanto liberazione è legata all’immagine di un Dio Redentore18. Dio è colui che paga il prezzo dello schiavo (Es 21,7-11; Lv 19,20; Gb 6,23). Questa concezione mette l’accento sul ristabilimento dello stato di libertà, e mette in rilievo la fedeltà di Dio (Sal 77,15; 107,2). Il riscatto d’Israele dalla schiavitù dell’Egitto diventa l’evento paradigmatico che indica la relazione che Dio vuole instaurare con il suo popolo. Dio, il Signore è il redentore del suo popolo. Nell’annuncio del Secondo Isaia la liberazione dalla schiavitù di Babilonia diventa un evento escatologico (Is 51,11). Dio redentore salva il suo popolo in un senso escatologico, mentre ai «popoli pagani» che opprimevano il popolo eletto, viene inflitta la rovina definitiva19. Vari scritti neotestamentari presentano la salvezza nei termini della redenzione, giustificazione e riconciliazione. La salvezza viene concessa mediante la fede attraverso la morte e la risurrezione di Gesù: «sono giustificati gratuitamente per la sua grazia, in virtù della redenzione realizzata da Cristo Gesù20. Dio lo ha prestabilito a servire come strumento di espiazione per mezzo della fede, nel suo sangue» (Rm 3,24b-25a). Così come il peccato ha un potere universale, così, a maggior ragione, la salvezza in quanto redenzione, ha un potere di liberazione dalla morte e dalla schiavitù del peccato che si estende a tutta l’umanità e tutta la creazione (Rm —————————– 17 Cfr. I. MAISCH, «Salvezza (I)», 324-326. Cfr. F. SCHÜSSLER FIORENZA, «Redemption», 837. 19 «Questa restrizione dell’idea della salvezza a Israele si manifesta in maniera ancora più sensibile nei libri extrabiblici dell’ebraismo». I. MAISCH, «Salvezza (I)», 326. 20 I. MAISCH, «Salvezza (I)», 326-328. 18 INTRODUZIONE 23 8,22-23). Il peccato di Adamo fu permesso perché per mezzo del secondo Adamo Gesù Cristo, la vita divina ci fosse comunicata in modo più perfetto di come ci sarebbe stata comunicata per mezzo del primo Adamo. Gli effetti dell’obbedienza di Cristo superano gli effetti della disobbedienza di Adamo, e dove abbondò il peccato, sovrabbonda la misericordia (Rm 5,15-21). I vangeli e gli altri scritti neotestamentari esprimono il significato della salvezza collegandola strettamente alla vita, all’annuncio, al ministero, alla morte e alla risurrezione di Gesù; la sua morte è «per molti» (Mc 14,24) perché Lui è venuto «a cercare e a salvare ciò che era perduto» (Lc 19,10). 2.3 Salvezza come dono della grazia divina 2.3.1 Enunciazioni bibliche L’esperienza salvifica presentata dall’Antico Testamento propone un nuovo rapporto tra il popolo d’Israele e il suo Dio che si rivela come il Dio della vita e della salvezza. I testi veterotestamentari descrivono l’agire di Dio nel corso della storia come una serie di atti d’amore rivolti al suo popolo Israele, la cui condizione è spesso espressa con termini che descrivono una situazione di miseria e di bisogno. Dio si presenta come colui che è superiore e che si inchina verso il suo popolo che è nella miseria e bisognoso di aiuto. Queste immagini veterotestamentarie costituiscono il fondamento dell’idea veterotestamentaria della grazia che attraverso il popolo eletto raggiunge anche i singoli: La grazia è un comportamento fondamentale e essenziale di Dio che mira alla salvezza di tutto l’uomo, che riguarda primariamente il popolo d’Israele ma che, in tale ambito, aiuta e sostiene pure il singolo. Nel corso della storia dell’amore fra Jahveh e il suo popolo si accentua il tratto individualizzante (il singolo ottiene grazia in mezzo a un popolo infedele) e emerge chiaramente il doppio aspetto dell’azione della grazia (salvare e portare a compimento o sanare e santificare)21. In ebraico i termini che indicano la grazia e l’atteggiamento di «benignità» derivano dalla forma verbale hanan [!n"x'] – essere misericordioso, pietoso –, e dal suo sostantivo hen [!xe], termini sviluppatisi verosimilmente dalla radice «piegarsi», «chinarsi»22. Altri termini usati sono: hesed [ds,x,] che si collega alla «bontà» e alla «fedeltà» generosa del Dio dell’alleanza23; emet [tm,a/,] che è un altro termine usato per indicare la —————————– 21 B.J. HILBERATH, «Dottrina della grazia», 15. Cfr. H.J. STOEBE, «!nx hṇn gnädig sein», in ThHwAT; I, 587-597; K. BERGER, «Grazia (I)», 358-360; B.J. HILBERATH, «Dottrina della grazia», 12-13. Sulla terminologia della grazia vedi anche: Il vangelo della grazia, 19-23. 23 Cfr. H.J. STOEBE, «ds,x, hœsœd Güte», in ThHwAT, I, 600-621. «Hesed, infatti, è l’obbligo, non esigibile, alla reciprocità fra parenti, amici, sovrani e sudditi, e in particolare fra le parti di un’alleanza, poiché il contenuto dell’alleanza è l’obbligo alla hesed (1Sam 20,8)». K. BERGER, «Grazia (I)», 358. 22 24 IL MISTERO DELLA SALVEZZA CRISTIANA «fedeltà» e la «verità»24. Finalmente la parola rehem [~x,r,] e il suo plurale assoluto rahamim [~ymix]r;] indicano la «compassione» e l’adesione cordiale (cfr. Is 57,18; Os 11,8)25. La Bibbia greca invece usa i termini éleos [έλεος] – misericordia26; harisma [χάρισμα] – dono misericordioso, e il termine haris [χάρις] che si traduce direttamente come «grazia» e appare concretamente riferito a Cristo (2Tim 1,9; Tit 2,11) e alle opere divine dell’incarnazione e redenzione (2Cor 8,9; Gal 2,20-21)27. Questo ultimo termine è considerato il più importante: Charis [χάρις] significa dunque, secondo S. Paolo, il consiglio salvifico di Dio che, esistente in lui dall’eternità, si è manifestato ed è divenuto efficace nella redenzione di Cristo, e per mezzo di Cristo continua ad adempire per tutto il corso della storia l’opera della redenzione. Nell’uso concreto questa voce esprime direttamente ora l’uno ora l’altro di questi aspetti della salvezza cristiana, ma, indirettamente, anche tutti gli altri28. Il concetto di grazia, essenzialmente, è lo stesso, sia in ambito veterotestamentario che in quello neotestamentario, com’è dimostrato dalla stretta continuità esistente tra la terminologia impiegata nel Nuovo Testamento e quella della tradizione ebraica. La novità neotestamentaria «consiste nel fatto che la grazia di Dio riceve ora un nome definitivo (Gesù di Nazaret) e appare nel suo carattere pneumatologico universale e sovrano»29. Nell’annuncio profetico di Gesù di Nazaret sul regno di Dio si compie la tradizione biblica della profezia della salvezza. Il regno di Dio annunciato è un regno di grazia, d’eterna misericordia e amore divino, che nella persona di Gesù Cristo diventa sperimentabile in forma personale. L’aspetto universale si compie grazie all’opera dello Spirito Santo attraverso cui la grazia divina si manifesterà nella sua pienezza agli occhi di tutto il mondo al ritorno del Signore (Tt 2,11.13). Dio Padre che opera per la salvezza umana in Gesù Cristo diventa presente ed efficace nei singoli e nella comunità mediante l’azione santificante-sanante dello Spirito (Rm 5,5). La salvezza manifestata in Gesù Cristo assume una destinazione universale (Gal 3,28), perché tutti hanno peccato e hanno bisogno della giustificazione e liberazione dal peccato (Rm 1–3). Con la sua venuta il Figlio dà compimento alla Legge e allo stesso tempo porta la novità della sua persona. Il popolo d’Israele rimane il popolo eletto (Rm 9–11), ma il dono della grazia di Dio in Gesù Cristo è per tutti gli uomini (Rm 5,15). Si tratta di una nuova creazione che Dio Padre compie in Cristo (2Cor 5,17) e mediante le opere dello Spirito Santo: —————————– 24 Cfr. H. WILDBERGER, «tm,a/ E.’œmœt», in ThHwAT, I, 201-209. Cfr. H.J. STOEBE, «~xr ṛhm pi. sich erbarmen», in ThHwAT, II, 761-768. 26 Cfr. R. BULTMANN, «ἔλεος, ὲλεέω», in ThWNT, II, 474-482. 27 Cfr. H. CONZELMANN – W. ZIMMERLI, «χάρις, χάρισμα», in ThWNT, IX, 363-397. 28 Il vangelo della grazia, 20-21. Cfr. anche K. BERGER, «Grazia (I)», 360-365. 29 B.J. HILBERATH, «Dottrina della grazia», 15. 25 INTRODUZIONE 25 Il Dio della grazia è il Dio trino, Padre, Figlio e Spirito Santo; egli si rivolge in maniera definitiva a tutti gli uomini che non erano in grado di liberarsi dalla loro situazione disperata, perché pure la coscienza morale data da Dio e la legge concessa da Jahveh poteva solo mettere in luce il peccato universale; grazie all’azione gratuita di Dio, che rende giusti i peccatori, gli uomini sono strappati alla morte, liberati per una nuova vita e una nuova creazione e abilitati a divenire, in virtù dello Spirito, se stessi nella comunione con le loro sorelle e fratelli e con Dio30. 2.3.2 Sviluppo storico-dogmatico L’articolazione ricca e profonda del pensiero biblico sulla salvezza, ha conosciuto un ulteriore sviluppo nella storia delle comunità cristiane e nelle successive formulazioni della teologia cristiana. Le formulazioni di epoca patristica si distinguono per il loro carattere peculiare: esse, infatti, nascono sempre da esperienze concrete. Grazie a un’elaborazione storico-teologica dei temi salvifici, nasce una terminologia tecnica e appropriata capace di esprimere i vari aspetti del dono divino. Il termine grazia, uno dei più importanti, esprime diversi aspetti della salvezza cristiana, anche se, per sé, essa andrebbe riferita essenzialmente alla benevolenza di Dio verso la creatura31. Qui si deve distinguere la grazia increata che è Dio stesso in quanto possiede un suo cuore benevolo verso le creature, dalla grazia creata che si riferisce, invece, ai doni che Dio elargisce come realtà distinte da Se stesso. Tra questi ultimi si distinguono i doni naturali che appartengono alla natura e la costituiscono. Essi possono essere chiamati grazie in senso largo e vanno distinti dai doni soprannaturali che non sono dovuti alla natura umana ma che la superano. Questi ultimi rientrano nell’ambito della grazia in senso stretto, o grazia soprannaturale alla quale l’uomo partecipa e da cui viene divinizzato entrando in una nuova relazione personale con Dio. A questo punto si passa trattare nuovamente della grazia increata riferita a Dio stesso, alla Santissima Trinità che viene ad abitare nell’anima32. A seconda del modo in cui la grazia agisce nell’uomo, si distinguono diverse definizioni di grazia: la grazia esterna o interna, la grazia sanante e la grazia elevante. Quest’ultima si chiama anche grazia santificante perché pone in modo permanente la persona stessa nello stato di figlio di Dio e la conduce a meritare la vita eterna. Non c’è una grazia in particolare che renda graditi a Dio (gratia gratum faciens) perché ogni grazia, in quanto riguarda l’utilità dell’uomo che la riceve, mira al bene della persona e quindi ad avvicinarla a Dio. La grazia gratuitamente concessa (gratia gratis data) è data principalmente per l’utilità degli altri e si chiama carisma. —————————– 30 B.J. HILBERATH, «Dottrina della grazia», 19. Cfr. Il vangelo della grazia, 21-23. 32 Cfr. Il vangelo della grazia, 22. 31 26 IL MISTERO DELLA SALVEZZA CRISTIANA Nella storia della teologia il tema della salvezza è sempre stato collegato al tema della libertà umana e del suo rapporto con la grazia salvifica di Dio33. Nei primi secoli del cristianesimo, i primi grandi teologi della Chiesa (Ireneo di Lione, Tertulliano, Origene) lottavano contro le tendenze dualistiche degli gnostici e la loro falsa dottrina sulla divinizzazione «la quale è particolaristica quanto alla salvezza, è astorica e “fisica” ed elimina, pertanto, la libera accettazione, da parte dell’uomo, della libera grazia di Dio in favore di una storia cosmologica di Dio stesso»34. Partendo dalla dottrina paolina sulla redenzione nella forma di anakephalaiosis [άνακεφαλαίωσις/recapitulatio], i primi Padri della Chiesa svilupparono la dottrina sulla grazia annunciando Cristo come unico redentore (Ef 1,10)35. La dottrina dei Padri e i primi concili della Chiesa, procedendo dai risvolti dottrinali presenti in Paolo e Giovanni e servendosi dei concetti di filiazione divina (Gal 4,4-7; 1Gv 3,1-2)36 e d’inabitazione dello Spirito Santo nell’uomo redento (Rm 8,11; 2Tim 1,14; 2Pt 1,4), hanno dato inizio alla dottrina cristiana della salvezza legandola ai misteri di Cristo37. La tradizione occidentale è stata profondamente segnata dall’insegnamento di sant’Agostino al quale è stato dato il titolo di «dottore della grazia». La sua dottrina, che prende alcuni spunti da Tertulliano, è animata da un forte intento antipelagiano e tratta in modo speciale del rapporto che intercorre tra la natura umana e la grazia di Cristo. L’accento è messo sulla grazia come forza divina interiore che guarisce e santifica l’uomo, creando in lui una nuova inclinazione, una nuova forza che lo libera per renderlo capace di amare veramente. È in questa esperienza interiore della grazia che si articola l’esperienza di salvezza dell’uomo: la dottrina della salvezza con Agostino diventa una vera «teologia della grazia»38. La tarda patristica e il primo medioevo teologico, aderendo alla dottrina di Agostino e a quella del Secondo sinodo di Orange (529) «superano, contro il predestinazionismo, la dottrina di una volontà salvifica puramente particolare la quale, ancora prima della colpa, esclude positivamente molti dalla salvezza»39. Nella teologia scolastica, con la così detta eredità «platonico-agostiniana», nasce un secondo orientamento – quello «aristotelico-tomista», che introduce nella dottrina della salvezza una prospettiva ontologica della grazia. La natura umana viene non soltanto risanata dal —————————– 33 «La teologia della grazia (De gratia) è la parte di un’antropologia teologica che si occupa dell’uomo redento e giustificato». K. RAHNER, «Grazia, teologia della», 389. 34 Cfr. K. RAHNER, «Grazia, teologia della», 392. 35 Il primo esempio di questa dottrina lo troviamo proprio in Ireneo di Lione. Cfr. cap. II, soprattutto par. 2.2.2 di questo lavoro. 36 Cfr. AH, V, 32,2; 34,3. 37 Cfr. J. AUER, «Grazia (II)», 366-367. 38 Cfr. F. ARDUSSO, La salvezza dell’uomo, 1-5. «egli è il grande dottore della Chiesa sul peccato originale, sulla non meritabilità della grazia, e della predestinazione alla beatitudine e di una psicologia della grazia». K. RAHNER, «Grazia, teologia della», 393. 39 Cfr. K. RAHNER, «Grazia, teologia della», 393; DH 330-339.373-400.596.621-633. INTRODUZIONE 27 peccato, ma anche elevata alla comunione con Dio. Il battesimo è descritto come lavacro di rinnovamento (Tit 3,4-7) che inserisce l’uomo in Cristo e che causa, in virtù dello Spirito Santo, un cambiamento nell’individuo. L’uomo viene intrinsecamente trasformato, in senso ontologico, attraverso una nuova nascita che deriva da Dio stesso: «non da sangue, né da volere di carne, né da volere dell’uomo, ma da Dio» (Gv 1,13). La grazia santificante viene considerata una qualità soprannaturale che perfeziona ed eleva la natura verso il fine proprio, cioè la beatitudine, nel senso del godimentopartecipazione della Trinità40. Dalla dottrina di Tommaso41in poi sono sorte dispute teologiche attorno al tema del rapporto fra grazia e libertà dell’uomo, fra merito e giustificazione, che si sono perpetuate nel confronto tra i riformatori e il Concilio di Trento42 e nella controversia scolastica fra i domenicani (tomismo di Bañez) e i gesuiti (molinismo – L. de Molina)43, finché non si estinguono all’inizio del XVII secolo. In reazione alle dottrine erronee di Baio e Giansenio, però, nella teologia neotomista, influenzata dall’aristotelismo, ritorna la problematica del duplice fine: naturale e soprannaturale44. La natura umana, in quanto compiuta in sé, possiede il suo proprio fine naturale, mentre la salvezza umana è considerata come una realtà che viene ad aggiungersi estrinsecamente alla natura dell’uomo45. Questa problematica, nella prima metà del XX secolo diventerà nuovamente attuale con una nuova accentuazione dell’aspetto della storia salvifica e della visione personalistica della grazia46. Le opere degli autori di questo periodo (R. —————————– 40 Cfr. ARDUSSO, La salvezza dell’uomo, 5-6. Cfr. S. Th. I-II, q. 113-114. 42 Aderendo alla dottrina più biblica sulla grazia, il Concilio di Trento con il Decreto sulla giustificazione ha condannato le dottrine dei riformatori. Cfr. DH 1520-1583. «La dottrina riformatoria dell’assoluta corruzione dell’uomo a causa del peccato, riaffiorata nel baianismo (DH 1901-1980), nel giansenismo (DH 2001-2008.2010-2012.2301-2332) e in B. Quesnel (DH 2401-2502), fu respinta dai teologi gesuiti del tempo che svilupparono nuovi concetti sussidiari (desiderium supernaturale, potentia oboedientialis, natura pura)». Cfr. J. AUER, «Grazia (II)», 370, ATM, 39-126; cap. I, par. 1.2 di questo lavoro. 43 «Mentre il tomismo voleva salvaguardare soprattutto la causalità universale del Dio creatore come causa prima (praemotio physica) nell’operare delle creature, il molinismo volava salvare in questa dottrina la libertà sia dell’uomo che di Dio (concursus simultaneus)». J. AUER, «Grazia (II)», 370. 44 Sui relativi riferimenti di Tommaso ad Aristotele, cfr. S. Th., I, q. 62, a. 1 (Ethic X, cc. 7-8); S. Th., I-II, q. 3, a. 2 ad 4m (Ethic I, c. 10); q. 3, a. 5 (Ethic X, cc. 7-8); q. 62, a. 1 (Ethic I, c. 10). Cfr. anche S. Th., I, q. 65, a. 2 ad 2m. Per la corrispondente interpretazione lubachiana della dottrina di Tommaso, cfr. H. de LUBAC, «Duplex hominis beatitudo», 290299; S, 117-120.456-457; ATM, 217-221; MS65,167-174; G. COLOMBO, «Il problema del soprannaturale negli ultimi cinquant’anni», 578-598; cap. I, par. 1.1 di questo lavoro. 45 Cfr. cap. I, par. 1.2 di questo lavoro. 46 Rahner afferma a proposito: «La teologia odierna si sforza di impiegare concetti più personalistici nella dottrina della grazia, tende a creare una unità fra natura e grazia, senza oscurarne la differenza, e una maggiore comprensione della dottrina biblica sulla grazia e della teologia della Riforma». K. RAHNER, «Grazia, teologia della», 394. 41 28 IL MISTERO DELLA SALVEZZA CRISTIANA Guardini, K. Rahner, K. Barth...), tra cui si colloca anche lo scritto Surnaturel di de Lubac, hanno ridato attualità alla questione del soprannaturale47. Il Concilio Vaticano II, evitando lo spirito delle dispute e delle contrapposizioni storico-teologiche unilaterali, cerca «di guardare insieme, in una visione complessiva della salvezza, le diverse possibilità e i giusti punti di partenza, gli elementi e gli indirizzi della dottrina della grazia»48. 2.4 Dottrina sulla «divinizzazione» Già dai primi secoli del cristianesimo il tema della «divinizzazione» era legato al concetto cristiano di salvezza e alla dottrina della grazia49. Nella Sacra Scrittura la divinizzazione non è indicata esplicitamente, ma in essa si possono trovare i fondamenti sui quali si è sviluppata la dottrina della salvezza come divinizzazione – partecipazione alla natura divina, trasformazione della natura umana attraverso la grazia donata in Cristo dallo Spirito Santo. La dottrina sulla divinizzazione è presente in modo eminente soprattutto nella teologia dei Padri orientali, tanto da rappresentare la principale diversità dell’approccio teologico e filosofico delineatosi tra Oriente e Occidente cristiano. 2.4.1 Partecipi della natura divina Secondo la testimonianza della Sacra Scrittura, la realtà della divinizzazione dell’uomo comincia a realizzarsi fin dalla sua creazione ad immagine e somiglianza di Dio (Gn 1,26). Essa, nonostante l’ostacolo del peccato, assume nell’esperienza ebraica la forma della figliolanza adottiva (Dt 14,1; Sal 73,15; 82, 6), finché non raggiunge il suo compimento nel Nuovo Testamento, nell’adozione filiale donata da Cristo nello Spirito Santo50. Le affermazioni neotestamentarie che esprimono questa consapevolezza dell’adozione filiale sono molto chiare. Le incontriamo nel lieto annuncio di Gesù che presenta Dio come «il vostro Padre che è nei cieli» (Mt 6,1; 7,11; Mc 11,25; Lc 11,2.13), negli scritti di Paolo e Giovanni che —————————– 47 Sul significato teologico dei termini «natura», «natura pura» e «soprannaturale», e sul significato particolare del termine «soprannaturale» negli scritti di de Lubac, cfr. cap. I, sez. 1. di questo lavoro. 48 Cfr. J. AUER, «Grazia (II)», 370. 49 «Clemente d’Alessandria diede alla dottrina platonica della divinizzazione dell’uomo (Theait. 176 ab) un’interpretazione cristiana (2Pt 1,4), in particolare con la verità dell’inabitazione dello Spirito Santo (Rm 8,11; 2Tim 1,14)». J. AUER, «Grazia (II)», 366. Cfr. I.-H. DALMAIS – G. BARDY, «Divinisation», 1376.1378. Nei vari dizionari e manuali della teologia, la dottrina della divinizzazione viene indicata come parte della dottrina sulla grazia. Cfr. Ibid., 1370-1459. Alcuni aspetti della dottrina cristiana della divinizzazione determinata dai concetti paolini della filiazione adottiva, della trasfigurazione e trasformazione interiore dell’uomo per mezzo della grazia di Cristo, li incontriamo anche in Ireneo e de Lubac. Cfr. cap. I, sez. 1., par. 2.3, 4.2 e cap. II, par. 2.3 di questo lavoro. 50 Cfr. B. SESBOÜÉ, Gesù Cristo, I, 226-227. INTRODUZIONE 29 collegano la realtà della vita del Figlio di Dio con la realtà di coloro che credono in Lui (Rm 8,29; Gal 3,26; 4,6-7; Gv 1,12; 1Gv 3,1-2) e nell’esperienza di una nuova nascita per mezzo della fede (1Pt 1,3) «mediante un lavacro di rigenerazione e di rinnovamento nello Spirito Santo» (Tt 3,5). Si tratta di una nuova nascita che si riceve con il battesimo, che immerge nella morte di Gesù per far rinascere alla vita nuova (Rm 6,48), libera dal peccato (1Gv 1,39) e sostenuta dal dono dello Spirito (At 2,38). Attraverso il battesimo l’uomo diventa una «nuova creazione» (Gal 6,15), spogliato dell’uomo vecchio e rivestito dell’uomo nuovo (Col 3,910). La vita nuova è la partecipazione alla natura divina (2Pt 1,4), la partecipazione alla vita trinitaria stessa «in unione con Gesù Cristo nostro Signore» (Rm 6,23). Il testo classico in cui si afferma la partecipazione alla natura divina da parte dell’uomo in Cristo è 2Pt 1,3-7: È la sua potenza divina che ci ha fatto dono di tutto quello che ci serve per la vita e la pietà, in una conoscenza approfondita di colui che ci ha chiamati in virtù della propria gloria e della propria forza, poiché ci è stato fatto il dono di promesse valide ed eccezionali, in modo che diventaste per mezzo di esse partecipi della natura divina, fuggendo la corruzione che si trova nelle passioni sfrenate del mondo. E proprio per questo, mettendo in atto tutta la vostra diligenza, attingete la virtù alla fede, la conoscenza alla virtù, l’autodominio alla conoscenza, la costanza all’autodominio, la pietà alla costanza, la carità fraterna alla pietà, l’ amore alla carità fraterna. I doni che Dio ha fatto ai cristiani tendono a renderli partecipi della natura divina nel senso che i cristiani acquistano attributi propri di Dio solo51. Parallelamente al testo di 2Pt, anche in 1Pt 5,1, si afferma la partecipazione alla natura divina non intesa esclusivamente in senso escatologico, ma indica la partecipazione attuale alla gloria di Cristo52. La visione dell’uomo come creatura chiamata alla vita divina, alla comunione con le persone divine è riaffermata in modo centrale, a proposito della salvezza, anche dal Concilio Vaticano II. Il Concilio evita la terminologia di naturale-soprannaturale e ripropone il linguaggio biblico e patristico53. Similmente troviamo che, nell’enciclica Redemptoris missio di papa Giovanni Paolo II, si parla della salvezza cristiana come autocomunicazione di Dio e partecipazione alla vita trinitaria: «La salvezza in Cristo, testimoniata e annunziata dalla chiesa, è autocomunicazione di Dio: “È l’amore che non soltanto crea il bene, ma fa partecipare alla vita stessa di Dio: Padre, Figlio e Spirito Santo. Infatti, colui che ama, desidera donare se stesso”»54. —————————– 51 Cfr. 1Cor 15,53-54; AH, V, 1,1; 7,1; 10,2; 13,3. Cfr. M. FLICK – Z. ALSZEGHY, Fondamenti di una antropologia teologica, 285-286. 53 Cfr. ARDUSSO, La salvezza dell’uomo, 19. 54 Cfr. GIOVANNI PAOLO II, Redemptoris missio, 7, dove si fa riferimento all’enciclica Dives in misericordia dello stesso papa. 52 30 IL MISTERO DELLA SALVEZZA CRISTIANA 2.4.2 Testimonianza della tradizione Come nella Sacra Scrittura, così anche nella tradizione della Chiesa antica, la dottrina sulla divinizzazione prende le mosse dalla creazione dell’uomo a immagine di Dio e si sviluppa nei grandi argomenti soteriologico-dogmatici55. Si entra nell’ambito del tema della grazia divina e il tema della salvezza umana portata da Gesù Cristo come divinizzazione dell’uomo in virtù del dono dello Spirito Santo56. La differenza tra la tradizione cristiana e il pensiero pagano è che nell’ambito cristiano la divinizzazione è considerata come un dono gratuito: non dipende dallo sforzo dell’uomo. «L’uomo può divenire Dio per partecipazione, cioè può ricevere in parte e per dono le prerogative della vita di Dio: libertà, santità, giustizia, amore, immortalità e incorruttibilità»57. Invece, per le tradizioni pagane, la divinizzazione è frutto d’uno sforzo umano, tematizzato nella ricerca filosofica. Per questa ragione, nella tradizione cristiana occidentale, il linguaggio della divinizzazione è stato sempre evitato per non evocare risonanze negative58. Nell’Oriente cristiano, particolarmente nei Padri greci, la divinizzazione era considerata come sinonimo di adozione filiale e si è sviluppata in relazione al significato di «immagine e somiglianza»59. Ci sono due modalità con cui intendere il senso dell’essere a «immagine e somiglianza»: secondo la prima, questi due aspetti sono inscindibili e così come «immagine» e «somiglianza» sono state date insieme, allo stesso modo, una volta perdute, esse vanno riconquistate insieme. Secondo la seconda modalità, invece, occorre cogliere la distinzione esistente tra l’ «immagine» e la «somiglianza» a partire dai testi biblici di Gn 1,26 e Gn 1,27. Nel secondo passo della Genesi, infatti, non si menziona la «somiglianza», ma soltanto la creazione dell’uomo a «immagine di Dio». A causa di questa piccola differenza, alcuni Padri ritenevano che l’uomo dovesse passare dall’«immagine» alla «somiglianza» con l’aiuto della grazia divina, vale a dire per mezzo dell’inabitazione dello Spirito Santo nell’uomo divinizzato. Nel pensiero patristico il concetto di «immagine e somiglianza» era collegato al mistero dell’incarnazione del Verbo. Dopo il peccato l’uomo perde la somiglianza, ma l’ «immagine» rimane. Sant’Ireneo coglie e afferma la reciprocità dell’«immagine» dell’uomo con Cristo: «Se l’uomo —————————– 55 Dalle stesse citazioni bibliche, Gn 5,1 e 5,3, si evidenzia che l’uomo è stato creato a immagine e somiglianza di Dio, ma non è Dio. Cfr. L.F. LADARIA, Antropologia teologica, 146-147. 56 Cfr. DH 3005; LG 2; DV 6; GS 21; AG 2; I.-H. DALMAIS – G. BARDY, «Divinisation», 1376; J. ALFARO, «Natura», 571; B. SESBOÜÉ, Gesù Cristo, I, 230. 57 B. SESBOÜÉ, Gesù Cristo, I, 230. 58 Cfr. I.-H. DALMAIS – G. BARDY, «Divinisation», 1389-1398. 59 Cfr. I.-H. DALMAIS – G. BARDY, «Divinisation», 1370-1389; B. SESBOÜÉ, Gesù Cristo, I, 231. INTRODUZIONE 31 è fatto a immagine di Dio, ciò vuol dire che egli è a immagine di Cristo»60. Con il mistero dell’incarnazione Cristo restituisce la somiglianza perduta e compie la salvezza umana. A partire dal IV secolo la distinzione tra l’«immagine» e la «somiglianza» si perde e la stessa tradizione patristica, da san Gregorio Nisseno ad Agostino, usa entrambi i termini con lo stesso significato61. Passando attraverso le riflessioni dello Pseudo-Dionigi e di Massimo il Confessore, ritroviamo nel Medioevo un’accezione comune ai due termini presso i grandi autori monastici che sviluppano una concezione spirituale e mistica dell’«immagine e somiglianza». I grandi argomenti soteriologici collegano la dottrina della divinizzazione alla fede battesimale che introduce l’uomo al mistero e alla comunione con la vita Trinitaria. I Padri della Chiesa partendo dalla Sacra Scrittura trattano dello «scambio salutare» operato dal Verbo che si è fatto uomo perché l’uomo possa diventare figlio di Dio62. Nell’unione ipostatica di Cristo la natura divina opera la divinizzazione della natura umana e i sacramenti che procedono dalla grazia dell’unione ipostatica portano la salvezza divinizzatrice. La stessa dottrina viene affermata nel Catechismo della Chiesa Cattolica: Il Verbo si è fatto carne perché diventassimo «partecipi della natura divina» (2 Pt 1,4): «Infatti, questo è il motivo per cui il Verbo si è fatto uomo, e il Figlio di Dio, Figlio dell’uomo: perché l’uomo, entrando in comunione con il Verbo e ricevendo così la filiazione divina, diventasse figlio di Dio». «Infatti il Figlio di Dio si è fatto uomo per farci Dio». «Unigenitus [...] Dei Filius, Suae divinitatis volens nos esse participes, naturam nostram assumpsit, ut homines deos faceret factus homo – L’unigenito [...] Figlio di Dio, volendo che noi fossimo partecipi della sua divinità, assunse la nostra natura, affinché, fatto uomo, facesse gli uomini dei»63. La teologia cattolica contemporanea, a partire dagli anni cinquanta del secolo scorso, volendo superare la concettualizzazione scolastica e liberare la teologia della grazia e della salvezza da un pesante estrinsecismo, è tornata alle categorie bibliche e alla patristica greca. Ha ricominciato ad affermare il cristocentrismo e il rapporto personale con Dio attraverso il dono personale dello Spirito Santo che è la causa formale della divinizzazione dell’uomo64. Il richiamo ai fondamenti biblici, sui quali si sviluppa —————————– 60 B. SESBOÜÉ, Gesù Cristo, I, 232. Cfr. cap. II, par. 1.1 di questo lavoro. Cfr. MS65, 157-158; L.F. LADARIA, «L’uomo creato a immagine di Dio», 81-103; J. ALFARO, Cristologia e antropologia, 272. 62 Cfr. B. SESBOÜÉ, Gesù Cristo, I, 237-238, dove si trovano riferimenti alle formule patristiche di Ireneo, Origene, Atanasio, Gregorio Nisseno e Giovanni Cristosomo; L.F. LADARIA, «Destino dell’uomo e fine dei tempi», 371; cap. II, sez. 2. di questo lavoro. 63 Cfr. CCC, 460, dove si fa riferimento a Ireneo di Lione, Atanasio di Alessandria e Tommaso d’Aquino. 64 Cfr. ARDUSSO, La salvezza dell’uomo, 8-9. 61 32 IL MISTERO DELLA SALVEZZA CRISTIANA la dottrina della divinizzazione, è diventato sempre più il punto di partenza imprescindibile per poter intraprendere una nuova riflessione. 2.5 Tra Oriente e Occidente Per le ragioni già menzionate sopra, la teologia latina parla poco della divinizzazione e, richiamandosi agli elementi offerti dal Nuovo Testamento, soprattutto dagli scritti paolini e dalla teologia giovannea, preferisce il vocabolario della grazia65. La diversità sta anche nella diversa accentuazione del significato della grazia nella vita dell’uomo. Gli orientali individuano il ruolo della grazia soprattutto nella possibilità che essa offre di divenire partecipi degli attributi divini, mentre gli occidentali considerano piuttosto la grazia come un aiuto per uscire dal peccato. In realtà, in entrambi i casi, la grazia è un aiuto divino che risponde alla situazione dell’uomo, però, le due prospettive teologiche divergono per l’interpretazione della situazione umana. Inoltre: la teologia occidentale si preoccupa di più dell’antropologia della grazia, cioè delle condizioni di possibilità e della modalità della nostra unione con Dio presenti in noi stessi. Per questo motivo essa insiste di più sulla grazia creata che non su quella increata. Sotto la sua astrazione quest’ultima espressione indica molto semplicemente l’inabitazione trinitaria in noi, inabitazione che si realizza col dono dello Spirito. Invece la grazia creata indica la parte di noi che è stata trasformata e adattata in vista della ricezione di questo dono. Si tratta di un effetto soprannaturale prodotto nell’anima da Dio, che agisce in noi come causa efficiente della nostra santificazione, mentre la grazia increata si comunica a noi così com’essa è in se stessa66. Un altro punto di divergenza teologica sui temi della salvezza e della grazia tra Occidente e Oriente, è quello concernente alcuni aspetti della dottrina sulla giustificazione. Gli orientali, infatti, nella dottrina sulla giustificazione non pongono l’accento sulla distinzione tra la natura e la sopranatura, ma «includono nella natura anche ciò che fa lo Spirito Santo nell’uomo, configurandolo progressivamente a Dio»67. Gli occidentali invece vedono nella giustificazione un «ritorno dell’uomo al suo splendore originale»68. Gli orientali dunque s’interessano più al problema del divenire, —————————– 65 Cfr. I.-H. DALMAIS – G. BARDY, «Divinisation», 1389-1398. Sesboüé aggiunge: «La grazia santificante presenta quindi per noi una doppia faccia, increata e creata, che bisogna guardarsi dal separare come due cose». ID., Gesù Cristo, I, 247-248. Sul rapporto tra grazia increata e la grazia creata nella divinizzazione vedi: M. FLICK – Z. ALSZEGHY, Fondamenti di una antropologia teologica, 299-301. 67 Cfr. Il vangelo della grazia, 602. 68 «Tandis que la théologie grecque développe avant tous les autres le concept de la divinisation, la théologie latine s’attache à prouver que les hommes, rachetés par JésusChrist, retrouvent, par le moyen de ce rachat, la grâce que leur avait fait perdre la faute de leurs premiers parents. Deux textes résument en quelque sorte cette idée. Le premier est de saint Irénée (AH, III, 19,1), l’autre de saint Athanase (De Incarnatione Verbi 54). Ils ont été 66 INTRODUZIONE 33 mentre gli occidentali si concentrano sull’essere, sui vari doni che il giusto riceve nella giustificazione: L’idea della «deificazione», ottenuta per mezzo dei sacramenti, è una della dottrine centrali della chiesa orientale. Nella teologia occidentale invece, quest’aspetto della giustificazione non è messo molto in rilievo, benché anche i Padri e dottori della chiesa occidentale affermino occasionalmente che l’uomo nella giustificazione acquista un’affinità speciale con Dio, inaccessibile alle creature69. Considerando la finalità dell’uomo, l’Oriente vede nella divinizzazione la realizzazione dell’uomo creato ad immagine di Dio. L’«immagine» qui non è qualcosa che si aggiunge dall’esterno, ma è ciò che costituisce l’uomo come un essere che partecipa dell’essere stesso di Dio. La divinizzazione è il passaggio dell’uomo dall’immagine alla somiglianza con Dio, che si svolge lungo un processo senza fine, perché Dio creatore è sempre più grande della sua creatura70. Il fine dell’uomo in Occidente, invece, viene individuato nella beatitudine che si raggiunge attraverso la grazia concepita «come partecipazione alle operazioni divine con le quali il cristiano è reso operante come Dio stesso (elevazione soprannaturale)»71. Sullo sfondo delle differenze esistenti tra le due tradizioni si delineano i rispettivi punti di partenza delle due tradizioni e le tradizioni filosofiche a cui esse indicativamente si ispirano: in Occidente ci si ispira alla filosofia aristotelica e in Oriente a quella platonica. Questi due differenti influssi filosofici hanno ispirato due differenti modi di concepire il rapporto uomoDio72. Gli orientali, sotto l’influsso platonico, concepiscono l’essere come partecipazione a Dio e intendono la grazia come ciò che costituisce l’«immagine di Dio» nell’uomo. La natura viene così concepita come ciò che permette la partecipazione a Dio, e la grazia come quella realtà increata e divina che rende l’uomo simile a Dio. A questo concetto orientale conviene il linguaggio della divinizzazione. Gli occidentali invece, sotto l’influsso aristotelico, considerano le cose come a sé stanti e fornite di una consistenza propria, e considerano anche la grazia come un elemento nuovo e aggiuntivo della natura umana. L’Occidente preferisce parlare di attività, —————————– cités plus haut». I.-H. DALMAIS – G. BARDY, «Divinisation», 1393. Cfr. Il vangelo della grazia, 602; cap. II, par. 2.3 di questo lavoro. 69 Cfr. Il vangelo della grazia, 547. 70 Cfr. Y. SPITERIS, Il linguaggio della divinizzazione, 91. 71 Cfr. Y. SPITERIS, Il linguaggio della divinizzazione, 92. Sulla dottrina della partecipazione della natura divina, concessa all’uomo nell’istante della giustificazione vedi: Il vangelo della grazia, 532-560, dove troviamo l’affermazione: «La partecipazione del giusto alla natura divina, non è stata mai definita dalla chiesa. Però, questa dottrina si trova esplicitamente affermata nelle fonti della rivelazione, ed è insegnata dalla chiesa, come appartenente alla fede. Il fatto dunque di questa partecipazione, deve dirsi “di fede divina e cattolica”. Sarebbe dunque un “errore contro la fede”, negare la partecipazione del giusto alla natura divina, o spiegarla in un modo puramente metaforico». Ibid., 553. 72 Cfr. Y. SPITERIS, Il linguaggio della divinizzazione, 90-94. 34 IL MISTERO DELLA SALVEZZA CRISTIANA di ordine di operazioni, e deve quindi servirsi di un linguaggio in grado di spiegare la grazia nel suo agire nell’uomo (grazia elevante e santificante). Come possiamo vedere, tra Oriente e Occidente, vi sono diversità sia nel linguaggio che nelle visioni teologiche ma ciò non significa che non ci siano punti in comune. Il fondamento comune ad entrambe le tradizioni, è, infatti, l’affermazione dottrinale dell’unica «natura umana» divenuta «partecipe della natura divina» (2Pt 1,4)73. Nei capitoli successivi di questo lavoro, vorremmo presentare le dottrine di Ireneo di Lione e di Henri de Lubac nella loro sostanziale consonanza con l’elaborazione dottrinale compiuta dalla tradizione comune della Chiesa in merito ai temi principali riguardanti l’uomo e la sua salvezza: Dio ha creato l’uomo per renderlo partecipe della sua vita e della sua gloria74, e ha creato il mondo per sottometterlo a questo fine – l’incontro tra Dio e l’uomo75. Questa verità viene espressa da Ireneo mediante lo sviluppo del concetto paolino di ricapitolazione in Cristo di tutta la creazione76, mentre de Lubac la riprende nella sua dottrina sul «soprannaturale» e la tratta servendosi del concetto del desiderium naturale. Egli giunge così ad affermare che l’uomo «è desiderio di Dio»77, perché «l’uomo non può vivere che per la visione di Dio, e questa visione di Dio dipende assolutamente dal beneplacito divino»78. Nei capitoli successivi vedremo dunque come Ireneo e de Lubac, ognuno nel contesto del tempo in cui visse e secondo una modalità peculiare, affermano entrambi l’unicità della natura umana e l’offerta universale della salvezza in Cristo, salvando l’assoluta gratuità della grazia – dottrina comune delle Chiese. —————————– 73 Cfr. Il vangelo della grazia, 602. Cfr. AH, IV, 14,1. 75 Cfr. AH, IV, 7,4; 20,4; V, 29,1. 76 Cfr. cap. II, par. 2.2.2 di questo lavoro. 77 Cfr. S, 483-493; cap. I, par. 2.3 di questo lavoro. 78 Cfr. AH, IV, 20,5.7; MS49, 134; cap. II, parr. 2.3 e 3.2 di questo lavoro. 74 CAPITOLO I DOTTRINA DEL «SOPRANNATURALE» IN HENRI DE LUBAC Henri de Lubac, gesuita, nato il 20 febbraio 1896 a Cambrai in Francia, morto il 4 settembre 1991 a Parigi, insegnò teologia fondamentale e storia delle religioni dal 1929 al 1950 presso le Facoltà Cattoliche di Lione e contemporaneamente, dal 1935 al 1940, tenne corsi occasionali presso la Facoltà Teologica dello Scolasticato gesuita di Fourvière dove era membro del corpo docente1. Fu promotore e collaboratore di due notevoli collane: Sources chrétiennes, la collana di testi patristici iniziata in collaborazione con Daniélou nel 1942 presso le edizioni Cerf di Parigi, e la collana di monografie teologiche Théologie, iniziata nel 1944 presso l'AubierMontaigne di Parigi sotto la direzione della Facoltà di Teologia di LioneFourvière. Due opere di de Lubac, Corpus Mysticum (1944) e Surnaturel (1946), diedero un notevole contributo alla querelle teologica sorta in quel periodo in Francia con la pubblicazione di articoli e di opere teologiche nella collana Théologie2 e nelle riviste francesi Revue Thomiste e Études. Fu questo l’inizio di quel rinnovamento teologico che andò sotto il nome di Nouvelle Théologie3. Tra gli studi fondamentali di questo movimento è nota l’introduzione di de Lubac alla traduzione francese delle Omelie sulla Genesi di Origene, pubblicata nella collana Sources chrétiennes (SC 7). Il suo nome appare nelle pubblicazioni delle collane menzionate insieme a Daniélou, von Balthasar, Bouillard, Fessard, Rondet, Marrou, Hugo Rahner e altri «grandi» nomi, la maggioranza dei quali provenienti dalla Compagnia di —————————– 1 Cfr. R. GIBELLINI, La teologia del XX secolo, 192-201. Per sapere di più sulla vita e sul pensiero di Henri de Lubac in generale, suggeriamo: A. RUSSO, Henri de Lubac e J.-P. WAGNER, Henri de Lubac. 2 Cfr. R. GIBELLINI, La teologia del XX secolo, 192. 3 Il rinnovamento teologico promosso dai gesuiti francesi, che mirava «a superare la strozzatura di una teologia scolastica che aveva perduto il contatto con le fonti e si chiudeva al confronto con le correnti del pensiero contemporaneo». Cfr. R. GIBELLINI, La teologia del XX secolo, 192. 36 IL MISTERO DELLA SALVEZZA CRISTIANA Gesù e tutti protagonisti del rinnovamento della teologia di questo secolo. Ricorrono anche i nomi del filosofo Maurice Blondel e del paleontologo gesuita Pierre Teilhard de Chardin, ritenuti ispiratori della Nouvelle Théologie4. Essa si sviluppa attorno a certe indicazioni fondamentali, fra le quali: – il ritorno alle fonti (Scrittura, Tradizione patristica, Liturgia) ed alla storia (ristabilire il legame della visione storica dei Padri con quella dei contemporanei); – un’attenzione alle influenze filosofiche, per una teologia «viva» arricchita dal contatto con il pensiero contemporaneo; – una teologia capace di illustrare ai contemporanei il senso della loro vita, dispiegando una visione totale dell’uomo cristiano; – un recupero dell’universalismo in rapporto alle culture ed ai popoli5. Lo sforzo fondamentale di de Lubac, nel ruolo di «testimone della Tradizione», consistette «nel far meglio conoscere e quindi anche meglio giudicare e meglio amare i tesori della grande Tradizione cattolica»6. Lo afferma la sua grande opera Catholicisme (1938) considerata un «libro programmatico», punto di riferimento delle successive opere fondamentali di de Lubac7. Egli non identificava la «cattolicità» con l’«unilateralità», ma cercava una sintesi fra concetti diversi, apparentemente opposti. Secondo l’autore francese, «la teologia simbolica patristica e la teologia dialettica della grande scolastica sono metodologie destinate a fecondarsi reciprocamente e prospettive destinate ad inserirsi nel più vasto orizzonte della cattolicità»8. In questo spirito, per ricuperare le teologie su menzionate all’ampiezza della cattolicità, de Lubac studiò diversi autori cristiani controversi come Origene, Pico della Mirandola, Teilhard de Chardin e Blondel9. L’opera di de Lubac, che rispecchia la sua profondità intellettuale, si estende «dalla Patristica alla Storia del Dogma, dal problema dell’ateismo a quello della salvezza e del fondamento delle missioni, dalla Teologia della grazia all’Ecclesiologia, dall’Eucaristia al problema del senso delle Scritture alla Tradizione»10. Le sue opere hanno un carattere storico-teologico e rivelano la sua capacità di scrivere con uno stile improntato all’oggettività, —————————– 4 Sull’influsso di Blondel e Teilhard de Chardin, insieme agli altri «amici» e «maestri», come J. Huby, J, Maréchal, A. Valensin, É. Gilson, Y. de Montcheuil, G. Fessard, J. Daniélou, H.U. von Balthasar, H. Bouillard, al pensiero e allo sviluppo teologico di de Lubac, cfr. J.-P. WAGNER, Henri de Lubac, 29-46. 5 Cfr. I. MORALI, Henri de Lubac, 14. 6 Cfr. H. de LUBAC, «Nota dell’Autore e sua presentazione del piano dell’opera» nei volumi della traduzione italiana dell’Opera omnia dell’autore. 7 Cfr. R. GIBELLINI, La teologia del XX secolo, 196. Sulla possibile classificazione delle opere di de Lubac cfr. Hercsik, 27-34. 8 R. GIBELLINI, La teologia del XX secolo, 196. 9 Cfr. R. GIBELLINI, La teologia del XX secolo, 197. 10 Cfr. I. MORALI, Henri de Lubac, 7. SOPRANNATURALE 37 che tende ad essere impersonale11. A causa della complessità dell’orientamento del nostro autore, che affronta diversi argomenti delle sue opere, diventa «impossibile conoscere il P. de Lubac a settori»12. Benedetti si esprime in merito: Una sua opera, qualunque essa sia, ha i suoi «antecedenti», i suoi «presupposti» ai quali costantemente rimanda: e non può essere intesa isolatamente. È nata dalla complessa Realtà del Mistero vivente e dalla complessa personalità dell’autore e deve esser rapportata continuamente a queste due «realtà» per esser capita13. Nel nostro tentativo di avvicinarci al pensiero di de Lubac, di entrare nella sua comprensione del concetto di salvezza cristiana, scegliamo il tema del soprannaturale, argomento che nella Teologia del Novecento occupa un posto rilevante. Esso riguarda il rapporto fondamentale fra l’uomo e Dio, fra lo spirito creato ed il suo Creatore, fra natura e soprannaturale, fra natura peccatrice e grazia salvatrice. A questo scopo ci accostiamo alle cinque opere di de Lubac, le più rilevanti per il nostro argomento: Surnaturel (1946)14; «Le mystère du surnaturel» (1949); Augustinisme et théologie moderne (1965); Le Mystère du surnaturel (1965); Petite catéchèse sur Nature et Grâce (1980)15. Proprio l’argomento del soprannaturale, nello specifico il Surnaturel, è stato causa di diversi malintesi16 nei quali sono caduti «interpreti troppo —————————– 11 In questo senso, a proposito delle tante citazioni patristiche che usa nelle sue opere, de Lubac stesso dichiara: «Se le citazioni si accumulano – a rischio di affaticare il lettore – è perché abbiamo desiderato procedere nel modo più impersonale, attingendo soprattutto nel tesoro troppo poco utilizzato dei Padri della Chiesa». Vedi introduzione di de Lubac nella traduzione italiana di Catholicisme in C, p. XXVI. Benedetti aggiunge che questo che de Lubac dice per Catholicisme, può valere per ogni sua opera. Cfr. G. BENEDETTI, «La teologia del soprannaturale in Henri de Lubac», 30. 12 Cfr. G. BENEDETTI, «La teologia del mistero in Henri de Lubac», 1-2. 13 G. BENEDETTI, «La teologia del mistero in Henri de Lubac», 2. 14 Siccome quest’opera è stata rielaborata nell’anno 1965, pubblicata in due volumi separati: Augustinisme et théologie moderne e Le Mystère du surnaturel, le nostre citazioni saranno tratte da quest’ultima pubblicazione, che sarà anche il punto di riferimento costante per lo sviluppo delle nostre argomentazioni. Sulla «evoluzione» del Surnaturel (1946) cfr. H.U. von BALTHASAR, Il padre Henri de Lubac. La tradizione fonte di rinnovamento, 6780. 15 In questo lavoro, quando non indicato diversamente, vengono usate le traduzioni italiane della Opera omnia di de Lubac della collana «Già e non ancora» di Queriniana, Brescia, con il riferimento alle Œuvres Complètes in francese pubblicate da Cerf, Parigi o altre edizioni francesi riportate nella Bibliografia. Per la versione italiana dell’articolo «Le mystère du surnaturel» («Il mistero del soprannaturale») pubblicato nella rivista «Recherches de science religieuse» 36 (1949) 80-121, ci serviamo della traduzione di I. Morali presentata in ID., Henri de Lubac, 91-139. 16 A proposito della presunta condanna di Surnaturel e della Nouvelle Théologie che alcuni vedono nelle affermazioni dell’enciclica Humani generis di Pio XII (1950) sul concetto della «gratuità» nell’ordine del soprannaturale e del suo rapporto con l’onnipotenza divina, vedi: Humani generis (DH 3891); MS65, 104-106.138-139; MEM, 38 IL MISTERO DELLA SALVEZZA CRISTIANA frettolosi» dell’opera di de Lubac17. Sollecitato dai suoi Superiori della Compagnia, de Lubac dovette rispondere alle accuse dei suoi avversari e chiarire le sue tesi. In tale contesto egli redige l’articolo «Le mystère du surnaturel»18 e vedono la luce le opere su menzionate che egli, ispirato da sant’Agostino, scrive nello spirito di una serena disputatio e in pace catholica pacifico studio19. Le sue opere ci rivelano un uomo profondamente segnato dal senso di appartenenza alla Chiesa. Su invito del Papa Giovanni XXIII egli collaborò alla preparazione e alla celebrazione del Concilio Vaticano II e, successivamente, nel 1983, da parte di Giovanni Paolo II, fu innalzato alla dignità cardinalizia. Per evitare la ripetizione di possibili malintesi, vorremmo prima di tutto chiarire i concetti principali della teologia di de Lubac riguardanti il nostro argomento20. Intendiamo spiegare i concetti di «natura», «natura pura» e «soprannaturale», insieme alla problematica del linguaggio legata al modo particolare in cui questi termini vengono impiegati nella teologia di de Lubac. In una visione panoramica delle sue opere sul «soprannaturale» che va da Surnaturel (1946) a Petite catéchèse (1980)21, si osserva, infatti, una certa evoluzione del linguaggio. Nel passo successivo22 presenteremo le particolarità dell’antropologia di de Lubac nel suo carattere biblico-patristico, nella visione dell’uomo come spirito creato e nella «natura aperta» di questo spirito finito costituita dal «desiderio naturale di vedere Dio» – concetto proveniente da san Tommaso, —————————– 219-230; H.U. von BALTHASAR, Il padre Henri de Lubac. La tradizione fonte di rinnovamento, 76.79; I. MORALI, Henri de Lubac, 14-15. 17 Cfr. R. GIBELLINI, La teologia del XX secolo, 2. De Lubac considera le sue conclusioni sul soprannaturale in Surnaturel «un rapido abbozzo», aggiungendo a questo proposito: «Scritto un po’ in fretta, su richiesta di qualche consigliere, l’abbozzo era troppo rapido. Non voleva, d’altronde, trattare a fondo il problema del soprannaturale e neppure richiamarne le linee principali. Sull’unico punto che essa affrontava, la trattazione sembrò però convincente a più d’un teologo. Molti ci hanno manifestato il loro parere positivo». Cfr. MS65, 105. 18 Il motivo per cui ha scritto questo articolo, l’Autore lo giustifica così: «…poche pagine di conclusione [in Surnaturel] non potevano chiarire tutti gli aspetti d’una questione così capitale e così complessa. Avevano bisogno d’essere non soltanto rivedute, ma completate. È questo il motivo per cui, senza ripetere ciò che era stato già detto, avevamo presentato qualche nuova riflessione […] in un articolo di “Recherches de science religieuse” pubblicato nel 1949, dopo l’approvazione e gli incoraggiamenti ricevuti da Roma stessa». Cfr. MS65, 106. Nonostante questi incoraggiamenti, gli sfortunati fraintendimenti della sua dottrina gli hanno causato quasi un decennio di solitudine durante il quale «fu esonerato dall’insegnamento e sospinto da un luogo all’altro». Cfr. R. GIBELLINI, La teologia del XX secolo, 193. 19 Cfr. MS49, 104; MS65, 106-107. 20 Cfr. cap. I, sez. 1. di questo lavoro. 21 I titoli abbreviati – Surnaturel e Petite catéchèse – si riferiscono a Surnaturel, Études historiques e a Petite catéchèse sur Nature et Grâce di de Lubac e concordano con le sigle S e PC usate nelle note ed elencate nelle Abbreviazioni di questo lavoro. 22 Cfr. cap. I, sez. 2. di questo lavoro. SOPRANNATURALE 39 diversamente interpretato dai vari autori posteriori. Tralasciando il dibattito teologico legato all’interpretazione del «desiderium naturale» da parte di de Lubac e all’intera sua dottrina sul «soprannaturale», ci soffermiamo soltanto sulle due critiche di Alfaro – una sul carattere «assoluto» del «desiderium naturale» nell’interpretazione di de Lubac, e l’altra sulla mancanza del carattere cristico e incarnazionale nella dottrina sul soprannaturale di de Lubac. Queste due critiche di Alfaro ci aiutano ad esprimere più chiaramente la dottrina di de Lubac nel suo sforzo di trovare una sintesi dogmatica realizzata nella persona e nel mistero di Cristo23. A questo punto, oltre che de La Lumière du Christ – l’unica opera di de Lubac dal titolo cristologico –, ci serviamo anche delle ricerche degli autori che nell’ambito della cristologia «implicita», diffusa negli scritti lubachiani, hanno trovato in Cristo il centro vivo di tutta la teologia di de Lubac (D. Hercsik) e che nel mistero di Cristo hanno riconosciuto una sintesi vitale delle sue opere (É. Guibert). Nella sintesi conclusiva di questo capitolo24, servendoci delle testimonianze dello stesso de Lubac, cercheremo di presentare la sua dottrina sul «soprannaturale» nel suo stretto legame con la dimensione cristologica della sua teologia segnata da un constante richiamo alla dottrina dei Padri. Nella dottrina dell’autore francese emerge il tentativo con cui egli cerca di recuperare una reale visione cristiana dell’uomo e della sua salvezza. Per evidenziare già a questo punto della nostra ricerca i numerosi paralleli esistenti tra la dottrina di de Lubac e quella di Ireneo, nell’esposizione della dottrina lubachiana, nelle note, faremo riferimento al pensiero di Ireneo, rimandando alla sezione conclusiva del nostro lavoro25 una sintesi più esplicita dei forti legami che uniscono i nostri due autori. 1. Chiarificazione dei concetti Trenta anni dopo la prima pubblicazione di Surnaturel, de Lubac ha scritto la Petite catéchèse nel tentativo di «chiarire alcune nozioni elementari alla base della nostra fede e che implicitamente definiscono gli orientamenti quotidiani sia dei nostri pensieri che dei nostri atti», annunciando così le due distinzioni (natura – soprannaturale, natura – grazia) che a suo parere «occupano uno spazio considerevole nell’insegnamento cattolico tradizionale» e che neanche oggi dovrebbero essere considerate «superate»26. Proprio per questa ragione desideriamo a questo punto del lavoro chiarire i concetti principali del nostro argomento, vale a —————————– 23 Cfr. cap. I, sez. 3. di questo lavoro. Cfr. cap. I, sez. 4. di questo lavoro. 25 Cfr. Sintesi di questo lavoro. 26 Cfr. la prefazione di de Lubac alla Piccola catechesi su natura e grazia, in ID., Spirito e libertà, 11. 24 40 IL MISTERO DELLA SALVEZZA CRISTIANA dire il significato teologico di «natura», di «soprannaturale» e di «natura pura» per poi vedere il modo in cui de Lubac impiega questi concetti nella sua opera sul «soprannaturale» assegnandogli qualche volta un significato diverso da quello consueto. 1.1 Natura e «soprannaturale» Il rapporto fra natura e grazia o natura e «soprannaturale» è uno dei problemi fondamentali della teologia che presuppone la verità rivelata dell’uomo creato ad immagine e somiglianza di Dio, tutta la teologia del peccato, della giustificazione e della grazia. Questa problematica, le cui origini risalgono alla grande scolastica e che fu sviluppata nei tempi moderni, ha costituito uno dei grandi problemi dottrinali del XX secolo27. Nei paragrafi introduttivi del nostro lavoro abbiamo spiegato il significato del termine «grazia» che nell'ambito della nostra riflessione sulla salvezza cristiana consideriamo un termine primario, di natura biblicodogmatica che funge da fondamento e da punto di partenza del nostro discorso, mentre consideriamo secondario il termine «natura», un presupposto logico del termine «grazia». Il concetto filosofico del termine «natura» [φύσις] «significa propriamente il nascere, il venire alla luce [nasci, φύεσθαι]. Esso indica tanto la continua ascesa dell’ente singolo nella sua realtà (…) quanto l’insieme di tutti gli enti nella sua costante ascesa»28. La particolarità della natura umana proviene dal fatto di essere una «natura di libertà», una natura «aperta» che si realizza nel proprio autosuperamento, e perciò chiamata «natura soprannaturale», determinata o finalizzata «soprannaturalmente»29. Il termine «natura» non è un termine biblico, ma è usato nella teologia cattolica, a partire dal XIII secolo, come risultato della riflessione teologica su un dato fondamentale del Nuovo Testamento (soprattutto della teologia paolina e giovannea) – cioè sulla «grazia di Dio per Cristo» e sulla sua trascendenza e immanenza nell’uomo30. Il concetto teologico di «natura» è diverso da quello filosofico perché comprende da parte dell’uomo la ricettività della grazia divinizzante dell’Incarnazione secondo la quale l’uomo è interiormente ordinato a Cristo, ed ogni suo rapporto con Dio è mediato in Cristo. Non esiste, in altri termini, un rapporto puramente naturale dell’uomo con Dio. Poiché la grazia di Cristo determina l’uomo nella sua propria essenza, essa determina la natura umana ordinandola interiormente alla visione di Dio in Cristo. Si tratta della partecipazione dell’uomo «mediante Cristo alla vita divina come vera “divinizzazione” —————————– 27 Cfr. L.F. LADARIA, «Natura e soprannaturale», 327. Cfr. J. ALFARO, «Natura», 568. 29 Cfr. J. ALFARO, «Natura», 569. 30 Cfr. J. ALFARO, «Natura», 570. 28 SOPRANNATURALE 41 dell’uomo [θείωσις]»31. Questa concezione, presente già a partire da Ireneo32 nella teologia patristica greca e latina (soprattutto in Agostino e in Leone Magno), costituisce «il fondamento di tutta la teologia della grazia medievale, massimamente in san Tommaso» e fu usata da parte del magistero della Chiesa, particolarmente dai due concili Vaticani, per descrivere l’essenza della grazia (DH 3005; LG 2; DV 6; GS 21; AG 2)33. La natura dell’uomo interessa, dunque, la teologia cattolica come «attitudine di principio alla grazia»34. Anzi, alla parola «natura» si preferisce il termine «persona»35, perché la grazia presuppone la capacità fondamentale dell’uomo di accettare liberamente l’autocomunicazione di Dio in Cristo. La grazia, infatti, presuppone l’uomo non semplicemente come natura, ma anche come persona36. La natura dell’uomo include il suo essere persona e si potrebbe dire che non è la natura che possiede una persona, ma è la persona che possiede una natura particolare37. «Sulla base della sua natura, l’uomo è aperto alla relazione Io-Tu verso gli altri uomini e, alla fine, al rapporto verso l’Assoluto. La grazia approfondisce questo rapporto nel dialogo del cuore col Dio dell’amore»38. La capacità fondamentale dell’uomo di accettare l’autocomunicazione di Dio detta «desiderium naturale», introdotta da Agostino, elaborata da Tommaso e assunta in seguito dalla maggior parte dei teologi medievali e post-tridentini fu ulteriormente approfondita e indirizzata alla «visione di Dio in Cristo» (K. Rahner) e sperimentata dall’uomo come «nostalgia» (R. Guardini)39. Fin dai primi secoli cristiani si distingueva «la natura dell’uomo» intesa come la condizione concreta in cui l’uomo si trova in quanto creatura da ciò che la supera, spesso chiamato «soprannaturale», «sopraceleste» o «sopracosmico», tutto ciò che designava il divino e la visione di Dio40. Secondo il —————————– 31 Cfr. J. ALFARO, «Natura e grazia», 578. Cfr. cap. II, parr. 1.2 e 2.3 di questo lavoro. 33 Cfr. J. ALFARO, «Natura», 571. 34 Cfr. J. ALFARO, «Natura e grazia», 580. 35 Nella cristologia e nella teologia trinitaria i concetti di «natura» e «persona» sono contrapposti. Cfr. J. ALFARO, «Natura», 570. 36 Cfr. J. ALFARO, Cristologia e antropologia, 398-423. 37 «Da im Menschen nicht die Natur eine Person, sondern die Person ihre Natur besitzt». Cfr. G.L. MÜLLER, «Natur (IV)», 666. 38 Cfr. J. ALFARO, «Natura e grazia», 585-586. Proprio questa concezione biblica (soprattutto paolina e giovannea) dell’azione della grazia nell’uomo e la riflessione più profonda sulla dimensione trascendentale della dinamica spirituale dell’uomo, presente nella teologia cattolica del XX secolo, presentano un ritorno alla posizione patristica e agostiniano-tomistica confermata dal concilio Vaticano II (LG 12; DV 5). Cfr. Ibid., 583. Noi cercheremo di presentare l’opera sul «soprannaturale» di de Lubac un notevole contributo a questo «ritorno». 39 Cfr. J. ALFARO, «Natura e grazia», 580-582. 40 Cfr. L.F. LADARIA, «Natura e soprannaturale», 328; S, 325-428. Infatti, il termine «soprannaturale» viene usato per la prima volta nei documenti ecclesiastici nel 1567 con la condanna di Baio nella bolla di Pio V e significa «in modo generale e ancora indeterminato, 32 42 IL MISTERO DELLA SALVEZZA CRISTIANA duplice piano della nostra relazione con Dio, corrispondente ai due aspetti dell’opera di Dio in noi, alla creazione (natura) e alla filiazione (grazia), si distingue la duplice gratuità dei doni: quella dei beni naturali, che anche se feriti, rimangono nell’uomo anche dopo il peccato, e quella della grazia di filiazione, minacciata dal peccato, e considerata una gratuità superiore41. Questa distinzione tra i beni «naturali» e la «grazia», iniziata già da Ireneo42, sviluppata nella teologia di Agostino e soprattutto nella prima scolastica, si poggerà sulla Scrittura (Gc 1,17)43 e aprirà la via per le altre distinzioni tra la natura e la grazia. Così si distingueranno due livelli di gratuità e di grazia: Il primo è generale e si applica a tutto ciò che è donato gratuitamente e senza merito. È evidente che la creazione è gratuita e che l’uomo non ha alcun diritto sui beni naturali che Dio gli dona. Ma vi è un secondo livello specifico, a cui corrisponde più propriamente il nome di grazia: la capacità di fare il bene, che conduce direttamente al fine dell’uomo, vale a dire alla vita eterna44. Nonostante questo duplice ordine di gratuità, la vita in Dio rimane l’unico fine dell’uomo. La prima scolastica non ha messo in questione la vocazione fondamentale dell’uomo alla vita divina, ma siccome l’ordine della grazia conduce «al di sopra della natura» e supera la natura umana, si è cominciato ad usare il termine «supra naturam» con cui gradualmente si sviluppa la dottrina del «soprannaturale» che darà le sue conseguenze. La visione di Dio come unico fine dell’uomo non era messa in discussione nemmeno da grandi scolastici come Bonaventura e Tommaso, ma già prima di loro nasce la tendenza a determinare «ciò che corrisponde all’uomo “in sé”45, a stabilire ciò che è la natura umana, a cui si aggiungono altri beni che —————————– l’ordine del divino considerato nel suo rapporto di opposizione e di unione con l’ordine umano». Cfr. PC, 19; PIO V, Ex omnibus afflictionibus, 21 e 23 (DH 1921 e 1923). 41 Cfr. L.F. LADARIA, «Natura e soprannaturale», 329-330. 42 «Perché la vita non deriva né da noi né dalla nostra natura, ma è data secondo la grazia di Dio». AH, II, 34,3. Cfr. AH, II, 34,3-4; V, 13,3; Gross, 128, n. 49. Ireneo considera soprattutto l’Incarnazione la grazia più grande per la salvezza dell’uomo. Cfr. I. DALMAIS – G. BARDY, «Divinisation», 1377; AH, III, 18,7; 19,1; IV, 33,4. 43 «Ogni buon regalo (datum optimum) e ogni dono perfetto (donum perfectum) viene dall’alto». 44 L.F. LADARIA, «Natura e soprannaturale», 332. 45 Si tratta del concetto aristotelico di «natura dell’uomo in quanto tale» che Tommaso usa dandogli, nella prospettiva della rivelazione e della fede, un significato nuovo, cioè, egli vede nella natura dell’uomo l’immagine di Dio. Così, il concetto di natura applicato all’uomo da san Tommaso si distingue da quello della filosofia antica o della scolastica moderna. «La natura tomista non è la natura aristotelica» dice de Lubac citando É. Gilson. Cfr. MS65, 167-168. Il pensiero di Tommaso e le sue formulazioni «tecniche» non sono influenzate soltanto da Aristotele, ma ancor prima da sant’Agostino e dai Padri. Cfr. S, 117120; ATM, 217-221; MS65,169-174. Sui riferimenti di Tommaso ad Aristotele (Philosophus) e la sua Etica a Nicomaco riguardanti la «natura dell’uomo» e la «duplice beatitudine» cfr. S. Th., I, q. 62, a. 1 (Ethic X, cc. 7-8); S. Th., I-II, q. 3, a. 2 ad 4m (Ethic I, c. 10); q. 3, a. 5 (Ethic X, cc. 7-8); q. 62, a. 1 (Ethic I, c. 10). Segnaliamo a proposito SOPRANNATURALE 43 la superano»46. Volendo affermare la gratuità della grazia ed il suo carattere non dovuto, Tommaso fa pensare che la decisione di Dio «di creare l’uomo non deve comportare necessariamente la comunicazione delle perfezioni d’ordine soprannaturale»47. Egli non esclude l’elevazione dell’uomo all’ordine soprannaturale, vuole soltanto affermare la radicale gratuità del dono di Dio, ma partendo dalla sua riflessione riguardo a un duplice ordine di gratuità nella teologia posteriore nasce un cambiamento di prospettiva. Si comincia a distinguere «ciò che Dio ha fatto e ciò che avrebbe potuto fare, ciò che corrisponde e ciò che non corrisponde all’uomo “in quanto tale”»48. Il «soprannaturale» comincia ad essere considerato qualcosa di «aggiunto» all’ordine di natura. Si inizia a partire da una nozione astratta dell’uomo per indirizzarsi verso l’ipotesi della cosiddetta «natura pura». Questo cambiamento di prospettiva e le sue conseguenze che esso comportò, come de Lubac spesso osservava nella sua opera sul «soprannaturale», condussero ad un allontanamento dallo stesso Tommaso e dallo spirito dei Padri e della tradizione cristiana antica. 1.2 «Natura pura» Le speculazioni su ciò che propriamente apparterebbe alla natura dell’uomo portano alla considerazione della grazia come qualcosa di aggiunto alla natura e ad una comprensione dell’uomo come di un essere non necessariamente ordinato alla visione di Dio49. Inoltre, le speculazioni sulla gratuità della grazia e il suo carattere non dovuto da parte dell’uomo hanno portato a un’ipotesi considerata «indispensabile per la piena comprensione teologica della gratuità inerente all’Incarnazione e della divinizzazione dell’uomo»: l’uomo «è pensabile e realizzabile senza grazia divinizzante; esiste la possibilità della creazione del mondo e dell’uomo senza l’Incarnazione»50. Il concetto teologico di natura, chiamato il «“concetto residuo” (K. Rahner), che si ottiene se non si tiene conto della grazia divinizzante nell’uomo», include dunque la possibilità dell’esistenza di un uomo non divinizzato dalla grazia51. —————————– l’articolo di de Lubac sulla «doppia beatitudine» nei testi di san Tommaso, dove leggiamo: «On ne saurait donc s’y tromper. La première des deux “béatitudes” distinguées par saint Thomas, celle qui est “proportionnée à la nature”, n’est pas une béatitude transcendante, fin dernière et définitive de une béatitude imparfaite, terrestre et temporelle, à l’intérieur de ce monde même». H. de LUBAC, «Duplex hominis beatitudo», 293. Cfr. S, 456-457. Per una riflessione critica sull’interpretazione dei testi di san Tommaso sul «desiderio di vedere Dio» da parte di de Lubac e alcuni altri autori cfr. G. COLOMBO, «Il problema del soprannaturale negli ultimi cinquant’anni», 578-598. 46 Cfr. L.F. LADARIA, «Natura e soprannaturale», 335. 47 Cfr. L.F. LADARIA, «Natura e soprannaturale», 335. 48 Cfr. L.F. LADARIA, «Natura e soprannaturale», 335. 49 Cfr. L.F. LADARIA, «Natura e soprannaturale», 342. 50 Cfr. J. ALFARO, «Natura», 572. 51 Cfr. J. ALFARO, «Natura», 572. 44 IL MISTERO DELLA SALVEZZA CRISTIANA Già nella teologia patristica si può distinguere un doppio uso del concetto di «natura»: il senso della natura dell’uomo collocato nella storia della salvezza, creato da Dio (stato di grazia) e situato nel mondo (situazione di peccato); ed il «senso stretto» di natura senza riferimento al peccato e in contrapposizione alla «grazia»52. L’ammissione tomista della possibilità che l’uomo non sia chiamato alla visione beatifica53 fu accettata nei secoli successivi da Dionigi il Certosino e poi sviluppata da Gaetano54. Nelle trattazioni teologiche concernenti il rapporto fra natura e grazia e l’aspetto gratuito della grazia, Giansenio respingeva la possibilità di uno stato di «natura pura» considerando l’uomo come una creatura dotata di spirito che può essere creato soltanto con la destinazione alla visione di Dio, mentre Baio rifiutava il concetto di «natura pura» considerando i doni della grazia (iustitia originalis) come parte integrante della natura e misconoscendo la grazia divinizzante55. Nella teologia post-tridentina successiva (esclusa la —————————– 52 La distinzione patristica fra eikon [εικών] e homoiosis [ὁμοίωσις] che descrive «da un lato la condizione dell’uomo seguita alla creazione e dall’altro il suo progressivo perfezionamento» non corrisponde alla menzionata distinzione del doppio uso del concetto di «natura» perché «il concetto eikon [εικών] ha in sé già il momento iniziale della grazia, e per tal motivo non è identico al concetto di natura dell’uomo, dato che definisce piuttosto la natura nella storia della salvezza». Cfr. J. ALFARO, «Natura», 573. 53 Secondo de Lubac, per san Tommaso esiste un unico fine ultimo dell’uomo reale, il fine soprannaturale. Cfr. S, 449-465. 54 Entrambi erano oppositori della tesi del «desiderio naturale di vedere Dio». Cfr. L.F. LADARIA, «Natura e soprannaturale», 342-345. De Lubac, invece sostiene: «“Désir naturel du surnaturel”: la plupart des théologiens qui repoussent cette formule, repoussent avec elle la doctrine même de saint Thomas d’Aquin». Partendo dall’esegesi dei testi di Tommaso, egli afferma l’unicità del fine ultimo dell’uomo, costituito dall’unica beatitudine, quella soprannaturale. Inoltre, egli afferma: la naturalità del «desiderio di vedere Dio», la realtà ontologica e quindi la portata assoluta (non condizionale) di questo desiderio e la soprannaturalità dell’oggetto di tale desiderio. Cfr. S, 431-438; G. COLOMBO, «Il problema del soprannaturale negli ultimi cinquant’anni», 590-591. Riportiamo a proposito un riassunto e commento della dottrina di de Lubac ad opera di G. Colombo: «De Lubac si mostra consapevole delle difficoltà di carattere teologico sollevate da questa dottrina. Dice che la teoria di S. Tommaso, spinta fino in fondo, arriva a compromettere la soprannaturalità della visione beatifica e la sua assoluta gratuità. Per quanto riguarda invece il pensiero personale di S. Tommaso dice che bisogna tener conto degli “elementi compensatori” che sono entrati nella sua teoria, delle sue ripetute dichiarazioni sulla gratuità del soprannaturale, e del fatto che questo problema, il problema della gratuità, non se l’è posto in modo specifico; è solo la teologia posteriore che se l’è trovato di fronte. Sotto questo aspetto, S. Tommaso appare un autore “di transizione” nel quale mal si conciliano e si equilibrano tradizioni opposte». Ibid., 591. Cfr. S, 435-456. Per una osservazione più critica di G. Colombo a proposito dell’esegesi tomista di de Lubac, cfr. G. COLOMBO, «Il problema del soprannaturale negli ultimi cinquant’anni», 597-598. 55 Cfr. J. ALFARO, «Natura», 574. A causa delle loro dottrine Baio e Giansenio erano chiamati «uomini del Vecchio Testamento» perché concepivano il rapporto fra Dio e l’uomo in modo giuridico (Baio) e avevano una visione d’un «Dio terribile» che nella sua potenza «salva uno e condanna un altro, secondo il suo beneplacito» (Giansenio). Entrambi avevano una falsa concezione della grazia: Baio tendeva a sopprimere l’idea della grazia considerando l’uomo un giusto che nel senso esigente ha dei suoi diritti davanti a Dio; Giansenio la considerava «una manifestazione della potenza, tanto più adorabile quanto più SOPRANNATURALE 45 scuola agostiniana), l’ipotesi di una «natura pura» fu considerata non soltanto necessaria per spiegare la gratuità della grazia divinizzante, ma da parte di alcuni teologi la «natura pura» fu considerata (inconsciamente) come una situazione reale dell’uomo56. L’ipotesi di «natura pura» insieme con la negazione del desiderio naturale di vedere Dio e la dottrina dei due ordini57 servivano nella teologia cattolica a garantire la gratuità dell’ordine soprannaturale58. Volendo superare false concezioni sul rapporto fra l’uomo e Dio ed affermare l’assoluta gratuità della grazia, i «teologi moderni»59 hanno costruito la teoria della «natura pura» secondo la quale Dio avrebbe potuto creare l’uomo senza la chiamata alla beatitudine. L’uomo avrebbe, così, la possibilità di avere due fini ultimi: naturale e soprannaturale, e sarebbe ipotizzabile una creazione dell’uomo in uno stato di «natura pura» con un fine ultimo puramente naturale60. Così la teologia moderna affermava sempre di più la dimensione «naturale» dell’uomo, l’autonomia delle realtà temporali e di conseguenza la considerazione di Dio e della vocazione soprannaturale dell’uomo come qualcosa di estrinseco e di non necessario all’essere umano. Con la riscoperta della visione più unitaria che avevano i Padri della Chiesa61 e della tesi di san Tommaso circa il desiderio naturale di vedere Dio, nasce nella teologia cattolica del XX secolo un cambiamento di prospettiva dove il desiderio naturale di vedere Dio ed il problema della —————————– appariva arbitraria e tirannica». Tutti e due tendevano ad annullare l’unione fra Dio e l’uomo, l’uno mettendo l’uomo di fronte a Dio e reclamando i suoi diritti, l’altro annientandolo. Cfr. ATM, 72-73. Sulle condanne degli errori di Baio e Giansenio riguardando la dottrina sulla grazia vedi: DH 1901-1980 (Baio); 2001-2007 (Giansenio); 2301-2332 (giansenisti). 56 Cfr. J. ALFARO, «Natura», 574-575. 57 Si tratta d’una dualità degli ordini, naturale e soprannaturale, dove l’ordine soprannaturale sarebbe qualcosa d’aggiunto ed estrinseco all’ordine naturale, un superadditus naturae. Cfr. ATM, 240.290. L’ordine naturale sarebbe equivalente alla creatura come tale, e l’ordine soprannaturale sarebbe tutto ciò che è al di sopra della creatura ed è considerato gratuito. Partendo da questa dualità degli ordini, Gaetano sviluppava la dottrina della doppia finalità dell’uomo. Cfr. L.F. LADARIA, «Natura e soprannaturale», 344-348. 58 Cfr. L.F. LADARIA, «Natura e soprannaturale», 355-356. 59 Il termine si riferisce ad alcuni teologi che a cavallo fra il XIX e il XX secolo facevano parte di un «movimento per la riforma della chiesa» e della sua dottrina in vista di un «adeguamento alle esigenze moderne». A causa delle tecniche investigative che essi portavano agli estremi, erano chiamati, da parte dei loro oppositori, «teologi moderni» o semplicemente «modernisti». Cfr. R. AUBERT, «Modernismo», 456. Con questo significato usiamo i termini «teologi moderni» e «teologia moderna» in questo lavoro. Tali termini assumono lo stesso significato nell’uso che ne fa de Lubac, soprattutto quando egli parla della «teoria moderna della “natura pura”» le cui radici si trovano già nel XVI secolo e la cui accettazione, sviluppo e uso da parte dei menzionati «teologi moderni», secondo de Lubac, presenta una deviazione e un abbandono della dottrina dei Padri e di san Tommaso. Cfr. MS49, 104-105; ATM, 152-153.326-327; MS65, 54-58.126-131.170.254-255. 60 Cfr. MS65, 109. 61 Noi cercheremo di presentare «il senso dell’unità» ireneiano che, a nostro parere, ha un influsso sul senso teologico di de Lubac. Cfr. cap. II, par. 3.1 e Sintesi di questo lavoro. 46 IL MISTERO DELLA SALVEZZA CRISTIANA gratuità divennero l’oggetto di un dibattito al quale presero parte, oltre a de Lubac col suo Surnaturel (1946), grandi teologi come Rahner, Balthasar, Alfaro, ecc.62. De Lubac proponeva l’astrazione dell’ipotesi della «natura pura». Nella sua opera sul «soprannaturale» egli lottava contro questa teoria moderna considerandola «un’ipotesi insufficiente» ed incapace di assicurare la piena gratuità del soprannaturale per un’umanità reale63. Secondo la sua analisi storica, il sistema dualista, nel cui ambito fu ideata la teoria della «natura pura», era causato da due elementi: da un processo di razionalizzazione della rivelazione, di cui sono principalmente responsabili Gaetano e Suárez; e dalla lotta teologica contro un falso agostinismo e pessimismo antropologico di Baio e Giansenio i cui sistemi teologici postulavano l’esigenza della grazia64. De Lubac considera l’ipotesi di una «natura pura» una teoria propriamente occidentale, mai esistita nell’antica tradizione greca né nella teologia orientale, e che fu costruita sulla falsa interpretazione dei testi antichi65, in particolare dell’argomento della «doppia beatitudine» di cui parla san Tommaso66. A differenza di quanto non faccia nei confronti della comprensione moderna del termine «natura pura», de Lubac giustifica l’uso di questo termine da parte degli antichi, di Agostino e di Tommaso, perché essi non lo usavano, in rapporto al fine ultimo dell’uomo, che per loro è sempre il fine soprannaturale, ma lo adoperavano indicando «la prima condizione della —————————– 62 Cfr. L.F. LADARIA, «Natura e soprannaturale», 356. Cfr. MS65, 109. 64 Cfr. R. GIBELLINI, La teologia del XX secolo, 199; ATM, 72. A proposito della dottrina di Baio e di Pelagio de Lubac scrive: «Il pelagiano perfetto sarà l’orgoglioso che non vuol esser debitore ad alcuno, di nessuna cosa. Il baianista perfetto sarebbe piuttosto il litigante importuno, che si lagna sempre della propria povertà, reclamando ciò che gli è dovuto. Baio è un Pelagio che si fa mendico petulante. Pelagio, o l’ascesi pura. Baio, o il giuridicismo puro. L’uno e l’altro, ciascuno nel suo ordine e a sua maniera: un naturalismo puro». Cfr. ATM, 43-44. 65 Si pensa soprattutto alla falsa interpretazione di Tommaso e Agostino. Cfr. MS65, 5657. 66 Ricordiamo che secondo de Lubac, Tommaso non considerava il fine ultimo dell’uomo come appartenente all’ordine puramente naturale. Anche quando parla della «doppia beatitudine», «egli lo fa sempre contemporaneamente analizzando l’essenza dello spirito creato e mantenendosi all’interno del nostro universo la cui finalità è soprannaturale». Cfr. MS49, 95-96.110-111. In questo senso de Lubac cita V. White: «Nessuno gli [a san Tommaso] rimprovera di non riconoscere la solidità delle nature. Nessuno gli contesta che abbia saputo dare “consistenza alla considerazione astratta della natura umana e ai concetti metafisici”. Ora, se egli “riconosce e mantiene una legge naturale, non si trova in lui alcun indizio (e questo fatto è già significativo per se stesso) che l’osservanza di questa legge conduca l’uomo a qualche beatitudine naturale, o costituisca un ordine diverso dall’ordine puramente sociale e mondano. Egli nega anzi espressamente che ciò basti a guidare l’uomo al suo destino finale”». Cfr. MS65, 86. Vedi anche: Ibid., 56-66; ID., «Duplex hominis beatitudo», 290-299. 63 SOPRANNATURALE 47 creatura razionale»67. Il significato antico di «natura pura» non metteva in questione la soprannaturalità del fine ultimo, ma designava soltanto «nel nostro mondo la struttura propria dello spirito creato» e non evocava nessun’altra specie di finalità oltre a quella soprannaturale che in nessun caso può divenire oggetto di una pretesa da parte dell’uomo68. De Lubac invita ad un ritorno al «realismo degli antichi»69 e a rinunciare all'ipotesi moderna della «natura pura»70, una rinuncia che non minaccerebbe l’idea del soprannaturale ma che permetterebbe di rendere conto dell'uomo nella sua natura concreta con il suo unico fine ultimo, quello soprannaturale. De Lubac sviluppa il concetto di «mistero del soprannaturale», come «la forma all’interno della quale verranno ad iscriversi tutti gli altri misteri della Rivelazione», che supera il concetto di «natura pura»71. Egli annuncia un superamento della «tappa della natura pura», che si compie nella pienezza dell’Amore creatore e dal beneplacito di Dio Padre (Ef 1,3-6)72. 1.3 Il «soprannaturale» di de Lubac Siccome il termine «natura», come abbiamo visto, è molto «sfuggente» e «duttile», e potrebbe essere applicato sia a tutto l’universo, a tutto l’ordine della creazione, sia alla natura umana particolare, de Lubac sostiene che nell’uso teologico il termine «natura» è considerato un termine puramente «correlativo» che «si intende bene solo nella sua relazione con l’altro termine»: «soprannaturale»73, aggiungendo: «Tutto ciò che non origina —————————– 67 De Lubac, citando Lafosse: «Status naturae purae duo importat: alterum essentialiter, alterum vero accidentaliter. Essentialiter importat carentiam ordinationis et elevationis ad finem supernaturalem, seu visionem beatificam: accidentaliter vero importat concupiscentiam…». Cfr. ATM, 297. 68 Cfr. MS65, 130; AH, IV, 38,3-4; Gross, 125-126. 69 Questo ritorno all'antichità, significherebbe anche un «ritorno alla semplicità». Cfr. MS49, 96; MS65, 65-66. 70 «…non il concetto antico di “natura pura”, ma il sistema che si è sviluppato attorno ad esso nella teologia moderna e che ne ha profondamente cambiato il significato, ci sembra possa esser lasciato da parte senza danno. Così come si è sviluppato, con la sua negazione di ogni legame organico, questo sistema, che la grande Scolastica ignora, non ci sembra esser né il solo mezzo né il migliore per assicurare alla natura umana consistenza e dignità; e neppure trascendenza e gratuità al soprannaturale». MS65, 85. 71 L’ipotesi della «natura pura» fu costruita a causa del desiderio di eliminare una delle due verità di fede (l’unicità del fine ultimo dell’uomo e l’assoluta libertà di Dio che gratuitamente dona la sua grazia) che possono sembrare opposte, ovvero quella che sembra antagonista. La scelta di una delle due verità, escludendo l’altra (nel caso della «natura pura» si esclude l’unicità del fine ultimo dell’uomo), costituisce secondo de Lubac un’eresia. Egli, invece, nello spirito della «pienezza cattolica» cercava l’equilibrio della sintesi. Cfr. MS49, 127-134; MS65, 239. 72 Cfr. MS49, 139; MS65, 307-308. 73 Cfr. PC, 14-15. 48 IL MISTERO DELLA SALVEZZA CRISTIANA dall’adozione divina nell’uomo, anche se sorge dallo spirito e dalla libertà, potrà essere chiamato naturale»74. Invece, soprannaturale è: questo elemento divino, inaccessibile allo sforzo dell’uomo (non autodivinizzazione) ma che si unisce all’uomo, «innalzandolo» come diceva la nostra teologia classica e come dice ancora il Vaticano II (Lumen Gentium, 2), penetrandolo per divinizzarlo, divenendo così come un attributo dell’«uomo nuovo» come ce lo descrive S. Paolo. Anche se sempre «innaturalizzabile» è profondamente radicato in lui. In breve è ciò che gli antichi scolastici e in particolare Tommaso d’Aquino chiamavano […] un «accidente». Accidente o ancora habitus, «grazia creata»: ecco vari modi di dire […] che l’uomo diviene realmente partecipe della Natura divina («divinae consortes naturae, théias koinônoi phuseôs»: 2Pt 1,4)75. Così si nota una certa tensione esistente fra l’uomo e la sua natura, nel senso che l’uomo è «irriducibile alla “natura”». Egli è un essere «che si ricupera dalla natura e se ne distacca interamente», e che non può, però, lottare contro di essa, ma che, invece, deve accettarla e trasformarla76. Si prospetta, così, una visione dell’uomo la cui natura, fin dalla sua creazione, si trova messa in relazione con il soprannaturale. Questo binomio «naturasoprannaturale» che dovrebbe essere inteso contemporaneamente come opposizione e come unione, ha la sua origine nella rivelazione biblica e si trova collocato agli inizi della dottrina cristiana sul rapporto fra natura e grazia77. Volendo chiarire il significato della parola «soprannaturale»78, de Lubac avverte il crearsi di una certa confusione quando essa riceve la sfumatura semantica di «effetto soprannaturale», e finisce per essere impiegata nella descrizione di fenomeni mistici straordinari o dei «doni “in sovrappiù” del Creatore [fatti] all’uomo per strapparlo alla sua finalità propria e per dargli accesso a un fine più alto, detto in questo senso “soprannaturale”»79. Questi «falsi» usi del termine «soprannaturale» non esprimono il suo vero significato e non si trovano nella dottrina dei Padri greci o latini. Sono frutto della teologia moderna e delle sistematizzazioni tardive della teologia occidentale che l’Oriente cristiano non ha mai conosciuto80. Per questo de Lubac vuole precisare quello che soprannaturale non è: esso non è qualcosa di «anormale», neppure qualcosa di avventizio o di «aggiunto», e non deve —————————– 74 Così de Lubac, citando Martelet. Cfr. PC, 15. PC, 29. A questo concetto di «uomo nuovo» corrisponde il concetto paolino-ireneiano di uomo «spirituale» e «perfetto» che ricevendo lo Spirito di Dio non cessa di essere uomocarne, ma cambia la «qualità dei frutti». Cfr. AH, V, 6,1; 12,2; cap. II, parr. 1.3 e 2.3 di questo lavoro. 76 Cfr. PC, 16. 77 De Lubac fa qui un riferimento alla dottrina sulla grazia di Ireneo di Lione. Cfr. PC, 13-14. 78 «surnaturel» nell’originale francese. 79 Cfr. PC, 19-20. 80 Cfr. PC, 21. 75 SOPRANNATURALE 49 essere definito unicamente dal suo carattere di «gratuità»81. Esso, infatti, supera ogni nostro concetto e ogni nostra esperienza di «gratuità» a livello umano e supera ogni «esigenza» della nostra natura82. Questa precisazione è importante per evitare i possibili errori provenienti dagli «aspetti zoppicanti» della distinzione fra il sostantivo «natura» e l’aggettivo «soprannaturale»83. Il più grave di questi errori sarebbe quello di considerare la natura umana perfezionata dalla grazia una «supernatura84 aggiunta alla natura». È proprio questo errore che, insieme alla separazione e distinzione dei due possibili e opzionali fini ultimi dell’uomo, uno naturale e l’altro soprannaturale, rappresenta il frutto deviante della teologia occidentale85. 1.4 Il problema del linguaggio Anche se l’uso del concetto «natura» può servire alla teologia a chiarire il mistero della salvezza, che si compie mediante la grazia di Cristo e la «divinizzazione» dell’uomo, esso, come abbiamo già visto, presenta dei limiti e comporta dei pericoli86. Uno dei pericoli sarebbe costituito dalla tendenza di «cosificare» la relazione tra Dio e l’uomo e di trascurare il fatto che l’uomo è aperto alla grazia proprio perché non è soltanto natura87. Per evitare questo pericolo, il concetto di «natura» nella riflessione teologica sulla grazia, dovrebbe essere utilizzato insieme al concetto di «persona»88. L’errato uso del concetto di «natura» nel periodo post-tridentino fa vedere «il continuo pericolo di considerare la natura dell’uomo come un dato di fatto e la grazia soltanto come qualcosa di aggiunto o di sovrapposto alla natura (superadditum naturae), dove, in sé la natura non è toccata dalla modificazione “accidentale” operata dal peccato, o invece dalla giustificazione»89. L’invenzione della teoria della «natura pura» ci porta ancora più lontano dal concetto biblico e patristico della grazia e della salvezza. Lo stesso termine «soprannaturale» che riguarda la «grazia» non esprime ciò che di per sé è la grazia, ma soltanto un aspetto del suo rapporto con la «natura», il suo carattere «soprannaturale» e trascendentale. Esso non —————————– 81 Questa precisazione sarebbe fatta contro le esagerazioni dei moderni sostenitori della teoria di «natura pura». 82 Cfr. PC, 22. 83 Cfr. PC, 25. 84 «surnature» nell’originale francese. «Il sostantivo “soprannatura” (supernatura) o “soprasostanza” (supersubstantia) era usato nella teologia antica solo per designare, per altro raramente, l’essere stesso di Dio…». PC, 25. 85 Cfr. PC, 25-26. 86 «Nell’uso dogmatico i concetti di natura e di persona non sono quelli che una filosofia puramente naturale avrebbe elaborato». MMC, 245. 87 Cfr. J. ALFARO, «Natura», 575. Sulla problematica dell’linguaggio e dell’uso dei termini «natura», «naturale» e «soprannaturale» vedi anche: ID., Cristologia e antropologia, 281-288. 88 Cfr. J. ALFARO, «Natura», 575. 89 Cfr. J. ALFARO, «Natura», 575-576. 50 IL MISTERO DELLA SALVEZZA CRISTIANA esprime il significato della grazia come autocomunicazione di Dio agli uomini e partecipazione dell’uomo alla vita di Dio, ma «indica piuttosto l’assoluta libertà di Dio nella sua dedizione personale di sé agli uomini. Il concetto di “soprannaturale” è altrettanto necessario e legittimo, quanto è di per sé, da solo, insufficiente ad enunciare la trascendenza della grazia»90. L’uso del binomio «natura-soprannaturale», nel quale il termine «natura» è un sostantivo, mentre la parola «soprannaturale» è un aggettivo, pone l’accento sulla «natura» come punto di partenza della riflessione. Si inverte così l’ordine biblico nel quale è la grazia ad avere il primato. Le opere sul soprannaturale di de Lubac sviluppano il tema della salvezza cristiana nei termini del rapporto fra l’uomo e Dio, fra natura e soprannaturale, dove, anche se non sempre in modo esplicito, viene trattata la relazione fra natura e grazia nella sua realtà storica e concreta91. Tale trattazione emerge con maggiore risalto laddove egli analizza la dottrina sulla grazia in Agostino e Tommaso, o richiamandosi a quelle citazioni patristiche di Ireneo e degli altri capaci di esprimere il forte «realismo degli antichi», così diverso dal concetto della teoria moderna di «natura pura» e così caro a de Lubac92. Volendo tornare alla teologia sulla grazia e specialmente ai concetti biblici e patristici, de Lubac prende parte al dibattito teologico schierandosi contro i «teologi moderni», inventori della teoria di «natura pura». Egli impiega il loro stesso linguaggio e utilizza termini neoscolastici, ma gli assegna un altro significato, tante volte del tutto opposto. Forse proprio questa rivisitazione semantica operata dal nostro autore ha dato origine a vari malintesi. Si spiegano così gli attacchi lanciati contro la sua dottrina sul soprannaturale, tanto che dovette più volte riformulare le sue espressioni e apportare modifiche alle sue opere. Possiamo, infatti, rilevare, a partire da Surnaturel (1946) fino alla Petite catéchèse (1980), un continuo e cronologico «sviluppo» o adattamento del suo linguaggio sulla grazia. In questo senso, nella seconda parte della sua ultima opera sul soprannaturale, si può notare un linguaggio sulla grazia più biblico e «antico»93 nel quale si pone l’accento sullo stato reale dell’uomo segnato dalla realtà del peccato e dalla —————————– 90 Cfr. J. ALFARO, «Natura», 575. Lo conferma esplicitamente la parte conclusiva della sua breve e importante «catechesi» il cui linguaggio cristocentrico accentua le realtà dell’Alleanza e della salvezza realizzate e compiute mediante la realtà del “Sacrificio nuovo” nei misteri inseparabili dell’Incarnazione e della Redenzione. Cfr. PC, 96. 92 Cfr. soprattutto ATM e MS65. 93 Trattando il linguaggio sul soprannaturale e chiarificandone il senso nel rapporto con il termine natura, de Lubac sostiene che il linguaggio cristiano ci offre un’altra parola per designare il mistero del soprannaturale: pneumatikos (da pneuma, spirito), la parola delle Scritture, in particolare paolina che è rimasta quella della tradizione greca e che «ha il grande vantaggio, importante per l’antropologia cristiana, di opporsi a psuchikos (fisico, animalis)». Egli è, insieme a Rahner, consapevole che «la teologia del Medio Evo aveva idee più profonde e più ricche sulla “grazia increata” della nostra». Cfr. PC, 22.28. 91 SOPRANNATURALE 51 forza liberatrice della grazia94, dove de Lubac sostiene che «la distinzione fra natura e grazia è in un primo tempo un rapporto di opposizione molto più radicale che nel caso della distinzione generale fra natura e soprannaturale» perché «fra la grazia e il peccato la lotta è irriducibile»95. Il cambiamento del linguaggio teologico sul soprannaturale in un linguaggio più biblico sulla grazia nelle opere di de Lubac è particolarmente sensibile dopo il Concilio Vaticano II. Questo si può evidenziare nella seconda parte della Petite catéchèse dove all’inizio del terzo capitolo l’autore afferma che fino a quel punto le sue considerazioni hanno un «carattere astratto» conforme al «metodo lungamente in uso presso la teologia classica» e che nella ricerca di una definizione del rapporto naturasoprannaturale egli considerava questo rapporto «nella sua maggiore generalità, nella sua indeterminatezza primaria, in quanto il “soprannaturale” considerato non aveva ancora […] i tratti precisi dell’alleanza biblica o del mistero cristiano»96. Usando il cosiddetto «metodo di innocenza» egli faceva un’«astrazione della condizione concreta dell’uomo, che è una condizione di peccato»97. In questo senso egli parla di una doppia distinzione: natura – soprannaturale, peccato – grazia; che egli ritiene si riveli esplicitamente nella liturgia cattolica e che debba essere assolutamente mantenuta «in tutto suo vigore»98. «La distinzione fondamentale tra “natura umana” e “soprannaturale”, soggiacente alla loro unione realizzata dalla grazia, […] resta un elemento fondamentale della dottrina cattolica»99. Parlando del linguaggio della grazia nel Vaticano II, de Lubac risponde alle obiezioni di alcuni autori che sottolineano come concilio non abbia usato il termine «soprannaturale», affermando che, anche se il linguaggio del concilio è abitualmente concreto e parla più volentieri di natura e grazia che di natura e soprannaturale, questo termine ricorre negli atti conciliari 14 volte100. Infatti, il concilio voleva evitare un uso frequente del termine «soprannaturale» che a causa dei tanti abusi e delle conseguenti confusioni createsi nella teologia moderna è divenuto «per numerosi autori non —————————– 94 «Il mio scopo era duplice: da una parte riassumere in forma semplice e attualizzata, per tirarne le conseguenze, la dottrina del soprannaturale, come risultava dai miei antichi studi storici sull'argomento; dall'altra, completarla con un’esposizione sulla grazia che libera dal peccato». Così de Lubac sulla sua Petite catéchèse in MEM, 407-408. 95 Cfr. PC, 70. 96 Cfr. PC, 69. 97 Cfr. PC, 69. 98 De Lubac fa un richiamo all’inizio della parte eucaristica dell’attuale rito della messa riportando le parole in latino che, secondo lui, esprimono la menzionata doppia distinzione ed il senso del mistero meglio delle traduzioni in francese [ed in italiano]: «“Per huius aquae et vini mysterium, eius divinitatis (esse) consortes, qui humanitatis nostrae fieri dignitus est particeps” (= natura soprannaturale nella sua realizzazione concreta); – “Lava me, Domine, ab iniquitate mea, et a peccato meo munda me” (= peccato – grazia)». Cfr. PC, 95. 99 Cfr. H. de LUBAC, «“Soprannaturale” al Vaticano II», 348. 100 Cfr. H. de LUBAC, «“Soprannaturale” al Vaticano II», 343. 52 IL MISTERO DELLA SALVEZZA CRISTIANA credenti una specie di etichetta appiccicata alla fede cattolica in un senso falso e caricaturale» e spesso legato alla teoria della «natura pura»101. Il concilio Vaticano II, essendo in sintonia con il Vaticano I, non ha voluto perpetuare degli equivoci nocivi e «favorire una teoria di scuola (detta della “natura pura”) nel senso preciso che essa sosteneva due finalità ultime dell’uomo»102. Il Vaticano II evitò volutamente il vocabolario dei «due ordini», perché, come sostiene de Lubac, in realtà «non vi sono due ordini differenti, ma uno solo, quello dell’alleanza, di cui la creazione è il primo momento e di cui Cristo è l’Alfa e l’Omega, l’inizio e la fine; e questo ordine è soprannaturale»103. L’atto salvifico dell’uomo, effettuato mediante l’azione di grazia, non comprende dentro di sé «due realtà (di due nature) giustapposte o, se così si può dire, di due cose di cui la seconda si sovrapporrebbe alla prima, restando però l’una esterna all’altra». Non si tratta nemmeno di «due nature sostanziali incapaci di compenetrarsi»104. Questo non significa che fra l’ordine naturale e l’ordine soprannaturale non esista alcuna distinzione. De Lubac vuole soltanto evitare gli eccessi d’un «estrinsecismo disastroso» e d’un «immanentismo rovinoso» che non sono mai state concezioni proprie della «grande tradizione cattolica»105. Egli è consapevole della debolezza del linguaggio, e insieme a Bouillard dice che: si può dire sicuramente che come la parola natura «designa troppo poco chiaramente la logica della libertà, la parola soprannaturale non dice fino a che punto si tratta della comunicazione che Dio fa di se stesso in Gesù Cristo», quindi queste due parole non sono sufficienti per esprimere «la relazione personale e storica» nella quale consiste «il mistero cristiano»106 Nonostante queste insufficienze linguistiche, il nostro teologo, volendo mantenere un approccio corretto nella riflessione teologica, non vuole «bruciare le tappe» e semplicemente trascurare le parole che, malgrado la loro insufficienza «resteranno atte a “metterci in guardia contro la tentazione —————————– 101 Cfr. H. de LUBAC, «“Soprannaturale” al Vaticano II», 346-347. «Il concilio che afferma in molteplici maniere la vocazione divina dell’uomo e la gratuità di questo appello, non sente il bisogno per conservare questa gratuità di riferirsi all’ipotesi di “un ordine di pura natura” completo in se stesso». Cfr. H. de LUBAC, «“Soprannaturale” al Vaticano II», 347.349. 103 Così de Lubac, citando Mouroux, conclude il suo articolo con le parole conciliari della Gaudium et Spes (GS 21-22): «La chiesa sa perfettamente che il suo messaggio è in armonia con le aspirazioni più segrete del cuore umano, quando difende la dignità della vocazione umana e così ridona la speranza a quanti disperano ormai di un destino più alto… In realtà solamente nel mistero del Verbo incarnato trova vera luce il mistero dell’uomo». Cfr. H. de LUBAC, «“Soprannaturale” al Vaticano II», 350. 104 Cfr. PC, 25-26. 105 Questo sforzo di de Lubac è proprio in sintonia con le impostazioni antignostiche antropologico-soteriologiche di Ireneo, come vedremo nel cap. II di questo lavoro. 106 PC, 28-29. 102 SOPRANNATURALE 53 di naturalizzare il mistero”, cioè di “disconoscere l’Amore divino che ha liberamente suscitato un altro amore”»107. 2. Il «soprannaturale» in ambito antropologico L’uomo è mistero108. Fatto ad immagine e somiglianza di Dio, egli constata che vi è dell’incomprensibile in lui, ma Dio, rivelandosi, ha rivelato all’uomo stesso la sua verità. Rivelandosi a noi, Egli ci ha rivelato noi stessi a noi stessi109. Queste parole insieme con l’espressione di sant’Ireneo «Gloria Dei, vivens homo»110, più volte citata nelle diverse opere di de Lubac, ci fanno intravedere il punto di partenza della sua antropologia costruita su fondamenti biblici, in accordo con la dottrina dei Padri e in linea con la tradizione della teologia cattolica. In questo passo del nostro lavoro cerchiamo di presentare i punti cruciali dell’antropologia di de Lubac111: l’insistenza sul realismo biblico-patristico, sul duplice aspetto della grazia (creatrice e divinizzante), sulla concezione dell’uomo creato ad immagine e somiglianza di Dio come spirito libero e aperto, dotato del «desiderio naturale della visione di Dio» e capace di ricevere l’autodonazione assolutamente gratuita e personale di Dio che è amore112. Lo studio delle due critiche di Alfaro, che presenteremo in seguito, ci permette di poter esprimere meglio il concetto di «desiderio naturale di vedere Dio», attraverso il quale de Lubac, nel tentativo di realizzare una sintesi dogmatica, cerca un punto d’incontro tra l’unicità del fine ultimo dell’uomo e l’assoluta gratuità della grazia. La dottrina sul «soprannaturale» di de Lubac rappresenterebbe dunque un tentativo di elaborare una sintesi dogmatica equilibrata, plasmata in conformità ai caratteri basilari della tradizione cattolica. —————————– 107 Cfr. PC, 29. «di fronte all’evoluzione attuale del mondo, diventano sempre più numerosi quelli che si pongono o sentono con nuova acutezza gli interrogativi capitali: Cos’è l’uomo?». GS 10. 109 «Cristo, che è il nuovo Adamo, proprio rivelando il mistero del Padre e del suo amore svela anche pienamente l’uomo all’uomo e gli fa nota la sua altissima vocazione». GS 22. 110 AH, IV, 20,7. 111 A questo scopo ci serviamo soprattutto delle seguenti opere di de Lubac: Surnaturel (1946); «Le mystère du surnaturel» (1949); Augustinisme et théologie moderne (1965); Le Mystère du surnaturel (1965). 112 Proprio queste stesse impostazioni antropologiche le riconosceremo nella dottrina di Ireneo. Cfr. cap. II, sez. 1. di questo lavoro. 108 54 IL MISTERO DELLA SALVEZZA CRISTIANA 2.1 L’«antropologia» di de Lubac Lo sforzo di de Lubac è quello di ritrovare una nuova maniera di esporre una vera e piena idea cristiana dell’uomo113. Egli mette in atto il tentativo di riassumere tutto «in una sola idea» semplice, cercando un concetto che indichi e mostri il rapporto fra «naturale» e «soprannaturale». La sua dottrina si presenta come un ritorno alla semplicità e all’essenzialità degli antichi114, opponendosi invece ai «moderni» che «hanno abbandonato Agostino e Tommaso» e l’antica retta dottrina sull’uomo ed sul suo rapporto con Dio. Perciò de Lubac ricorre alla Bibbia e alla dottrina dei Padri, condensando la sua riflessione sul tema della dignità dello «spirito creato ad immagine di Dio»115. Nella sua trattazione sull’uomo, de Lubac, al contrario dei sostenitori della «natura pura», prende come punto di partenza l’uomo concreto nella sua natura reale116, senza alcun legame con quella natura irreale e astratta ipotizzata dalla teoria della «natura pura»117. Il suo sforzo di mostrare la gratuità del dono amoroso di Dio nell’ordine presente e reale, è considerato oggi «un elemento nuovo di grande valore»118. Opponendosi al pensiero dualista che considerava la «natura» come un ordine chiuso in sé e il «soprannaturale» come un’aggiunta esteriore che non la riguarderebbe intrinsecamente, de Lubac elabora una riflessione a prescindere da quel concetto di «natura pura» che era stato inventato per garantire la gratuità del soprannaturale. Per queste ragioni egli preferisce la posizione degli Antichi119 di cui ne esalta il realismo120. L’autodonazione di Dio, assolu—————————– 113 Cfr. MS65, 46-48.51-70. La «semplicità» e la potenza degli «antichi» caratterizzano le riflessioni antropoteologiche di Ireneo alla base delle confutazioni da lui elaborate contro i complicati e sviluppati sistemi gnostici. Cfr. Brox, I, 19; P. CODA, Teo-logia, 156; cap. II di questo lavoro. 115 Cfr. S, 437; MS49, 136; ATM, 180.204. 217-219.262.302; MS65, 77.84.157159.168.278-279; PC, 14.18; cap. II, parr. 1.1-1.3 di questo lavoro. 116 «Sola tuttavia ci interesserebbe la consistenza “di fatto”, quella della nostra effettiva natura, in questa creazione di Dio». MS49, 102. 117 Cfr. MS49, 103. 118 Cfr. L.F. LADARIA, Antropologia teologica, 193-194. Questo sforzo di de Lubac in accordo con la dottrina degli Antichi esclude simultaneamente l’ipotesi irreale della «natura pura». Cfr. MS49, 103-104; ATM, 322-323; MS65, 109-131.306-307; ID., «“Soprannaturale” al Vaticano II», 347. 119 De Lubac, nel suo stile di una «serena disputatio in pace catholica», si esprime così: «In queste condizioni, non è “più semplice e più ragionevole” di tornare, come proponiamo, alla posizione degli antichi, che non si preoccupavano di una simile ipotesi? Senza nulla negare dogmaticamente circa le possibilità, che ci sfuggono; senza rifiutare un’ipotesi astratta, che può esser un buon mezzo per rappresentarci al vivo una certa verità, non è “più semplice e più ragionevole”, per elaborare una dottrina teologica, cercare di non uscire dal reale che noi conosciamo?». Cfr. MS65, 104. 120 Quando per esempio cita la frase di sant’Ireneo a riguardo della visione di Dio come unico fine dell’uomo e tanto più offerta agli «uomini che noi siamo oggi»: «L’uomo, infatti, 114 SOPRANNATURALE 55 tamente libera e gratuita, riguarda la natura umana concreta121, e perciò l’assoluta gratuità del «soprannaturale» non può essere garantita dall’ipotesi irreale di una natura generica, astratta e non realizzata, ma bisogna che il «soprannaturale» appaia gratuito in rapporto alla «natura concreta di cui io partecipo hic et nunc»122. Volendo accentuare questa gratuità assoluta del «soprannaturale», donato alla nostra natura umana concreta, de Lubac si serve dell’esempio della doppia gratuità espressa con le due formule cosiddette «zoppe»: «Dio mi ha dato gratuitamente l’essere» e «Dio ha impresso al mio essere una finalità soprannaturale»123. La prima formula esprime la differenza fra nulla ed essere, fra la nostra essenza e la nostra esistenza. La seconda, invece, esprime la totale gratuità del dono soprannaturale nei confronti del dono stesso dell’essere, ed esprime la differenza fra il nostro essere naturale e la nostra finalità soprannaturale, fra la nostra condizione di creatura e la nostra filiazione divina124. Si tratta di un’analogia con la quale si cerca di rappresentare i due radicali benefici che Dio ha preposto alla vita dell’uomo in quanto entrambi precedono ogni offerta di grazia alla libera volontà umana. L’utilizzo delle due formule quasi ad indicare l’esistenza di due tappe distinte dell’iniziativa divina nei riguardi dell’uomo risulta necessario in vista della nostra struttura di ragionamento umano, ma non si può affermare in forma assoluta che Dio ci ha creati e poi ha infuso in noi una finalità soprannaturale, perché questi due momenti in realtà si succedono l’uno all’altro non in un modo strettamente cronologico. Anzi, secondo de Lubac, «il soprannaturale è il primo nell’ordine d’intenzione – prius intenditur deiformis quam homo»125. Di conseguenza, la natura umana non può esigere nulla davanti a Dio. È Dio che mantiene l’iniziativa ed è il soprannaturale che suscita la natura umana ad accoglierlo. Nell’uomo non c’e nulla di previo al dono di Dio, e la natura umana creata, nella quale Dio ha impresso il desiderio di vederlo, non può esigere nulla davanti a Dio. Allora è tutto pura grazia. È tutto un dono, sia la nostra creazione, sia la nostra chiamata alla vita divina. Sin dalla nostra creazione, nella quale è inscritto il nostro fine unico, non si può che parlare di perfetta gratuità. Si distingue, dunque, una duplice gratuità, un duplice dono di Dio corrispondente ad una duplice libertà divina, e se il primo dono – la prima grazia —————————– non può vedere Dio da sé; ma Egli di sua volontà si farà vedere dagli uomini che vuole, quando vuole e come vuole». Cfr. AH, IV, 20,5; MS49, 107; MS65, 111. 121 «Tuttavia, ripetiamolo, unicamente in rapporto a me, in rapporto a noi tutti, a questa natura qual è la nostra, a questa umanità reale, di cui noi siamo membri, si pone, in fin dei conti, e deve essere risolta, questa questione della gratuità». MS65, 116. 122 Cfr. MS49, 109. 123 Cfr. MS65, 137, e l’intero capitolo «Il “donum perfectum”», 133-159. 124 Cfr. MS65, 134. 125 Cfr. MS65, 154. 56 IL MISTERO DELLA SALVEZZA CRISTIANA della creazione può essere considerato «contingente», la seconda grazia può essere considerata «sovra-contingente»126. Anche a questo proposito de Lubac, affermando le due verità, esprime un forte richiamo alla tradizione teologica nella quale a partire da sant’Ireneo, e poi con sant’Agostino e san Tommaso si afferma che: «l’uomo non può vivere che per la visione di Dio, e questa visione di Dio dipende assolutamente dal beneplacito divino»127. Non solo la conoscenza di Dio, ma anche la conoscenza di noi stessi è un dono di Dio, perché secondo la dottrina biblico-patristica, «l’uomo è immagine di Dio non solamente per la sua intelligenza, la sua libertà, la sua immortalità, il suo dominio sulla natura, ma ancora e soprattutto, in fin dei conti, per ciò che vi è di incomprensibile in lui» e perché rivelandosi a noi, Dio «ci ha rivelato noi stessi a noi stessi»128. 2.2 La «natura aperta» dello «spirito creato» Considerando ciò che abbiamo osservato a proposito del significato dell’uso del termine «natura» nella teologia cattolica e in particolare nella teologia di de Lubac129, possiamo affermare che egli, seguendo la linea di Agostino, «rompe ogni legame con il naturalismo antico»130. Con il dogma della creazione, il cristianesimo apporta una grande novità alla considerazione della «natura» e trasforma l’idea di natura proveniente dalla filosofia antica. La «natura», infatti, non viene più considerata «sussistente per se stessa» e «vivente da se stessa». Essa è «diventata» la «creazione». L’atto di creazione conferisce alla creatura «una contingenza e una dignità», che l’antichità pagana non conosceva131. Intendendo dunque la «natura» alla luce della rivelazione, de Lubac mette in rilievo la particolarità della natura dell’uomo come uno «spirito creato» la cui determinazione deriva dal fatto stesso di essere stato creato e —————————– 126 L’ultima espressione, in francese «super-contigente, proviene da M.D. Chenu. Cfr. MS65, 140-141. Secondo la dottrina di sant’Agostino ed il suo discorso nel De Civitate Dei sulla «duplice grazia», sulla distinzione di un «duplice soccorso della grazia», esiste una differenza tra il dono della grazia offerto al «primo Adamo» e quello dato al «secondo Adamo» che in definitiva rappresenta «il peccatore di oggi», tale per cui quest’ultima grazia, la grazia di Cristo è considerata «più abbondante», «più grande» e «più potente». Cfr. ATM, 89-91 e nella stesa opera l’intero capitolo «Il problema dello stato primitivo», 285-283. 127 Cfr. AH, IV, 20,5.7; MS49, 134; cap. II, parr. 2.3 e 3.2 di questo lavoro. 128 Così de Lubac, citando Agostino e Bérulle. Cfr. AH, II, 28,2; MS49, 136. MS65, 277278. 129 Cfr. cap. I, par. 1.1 di questo lavoro. Usando dunque in questo paragrafo e in altri successivi del lavoro i termini «natura», «naturale» e «soprannaturale», anche se non messi fra le virgolette, gli attribuiamo il significato già spiegato. 130 Cfr. MS65, 71. 131 Cfr. MS65, 72. SOPRANNATURALE 57 dalla sua permanente apertura al soprannaturale132. Lo spirito creato non si riduce alla sua natura. Anzi, esso si oppone alla natura: «la natura rationalis o creatura rationalis non è una res naturalis» e «gli esseri spirituali non possono essere confusi con gli esseri che sono detti semplicemente “esseri naturali”», perché l’essere spirituale «non è completamente definito per la sua forma naturale, la trascende in una certa maniera… La sua natura è di non esser semplicemente natura, nel senso di natura finita, determinata, particolarizzata…»133. De Lubac distingue due sensi della parola «natura» applicata all’uomo: quando si tratterà della natura spirituale, e più particolarmente dell’uomo, che non è né semplice vivente né puro spirito, questa parola «natura» avrà due sensi parzialmente diversi, secondo che si dovrà applicare a questa specie particolare che noi costituiamo nel nostro ordine fra le altre specie dell’universo, o che designerà la natura dello spirito, in quanto supera ogni specie particolare per la sua apertura congenita sull’universale e per la sua relazione immediata a Dio134. La visione della natura umana, che emerge dalle tante citazioni dei diversi autori presenti nell’esposizione antropologica di de Lubac, indica una «natura aperta» che trascende i suoi limiti135. L’uomo non è creato per restare dentro i limiti della sua natura. Egli non è un essere chiuso perché è orientato verso un fine che lo trascende e che eccede la potenza della sua stessa natura: «Vi è qualcosa nell’uomo, un certo infinito di capacità, che non permette di confonderlo con gli esseri, la cui intera natura e il cui intero destino si iscrivono dentro il cosmo»136. —————————– 132 Cfr. MS65, 162. L’uomo come «spirito» è una realtà che non può venir descritta in maniera adeguata da concetti e da metodi di scienza naturale. Egli, infatti, è soggetto, libertà, conoscenza e autocoscienza il cui orizzonte è fondamentalmente illimitato. Cfr. K. RAHNER, «Uomo», 561. Alfaro esprime in altri termini un pensiero simile a quello di Rahner, prendendo in considerazione la finalità propria dell’uomo come spirito conosciuta alla luce della rivelazione cristiana, e considerando l’uomo «destinato alla visione di Dio, e, di conseguenza, radicalmente capace di essa in virtù del suo stesso carattere essenziale di spirito». Egli afferma: «La comprensione teologica dell’uomo, divinizzato nella visione di Dio dalla grazia assoluta dell’incarnazione, porta dunque inevitabilmente alla questione teologica sull’essere stesso dell’uomo, alla questione della sua finalità inscritta nella sua interiorità spirituale. La questione della finalità dell’uomo (del suo futuro, anticipato nel dinamismo spirituale dell’uomo verso la propria pienezza: del suo “verso che cosa”) è la questione finale della sua esistenza». Cfr. J. ALFARO, Cristologia e antropologia, 266. 133 Così de Lubac, seguendo la dottrina di san Tommaso e citando de Finance. Cfr. MS65, 163. 134 MS65, 165-166. 135 Cfr. MS65, 161-178. 136 Cfr. MS65, 170. «Tutto l’agostinismo, nell’accezione più larga del termine, – accezione che si estende a tutta l’antica tradizione –, non consiste forse, in quest’argomento, nel sottolineare la differenza essenziale che esiste fra gli esseri della natura, o del cosmo, – il cui fine è proporzionato ai loro limiti –, e lo spirito, che è aperto all’infinito?». Cfr. ATM, 217-218. 58 IL MISTERO DELLA SALVEZZA CRISTIANA Questo è «il paradosso cristiano dell’uomo», spesso dimenticato da parte dei «teologi moderni», sostenitori della teoria della «natura pura», ignorato da coloro che non conoscono il mistero della fede e negato da coloro che hanno abbandonato la dottrina sana della tradizione cristiana degli antichi edificata sui fondamenti della rivelazione. Il termine «paradosso», usato in questo senso nei titoli dei quattro capitoli di Le Mystère du surnaturel (1965)137, esprime bene la realtà dell’uomo, la particolarità del suo stato di creatura spirituale, di spirito creato che tende verso l’infinito, che «possiede una “trascendenza illimitata” che dà all’orizzonte umano un “carattere infinito”»138. «Il fine della creatura spirituale eccede la potenza della sua natura e di ogni natura; e questo perché questa creatura spirituale ha un rapporto diretto con Dio, che le deriva dalla sua origine»139. Con l’idea della «divinizzazione» che include la chiamata dell’uomo a trascendere i limiti della sua natura, la filosofia cristiana sull’uomo, formata e sviluppata in maniera strettamente dipendente dalla rivelazione, apre un cammino nuovo rispetto alla filosofia greca antica140. Se vogliamo dare un’idea più precisa possiamo dire che la novità proveniente dalla rivelazione è: l’idea d’un sursum, e di un di più; l’idea d’un ordine incommensurabile a quello della natura; l’idea di una novità radicale, se si può dire, d’una invenzione nell’essere; l’idea d’un Dio che potrebbe venire gratuitamente dall’alto per innalzare questa natura indigente esaudendo il suo voto, trasformandolo completamente141. Insistendo su questa apertura dell’uomo, de Lubac è consapevole che la sua visione della «natura» umana aperta e orientata verso l’Infinito non proviene e non può essere fondata sui concetti della filosofia antica, sia platonica, sia aristotelica. Essa è «formata e sviluppata tutta intera in dipendenza diretta della rivelazione cristiana»142. Allo stesso modo la distinzione dell’uomo dagli altri esseri creati è fondata sulla Scrittura, sulla dottrina dei Padri e degli altri autori della Chiesa nei quali si può trovare un riferimento a questa visione cristiana dell’uomo. Le altre visioni dell’uomo, sono, secondo de Lubac, visioni ipotetiche, non reali e quindi da rifiutare143. Il «suo» uomo è quello biblico, creato a immagine e somiglianza (Gen 1,2627), che ha «un’attitudine naturale a comprendere e ad amare Dio», un’attitudine comune a tutti gli uomini che consiste nella natura stessa dello spirito144. —————————– 137 Cfr. MS65, 161-249. De Lubac servendosi con le parole di K. Rahner. Cfr. MS65, 167. 139 Cfr. MS65, 171. 140 Cfr. MS65, 179.184-186. 297. 141 MS65, 190. 142 Cfr. MS65, 179. 143 La teoria ipotetica modernista della «natura pura» contro la quale lottava de Lubac. 144 Cfr. MS65, 77. 138 SOPRANNATURALE 59 In continuità con la tradizione antica, de Lubac considera lo spirito creato libero, cioè dotato d’una libertà morale e perciò «peccabile»145, ma nello stesso tempo capace d’una bontà perfetta, rivolto verso il suo autore a cui aderisce tutto intero perché è creato a Sua immagine146. Grazie al dono della libertà e alla tendenza verso la «perfezione» e a causa della realtà del peccato, quell’immagine di Dio si trova in una tensione già designata da alcuni Padri come un «passaggio dall’immagine alla rassomiglianza», dalla «dignità dell’immagine» alla «perfezione della rassomiglianza»147. Anche questa visione biblico-patristica afferma che la «natura dell’essere spirituale» non è chiusa in se stessa, ma è aperta ad una «finalità ineluttabilmente soprannaturale»148. Quest’apertura, però, non significa «che la natura umana abbia già in se stessa, e come dal suo proprio fondo, il minimo elemento positivamente soprannaturale»149. Non si tratta qua d’un processo «naturale», di una elevazione compiuta con le proprie forze della natura. C’è sempre bisogno della grazia, di una «rottura» e di un «sacrificio» nel quale la realtà del «soprannaturale» «completa gli sforzi dell’uomo», sottomettendoli prima a un «rovesciamento»150. La visione dell’uomo e della sua salvezza, secondo le tesi di de Lubac, in linea con i contenuti biblico-patristici, rimane dunque nell’ambito del reale, afferma l’assoluta gratuità della grazia e della salvezza nel suo duplice aspetto, quello della creazione e quello della «divinizzazione», e nello stesso tempo esclude ogni visione ipotetica e irreale dell’uomo e della sua salvezza con le conseguenze irreali della doppia beatitudine o doppia finalità dell’uomo151. La dottrina del «desiderio naturale della visione di Dio» esprime la realtà dell’uomo in quanto spirito creato, aperto verso il suo unico fine «soprannaturale» che rimane sempre un fine assolutamente gratuito perché espressione dell’autodonazione personale di Dio che è amore. —————————– 145 De Lubac è contrario alla teoria modernista che concepisce l’uomo come una creatura spirituale dotata d’intelligenza e di volontà, ma priva di libertà morale. Cfr. S, 187. 146 Cfr. S, 197-198. 147 Ricordiamo che i due termini: «immagine» e «somiglianza», a partire dai versetti biblici (Gen 1,26 e Gen 1,27), erano interpretati da alcuni Padri, fino al IV secolo, in un modo diverso. Essi ritenevano che dopo il peccato l’uomo rimane «ad immagine» ma perde la «somiglianza» che si restituisce dopo con il mistero dell’Incarnazione grazie alla quale si compie la «divinizzazione» dell’uomo. A partire dal IV secolo la distinzione fra i due termini si perde e entrambi si usano, soprattutto nella tradizione occidentale, con lo stesso significato. Cfr. MS65, 157-158; L.F. LADARIA, «L’uomo creato a immagine di Dio», 81103; J. ALFARO, Cristologia e antropologia, 272, e n. 26; Introduzione, par. 2.4 di questo lavoro. 148 Cfr. MS65, 84. 149 Cfr. MS65, 84. 150 Cfr. MS65, 81.84. 151 Cfr. MS65, 85. Tutti questi aspetti li ritroveremo nella dottrina di Ireneo il quale afferma: «C’è, infatti, un solo Figlio, che ha compiuto la volontà del Padre, ed una sola umanità, nella quale si compiono i misteri di Dio». AH, V, 36,3. Cfr. AH, V, 1,1; cap. II, par. 3.3 di questo lavoro. 60 IL MISTERO DELLA SALVEZZA CRISTIANA 2.3 Desiderium naturale L’uomo, inteso come spirito finito, nella sua apertura connaturale all’orizzonte infinito dell’essere, possiede una «capacità fondamentale di accettare l’autocomunicazione di Dio152, che inizia nella fede e si compie nella visione di Dio»153. La «natura» dell’uomo è aperta al dono di Dio in se stesso. L’uomo è «capax Dei». Questa capacità dell’uomo fu interpretata da Agostino, e in seguito da Tommaso e dalla maggior parte dei teologi della scolastica medievale e post-tridentina, come «desiderium naturale dell’unione immediata con Dio»154. L’uomo è ordinato alla visione di Dio come sua unica «beatitudine perfetta», e solamente nella visione di Dio il suo «desiderio illimitato di conoscenza» può raggiungere il suo compimento definitivo. «Unicamente nell’incontro personale con l’Assoluto stesso, l’uomo può definitivamente riempire la profondità del proprio spirito»155. Si tratta di un desiderio a cui non è associata alcuna pretesa da parte dell’uomo. Questo desiderio è inefficace per se stesso, e per il suo compimento l’uomo ha necessariamente bisogno della grazia. Anzi, la questione teologica, se il desiderio naturale stesso manifesti già il movimento della grazia o faccia parte della natura umana in quanto tale, rimane ancora aperta156. Alcuni autori ritengono che il desiderio naturale sia un desiderio condizionato, non assoluto, mentre altri, invece, lo comprendono come un desiderio assoluto senza il quale l’esistenza dell’uomo, non destinato alla visione di Dio, sarebbe priva di senso. La stessa problematica del linguaggio teologico, già menzionata in questo lavoro157, legata all’uso del termine «natura» o «soprannaturale» nella teologia della grazia, si presenta anche a proposito della giusta comprensione del concetto di «desiderio naturale». Come per il termine «soprannaturale», alcuni teologi medievali e postridentini hanno prodotto alcune interpretazioni diverse rispetto a quella di Tommaso, così anche il termine «desiderio naturale» fu interpretato in modi erronei. L’applicazione del termine «natura» e «naturale» all’uomo da parte di san Tommaso è lontana dalla concezione aristotelica degli stessi termini158. Tommaso —————————– 152 Nella terminologia teologica tradizionale questa capacità dell’uomo fu chiamata «potenza obbedienziale», ma de Lubac non accetta la concezione puramente «passiva» di questo termine applicata alla spiegazione del «desiderio naturale». Cfr. ATM, 249; J. ALFARO, Cristologia e antropologia, 263. 153 Cfr. J. ALFARO, «Natura e grazia», 580. 154 Un’altra interpretazione di questa capacità della natura dell’uomo che lo porta a vedere Dio è di considerarla come «mera non-contraddizione tra natura e grazia». Cfr. J. ALFARO, «Natura e grazia», 580. 155 Cfr. S. Th., I, q. 12, a. 1; J. ALFARO, «Natura e grazia», 581. 156 Cfr. L.F. LADARIA, Antropologia teologica, 201-202. 157 Cfr. cap. I, par. 1.4 di questo lavoro. 158 Cfr. J. ALFARO, Cristologia e antropologia, 282. SOPRANNATURALE 61 concepiva l’uomo come una creatura intellettuale («intellectus creatus») che nella sua stessa costituzione «naturale», nel suo stesso spirito, è profondamente orientato verso l’infinito, in modo che solamente nella visione di Dio può raggiungere la propria definitiva pienezza («beatitudo perfetta»). D’altra parte, però, riteneva l’uomo assolutamente incapace di raggiungere da se stesso la visione di Dio159. Alfaro, usando altre parole, lo interpreta così: Creata da Dio e definitivamente finalizzabile nell’unione immediata con Dio, la «natura» dell’uomo porta in se stessa la tensione costitutiva tra la sua limitazione creaturale e la sua illimitatezza spirituale. La grazia si inserisce nella profondità della «natura» spirituale dell’uomo (nel «desiderio naturale» di vedere Dio) come «istinto interiore» («illuminazione interiore», «parola interiore» ecc.), cioè come tendenza dinamica vitale (vissuta nella coscienza: conoscenza aconcettuale) verso la visione di Dio. Resta escluso ogni dualismo di giustapposizione tra la «natura» umana e la grazia. L’esistenza concreta dell’uomo nella sua struttura fondamentale di «creatura intellettuale», finalizzata dalla grazia al livello più profondo del suo spirito nella visione di Dio costituisce una unità interna indivisa160. De Lubac ritiene che la sua opera Le Mystère du surnaturel (1965) possa essere inserita in una serie «già così lunga, di questi “noiosi commentari sul desiderio, insieme naturale e inefficace, di vedere Dio, secondo san Tommaso”»161. Infatti, già nella sua prima opera sull’argomento del «soprannaturale»162, egli considera l’uomo un essere creato come spirito creato che non soltanto possiede un «desiderio di Dio», ma che egli stesso, in quanto spirito, è questo desiderio163. Senza il compimento di questo desiderio, l’esistenza dell’uomo sarebbe priva di senso e l’uomo si troverebbe in uno stato di sofferenza o «pena del danno»164, designato da de Lubac come una «finalità senza fine»165. Si tratta dunque d’un desiderio che non soltanto appartiene alla «natura» dell’uomo, ma che la costituisce. È un desiderio della «natura» dell’uomo166 che, secondo la dottrina di san Tommaso, interpretata da de Lubac, non presenta una «vaga “velleità”, un «accidente» qualunque, un “desiderio”, un “voto platonico”, inadatto al —————————– 159 Cfr. J. ALFARO, Cristologia e antropologia, 282-283. J. ALFARO, Cristologia e antropologia, 283. 161 De Lubac, citando G. Van Riet. Cfr. MS65, 45. A proposito del tema del «desiderio naturale» e delle varie interpretazioni della dottrina tomista nel percorso storico di teologia vedi ATM, soprattutto pp. 195-262. 162 H. de LUBAC, Surnaturel. 163 Cfr. la conclusione della Surnaturel, intitolata «Exigence divine et désir naturel», 483-493. Per le citazioni di questa conclusione ci serviamo nel nostro lavoro della traduzione italiana dell’opera omnia dell’autore: H. de LUBAC, «Esigenza divina e desiderio dell’uomo», 255-268. Su questo punto vedi soprattutto le pagine 255-256.259-260.266. 164 «In me, essere umano reale e personale, nella mia natura concreta, il “desiderio di vedere Dio” non potrebbe essere eternamente frustrato senza una sofferenza essenziale». Cfr. MS49, 106; MS65, 110.113. 165 Cfr. MS65, 251-273. 166 Cfr. MS49, 107. 160 62 IL MISTERO DELLA SALVEZZA CRISTIANA servizio che dovrebbe rendere»167, ma è il segno d’un vero desiderio naturale, di un appetito di natura, anche quando questo non era nominato espressamente da Tommaso168. «Questo “desiderio naturale” è non soltanto “necessario”, ma anche “determinato”, come il termine di cui è correlativo»169, esso è «il segno non solo d’un dono possibile da parte di Dio, ma d’un dono sicuro»170. Nonostante il suo carattere «naturale» o «connaturale», il «desiderio naturale» non comporta alcuna pretesa da parte dell’uomo171. È un desiderio che anela a Dio non come ad un oggetto, ma come ad un dono172. Il desiderio naturale dunque non esclude l’assoluta gratuità del dono divino. Esso è «inefficace per se stesso» e non può essere colmato dall’uomo. Il suo compimento dipende assolutamente dalla grazia, dalla libera iniziativa di Dio che vuole donarsi personalmente nell’amore. Il fine dell’uomo è per questo considerato «connaturale se si considera il suo desiderio, ma soprannaturale quanto ai mezzi per raggiungerlo e all’agente che lo realizza»173, perché questo fine è «al di sopra della ragione» e «al di là di ogni pretesa», «le forze naturali non sono sufficienti né a pensarli, né a desiderarli»174. —————————– 167 Cfr. MS49, 135; MS65, 111.245. Cfr. ATM, 171. «Il desiderio di vedere Dio, per lui [san Tommaso] è nell’uomo un “desiderio di natura”; meglio ancora è “il desiderio della sua natura”, naturae desiderium». «”Desiderium naturale” può tradursi in significati assai diversi, ma “desiderium naturae” non offre che un senso, più pregnante: “remanebit inane naturae desiderium” (S. Th., I, q. 12, a. 1)». Così de Lubac citando la Summa Theologiae e proseguendo con la citazione dalla Summa Contra Gentiles: «Impossibile est naturale desiderium esse inane… (Contra Gentiles, I, 3, c. 48)». Cfr. MS65, 114, e n. 13; 245. Vedi a proposito anche: S, 467-471. 169 De Lubac, citando in seguito san Tommaso: «Unicuique naturaliter convenit unus finis, quem naturali necessitate appetit, quia natura semper tendit ad unum». Cfr. MS65, 112. 170 Cfr. MS65, 275. 171 Cfr. MS65, 275. 172 Cfr. S, 483. Infatti, è Dio colui che «esige che lo vogliamo», «l’esigenza è da parte di Dio»: «Ciò che vogliamo necessariamente, di un volere assoluto, può anche essere chiamato in termini generali ciò che esigiamo. Diciamolo dunque provvisoriamente della visione di Dio, ma per aggiungere subito: non l’esigiamo perché ci piace esigerlo, lo esigiamo perché non possiamo non volerlo. Lungi dall’essere dominato da lui, questo oggetto del nostro volere lo domina. Si impone a noi, esige che lo vogliamo, anche quando la nostra coscienza lo ignora, anche quando la nostra libertà si allontana da lui. La sua esigenza è tale che non possiamo privarcene. Se dunque l’esigiamo, è lui che urge la nostra esigenza e la trasforma in natura. Necessità di volere, legge rigorosa, ricevuta dallo spirito e non dettata da lui». Cfr. H. de LUBAC, «Esigenza divina e desiderio dell’uomo», 263-264. 173 De Lubac, citando Duns Scoto. Cfr. MS65, 176. 174 De Lubac, citando san Tommaso sul problema della beatitudine che «trascende ogni investigazione razionale»: «Vita autem aeterna est quoddam bonum excedens proportionem naturae creatae, quia autem excedit cognitionem et desiderium ejus» (S. Th., I-II, q. 114, a. 2). Cfr. MS65, 288. 168 SOPRANNATURALE 63 Le osservazioni critiche di Alfaro sulle tesi riguardanti la dottrina sul soprannaturale di de Lubac ci aiutano a esprimere meglio i punti cruciali riguardanti l’antropologia di de Lubac e lo sforzo da lui profuso nella ricerca di una sintesi dogmatica. Per questa ragione ci permettiamo, a questo punto, di servirci delle due osservazioni di Alfaro che, facendo alcune analisi sulle tesi riguardanti il soprannaturale di de Lubac, soprattutto sulla sua interpretazione del «desiderio naturale», alla luce della discussione teologica sulla trascendenza e immanenza della grazia175, con le parole che riportiamo di seguito, ha provato a estrarre il «nocciolo della teoria di de Lubac»: L’uomo è per la sua stessa essenza di spirito desiderio naturale necessario e assoluto della visione di Dio come libera autodonazione personale dello stesso Dio; per la sua stessa natura spirituale è già stato destinato alla visione. L’uomo non può essere creato senza questo destino essenzialmente identificato con la sua condizione di spirito. L’immanenza della visione di Dio resta pienamente spiegata. Si salva anche la gratuità assoluta della visione, perché è Dio stesso che col suo libero atto creativo ha impresso nell’uomo il desiderio naturale della visione, e perché questo desiderio aspira alla visione come autodonazione personale e libera dello stesso Dio176. Comparando le opere di de Lubac concernenti l’argomento sul «soprannaturale», si può notare uno sviluppo all’interno del suo pensiero e ci si può domandare se si tratti di un cambiamento di prospettiva177. Per «motivi di chiarezza e di fedeltà», Alfaro comincia le sue osservazioni partendo dalla prima opera di de Lubac sull’argomento del soprannaturale e osserva che de Lubac, prendendo in considerazione il dato del destino dell’uomo alla visione di Dio, parte dalla rivelazione cristiana, ma non precisa se l’esistenza di tale desiderio naturale di vedere Dio possa essere conosciuta senza la luce della rivelazione178. L’autore francese, inoltre, considera il desiderio di vedere Dio come una realtà essenziale per l’uomo, —————————– 175 Cfr. J. ALFARO, Cristologia e antropologia, 298-299, e l’intero capitolo «Il problema teologico della trascendenza e dell’immanenza della grazia» di cui sulla prima pagina si trova un abbondante elenco della bibliografia sull’argomento, 256-397. 176 Alfaro si serve qua «nella misura del possibile» delle stesse parole di de Lubac e della sua Surnaturel. Cfr. J. ALFARO, Cristologia e antropologia, 297-298. 177 Coloro che provano a rispondere a questa domanda volendo interpretare esattamente il pensiero di de Lubac, debbono riconoscere insieme ad Alfaro che «la sottile acutezza mentale e lo stesso stile letterario di de Lubac esigono un grande sforzo di attenzione e di oggettività ». Cfr. J. ALFARO, Cristologia e antropologia, 294. Una risposta dello stesso de Lubac sulla domanda se il suo pensiero «col passare degli anni, non si sia modificato», si può trovare in MEM, 378-379. 178 «Non vogliamo decidere qui se questo desiderio può essere riconosciuto dalla sola luce della ragione naturale o se occorre aggiungere quella della rivelzione. È noto che questo punto è controverso tra i teologi». H. de LUBAC, «Esigenza divina e desiderio dell’uomo», 262, n. 11. In Le Mystère du surnaturel (1965) de Lubac, citando vari autori, afferma chiaramente che il desiderio naturale di vedere Dio si conosce alla luce della rivelazione. Cfr. MS65, 281-283.286-287. 64 IL MISTERO DELLA SALVEZZA CRISTIANA al punto che può essere identificato con la sua «natura spirituale»179. Si potrebbe, quindi, concludere che Dio non avrebbe potuto creare l’uomo senza l’ordinazione ontologica assoluta alla visione di Dio180. La prima critica di Alfaro, secondo cui questa prima opera di de Lubac presenta alcune «lacune molto visibili», sarebbe la seguente: affermando la sua tesi fondamentale intorno alla «natura spirituale» dell’uomo intesa come «desiderio essenziale assoluto»181, de Lubac non offre alcuna prova della sua tesi, né dal punto di vista teologico, né dal punto di vista filosofico. Inoltre, egli «non allude nemmeno una volta alla visione di Dio come divinizzazione della creatura intellettuale (“spirito finito”182), né ancor meno al carattere incarnazionale di questa divinizzazione, cioè alla dimensione essenzialmente cristica dell’autodonazione gratuita di Dio all’uomo»183. A differenza di Surnaturel, già nell’articolo «Le mystère du surnaturel» (1949), e soprattutto in Le Mystère du surnaturel (1965), facendo una revisione della sua prima opera sul soprannaturale, oltre che mettere un maggiore accento sulla natura concreta dell’uomo-storico a cui è legata la finalità soprannaturale, de Lubac, essendo in accordo con l’enciclica Humani Generis, ammette la possibilità della creazione dell’uomo senza la chiamata alla visione di Dio184, ma continua ad affermare che il desiderio naturale di vedere Dio è legato essenzialmente alla «natura spirituale» dell’uomo e quindi è considerato un «desiderio naturale assoluto». Se questo desiderio non fosse «assoluto», cioè, non legato al fine predefinito ed effettivo della visione di Dio, esso rappresenterebbe una «finalità senza fine», un processo indefinito che non arriverebbe mai alla pienezza finale —————————– 179 «Desiderio naturale del soprannaturale: è l’azione permanente di Dio in noi che crea la nostra natura, come la grazia è l’azione permanente di Dio in noi che crea l’ordine morale». Così de Lubac, facendo riferimento alla filosofia di M. Blondel. Cfr. H. de LUBAC, «Esigenza divina e desiderio dell’uomo», 255-256.262. 180 Commentando la terminologia di de Lubac, Alfaro conclude: «È una terminologia tecnica consapevolmente scelta da un teologo, che conosce perfettamente il suo significato. Si tratta dell’essenza dell’uomo come “spirito finito”, che porta impresso nella sua stessa spiritualità il desiderio assoluto della visione di Dio». Cfr. J. ALFARO, Cristologia e antropologia, 298, e n. 56. Ricordiamo a proposito la nozione dell’enciclica Humani Generis, già menzionata nell’introduzione al cap. I di questo lavoro. 181 Riconoscendo la problematica dell’equivocità dei concetti di «desiderio», di «esigenza», di «velleità», de Lubac lottò contro coloro che male interpretavano la dottrina di san Tommaso riducendo il concetto del «desiderio naturale» a una mera «velleità». Cfr. S, 485-486; MS65, 245-246. 182 Il concetto dello «spirito finito» inteso come «aperto verso l’infinito» e «capax Dei» di Alfaro sarebbe equivalente al concetto di «spirito creato» di de Lubac. Cfr. J. ALFARO, Cristologia e antropologia, 398-403. 183 Cfr. J. ALFARO, Cristologia e antropologia, 298-299. Ladaria fa una simile osservazione critica sulla mancanza dell’aspetto cristologico nelle tesi sul soprannaturale di de Lubac. Cfr. L.F. LADARIA, Antropologia teologica, 194, n. 57. 184 Cfr. MS49, 120; MS65, 138. Vedi anche ATM, 289. SOPRANNATURALE 65 dell’uomo185. Un'altra novità che rispetto alla Surnaturel, troviamo nell’opera dal 1965 sta nel fatto che se nella prima opera de Lubac non parla della visione di Dio come «divinizzazione» dell’uomo, in quest’ultima invece cita vari testi di alcuni Padri e di Bérulle186, che mettono la grazia in rapporto con l’Incarnazione, senza che però, osserva Alfaro, prenda in considerazione, nemmeno qui, la «divinizzazione» e l’Incarnazione come punto di partenza per la comprensione teologica della gratuità dell’autodonazione di Dio187. La critica centrale di Alfaro riguarda proprio questa continua considerazione del desiderio naturale di vedere Dio come un «desiderio assoluto» secondo il quale l’uomo come «spirito finito», finalizzabile solo alla visione di Dio, sarebbe già effettivamente finalizzato alla visione di Dio. Altrimenti, senza questa finalizzazione, l’uomo sarebbe condannato a una «finalità senza fine». Alfaro fa notare che affermando insieme il «desiderio naturale assoluto» e l’assoluta gratuità della grazia, de Lubac entra in contraddizione. Egli, infatti, affermando la gratuità assoluta della grazia, che esclude ogni pretesa da parte dell’uomo, non può mantenerla in coerenza logica con il «desiderio naturale assoluto»188. Se si concepisce il desiderio naturale di vedere Dio come un desiderio «assoluto», questo «equivale a dire che l’uomo porta nel suo stesso nucleo essenziale creaturale-spirituale l’ordinamento ontologico assoluto alla visione di Dio: in virtù della sua stessa condizione essenziale di spirito-creato l’uomo è già destinato necessariamente e assolutamente alla visione»189. Questo ci porta alla conclusione che non si può ammettere logicamente altra gratuità che quella della creazione. Se si considera la grazia della chiamata alla visione come necessariamente legata alla natura spirituale dell’uomo e identificata con essa, «non vi è che una grazia, quella della creazione»190. Ma, nella sua opera del 1965, come già nell’articolo dal 1949, de Lubac insiste sulla «duplice iniziativa» divina e sulla «duplice gratuità», dove «il dono soprannaturale, e di conseguenza anche l’offerta del dono, non sono una semplice sequela creationis»191. Alfaro conclude che negli scritti di de Lubac si trova —————————– 185 Cfr. MS65, 266-267, e nella stessa opera tutto il capitolo «Una “finalità senza fine”», 251-273. 186 Cfr. MS65, 151. 187 Cfr. J. ALFARO, Cristologia e antropologia, 308.314.328. 188 Secondo l’impostazione della sua trattazione sull’immanenza e trascendenza della grazia, Alfaro conclude che non si può salvaguardare la trascendenza assoluta della grazia se si afferma il desiderio naturale «assoluto». Cfr. J. ALFARO, Cristologia e antropologia, 331-332, e n. 127. A differenza di de Lubac, Alfaro considera il «desiderio naturale» non come un desiderio «assoluto», ma «di fatto», secondo il quale, anche se l’uomo non potesse raggiungere la visione di Dio, la sua esistenza avrebbe comunque senso. Cfr. Ibid., 313.319.323. 189 Cfr. J. ALFARO, Cristologia e antropologia, 326. 190 Cfr. J. ALFARO, Cristologia e antropologia, 329. 191 Cfr. MS49, 120; MS65, 140-141. 66 IL MISTERO DELLA SALVEZZA CRISTIANA l’affermazione della gratuità propria del soprannaturale, ma manca «ogni spiegazione convincente sulla coerenza di tale affermazione con la sua concezione dello spirito finito» ed del «desiderio naturale assoluto»192. La seconda critica di Alfaro si riferisce alla già menzionata mancanza di un carattere essenzialmente cristico e incarnazionale nella trattazione lubachiana della gratuità assoluta della salvezza e della grazia conferita all’uomo storico concreto e reale. Affermando la gratuità assoluta del dono divino e spiegandola, servendosi dell’analogia del dono a livello dell’esperienza umana, con le due formule già sopra menzionate, de Lubac dimentica un’analogia più importante – quella fra la nostra divinizzazione umana e l’incarnazione e la divinizzazione dell’umanità di Cristo. A causa di questa mancanza dell’aspetto cristico e incarnazionale, Alfaro considera l’osservazione di de Lubac incompleta193. Senza l’Incarnazione, la divinizzazione sarebbe considerata come il termine della finalizzazione intrinseca costitutiva che tende assolutamente ad essa in virtù della stessa apertura dell’uomo come spirito finito. La divinizzazione si ridurrebbe ad essere solo la tappa finale dello sviluppo interno dello spirito umano e del mondo. Considerando, invece, la divinizzazione anche come partecipazione alla divinizzazione dell’umanità di Cristo, si deduce che l’uomo come spirito finito sarebbe (secondo la tesi di de Lubac) impensabile senza divinizzazione. Si può quindi concludere che la stessa creazione non avrebbe senso senza l’Incarnazione: Se secondo la rivelazione cristiana la visione di Dio appartiene all’ordine stesso dell’incarnazione e costituisce la divinizzazione dell’uomo, sembrerebbe imporsi la conclusione che l’esistenza dell’uomo (e del mondo, che senza l’uomo sarebbe privo di ragion d’essere) non implica necessariamente il suo destino alla visione di Dio; perché, come salvaguardare la grazia assoluta dell’incarnazione, se si afferma che senza di essa sarebbe assurda l’esistenza dell’uomo e del mondo?194 In questo senso, a differenza di de Lubac, Alfaro insiste sull’aspetto «non assolutamente necessario» del nesso fra lo spirito creato e il suo essere destinato alla visione beatifica: L’affermazione della possibilità della creazione dell’uomo senza il destino alla visione non proviene dunque dalla «rappresentazione» di un soggetto preesistente, che riceve il dono della chiamata alla visione; proviene dalla «intellezione» dell’uomo esistente come spirito destinato alla visione. Nel decreto divino la creazione e la divinizzazione dell’uomo attraverso l’incarnazione sono unite. L’incarnazione implica necessariamente la creazione; anzi, il primato spetta a Cristo e alla divinizzazione dell’uomo come ragion d’essere (di fatto, —————————– 192 Cfr. J. ALFARO, Cristologia e antropologia, 330. Cfr. J. ALFARO, Cristologia e antropologia, 314. 194 J. ALFARO, Cristologia e antropologia, 265. 193 SOPRANNATURALE 67 non necessariamente) della creazione nell’ordine della finalità. Ma la creazione del mondo e dell’uomo non implica necessariamente l’incarnazione. Se è l’atto creativo di Dio che dà significato alla realtà creata, dobbiamo dire che la creazione del mondo e dell’uomo senza Cristo non sarebbe assurda195. Nonostante le sue osservazioni critiche intorno alle tesi di de Lubac nelle quali trova «un’incoerenza interna»196, Alfaro non nega il merito di de Lubac di aver operato un tentativo di riflessione critica con la quale «ha chiarito un punto importante nel problema teologico della trascendenza e immanenza della grazia»197. Considerando le due critiche cruciali di Alfaro, una sul «desiderio naturale» considerato «assoluto» e l’altra sulla mancanza del carattere «cristico-incarnazionale» nelle tesi di de Lubac, dobbiamo tenere presente che, riguardo a quest’ultima critica, lo stesso de Lubac, come abbiamo già menzionato nel paragrafo precedente, era consapevole del «carattere astratto» delle sue analisi sul «soprannaturale»198. Dall’altra parte, verso la —————————– 195 Cfr. J. ALFARO, Cristologia e antropologia, 320. Alfaro considera la grazia «supercreaturale» perché è divinizzante e non viceversa. Più che il termine «soprannaturale» egli preferisce il concetto «supercreaturale» della grazia che «esprime la trascendenza assoluta dell’autodonazione di Dio (del dono che è Dio in se stesso) rispetto all’essere creaturale dell’uomo che la riceve». Cfr. Ibid., 320, n. 101. Alfaro similmente considera i termini «natura», «naturale» e «soprannaturale» «non necessari per la comprensione teologica della trascendenza assoluta della grazia», e nello stesso modo considera il termine «creatura intellettuale» (con i suoi equivalenti e derivanti: «spirito finito», «spirito nel mondo»…), insieme con il termine «supercreaturale», più adatti per esprimere e comprendere la «divinizzazione» dell’uomo (la cui esistenza è «finalizzata realmente e unicamente alla visione di Dio in Cristo» – «esistenziale cristico») mediante la grazia di Cristo, cioè la trascendenza del divino sul creaturale, ugualmente come l’immanenza della grazia nell’interiorità spirituale dell’uomo («la capacità fondamentale dell’uomo di essere interpellato nella sua libertà dal Dio dell’amore e di ricevere così l’autodonazione personale di Dio»). Nonostante le sue osservazioni sul linguaggio teologico, Alfaro non le considera un motivo sufficiente per escludere il termine «soprannaturale» dal linguaggio teologico. Cfr. Ibid., 281-288. Anche Ladaria ponendo l’accento sull’aspetto relazionale dell’uomo con Dio e considerando l’uomo come una creatura di Dio interamente orientata verso la ricezione della filiazione divina nella partecipazione a quella di Gesù, constata «che il termine “sopracreaturale” possa sostituire con vantaggio il più tradizionale “soprannaturale” nella caratterizzazione teologica dell’essere dell’uomo nella sua relazione con Dio». E aggiunge: «Non si tratta di propugnare una sostituzione di nomi, che è sempre difficile quando un termine è radicato nella tradizione teologica. È solo un tentativo di approccio alla nozione di “natura” privilegiando l’aspetto della relazione con Dio su quello dei contenuti concreti». Cfr. L.F. LADARIA, Antropologia teologica, 197-198. 196 «Non si può salvaguardare la trascendenza assoluta della divinizzazione dell’uomo come partecipazione alla grazia dell’incarnazione, se si afferma che la creatura intellettuale è “desiderio naturale assoluto” della visione di Dio». Cfr. J. ALFARO, Cristologia e antropologia, 332, e n. 127. 197 Cfr. J. ALFARO, Cristologia e antropologia, 332. 198 Cfr. cap. I, par. 1.4 di questo lavoro, e PC, 69. Nell’introduzione al suo Il Mistero del Soprannaturale (1965), de Lubac afferma: «Prendendo come sua base la questione classica dei rapporti fra natura e soprannaturale, ha mantenuto [lo stesso autore] ugualmente la 68 IL MISTERO DELLA SALVEZZA CRISTIANA fine del suo articolo «Le mystère du surnaturel» (1949), poco prima di parlare del «Dio che è Amore» e del suo «Amore creatore» con cui si supera la tappa teologica della natura pura199, de Lubac afferma: La «vita eterna» annunciata da Gesù Cristo consiste nella visione del «solo Dio vero». Completando e trasformando la nostra idea di Dio, è inevitabile che la Rivelazione completi e trasformi in un colpo solo la nostra idea dell’uomo, – e la nostra idea del suo desiderio. Facendoci conoscere il Dio d’amore, il Dio personale e trinitario, il Dio creatore e salvatore, essa cambia tutto200. O, quando nell’ultimo capitolo di Le Mystère du surnaturel (1965), volendo affermare la novità cristiana nei confronti della filosofia antica201, riprende il tema della «Rivelazione dell’Amore», del «Dio che è Amore» e proclama: La «visione beatifica» non è più la visione d’uno spettacolo, è una partecipazione intima alla vista che il Figlio ha del Padre in seno alla Trinità. Facendoci conoscere, nel suo Figlio, il Dio d’amore, il Dio personale e trinitario, il Dio creatore e salvatore, il Dio «che si fa uomo per farci dei», la Rivelazione cambia tutto202. Nonostante dunque il suo «metodo» che comporta un linguaggio dal «carattere astratto», e nonostante forse non prenda sempre in considerazione —————————– riflessione teologica sul terreno d’ontologia formale dove essa si esercita normalmente, senza cercare di fornirle un contenuto più concreto: non ha dunque fatto ricorso né al vocabolario dell’“Alleanza”, né a quello del “Mistero cristiano” (…) non ha considerato né il ruolo mediatore del Verbo incarnato, né l’inserimento della creatura adottata nelle relazioni trinitarie». MS65, 45-46. Analizzando questa nozione di de Lubac, Ladaria commenta che in questo senso «la vocazione divina dell’uomo avrebbe potuto essere contemplata senza riferimento esplicito a Gesù», e aggiunge: «Non credo che oggi abbia senso la considerazione del problema del soprannaturale al margine della cristologia». Cfr. L.F. LADARIA, Antropologia teologica, 194, n. 57. 199 De Lubac, citando L. Malevez. Cfr. MS49, 139. 200 MS49, 137. Legata a questa dichiarazione è importante anche la seguente nota dell’autore: «Quando un sant’Agostino, per esempio (al seguito di un Origene) dice che i Platonici hanno ben concepito il fine dell’uomo, che è la visione di Dio e che essi ne hanno misconosciuto il mezzo, cioè la mediazione del Verbo incarnato, gli rimprovereremo di attribuire all’intelligenza naturale la conoscenza del mistero soprannaturale? Noi diremo piuttosto che avrebbe egli stesso convenuto, se avesse maggiormente analizzato riflessivamente il proprio pensiero, che questa conoscenza del fine ultimo da parte dei Platonici non era che lontanamente analogica…» Cfr. MS49, 137, n. 57; MS65, 294.300-301. 201 «Ma dopo i tempi di Platone e di Aristotele “una Luce ha brillato nel nostro cielo”, e tutto è stato rinnovato. Alla επιστροφή platonica è succeduta – quanto differente e quanto più radicale! – la μετάνοια cristiana». Così de Lubac, citando Clemente Alessandrino. Cfr. MS65, 297. 202 MS65, 297. Il capitolo finisce con la citazione dalla Lettera agli Efesini: «Benedetto sia il Dio e Padre di nostro Signor Gesù Cristo, che… ci ha eletto in Lui… per esser santi e immacolati alla sua presenza, nell’amore, prestabilendo che fossimo per Lui dei figli adottivi mediante Gesù Cristo. Tale fu il beneplacito della sua volontà, a glorificazione della sua grazia, dalla quale ci ha fatto dono nel Diletto Figlio» (Ef 1,3-6). Cfr. MS65, 307308. SOPRANNATURALE 69 a sufficienza l’aspetto cristologico e incarnazionale della divinizzazione come «punto di partenza» nelle sue considerazioni sul soprannaturale, possiamo però constatare da queste affermazioni e da molte altre presenti nell’opera di de Lubac, che la sua antropologia non è separabile dalla rivelazione e dalla cristologia, e che se l’aspetto cristologico non è «il punto di partenza» delle sue tesi, esso è il loro fine. La stessa conferma ci viene dalle sue affermazioni circa il dono soprannaturale che non può essere considerato «una semplice sequela creationis», e circa l’offerta di salvezza, che, nonostante la fase preparatoria nella storia d’Israele, presenta nella venuta di Gesù Cristo una novità completamente gratuita, «il passaggio ad un ordine nuovo, del tutto trascendente in rapporto a quello che lo precedeva – omnem novitatem attulit»203. L’offerta salvifica in Cristo si caratterizza come passaggio ad un altro tipo di essere, come superamento, per grazia, del limite insuperabile, come nuovo principio di vita divina, chiamato «grazia santificante»204, cioè la grazia di Cristo che è «più abbondante», «più grande» e «più potente»205. Tutto questo diventa ancora più evidente, come vedremo dopo, nell’ultima opera di de Lubac sull’argomento del soprannaturale206 dove anche il linguaggio teologico è differente rispetto a quello delle opere precedenti207. Riguardo alla critica mossa da Alfaro sull’«incoerenza logica» creata dalla concomitanza delle affermazioni lubachiane sul «desiderio naturale assoluto» di vedere Dio e sull’assoluta gratuità della grazia, vogliamo suggerire che a tal proposito si dovrebbe considerare lo stile teologico particolare di de Lubac e la sua già menzionata volontà di realizzare una sintesi208 che tenesse insieme gli opposti. Fra due verità di fede che possono sembrare opposte, egli non sceglie la soluzione dell’eliminazione di una delle due209. Una simile esclusione significherebbe secondo de Lubac prestare il fianco all’eresia. Contro questo rischio e nello spirito della «pienezza cattolica», egli, invece, cerca l’equilibrio della sintesi, ben espresso dal concetto da lui coniato di mistero del soprannaturale210 e da lui spiegato mediante le seguenti parole: «Il desiderio di vederLo [Dio] è in noi, è noi stessi, e non sarà compiuto che per puro beneficio. Non stupiamoci di tali antinomie. Esse scaturiscono dal mistero. “La fede è sempre accordo di —————————– 203 Riferimento a sant’Ireneo di Lione (AH, IV, 34,1). Cfr. MS65, 141. 205 Cfr. ATM, 89-91. 206 H. de LUBAC, Petite catéchèse (1980). 207 Cfr. cap. I, par. 1.4 di questo lavoro. 208 Cfr. cap. I, la fine del par. 1.2 di questo lavoro. 209 I seguaci dell’ipotesi della «natura pura» che come conseguenza logica della loro dottrina ammettevano la possibilità dei due fini ultimi dell’uomo, escludevano così l’unicità del fine ultimo dell’uomo perché la consideravano non conciliabile con l’affermazione dell’assoluta gratuità della grazia. 210 Cfr. MS49, 127-134; MS65, 239. 204 70 IL MISTERO DELLA SALVEZZA CRISTIANA due verità opposte”»211, o quando richiama le già menzionate parole della tradizione cattolica: Tutta la tradizione, in effetti (qui prendiamo il termine in senso lato), da sant’Ireneo, passando per sant’Agostino e per san Tommaso come per san Bonaventura, ci trasmette al contempo due verità: l’uomo non può vivere che per la visione di Dio, e questa visione di Dio dipende assolutamente dal beneplacito divino. Si ha il diritto di tralasciare l’una, fosse anche nell’intenzione di meglio conservare l’altra?212 Le critiche di Alfaro sarebbero dunque giuste se le opere sul «soprannaturale» di de Lubac, caratterizzate da un linguaggio particolare e da un «carattere astratto», venissero prese e isolate dall’intera sua opera, tralasciando di considerare l’aspetto cristologico della sua teologia. Proprio questo aspetto, presente nelle sue opere come una cristologia «diffusa e integrale», spesso più implicita che esplicita, presenta Cristo come un centro e una sintesi viva di tutta la sua teologia. Le opere di de Lubac, che mostrano la ricerca costante dell’equilibrio tipico della sintesi cattolica, indicano proprio nell’aspetto cristologico l’unità sintetica del mistero di Cristo che permette di superare quell’apparente «incoerenza logica» e di riconciliare le apparenti antinomie. Nel paragrafo seguente cercheremo di presentare lo sforzo di sintesi di de Lubac attraverso l’aspetto della sua cristologia che rivela il Cristo mistico come «Grande Gesto della Carità», il Gesto assoluto, efficace e definitivo che abbraccia e rinnova il mondo e brilla al di là del tempo, il «Tutto del Dogma», il «Centro divino» dal quale tutto risplende e al quale tutto deve condurci213. 3. Lo sforzo di sintesi Per comprendere pienamente il concetto di salvezza cristiana secondo la teologia di de Lubac, attraverso la sua dottrina sul «soprannaturale» e il rapporto fra natura e grazia, è necessario tenere presente la dimensione cristologica della sua teologia, presente in maniera diffusa, anche se a volte resta implicita e quindi non è facile da individuare. Questo ci viene confermato anche da coloro che hanno cercato nella sua cristologia il centro di tutta la sua teologia214 e che nel mistero di Cristo hanno trovato una sintesi viva delle sue opere215. Tra tutti gli scritti di de Lubac, l’unico dal titolo cristologico è un articolo intitolato: La Lumière du Christ, fatto conoscere nel 1941 da un opuscolo della collana Témoignage chrétien e poi ripreso dall’autore e da lui modificato in base alla contestuale critica del cristianesimo da parte delle scienze storiche per poi pubblicarlo nell’anno 1949 —————————– 211 MS49, 128. MS49, 134; MS65, 244. 213 Cfr. TDH1, 219-220. 214 Cfr. D. HERCSIK, Jesus Christus als Mitte der Theologie von Henri de Lubac. 215 Cfr. É. GUIBERT, Le Mystère du Christ d’après Henri de Lubac. 212 SOPRANNATURALE 71 come quarto capitolo dell’opera Affrontements mystiques. Questa stessa versione dell’articolo è stata poi riedita e pubblicata nell’anno 1990 come epilogo del primo volume dell’opera Théologie dans l’histoire216. Gli elementi cristologici contenuti in quest’articolo ci rivelano la natura particolare della cristologia di de Lubac, che, anche se in modo implicito, è presente nell’intera sua opera teologica. Particolarmente interessanti, a tal riguardo, sono le parti in cui sotto forma di inno-poema, l’autore si rivolge a Cristo nella seconda persona plurale217. Questi passi del testo rivelano la comprensione cristologico-gnoseologica della Rivelazione di de Lubac218, come pure il suo atteggiamento di fede219 davanti al supremo mistero di Cristo220. Nella prima parte di questa sezione cercheremo di presentare gli elementi principali della cristologia di de Lubac secondo le prospettive di ricerca di D. Hercsik e É. Guibert. La seconda parte sarà più che altro una sintesi de La Lumière du Christ in cui metteremo in evidenza i diversi stili epistemologici che de Lubac, in tono apologetico221, utilizza per presentare il particolare carattere storico del cristianesimo, la relazione intrinseca che esiste tra la trascendenza divina del cristianesimo e la sua storicità e la novità della rivelazione in Cristo – omnem novitatem attulit222– che è la fonte di tutta la novità del cristianesimo. L’ultima parte della sezione presenta invece lo sforzo di sintesi che de Lubac offre riconoscendo nel Mistero supremo di Cristo il «Tutto del Dogma», il «Centro vivo e divino», dal quale tutto risplende e al quale tutto deve condurci, nel quale si superano tutti gli apparenti paradossi della fede. 3.1 La cristologia di de Lubac L’oggetto diretto del nostro lavoro non è la cristologia di de Lubac, ma il concetto di salvezza cristiana alla luce del mistero del «soprannaturale», cioè il rapporto fra natura e grazia nella teologia di de Lubac. Vogliamo quindi soffermarci sullo sforzo di sintesi operato da de Lubac attraverso l’aspetto cristologico della sua teologia che rivela il Cristo mistico come «Grande Gesto della Carità», il «Gesto assoluto»223, una novità definitiva e trascendentale nella quale i Padri hanno scoperto l’unità e il principio della —————————– 216 A questa versione facciamo riferimento nel nostro lavoro e utilizziamo delle traduzioni in italiano fatte da noi. 217 «Ce grand Geste d’Amour, Jésus, c’est Vous-même…». Cfr. TDH1, 213ss. 218 «…c’est Vous-même. Splendor, Verbum et imago Patris. Vous, Jésus, sur votre Croix, trait d’union de la terre au ciel». Cfr. TDH1, 214ss., e n. 21. «Jesus ist nicht nur ein “Gesandter”, sondern die lebendige und wesentliche Epiphanie Gottes; er ist nicht nur “Sprecher” eines allmächtigen Gottes, sondern die personale Gebärde eines liebenden Gottes». Hercsik, 79. 219 Cfr. Hercsik, 95, n. 181. 220 Cfr. Hercsik, 216. 221 Cfr. Hercsik, 95. 222 AH, IV, 34,1. 223 Cfr. TDH1, 201-222. 72 IL MISTERO DELLA SALVEZZA CRISTIANA sintesi, il senso spirituale del mistero nel quale la fede, nonostante le «imperfezioni inevitabili e fortunate»224, sotto l’azione segreta dello spirito di Cristo, «sa trovare le sue formule esatte»225. A questo scopo, oltre che dell’articolo La Lumière du Christ di de Lubac, ci serviamo anche dei risultati delle ricerche di D. Hercsik che nella persona di Cristo, con un accento particolare posto sulla «novità di Cristo»226 – «Omnem novitatem attulit semetipsum afferens, qui fuerat annuntiatus»227 –, riconosce il cuore di tutta la teologia di de Lubac. Ci serviamo, inoltre, anche delle ricerche di É. Guibert che nei contenuti cristologici, diffusamente presenti nelle opere di de Lubac, coglie il Cristo, non solo come centro della sua teologia, ma anche come colui che rappresenta la sintesi vivente delle sue opere e della sua teologia228. Entrambi gli autori sopra menzionati sottolineano il carattere «implicito» e «diffuso» della cristologia in de Lubac e la mancanza di almeno un’opera sistematica dedicata esplicitamente allo stesso argomento cristologico229. Allo stesso modo, tutti e due confermano la consapevolezza che de Lubac aveva di questa «mancanza», riportando la testimonianza che lo stesso de Lubac offre in Mémoire sur l’occasion de mes écrits: Non posso fare a meno di pensare che più che il senso delle mie carenze intellettuali o anche la persuasione di esser un po’ troppo ìmpari ad un simile argomento al punto di non avere il coraggio di prenderlo di petto, è una certa leggerezza di spirito che mi ha fatto sempre rimandare l’avvio di quest’opera su Gesù Cristo che mi sarebbe stata più cara di tutte, in vista della quale ho fatto molte letture e messo per iscritto molte riflessioni, ma che non ho mai veramente affrontato230. Nonostante la menzionata «insufficienza sistematica» della cristologia di de Lubac, secondo Hercsik, la persona di Gesù Cristo, il cui ruolo nell’opera —————————– 224 Cfr. TDH1, 216. Cfr. TDH1, 215. 226 Cfr. Hercsik, soprattutto i capp. 2.2. e 2.3. 227 «Ha portato ogni novità, portando se stesso» – la frase di sant’Ireneo di Lione, così cara a de Lubac e da lui spesso citata. Cfr. AH, IV, 34,1; TDH1, 209.220; MS65, 141; Hercsik, 14.98.106. 228 Cfr. Guibert, soprattutto cap. 9, pp. 411-445. 229 «Nicht nur findet sich also unter seinen Schriften keine «explizite», d.h. systematische und publizierte Christologie. Auch die Selbsteinschätzung des französischen Jesuiten reklamiert keinen solchen Titel für sich selbst». Hercsik, 2; Cfr. Guibert, 13. 230 MEM, 391. De Lubac aggiunge nella nota: «Sebbene abbia sempre cercato di tenermi al corrente dei lavori seri, mi sono sempre mancate le conoscenze tecniche indispensabili per un’opera in cui l’esegesi, anche se non si vuole farne sfoggio, deve avere una grande parte. Spesso ho dovuto trattare di queste cose, ma soltanto in lettere ed incontri privati». Ibid., 391, n. 12. Cfr. J.-P. WAGNER, La Théologie fondamentale selon Henri de Lubac, 67; Hercsik, 3.16.66; Guibert, 13. Nella stessa opera di de Lubac, leggiamo a proposito: «Infine, molto spesso ciò che si ha più a cuore non viene detto nei propri libri: perché, più ci è caro e più si ha paura di parlarne troppo male…». MEM, 378-379. Cfr. Hercsik, 67. 225 SOPRANNATURALE 73 di de Lubac non è stato mai oggetto della critica231, può costituire in modo particolare, il «centro vivo» delle sue opere e della sua teologia232. L’intera teologia di de Lubac, espressa in tutta la sua ricchezza nelle varie sue opere, non è riducibile ad un unica parola chiave o formula emblematica, perché tutta centrata sulla verità vivente della persona di Gesù Cristo dal quale riceve unità e allineamento233. «Gesù Cristo non è dunque solo il punto di partenza, ma è anche il centro contenutistico della teologia di Henri de Lubac»234. Hercsik comincia la sua esposizione sulla «novità di Cristo» con la riflessione autocritica di de Lubac riguardante l’apparente «mancanza» del tema cristologico nelle sue opere, tema che era invece sempre presente nel suo cuore e nel suo pensiero teologico sin dagli inizi dei suoi studi, nei quali fece il suo primo incontro con le opere di Agostino e di Ireneo di Lione235. Secondo lui, de Lubac, spinto non dalle questioni teologico-speculative, ma da una profonda urgenza esistenziale, ha cercato con ardore e affetto di presentare nella sua ampia opera teologica la Sacra Scrittura come luogo della rivelazione di Dio che in Gesù Cristo si offre agli uomini e al mondo236. La parte centrale del lavoro di Hercsik, dedicata alla teologia di de Lubac, insiste sulla «novità di Cristo» come base di tutta la «novità» cristiana le cui conseguenze si manifestano in una triplice novità: nella nuova idea di Dio (gnoseologia teologica), nella nuova idea dell’uomo (antropologia) e nel nuovo rapporto dell’uomo con Dio (ecclesiologia)237. Nella «novità di Cristo», che «non è solo un’«idea, ma realtà»238, Hercsik trova il concetto chiave per comprendere la cristologia di de Lubac239 nella quale la Persona di Cristo rappresenta il centro dell’intera teologia lubachiana. —————————– 231 Cfr. Hercsik, 2. «So aber, wie Jesus Christus die Mitte der Heiligen Schrift ist […] und ihre Einheit ausmacht, so ist er auch die Mitte der Theologie Henri de Lubacs und macht die Einheit seiner auf de ersten Blick so disparaten Publikationen aus». Hercsik, 14. Cfr. Ibid., 108. Sulla Sacra Scrittura nella teologia di de Lubac, vedi anche: Ibid., 107-108.217-218. 233 «Nicht ein theologisches Stichwort, nicht eine theologische Intuition und auch nicht eine systematische Christologie ist die Mitte des Schaffens von Henri de Lubac, sondern eine Person: Jesus Christus». Hercsik, 17. Cfr. Ibid., pp. 3-4. 234 Hercsik, 14. «Im Mittelpunkt des Schaffens von Henri de Lubac steht also keine schriftlich ausgearbeitete, systematische Christologie, sondern (mag das auch recht formal erscheinen) die Person Jesu Christi». Ibid., 207. 235 Cfr. Hercsik, 66-67. 236 Cfr. Hercsik, 3, n. 6, dove si trova l’elenco delle opere di de Lubac sul argomento. 237 Cfr. Hercsik, parte II del lavoro, soprattutto i capp. 2.2. e 2.3., pp. 66-210. 238 «Une nouvelle idée de Dieu, une nouvelle idée de l’homme, une nouvelle idée des rapports de l’homme et de Dieu: voilà ce que contenait en germe le premier acte de foi chrétienne, dont Israël portait l’annonce. Et cet acte, dans sa nouveauté, n’était pas idée, mais réalité». H. de LUBAC, La Foi chrétienne. Essai sur la structure du Symbole des Apôtres, 276. Cfr. Hercsik, 206. 239 «Denn fortan ist alle Neuheit bei Henri de Lubac die Neuheit Jesu Christi. Es gibt für ihn keine andere; und diese Auffassung teilt er mit der gesamten christlichen Tradition». Hercsik, 73. 232 74 IL MISTERO DELLA SALVEZZA CRISTIANA Cristo, Parola di Dio è «fonte della rivelazione», «verbum abbreviatum» ed «il Nuovo Testamento in Persona»240. Egli è «la Luce», illuminante e trasformante, dell’uomo241. «La ricerca incompiuta» è il titolo del capitolo introduttivo dell’opera di Guibert, il cui oggetto «non è tanto la cristologia di de Lubac», quanto piuttosto la «ricerca incessante del mistero di Cristo» nella sua intera opera242. Anche lui, come Hercsik e alcuni altri autori, vede nella persona di Cristo il fondamento della coerenza di tutta la teologia di de Lubac243. Anche per lui il Cristo non è soltanto il «centro» della teologia di de Lubac, ma è colui che realizza la sintesi viva delle sue opere e della sua teologia244. Sulla scia delle ricerche precedenti, soprattutto quella di J.-P. Wagner245 e della già menzionata opera di D. Hercsik, Guibert ha cercato di raccogliere gli elementi cristologici diffusi nelle opere di de Lubac e di «rendere esplicita una cristologia che è soltanto implicita», facendo «emergere i caratteri propriamente lubachiani del mistero di Cristo»246. Consapevole della difficoltà di un tale lavoro247, egli ha inoltre cercato, ispirandosi ad alcuni articoli di de Lubac, soprattutto La Lumière du Christ, e l’opera l’Exégèse médiévale248, di fare una lettura sincronica e “cristologica” dell’intera sua opera. Egli ha così tentato di giungere ad una sintesi cristologica di tutta la teologia di de Lubac249. Nell’opera teologica di de Lubac, contenente diversi temi «sparsi», Guibert scopre «l’unità in “una certa direzione”, “una certa intenzione comune”, quella di manifestare – e di fare amare – la fecondità della tradizione cattolica» della quale parla lo stesso de Lubac in Mémoire sur l’occasion de mes écrits250. Nel paragrafo seguente del nostro lavoro cercheremo di cogliere in modo più chiaro i risultati raggiunti da Hercsik e Guibert251 nelle loro ricerche, —————————– 240 Cfr. Hercsik, 89-94. Cfr. Hercsik, 94-104. 242 Cfr. Guibert, 17. 243 Cfr. Guibert, 14-15, dove si trova l’elenco bibliografico delle ricerche che diversi autori hanno svolto sull’argomento. 244 Cfr. Guibert, 424, e l’intero cap. 9, pp. 411-445. 245 J.-P. WAGNER, La Théologie fondamentale selon Henri de Lubac. 246 Cfr. Guibert, 15-16. 247 «La difficulté d’une telle recherche vient en premier lieu du type de théologie qu’entreprend le jésuite. Si, comme nous l’avons dit, il ne développe pas pour elle-même une christologie, cela ne vient pas seulement d’un oubli ou d’une “légèreté d’esprit”, mais de sa manière propre de faire de la théologie. La manière lubacienne de réfléchir sur le Christ aboutit certes à une pensée articulée, profonde, précise et structurée, mais cette structure ne se transforme jamais en système». Guibert, 16. 248 Secondo Guibert, attraverso la «dottrina dei quattro sensi» della Sacra Scrittura, sviluppata nei quattro volumi dell’opera Exégèse médiévale di de Lubac, il «mistero (di Cristo) ha trovato la sua espressione». Cfr. H. de LUBAC, Exégèse médiévale, voll. I-IV; Guibert, 412-423, soprattutto p. 412, n. 2. 249 Cfr. Guibert, 19-21. 250 Cfr. MEM, 388; Guibert, 425. 251 Le traduzioni in italiano dalle menzionate opere di Hercsik e Guibert sono nostre. 241 SOPRANNATURALE 75 con particolare riferimento all’articolo La Lumière du Christ di de Lubac, nel quale Guibert ha trovato «una parola originale»252. In questa breve opera si riconosce l’instancabile sforzo di de Lubac di trovare nel mistero di Cristo una «sintesi cattolica» di tutta la teologia, una sintesi della prassi e del dogma nell’unità del mistero di Cristo, una sintesi nella quale si superano gli apparenti paradossi della fede, perché «il Mistero è più grande del paradosso253». 3.2 «La Lumière du Christ» La Lumière du Christ presenta per Guibert, «l’unica porta d’entrata» che ci propone «meno risposte che articolazioni» e che ci procura «una parola originale» per una riflessione articolata sulla persona di Cristo nella teologia di de Lubac254. In questa breve opera del nostro autore, Guibert riconosce tre generi d’espressione: lo stile della controversia, lo stile di una riflessione sistematica e lo stille della lode. A questi tre stili, Guibert ricollega, in senso lato, le tre sfere epistemologiche presenti nell’articolo: la sfera della scienza, la sfera della filosofia e la sfera teologica255. La prima sfera dell’intelligibilità, quella scientifica, risponde all’intento di de Lubac di combattere la critica fatta al cristianesimo da parte delle scienze storiche del XX secolo, che vedono in esso soltanto un fenomeno meramente storico e umano, negandogli alcuna vera trascendentalità salvo quella «esteriore»256. Questo modo di concepire il cristianesimo, caratterizzato dall’ignoranza delle vere origini del cristianesimo e della sua vera trascendenza, de Lubac lo considera un «errore di collocamento», un’«inferiorità scientifica», che però non apporta alcun danno alla verità essenziale257. Esiste, infatti, una vera trascendenza del cristianesimo, e questa è la sua trascendenza intrinseca, considerata una sintesi di diversi elementi, nella quale si supera la realtà degli elementi stessi258. De Lubac —————————– 252 Cfr. Guibert, 26. Cfr. Hercsik, 64. 254 Cfr. Guibert, 25-26. Partendo dall’articolo La Lumière du Christ, in cui ritrova particolarmente espresso il mistero di Cristo proposto dalla teologia di de Lubac, Guibert studia i diversi aspetti di questo Mistero nelle rispettive dimensioni: la dimensione economica, teologica, soteriologica ed escatologica. 255 Cfr. Guibert, 32. 256 Cfr. TDH1, 202-205. 257 «Plutôt qu’une illusion totale n’est-elle pas une simple erreur de localisation? Erreur attestant une gaucherie d’analyse, infériorité scientifique, mais sans aucun dommage pour la vérité essentielle». TDH1, 206. Secondo de Lubac, si tratta qua di una legge del pensiero umano che non conosce e non accoglie ancora il mistero e il paradosso della rivelazione: il paradosso ignorato dai gentili, negato da buon senso ma superato nella fede. Cfr. MS65, capp. 6-9; Guibert, 34. 258 «Mais il est une autre transcendance, celle-là véritable, dont la première n’était, au mieux, que la transcription naïve. Transcendance intrinsèque, en vertu de laquelle une réalité donnée, considérée comme une synthèse, dans ce qui fait son être propre, surpasse essentiellement les réalités du même genre qui l’entourent, quelle que puisse être la 253 76 IL MISTERO DELLA SALVEZZA CRISTIANA vuole affermare l’originalità e l’unicità del cristianesimo in quanto vero fenomeno umano e storico259 che proprio grazie alla sua vera storicità, mantenendo nello stesso tempo la sua vera trascendentalità intrinseca, rappresenta, nella storia delle religioni, un fatto unico. Dall’unicità del carattere storico e personale della rivelazione in Cristo proviene l’unicità del cristianesimo stesso260. La sfera filosofica dell’intelligibilità mostra la vera e «ben localizzata» trascendenza del cristianesimo nel suo essere in rapporto con la storia, una trascendenza che non nega la storia pur sfuggendo al suo giudizio. Nell’esposizione di de Lubac, Guibert trova tre aspetti sotto i quali si presenta la trascendenza del cristianesimo: la coppia ideal-fenomenologica [idéalo-phénoménologique] fondo-apparizione, la distinzione pascaliana dei tre ordini261 e la nozione filosofica della «sintesi che è più di una sintesi»262. —————————– communauté des éléments qu’elle informe avec les leurs, quels que puissent être aussi les liens d’origine qui rendent ces divers éléments solidaires. Toute synthèse véritable est toujours plus que synthèse. Une certaine refonte qui est beaucoup plus qu’une combinaison nouvelle, une certaine “reprise par le dedans” transforme tout. C’est, dans une continuité phénoménale, le passage à un ordre nouveau, supérieur, incommensurable». Così de Lubac, facendo riferimento a Sertillanges. Cfr. TDH1, 207, n. 4. «De Lubac wird nicht müde, diese Neuheit (Diskontinuität) des Christusereignisses immer wieder herauszustellen […] So wie in einem Begriff selbst stets mehr ist als der (bloße) Begriff, so ist auch in jeder wirklichen Synthese mehr als die bloße Addition der ihr vorausliegenden Einzelteile. M.a.W.: Die in der Neuheit des Christusereignisses behauptete Kontinuität und Transzendenz sind keine Gegensätze, weil sie unterschiedliche Ordnungen angehören». Hercsik, 106-107. Sulla doppia trascendenza del cristianesimo intesa come «novità di Cristo» – “discontinuità” nel suo duplice rapporto alla Scrittura e alla storia (Scrittura – Spirito; Storia – Spirito), vedi: Ibid., 106-110. «Seine Schriften enthalten aber auch eine Theologie der Geschichte und eine Theologie der Hl. Schrift. Die gesamte Offenbarung (in der Geschichte und in der Hl. Schrift) ist für de Lubac um eine konkrete Mitte herum angeordnet, die durch die Inkarnation und das Kreuz Christi markiert ist». Ibid., 207. 259 «Oui, en un sens, le christianisme est humain, tout humain […] Comment l’homme se dirait-il à lui-même la vérité, même divinement reçue, autrement qu’en usant de concepts? […] Comment Dieu se donnerait-il à l’homme, s’il lui demeurait étranger? Et comment sa Parole pénétrerait-elle en lui, si elle ne devenait aussi parole humaine? Les messages d’un saint Paul ou d’un saint Jean sont déjà des “théologies”, et la conscience même du Christ est la conscience du Verbe fait chair». TDH1, 208. 260 Sullo specifico carattere storico e personale della «novità di Cristo» vedi: Hercsik, 76-83. 261 «Ci sono tre ordini di cose: la carne, l’intelletto, la volontà. I carnali sono i ricchi, i re: hanno per oggetto il corpo. I desiderosi di sapere e i dotti: hanno per oggetto lo spirito. I saggi: hanno per oggetto la giustizia». Pensées [Chev.], 698. «La distanza infinita tra i corpi e gli spiriti simboleggia la distanza infinitamente più infinita tra gli spiriti e la carità: perché essa è soprannaturale. [...] Tutti i corpi, il firmamento, le stelle, la terra e i suoi regni non valgono il minimo degli spiriti; perché questo conosce tutto ciò e se stesso; e i corpi, nulla. Tutti i corpi insieme, e tutti gli spiriti insieme, e tutte le loro produzioni non valgono il minimo moto di carità. Questo è di un ordine infinitamente più elevato. Da tutti i corpi insieme non si potrebbe far scaturire un piccolo pensiero: ciò è impossibile, e di un altro ordine. Da tutti i corpi e spiriti, non sarebbe possibile trarre un moto di vera carità: ciò è impossibile, e di un altro ordine, soprannaturale». Pensées [Chev.], 829. SOPRANNATURALE 77 Il primo aspetto, la coppia ideal-fenomenologica, serve ad esprimere la relazione intrinseca che esiste tra la trascendenza divina del cristianesimo e la sua storicità, cioè le sue apparenze umane. Questa distinzione degli ordini vuole affermare l’esistenza di una differenza a livello ontologico tra i diversi aspetti dello stesso cristianesimo263. L’originalità di de Lubac sta nell’aver unito nella sua nozione di sintesi questi due aspetti o due strumenti filosofici: la coppia fondo-apparizione e la distinzione degli ordini. Ricordiamo, però che, come abbiamo riportato nella precedente citazione, per de Lubac «qualsiasi sintesi vera è sempre più di una sintesi»264. Non si tratta soltanto di una semplice addizione, di una combinazione di diversi elementi. Si tratta piuttosto dell’unione degli elementi in una continuità fenomenica, che permette di passare ad un altro ordine, dove la sintesi ottenuta non elimina i suoi elementi265. Facendo un breve excursus sulla sua opera Catholicisme, nel capitolo undicesimo, dove de Lubac parla del rapporto tra persona e società266, troviamo lo stesso concetto di sintesi come unione. Parlando del carattere sociale del dogma e del mistero e paradosso costituito dalla persona, partendo dal mistero di Cristo, egli afferma: Così l’antinomia presente [le antinomie apparenti nel campo dogmatico] ci obbliga a riflettere sui rapporti della distinzione e dell’unità per comprendere meglio l’armonia del personale e dell’universale. Il «paradosso» dogmatico ci obbliga a sottolineare il «paradosso» naturale, di cui costituisce l’espressione —————————– 262 Guibert riconosce qua l’influsso filosofico di M. Blondel sul pensiero di de Lubac, dando a pagina 35, n. 1, un elenco delle ricerche di alcuni autori su questo argomento e sulla presenza di altri simili influssi da parte di altri autori come Pascal, Sertillanges e Teilhard de Chardin. Cfr. Guibert, 35-45; J.-P. WAGNER, La Théologie fondamentale selon Henri de Lubac, 37-66. Sull’influsso di Blondel e di altri autori sul pensiero di de Lubac, e sulle ricerche esistenti dei vari autori riguardanti i diversi aspetti della teologia di de Lubac con un’abbondante elenco della bibliografia, vedi: Hercsik, 4-12. Cfr. Ibid., 85-86.163-164. 263 «Le couple idéalo-phénoménologique fond-apparition a montré le lien entre la transcendance divine du christianisme et ses apparences qui sont tout humaines. La distinction de ordres voulait à l’inverse faire droit à la différence des niveaux ontologiques entre les divers aspects du même christianisme». Guibert, 41. 264 «Toute synthèse véritable est toujours plus que synthèse. Une certaine refonte qui est beaucoup plus qu’une combinaison nouvelle, une certaine “reprise par le dedans” transforme tout. C’est, dans une continuité phénoménale, le passage à un ordre nouveau, supérieur, incommensurable». TDH1, 207. 265 «Il s’agit bien d’une unification du divers, mais cette unification est le passage à un autre ordre dans une continuité phénoménale, et la synthèse obtenue ne renie pas ses éléments». Guibert, 42. Riguardo alla questione della sintesi, Guibert ritiene possibile un «chiarimento reciproco» tra i pensieri di de Lubac e di J.H. Newman: «Entre le couple lubacien analyse-synthèse et le couple newmanien inférence-assentiment, il y a un éclairage réciproque. Non que le jésuite s’en soit inspiré directement ou consciemment, mais tous deux tentent d’expliquer le passage du rationnellement explicable et conditionné, à un niveau supérieur de la certitude et de la foi qui, sans être le résultat d’une analyse ou d’une inférence, n’en demeure pas moins raisonnable, et exige cette expression notionnelle». Guibert, 43. 266 Cfr. C, 247-266. 78 IL MISTERO DELLA SALVEZZA CRISTIANA superiore e rafforzata, vale a dire che la distinzione si manifesta tanto più tra le diverse parti dell’essere, quanto più stretta diviene l’unione di queste parti. Le parti concorrono tanto più all’unità, quanto meno sono «pezzi» e quanto più sono «membra»267. Nel sottocapitolo seguente, sotto il titolo: «Unire per distinguere»268, vediamo come de Lubac, parlando del mistero del dogma trinitario, nello spirito dei Padri, afferma che «l’unità non è, in alcun modo, confusione, – come la distinzione non è separazione», e conclude: L’unione vera non tende a dissolvere gli uni negli altri gli esseri che riunisce, ma a perfezionarli gli uni con gli altri. Il Tutto non è dunque «l’antipodo, ma il polo stesso della Persona». «Distinguere per unire», si è detto, e il consiglio è eccellente, ma sul piano ontologico non s’impone con minor forza la formula complementare: unire per distinguere269. La terza sfera dell’intelligibilità, che Guibert distingue ne La Lumière du Christ di de Lubac, è la sfera teologica che, nel discernimento filosofico tra i diversi ordini ontologici all’interno del cristianesimo interpreta la novità della rivelazione in Cristo come un «salto ontologico». La già menzionata frase di sant’Ireneo – «Omnem novitatem attulit semetipsum afferens, qui fuerat annuntiatus»270 – spesso citata da de Lubac, soprattutto ne La Lumière du Christ, rivela la centralità dell’aspetto cristologico dell’Incarnazione nel pensiero teologico lubachiano271. Infatti, secondo Hercsik, tutta l’opera di de Lubac, alla luce della riflessione su questa espressione ireneiana, si può comprendere in un duplice modo: sia come un ragionamento continuo su questa frase, sia come una riflessione attuale e aggiornata che interpreta questa espressione antica272. Guibert trova qui tre aspetti complementari in grado di esprimere la novità assoluta del mistero dell’Incarnazione273. «Grande Gesto» della rivelazione nel tempo, l’Incarnazione è considerata nella sua qualità di evento storico e quindi «accessibile» alle scienze storiche, e distinto dal mito e dal pensiero astratto. —————————– 267 C, 248-249. C, 250-253. 269 C, 250. Sulla «Unire per distinguere» come un metodo della teologia di de Lubac, vedi: Hercsik, 58-60.206. 270 AH, IV, 34,1; TDH1, 209.220. 271 Cfr. Guibert, 166. La visione dell’uomo cristologicamente determinato fin dal momento della sua creazione, partecipe dei frutti salvifici dell’incarnazione e della risurrezione di Cristo, ci fa riconoscere la forma mentis paolino-ireneiana presente nella logica teologica di de Lubac. Cfr. cap. II, parr. 2.2.1-2.2.2 di questo lavoro. 272 «Man kann das theologische Werk H. de Lubacs als eine (im doppeltem Sinn verstandene) Reflexion dieser Feststellung des Märtyrerbischofs von Lyon auffassen: Zum einen belegt es ein ständiges Nachdenken über diesen Satz, ein ständiges Reflektieren über seine Bedeutung; zum anderen bildet es einen aktualisierenden Widerschein dieses altkirchlichen Satzes, ist es als kommentierende Auslegung ein aktueller Reflex dieser traditionellen Überzeugung». Hercsik, 14. 273 Cfr. Guibert, 166-167. 268 SOPRANNATURALE 79 Essa è un evento unico per la forza che ha di unire e riassumere in sé tutta la storia d’umanità. L’Incarnazione è l’espressione del Disegno divino sul mondo, nel quale «Cristo si è donato come chiave della comprensione della tensione tra continuità e discontinuità nella storia»274. Finalmente, l’Incarnazione come «Disegno della salvezza» è orientata verso la salvezza dell’umanità275. Pur essendo un evento storico, Essa non si esaurisce nella storia276, ma rivela un'altra dimensione del mistero di Cristo, il passaggio ad un nuovo ordine. La riflessione di de Lubac, fondata sulla frase di Ireneo, presenta un «vero approfondimento dove i diversi stili e livelli della riflessione vanno poco a poco ad arricchirsi mutuamente per fare risplendere finalmente, della sintesi cristiana, la Luce di Cristo»277. Cristo è la fonte della «novità cristiana». La rivelazione di Dio in Cristo è un fatto storico e nello stesso tempo un fatto trascendentale, unico e originale. L’Incarnazione presenta un gesto di Dio, un’azione divina che si attua nel nostro mondo e nel corso della storia. Questo non è un gesto qualsiasi, ma è un «Gesto della Carità» che inaugura un regno nuovo, il regno di Cristo, un ordine nuovo, il tempo della grazia278. La sfera teologica de La Lumière du Christ di de Lubac mostra così più precisamente il «paradosso» del cristianesimo, vale a dire il rapporto tra la sua storicità e la sua trascendenza. La novità del cristianesimo, contenuta nel Cristo, il grande Gesto dell’Amore, che si manifesta nella storia pur rimanendo assolutamente trascendentale, sfugge agli occhi degli storici e dei «naturalisti»279. Essa può essere percepita solo con gli occhi della fede280, con gli stessi occhi con i quali i primi discepoli hanno contemplato Cristo e —————————– 274 Cfr. Guibert, 167. «Il Cristo non è venuto a fare “opera di incarnazione”; ma il Verbo si è fatto carne per fare opera di redenzione». H. de LUBAC, Paradossi e Nuovi paradossi, 27. «Cfr. Hercsik, 3. 276 «Mit gewissen Nuancen kommt de Lubac immer wieder auf “die wundersame Neuheit des Christusereignisses” zu sprechen, die die Geschichte (auch als Heilsgeschichte) in zwei Teile teilt. Darum findet man in seinen Werken eine zuweilen subtile, bisweilen deutliche Dialektik des Vorher und Nachher; und darum spielt darin die Verhältnisbestimmung von historischer und pneumatischer Wirklichkeit, von Gesellschaft und Individuum, von Zeit und Ewigkeit eine wichtige Rolle». Hercsik, 207. «L’Incarnation dévoile un salut qui n’est pas évasion ou pure extériorité. Elle introduit déjà, dans le sein de l’histoire, le ferment de ce qui n’est déjà plus de l’histoire». Guibert, 167. 277 «Il y a dans ce texte un véritable approfondissement où les différents styles et les différents niveaux de réflexion vont peu à peu s’enrichir mutuellement pour faire resplendir enfin, de la synthèse chrétienne, la Lumière du Christ». Guibert, 45. 278 Cfr. TDH1, 207. 279 Cfr. TDH1, 210. 280 «Comme la divinité du Christ elle-même, la nouveauté définitive du principe chrétien ne peut être perçue que par les yeux de la foi». TDH1, 210. «Les yeux de la foi» (gli occhi della fede) è un concetto proveniente già dai Padri, recepito da P. Rousselot e dopo interpretato dagli altri. Cfr. P. ROUSSELOT, «Les yeux de la foi», 241-259; Hercsik, 60, n. 32, riporta l’elenco della bibliografia sull’argomento. 275 80 IL MISTERO DELLA SALVEZZA CRISTIANA hanno sperimentato e riconosciuto un nuovo «gesto della carità», una novità assoluta chiamata «seconda Genesi»281. Questo fu loro possibile, perché in loro, come nei loro successori della grande epoca patristica, era vivo e attivo il «principio della sintesi», e perché loro stessi, vivendo questo dogma prima che fosse elaborato e sistematizzato, e adorando questo mistero prima di tradurlo in una formula dottrinale, ne penetravano il «senso spirituale»282. L’aspetto vitale ed esistenziale della fede ha, dunque, la precedenza riguardo all’aspetto intellettuale283. Esso diventa una testimonianza viva, un appello all’incontro personale con Cristo di cui lo stesso de Lubac è testimone284, come ci rivela lo stile laudativo dell’articolo nel quale egli si rivolge direttamente a Cristo: «Questo grande Gesto d’Amore, Gesù, siete Voi stessi…»285. Grazie alla presenza viva di Cristo nella vita dei suoi discepoli, essi accedono al senso della Croce superandone il paradosso – scandalo per i greci e follia per i giudei, tanto che la loro testimonianza diventa persuasiva e la loro fede supera tutti gli ostacoli286. La testimonianza della fede, inoltre, possiede una doppia fecondità: la trasmissione della fede e la fecondità intellettuale dalla quale nasce la dogmatica. Di quest’ultima, in quanto prodotta dall’intelligenza umana che si pone di fronte al Mistero287, de Lubac vuole sottolinearne la «debolezza» —————————– 281 «Comme le Geste créateur, qui ne cesse d’entretenir partout l’être et la vie, le Geste de la charité se poursuit sur le monde. Seconde Genèse, désormais aussi permanente que la première et, comme elle, indéfiniment féconde». TDH1, 212. 282 «Ils savaient, de source immédiate, qu’ils avaient affaire à bien autre chose. Ils sentaient l’unité de ce que des analystes myopes croient comprendre en le décomposant. C’est que le principe de la synthèse était en eux, vivant et agissant. C’est que, vivant euxmêmes ce dogme avant d’en dresser l’inventaire, adorant ce mystère avant de le traduire, ils en pénétraient le sens spirituel». TDH1, 212. 283 «Non eloquimur magna, sed vivimus» dice de Lubac, citando Minucius Felix. Cfr. TDH1, 214. 284 «…diese Schrift spreche von seinem Glauben». Hercsik, 95. «Insofern bilden seine Schriften nicht nur eine jeweils in sich vollständige Dogmatik und Spiritualität, sondern sind auch eine vollständige Einheit von “Orthodoxie” und “Orthopraxie”. Diese alt oder klassisch anmutende Theologie ist aber alles andere als veraltet. Sie ist im Grunde genommen die durch eine “verwandelnde Assimilation” beibehaltene Wegspur altchristlicher Theologie, die über Jahrhunderte hinweg die Einheit der Theologie begründet und es ihr im Laufe der Zeit ermöglicht hat, zu wachsen und sich zu verzweigen». Ibid., 207. 285 «Ce grand Geste d’Amour, Jésus, c’est Vous-même…». TDH1, 213ss. 286 Così viva, secondo de Lubac, deve essere anche la nostra fede oggi: «Leur attitude sera donc la nôtre. Nous ne saurions la dépasser, mais nous ne saurions non plus la restreindre sans renier du même coup, Jésus, votre message. Car de ce message il n’est pas plus possible de Vous abstraire, qu’il n’est possible d’abstraire Dieu de Vous-même». TDH1, 217. 287 «C’est à travers les conceptions aventureuses des penseurs que la christologie catholique a fini par rejoindre la première intuition de la foi. Plus que toute autre, parce qu’elle est au nœud de toutes, la définition où se trouve aujourd’hui condensé le résultat de ce labeur est imparfaite. Imperfection inévitable et bienheureuse! Non pas accidentelle, mais essentielle, nécessaire pour que subsiste dans la précision de la croyance et dans la fermeté de l’adhésion, l’humble étonnement devant le mystère…». TDH1, 216. SOPRANNATURALE 81 e il «paradosso». Nell’incontro con la novità di Cristo, sotto l’azione del suo Spirito, l’intelligenza umana liberata deve abbandonare i modi abituali di pensare. Solo così, «sotto l’azione segreta» dello Spirito di Cristo, «la fede sa trovare le sue formule esatte»288. Riportiamo qui un breve excursus tratto da Catholicisme dove de Lubac parla del dogma come «paradosso» e dello spirito umano che si deve «sottomettere all’incomprensibile» per poter cogliere la verità: la rivelazione ci offre una coppia di affermazioni che sembrano dapprima discontinue o perfino contraddittorie. Dio crea il mondo per la sua gloria, propter seipsum, e tuttavia per pura bontà; l’uomo è attivo e libero, e tuttavia non può niente senza la grazia, e la grazia opera in lui il «volere e l’agire»; la visione di Dio è un dono gratuito, e tuttavia il suo desiderio ha le radici nel più profondo di ogni spirito; la redenzione è opera di pura misericordia, e i diritti della giustizia non sono per questo meno rispettati; ecc. Tutto il Dogma, così non è che una serie di «paradossi», che sconcertano la ragione naturale, e richiamano non un’impossibile prova, ma una giustificazione riflessiva. Poiché se lo spirito deve sottomettersi all’incomprensibile, non può accogliere l’intelligibile, e non gli basta di rifugiarsi in una “assenza di contraddizione” con un’assenza di pensiero. Si trova dunque stimolato nella stessa sua sottomissione. Contro la sua pigrizia naturale è come forzato a sorpassare il piano superficiale in cui si dispiegano le contraddizioni, per penetrare in regioni più profonde dove ciò che gli era scandalo si trasforma in tenebre luminose289. De Lubac ci ricorda che le verità di fede ci possono sembrare paradossali «per la nostra logica spontanea, ancora immaginativa, e per una forma d’intelligenza naturalmente adatta agli oggetti materiali», ma nella «doppia forza convergente dell’esperienza e della fede» il nostro spirito diventa capace di cogliere la verità, «senza che riusciamo tuttavia a comprenderla in se stessa»290. Per questo fatto, le verità rivelate non si possono separare dalla —————————– 288 «Si, Vous êtes venu me découvrir un nouveau royaume et une nouvelle existence, comment ne devrais-je pas consentir à me laisser dépayser? N’est-il pas normal qu’il me faille abandonner mes modes habituels de penser? Votre parole déroute ma logique instinctive, elle bouscule tous mes arrangements d’idées, elle fait éclater mes concepts. La libération de mon intelligence est à ce prix. Peu ù peu, cependant, dans le mystère, un nouvel équilibre s’est établi. Sous l’action secrète de votre Esprit, la foi sait trouver ses formules exactes, qui la protègent contre les assauts toujours renaissants d’une raison trop peu convertie». TDH1, 215. Nel pensiero di de Lubac si può riconoscere il senso ireneiano del mistero. Cfr. AH, II, 28,2, V, 1,1; 36,3. 289 C, 248. «Glauben heißt für de Lubac eine geistige Synthese vollziehen. Darum gilt es, ebenso viele Arten von “Glauben” wie einander folgende Arten von “geistiger Synthese” zu unterscheiden. Je umfangreicher und höher die geistige Synthese ist, desto mehr kann die Bedeutung des Wortes “Glaube” an Fülle und Höhe zunehmen. Dabei ist der Glaube kein logischer Schluss, und auch keine einfache Feststellung; er gehört einer anderen Ordnung an». Hercsik, 209. 290 Cfr. C, 249. 82 IL MISTERO DELLA SALVEZZA CRISTIANA Persona stessa del Rivelatore291. Tra la «religio (Evangelium) Christi», nella quale Cristo è soggetto, e la «religio (Evangelium) de Christo», nella quale Cristo è oggetto, esistono dei legami intrinseci292. «Si tratta di una via spirituale che attualizza in ogni cristiano, membro del Corpo di Cristo, il Mistero di Cristo»293. Nella persona di Cristo «si uniscono indissolubilmente la realtà della Carità e la verità del Dogma, la Carità che costituisce la realtà del Dogma, come il Dogma stesso costituisce la verità della Carità»294. Nel Cristo mistico, il grande Gesto dell’Amore che rinnoverà il mondo, de Lubac trova realizzata la vera sintesi nella quale il «paradosso» del dogma viene superato. In Cristo, vero uomo e vero Dio, secondo la definizione di Calcedonia, egli vede il «tratto dell’unione tra terra e cielo»295. Egli è il «Tout du Dogme»296 al quale devono convergere tutte le verità particolari della fede297. Tutti gli articoli della fede, tutte le sue espressioni, costituite necessariamente da elementi umani, si riassumono in —————————– 291 Cfr. TDH1, 218. Cfr. TDH1, 218. 293 «Il ne s’agit pas, en effet, de l’observation d’une loi qui trouverait sa justification dans une doctrine, ou du moins n’est-ce là qu’un premier aspect tout extérieur de la réalité. Il s’agit d’une vie spirituelle qui actualise en chaque chrétien, membre du Corps du Christ, le Mystère du Christ». TDH1, 218, n. 33. 294 «…dans cette personne du Christ, telle que nous la montrent déjà les Apôtres et telle que l’Église ne cesse de la contempler et de la reproduire, s’unissent indissolublement la réalité de la Charité et la vérité du Dogme, la Charité constituant la réalité de ce Dogme, comme ce Dogme lui-même constitue la vérité de cette Charité». Cfr. TDH1, 218. 295 «Vous êtes homme! Fleur de Jessé, Vous êtes bien le fruit de notre terre. Né de la femme, vraiment formé de sa substance. Vous n’êtes pas je ne sais quel fantôme descendu des nuées du ciel. Vous êtes profondément enraciné dans notre sol. – Mais en Vous, Jésus comme en nul autre enfant de notre race, Dieu s’est montré. Vous ne fût pas seulement son messager, Vous êtes son apparition vivante et substantielle. Par Vous Il n’a pas seulement parlé. Ou plutôt son langage est un acte, sa parole est un geste: c’est Vous-même. Splendor, Verbum et imago Patris. Vous, Jésus, sur votre Croix, trait d’union de la terre au ciel». TDH1, 213-214. 296 «Tutto del Dogma». Cfr. TDH1, 219. Qui si può riconoscere l’influsso di Pascal: «Gesù Cristo è il fine di tutto e il centro a cui tutto tende. Chi lo conosce, conosce la ragione di tutte le cose». Pensées [Chev.], 602. 297 «Una delle sventure della teologia è stata l'atomizzazione in articoli senza legame con un centro vivo» cita Guibert dalla La Révélation divine di de Lubac, commentando: «Le mystère du Christ n’est pas un objet d’étude parmi d’autres dans la Théologie lubacienne, mais l’unique centre auquel les divers mystères se rapportent, et dont chacun est une explication. Voilà pourquoi le sens objectif de la Théologie du Verbe incarné conduit nécessairement au sens subjectif, ou la Théologie est l’œuvre du Christ. Achevant l’Économie divine, le Christ ouvre le cœur de Dieu. Ce qu’il accomplit définitivement sur la Croix commence à la Crèche. L’incarnation du Verbe a atteint jusqu’aux structures de la pensée humaine. L’Esprit saint a donné à l’esprit d’oser penser ce que sa raison n’était pas apte à affirmer. L’audace de la foi élève la pensée de l’homme et lui permet d’accueillir le paradoxe qui est au cœur de la révélation que le Verbe nous fait. Or, ce paradoxe fait pénétrer le mystère de la personne du Verbe et, en ce mystère même, le mystère de DieuTrinité. Jésus nous a découvert l’intime de Dieu». Cfr. Guibert, 165. 292 SOPRANNATURALE 83 Cristo, manifestazione personale della Carità, Centro vivo e divino della fede, novità assoluta – omnem novitatem attulit, semetipsum afferens – fondamento della novità e divinità del cristianesimo stesso298. De Lubac finisce il suo articolo affermando di nuovo la precedenza dell’adorazione di Cristo rispetto alle formule e alle parole299. Nel Mistero di Cristo, Gesto definitivo, assoluto ed efficace, che supera i confini del pensiero umano e abbraccia tutto il mondo, si trova il compimento della salvezza promessa all’uomo300. Nei diversi stili, e nei diversi livelli epistemologici presenti ne La Lumière du Christ di de Lubac, Guibert riconosce una «vocazione» particolare a manifestare l’«articolazione delle diverse dimensioni del mistero di Cristo»301. È per questa ragione che partiamo da questo testo per cercare anche noi di trovare nel mistero di Cristo la novità della forza sintetica e unificante nella quale si superano gli apparenti paradossi della fede. 3.3 Il mistero sintetico di Cristo Nel paragrafo precedente abbiamo visto come de Lubac parli del dogma cristiano definendolo una «serie di “paradossi”»302, dove occorre distinguere tra il «paradosso naturale» e il «paradosso dogmatico»303. Da un rapido sguardo dato a Le Mystère du surnaturel (1965), notiamo come vi si trovi menzionata la parola «paradosso» e come essa sia presente nei titoli dei quattro capitoli304. Sembra quindi che il particolare concetto del paradosso sia molto presente nel pensiero di de Lubac, anche se si deve notare che il concetto di paradosso riveste sempre un ruolo secondario. Esso è utilizzato come un mezzo necessario, attraverso il quale il linguaggio umano limitato —————————– 298 «Par ce qui le fait lui-même, par son essence originale qui ne consiste ni en mots ni en concepts et que toute somme de mots ou de concepts est à jamais impuissante à traduire adéquatement, le christianisme est divin, tout divin». Cfr. TDH1, 208.219-220. 299 Cfr. TDH1, 220. 300 «Il est venu, le Christ de Dieu, le Chef des Promesses! Et sans aucun doute il a été, lui seul, à l’exclusion de tous ceux qui l’ont précédé – et, j’ai l’audace de le dire, il est à l’exclusion de tous ceux qui le suivent – l’attente des Nations». Con queste parole di Origene, de Lubac conclude il suo articolo. Cfr. TDH1, 220-222. 301 «Les différentes éditions, les différents styles, les différents niveaux épistémologiques sont donc au service de la vocation – si ce terme n’est pas trop fort – de ce texte. Sorti tout d’abord en brochure séparée, puis édité par deux fois sous forme de conclusion de livre, il n’est pourtant pas une conclusion, mais une articulation: il permet le passage d’un style à l’autre, d’un ordre à l’autre. Il ouvre à l’ordre du Christ qui ne supprime pas les autres ordres, mais projette sur eux une lumière toute nouvelle qui a sa consistance propre. La vocation de ce texte est de manifester l’articulation des différentes dimensions du mystère du Christ». Guibert, 63. 302 «Tutto il Dogma, così non è che una serie di “paradossi”». C, 248. 303 Cfr. C, 247-248. 304 «Paradosso cristiano dell’uomo» (cap. 6.); «Il paradosso ignorato dai gentili» (cap. 7.); «Il paradosso negato dal buon senso» (cap. 8.); «Il paradosso superato nella fede» (cap. 9.). Cfr. MS65. 84 IL MISTERO DELLA SALVEZZA CRISTIANA cerca di esprimere le verità relative al mistero. Nel linguaggio teologico, il concetto di paradosso apparterrebbe alla teologia negativa (apofatica), ma mentre quest’ultima risulta più appropriata per parlare delle verità di Dio, il concetto di paradosso è invece più adatto per parlare dell’uomo305. La teologia lubachiana non fa quindi riferimento al paradosso in senso assoluto ma in senso relativo. Esso, infatti, è in relazione al mistero, che mantiene il primato nel pensiero teologico di de Lubac: Il paradosso è il rovescio di qualche cosa, il cui dritto è la sintesi. Ma il dritto ci sfugge sempre. […] Il paradosso è appunto ricerca o attesa della sintesi. Provvisoria espressione di una visione sempre incompleta, orientata, tuttavia, verso la pienezza306. Abbiamo già visto il concetto di sintesi come unione, dove de Lubac, parlando del mistero del dogma trinitario, distingue l’«unione» dalla «confusione»307. Ora vogliamo invece approfondire il concetto di mistero nella teologia di de Lubac308. Nel capitolo «Il paradosso superato nella fede» in Le Mystère du surnaturel (1965)309 troviamo sviluppata l’idea di Mistero dallo stesso de Lubac: Questa idea del mistero è perfettamente accettabile dalla ragione dal momento che è accettata l’idea di un Dio personale e trascendente. La Verità ricevuta da Lui deve sfuggire alla nostra presa, proprio in virtù di un’intelligibilità superiore: intellecta, essa non può esser comprehensa. […] Come, almeno, si potrebbe credere che un’intelligenza finita sia capace di ricevere questa comunicazione nella sua integralità? La verità rivelata è, dunque, per noi un mistero, cioè essa offre questo carattere di sintesi eminente, il cui anello ultimo ci rimane —————————– 305 «Wenn der Theologe etwas über Gott selbst aussagen möchte, wenn also der Gegenstand seiner Ausführungen der Schöpfer ist, wird die apophatische Theologie die geeignetste Ausdrucksweise sein; wenn er dagegen etwas über die Schöpfung aussagen möchte, wenn also der Gegenstand seiner Ausführungen Dinge sind, die mit Gott zu tun haben, aber nicht Gott sind, ist das Paradox die in seinen Augen beste Ausdrucksweise». Hercsik, 206-207. Sul discorso umano come rapporto tra «pensiero e articolazione» (Denkund Ausdrucksweise), in relazione all’uso dei concetti di «teologia negativa» e di «paradosso» nella teologia di de Lubac, vedi: Ibid., 61-65.86.154-173.206-207. 306 H. de LUBAC, Paradossi e Nuovi paradossi, 43. «…in de Lubacs Grundnahme der Primat in jeder Hinsicht der Einheit (Synthese) zukommt, der gegenüber das Paradox immer sekundär bleibt. Das Mysterium ist größer als das Paradox; nicht jenes wird von diesem, sondern dieses wird von jenem umfangen». Hercsik, 64. Cfr. Ibid., 63-65.214-216. Sull’uso dei concetti di «paradosso» e «mistero» nella teologia di de Lubac, cfr. N. CIOLA, Paradosso e Mistero in Henri de Lubac; J.-P. WAGNER, La Théologie fondamentale selon Henri de Lubac, 201-227. 307 Cfr. C, 250; cap. I, par. 3.2 di questo lavoro. 308 Per saperne di più sull’argomento vedi: G. BENEDETTI, «La teologia del mistero in Henri de Lubac», 1-37. 309 MS65, 231-249. SOPRANNATURALE 85 irrimediabilmente oscuro. È un dato che resiste sempre agli sforzi, che noi mettiamo in atto per unificarlo completamente310. È importante evidenziare qua il costante sforzo di de Lubac di trovare una «sintesi cattolica» corrispondente alla «pienezza cattolica» della verità di fede. Proprio attraverso la sintesi si evitano dannose esagerazioni antitetiche: Si è anche rilevato, assai spesso, che i diversi protestantesimi erano il più delle volte delle religioni d’antitesi: autorità o libertà? Bibbia o Chiesa?, ecc. La pienezza cattolica offre sempre un carattere di sintesi. Soltanto, non è una sintesi immediata, né effettuata umanamente. Non è posseduta con la luce della ragione: è creduta, dapprima, nella notte della fede. Si comincia, dice ancora Boussuet, col tenere i «due capi della catena». Sintesi, dunque; ma, per la nostra intelligenza naturale, sintesi antinomica, prima di esser sintesi chiarificatrice311. E ancora un po’ prima, dice de Lubac con un tono incoraggiante: «Non ci meravigliamo di tali antinomie. Esse scaturiscono da ogni mistero. Sono il segno di ogni verità, che ci disorienta. “La fede abbraccia molte verità, che sembrano contraddirsi”. Essa “è sempre l’accordo di due verità opposte”»312. Proprio per poter restare dentro i «confini dell’ortodossia» la teologia si deve sforzare di raggiungere quest’equilibrio nella sintesi dogmatica: «Quando è proprio fra due verità di fede che la conciliazione positiva non si lascia scorgere, la scelta dell’una delle due a danno dell’altra costituisce propriamente un’eresia. Ne abbiamo una serie di esempi classici nelle grandi eresie trinitarie e cristologiche»313. La stessa persona di Cristo è una sintesi viva di due verità «paradossali» e «antinomiche»: Cristo è vero uomo e vero Dio314. In questo senso, l’Incarnazione presenta il «paradosso supremo»315, ma Essa è ancora di più, Essa è —————————– 310 MS65, 235. Ricordiamo anche qua l’idea di de Lubac dello spirito che deve «sottomettersi all’incomprensibile», citata in Catholicisme nel sottocapitolo precedente dove de Lubac parla del dogma come di una «serie di “paradossi”». Cfr. C, 248. 311 MS65, 233. Cfr. MMC, 244-245. 312 Cfr. MS65, 231-232. 313 Cfr. MS65, 239. 314 «Parce que Dieu est transcendant, l’Homme-Dieu, le Christ, présente un caractère indéniable de paradoxe. Le mystère synthétique du Christ n’est atteint qu’en passant par cette étape de la synthèse antinomique car le mystère du Christ se présente sous la forme d’antinomies ou encore de dualités insurmontables par la seule raison. Dieu peut cependant opérer l’unité d’une manière qui ne contredit point la raison. Mieux, il donne à la raison d’être dilatée par l’accueil du mystère et rendue capable de visées indirectes sur ce mystère». Guibert, 433-434. 315 «…le P. de Lubac exprime le mystère de l’Incarnation comme “Paradoxe suprême” et comme “modèle suréminent d’union”. Cette expression singulière de l’Incarnation se veut fidèle à la foi de l’Eglise, et plus précisément au dogme de Chalcédoine puisque seule une fidélité à ce dogme assure la vérité entière de l’Incarnation». Guibert, 168. «Le mystère du Christ ne s’éclaire donc qu’à la lumière du paradoxe qu’est son Incarnation: ce paradoxe s’exprime sous la forme des liens intrinsèques entre l’Evangelium Christi et l’Evangelium de Christo». Ibid., 57. 86 IL MISTERO DELLA SALVEZZA CRISTIANA il «Mistero supremo»316 dell’«unione più intima che esiste», l’unione ipostatica. Mostrando gli elementi della cristologia di de Lubac, Hercsik parla dell’Incarnazione come «paradosso e mistero» alla luce del quale si presenta Cristo come «l’uomo universale» e «l’uomo nuovo»317. Nell’ultimo capitolo del suo lavoro, intitolato «Il mistero sintetico di Cristo»318, partendo dal concetto di sintesi di de Lubac319, e presentando i diversi aspetti di questo mistero (Cristo come sintesi antinomica, dialogica e illuminativa320), Guibert ritiene che Cristo, più precisamente, il mistero sintetico di Cristo, costituisca una sintesi viva della teologia e delle opere di de Lubac. Da questo mistero di Cristo proviene la trascendenza intrinseca del cristianesimo presentata ne La Lumière du Christ321. Alla luce di queste riflessioni torniamo adesso alla critica di Alfaro riguardante l’«incoerenza logica» che egli scopre nel concetto di «desiderio naturale assoluto» di de Lubac322. Come dunque conciliare questo concetto di un «desiderio della nostra natura» che «nequit esse inane»323 con l’affermazione della sua assoluta gratuità? Si, forse siamo di fronte ad —————————– 316 «Non avremmo potuto conoscere i misteri di Dio, se il nostro maestro, che è il Verbo, non si fosse fatto uomo». AH, V, 1,1. Cfr. AH, III, 19,2; 21,5.7; V, 1-14. «Immer wieder kommt er [de Lubac] darauf zurück und spricht von der “paradoxen Logik der Menschwerdung”, von der “inneren Logik des Christusmysteriums” oder einfach von der “Logik des Menschwerdungsgeheimnisses. Wir haben hier einen für de Lubac und seine Theologie entscheidenden Begriff vor uns. Freilich muss auch hier eine Präzisierung angebracht werden: Für de Lubac ist die Inkarnation nicht primär (wenn überhaupt) deswegen ein Mysterium, weil sie einen Erkenntniszuwachs über Gott ermöglichte, wie er an und für sich ist, oder weil sie dem Menschen bewusst machte, dass er immer schon von Gott geliebt und angenommen ist; dies alles ist sicher nicht falsch, aber für de Lubac zu wenig. Für ihn ist die Inkarnation das höchste Mysterium, weil sie individuell (“für mich”) und sozial (“für uns”) in doppelter Hinsicht von heilsökonomischer Relevanz ist: als gnoseologische Neuheit und als ontologische Verwandlung». Hercsik, 84. Cfr. Ibid., 83-85. 317 Cfr. Hercsik, 83-89. 318 Cfr. Guibert, cap. 9., pp. 411-445. 319 «Tout synthèse véritable est toujours plus que synthèse. Une certaine refonte qui est beaucoup plus qu’une combinaison nouvelle, une certaine “reprise par le dedans” transforme tout. C’est, dans une continuité phénoménale, le passage à un ordre nouveau, supérieur, incommensurable». TDH1, 207. Cfr. Guibert, 411. 320 Cfr. Guibert, 429-445. 321 «Si “La Lumière du Christ” présentait le christianisme comme transcendance intrinsèque, celle-ci revient en définitive prioritairement au Christ lui-même, dont le caractère synthétique manifeste au mieux l’être propre et la transcendance intrinsèque. Cette synthèse n’est pourtant pas accessible d’emblée. Il lui faut ce parcours qui se nourrit de la considération du Fait du Christ et de son Intelligence, c’est-à-dire de L’Économie dans son lien ineffable à la Théologie, pour la perception, dans la foi, du caractère para-doxal du Christ. Il se nourrit également de la communication du Christ à l’humanité, laquelle éclaire le caractère dialogique de ce même mystère de rassemblement et d’amour. Il fallait enfin la considération de ce double caractère, paradoxal et dialogique, pour atteindre le caractère synthétique du mystère du Christ qui dévoile la gloire définitive du Christ et oriente notre Espérance». Guibert, 445. 322 Cfr. cap. I, par. 2.3 di questo lavoro. 323 Cfr. S, 467-471; ATM, 171; MS65, 114, e n. 13; 245. SOPRANNATURALE 87 un’«incoerenza logica» e ad un paradosso apparente se queste due affermazioni «antinomiche» le guardiamo con gli occhi della pura ragione. Ma ciò è spiegato chiaramente nel discorso di de Lubac, quando dice che «la rivelazione ci offre una coppia di affermazioni che sembrano dapprima discontinue o perfino contraddittorie». Questo riguarda anche la visione di Dio che è un dono gratuito, «e tuttavia il suo desiderio ha le radici nel più profondo di ogni spirito»324. Questo è il «paradosso cristiano dell’uomo» di cui parla de Lubac ne Le Mystère du surnaturel (1965)325, dove leggiamo: «…Lo stesso Dio è immediatamente nostro principio e nostro fine. È inevitabile che non vi sia, al di fuori di lui, alcuna cosa che ci renda eternamente felici, come non poté esservi, fuori di lui, alcuna cosa capace di crearci… L’ordine in teologia consisterà, per san Tommaso nel seguire questo movimento». «Mens, quae Dei capax est», aveva detto Origene. «Tam magna et mira natura, summae naturae capax!», esclamava sant’Agostino. E san Tommaso, in «questo meraviglioso riassunto che è il Compendium theologiae»: «Ultimus finis creaturae rationalis facultatem ipsius excedit». […] Per esigenza congenita, il fine della creatura spirituale eccede la potenza della sua natura e di ogni natura, e questo perché questa creatura spirituale ha un rapporto diretto con Dio, che le deriva dalla sua origine. Fra essa e Dio come sant’Agostino ripeteva a sazietà, «nulla natura interposita», «nulla interjecta natura». «Nihil cadit medium». E questo cambia tutto326. La logica del paradosso però, non ha l’ultima parola, perché, con gli «occhi della fede» si scopre un’altra logica, quella del mistero, la logica della fede, nascosta agli occhi dei «puri storici» e «naturalisti», perché appartiene ad un altro ordine – quello dello spirito327. La «logica del Mistero», legata ai «fatti storici» del cristianesimo porta ad una particolare «gnoseologia religiosa» nella quale si supera il paradosso apparente. Nella logica di sintesi, che «è sempre più di una sintesi»328, e nell’incontro personale con il Mistero, si scopre il «senso spirituale» nel quale si realizza la logica della fede che già veniva indicata dai Padri come base dell’unità329. —————————– 324 Cfr. C, 248. Cfr. MS65, 161-178. 326 MS65, 171. Nelle note della stessa pagina si trovano le collocazioni delle opere degli autori citati nel paragrafo. 327 «Certes, pas plus que l’ordre de l’esprit, l’ordre de la charité ne se révèle dans toute son ampleur ou dans toute sa profondeur à cette observation par le dehors qu’est le travail du pur historien. […] les propriétés paradoxales du “phénomène humain”, sa puissance extraordinaire d’expansion et de concentration, hors de proportion avec la fiable originalité morphologique de l’homme, supposent une présence que le naturaliste ne peut qu’entrevoir… […] Comme la divinité du Christ elle-même, la nouveauté définitive du principe chrétien ne peut être perçue que par les yeux de la foi». TDH1, 210. 328 Cfr. TDH1, 207. 329 Cfr. TDH1, 212. In questo senso, l’instancabile appello di de Lubac ad un «ritorno ai Padri» e «alle fonti» equivale direttamente ad un appello a ritornare al Mistero. «Auch wurde (und wird immer noch) im Hinblick auf Henri de Lubac viel von “Rückkehr zu den Quellen” (“retour aux sources”, “retour aux Pères”, “ressourcement”) gesprochen. […] Für 325 88 IL MISTERO DELLA SALVEZZA CRISTIANA Non si tratta qua di una sintesi puramente filosofica330, ma di una sintesi viva, realizzata nella persona di Cristo331, «tratto dell’unione tra terra e cielo», «il grande Gesto dell’Amore», «il Gesto assoluto, efficace e definitivo» che «abbraccia tutti i mondi», che ha rinnovato il mondo e brilla attraverso i tempi332. Qua troviamo anche la risposta alla seconda critica di Alfaro riguardo alla mancanza del «carattere essenzialmente cristico e incarnazionale» nelle esposizioni di de Lubac333. Se le ricerche di Hercsik e Guibert nel campo cristologico della teologica di de Lubac sono giuste, allora possiamo affermare insieme a loro che Cristo è davvero il centro di tutta la teologia di de Lubac. In Lui si chiarisce il paradosso dell’uomo e si rivela il suo fine ultimo334. Gesù Cristo è il mistero supremo in cui convergono tutti gli altri misteri della fede. Egli è il «Tutto del Dogma», «manifestazione personale della Carità», «Centro vivo», «Centro divino» dal quale tutto risplende e al quale tutto deve condurci335. Così come il mistero del soprannaturale, che è —————————– de Lubac war jegliche Rückkehr zu den Quellen gleichbedeutend mit der “Rückkehr zum Mysterium”, und zwar zu dem Mysterium in seiner authentischen Gestalt und in seinem unausschöpflichen Reichtum. Gemeint ist: Rückkehr zur christlichen Offenbarung, die nichts anderes ist als eine lebendige Person». Hercsik, 215. 330 Guibert lo commenta così: «Dans le premier temps, se trouve l’approche antinomique qui s’oppose à la philosophie de l’entendement: “Cette philosophie de l’entendement est une philosophie du dilemme et de l’univocité”. C’est une philosophie pressée d’unifier réellement dans la raison les éléments épars, et parfois antinomiques, de la réalité. Mais, pour cela, il lui faut choisir parmi ces éléments [riportiamo inseguito la traduzione italiana del testo da Le Mystère du surnaturel (1965)]: “‘Oppure, oppure’, insiste sempre l’intendimento, che crede di poter raggiungere l’ultima parola di tutto, perché si fa misura di tutto e confonde i suoi limiti con i limiti dell’essere. Rimprovera al pensiero cristiano ‘una specie d’appetito per l’assurdo e il contraddittorio’. Confondendo l’incomprensibile con l’inintelligibile, scambia l’affermazione del mistero per un ‘sofisma’, per una trasgressione indebita ‘dei limiti del senso comune e della ragione’”». Cfr. MS65, 236; Guibert, 433. La filosofia cristiana, invece, non «sceglie»: «Solo, di fronte a tutti questi elementi, rifiutando di lasciarsi chiudere, come essi [i filosofi non cristiani], nell’una o nell’altra delle due soluzioni antagoniste, la filosofia cristiana apre dinanzi all’uomo la prospettiva d’un cammino nuovo, di cui l’uomo ha ricevuto la promessa, e di cui essa stabilisce le condizioni essenziali di possibilità. Proprio mentre ci fa sentire di secolo in secolo “una protesta appassionata contro ogni deificazione del mondo”, sia pure “di forma politeista o panteista”, conserva in noi la speranza, venuta dall’alto, di una “vita eterna”, di una “beata perennità”, cioè d’una immortalità divina». MS65, 184; Cfr. Hercsik, 73-76. 331 «Die religiösen Grundlagen für sein im Glauben unternommenes Werk der Synthese und des Neuaufbaus entlehnt de Lubac vor allem Paulus und Johannes. […] Die Worte de “hohepriesterlichen Gebetes” Christi im Johannes-Evangelium (“denn sie sollen eins sein, wie wir eins sind”: Joh 17,22) sind der Fluchtpunkt der Theologie de Lubacs”». Hercsik, 207-208. 332 Cfr. TDH1, 211-214.220-221; MS65, 297. 333 Cfr. cap. I, par. 2.3 di questo lavoro. 334 «Für de Lubac besteht kein Zweifel, dass sich das Paradox des Menschen erst in Christus aufhellt und dass erst Christus die Gemeinschaft des dreifaltigen Gottes als die letzte, inhaltlich gefüllte Endbestimmung des Menschen offenbaren kann…». Hercsik, 68. 335 Cfr. TDH1, 219-220. SOPRANNATURALE 89 «il mistero del nostro destino divino», si presenta «un po’ come la forma all’interno della quale verranno ad inserirsi tutti gli altri misteri della Rivelazione»336, così Cristo è il mistero sintetico, il centro vivo dell’intera teologia e opera di de Lubac. Questo profondo aspetto del suo pensiero teologico ci risulta chiaro anche se «la percezione di Cristo come sintesi nella teologia di P. de Lubac, non viene data immediatamente, ma si presenta alla fine del percorso di ricerca del mistero»337. 4. Sintesi In questa sezione del nostro lavoro vorremmo fare una sintesi della precedente esposizione della dottrina di de Lubac sul soprannaturale e dell’aspetto cristologico della sua teologia. In questo modo sarà possibile anche riportare alcune riflessioni dello stesso autore, estrapolate dai suoi diversi scritti e lettere riguardanti il Surnaturel (1946) e raccolti nella sua Mémoire sur l'occasion de mes écrits (1989). Alla fine presenteremo una sintesi conclusiva alla luce del nostro tema – il mistero della salvezza cristiana nella teologia di de Lubac. Vorremmo, quindi, presentare la dottrina sul soprannaturale di de Lubac che, caratterizzata da una profondità cristologica e da un costante richiamo alla dottrina dei Padri, senza disprezzare gli sviluppi teologici posteriori, nonostante il suo iniziale metodo di carattere «astratto», ha il pregio di essere un tentativo importante nella ricerca di una sintesi dogmatico-cristologica, interessata alla salvaguardia di una sana dottrina della grazia, minacciata dalle «tendenze moderniste» di «adattamento» e dalle «teorie troppo compiacenti sul progresso del dogma». 4.1 De Lubac sul «soprannaturale» Avendo scelto di trattare il tema del soprannaturale in de Lubac, volendo nella nostra esposizione far apprezzare nella sua integrità la sua visione dell’uomo nel suo rapporto con Dio, abbiamo cercato di evitare i diversi dibattiti teologici che nel XX secolo sono nati intorno alla concezione del soprannaturale di de Lubac338. Per questa ragione abbiamo cominciato la —————————– 336 Cfr. MS65, 231. Cfr. Guibert, 433. A tal proposito può essere interessante il commento di P. Barbarin nella prefazione a Le Mystère du Christ d’après Henri de Lubac di Guibert: «Le cardinal Henri de Lubac a dit un jour avec sa modestie habituelle à un ami: “J’aime être lu par des jeunes parce qu’ils trouvent dan mes écrits ce que je n’y ai pas mis”. Il indiquait ainsi son attention au travail de l’Esprit. Dans l’œuvre d’un auteur, en effet, il y a plus que ce qu’il a voulu y mettre; on peut y discerner la présence de l’Esprit, irriguant la grande Tradition». Ibid., p. I. 338 Affronteremo questo aspetto nell’ultima parte del nostro lavoro. Il tema, pero, è già stato elaborato da vari autori, tra i quali indichiamo qui i più interessanti: G. BENEDETTI, La dottrina del soprannaturale nell’apologetica francese contemporanea, Roma 1952; L. MALEVEZ, «La gratuité du surnaturel», NRT 75 (1953) 561-586.673-689; G.M. NEGRI, La 337 90 IL MISTERO DELLA SALVEZZA CRISTIANA nostra esposizione con una chiarificazione dei concetti principali legati alla dottrina sul soprannaturale339, esattamente come fa lo stesso de Lubac nella sua opera Petite catéchèse (1980), quasi trentacinque anni dopo l’uscita del Surnaturel (1946), consapevole che la mancanza di «alcune precisazioni elementari» è stata la causa di alcuni fraintendimenti posteriori: A mio avviso, a questo libro [Surnaturel] mancavano almeno due cose: 1. Avrei dovuto spiegare chiaramente, fin dall’inizio, che, affrontando l’argomento come l’aveva affrontato e come l’affrontava ancora tutta la tradizione scolastica, esso supponeva un’astrazione di base: mancava perciò quasi completamente ogni considerazione sulla rivelazione storica, o sulla creazione in Cristo e per Cristo, ecc. [...] 2. Parlando a pensatori «indipendenti» e a storici della filosofia più ancora che a degli scolastici, avrei dovuto precisare anche il senso in cui veniva usato il termine «natura»: si trattava di un concetto di «soprannaturale» e non di un’idea in contrapposizione, per esempio, all’interno del pensiero filosofico, con idee come quelle di persona, o di storia, o di cultura, ecc. (A questo riguardo ho fornito alcune precisazioni elementari nella mia Petite catéchèse sur nature et grâce...)340. Alcuni si sono chiesti se queste «precisazioni» di de Lubac comportino un vero e proprio «cambiamento di prospettiva»341. La risposta che de Lubac dà a una tale domanda, fatta da uno studente di teologia, è la seguente: —————————– teologia del soprannaturale del P. Henri de Lubac nel contesto della teologia francese, Dissertatio ad Lauream in S. Theologia in Pontificia Universitate Urbaniana «De Propaganda Fide», Roma 1975; H.U. von BALTHASAR, Karl Barth. Darstellung und Deutung seiner Theologie, Einsiedeln 1976; trad. italiana, La teologia di Karl Barth, Milano 1977, 301-323.367-382; M. FIGURA, Der Anruf der Gnade. Über die Beziehung des Menschen zu Gott nach Henri de Lubac, Einsiedeln 1979; J. HAGGERTY, The Centrality of Paradox in the Work of Henri de Lubac S.J., Dissertazione nella «Fordham University», New York 1987; R. BERZOSA MARTÍNEZ, La teología del sobrenatural en los escritos de Henri de Lubac. Estudio histórico-teológico (1931-1980), Burgos 1991; B. SESBOÜÉ, «Le surnaturel chez Henri de Lubac. Un conflit autour d’une théologie», RSR 80 (1992) 373408; F. BERTOLDI, De Lubac. Cristianesimo e modernità, Bologna 1994; P.F. RYAN, Moral Action and The Ultimate End of Man: The Significance of the Debate Between Henri de Lubac and His Critics, Excerpta ex dissertatione ad Doctoratum in facultate Theologiae Pontificiae Universitatis Gregorianae, Tesi 4296, Roma 1996; A. VANNESTE, Nature et Grâce dans la Théologie occidentale. Dialogue avec H. de Lubac, Leuven 1996; C. RUINI, «La questione del soprannaturale. Natura e grazia», Roma 1998, NA 2-3 (2000) 2-24; A.-M. LEONARD, «La nécessité théologique du concept de nature pure», RevThom 101 (2001) 345-351; F. GIANFREDA, Il dibattito sulla «natura pura» tra H. de Lubac e K. Rahner, Verucchio 2007. Per un elenco bibliografico più dettagliato su questo argomento e sulle ricerche negli altri campi della teologia di de Lubac vedi: Hercsik, 4-12. 339 Cfr. cap. I, sez. 1. di questo lavoro. 340 MEM, 53. Nella nota sulla stessa pagina, de Lubac aggiunge: «Mi accusano, a Roma, di confondere natura e soprannaturale: io passo il mio tempo a lottare contro questa confusione, che oggi è dappertutto, anche là dove, da Roma, non la vedono». 341 Cfr. per esempio J. ALFARO, Cristologia e antropologia, 294. SOPRANNATURALE 91 Lei mi chiede inoltre se il mio pensiero, col passare degli anni, non si sia modificato. Forse non sono nella situazione migliore per darne un giudizio. Credo tuttavia che non ci sia stata un’evoluzione molto netta, e ancor meno un effettivo cambiamento. Ma le situazioni, negli ultimi cinquant’anni, sono state così diverse! Non essendo mai rimasto chiuso nella pura speculazione, mi sono sforzato di rispondere il meno male possibile alle domande che mi venivano rivolte, per far fronte ai bisogni del momento, come pure ai doveri del mio incarico. Quando, per esempio, bisognava tentare di mostrare le risorse di un pensiero cristiano vivo, scontrandosi con una scolastica insieme moderna e sorpassata [...]. D’altra parte, non si può dire tutto in una sola volta: parlare di Catholicisme o di Surnaturel o di Humanisme athée, non è come parlare di Exégèse médiévale o de La structure du symbole des apôtres o delle Églises particulières342. Per evitare dunque i possibili fraintendimenti e le conclusioni unilaterali e sbagliate, le opere sul soprannaturale di de Lubac vanno considerate nel loro contesto storico e nel quadro dell’intera sua opera teologica. Nella parte antropologica343 abbiamo presentato il concetto dello «spirito creato» dotato del «desiderio naturale di vedere Dio». Ci siamo confrontati con le critiche già menzionate di Alfaro344, riguardanti sia una certa «incoerenza logica» nell’interpretazione lubachiana del concetto tomista del «desiderium naturale» che l’assenza del carattere cristico e incarnazionale dall’intera dottrina sul soprannaturale di de Lubac. Rispetto a tali critiche, abbiamo cercato di fare notare come il nostro autore abbia costantemente cercato di giungere ad una sintesi teologica cattolica345 . Il suo tentativo ha trovato nella persona di Cristo il cuore della sua riflessione e la sintesi viva a cui tendeva tutta la sua teologia. Ricorrendo ai concetti di paradosso e di mistero, dove quest’ultimo ha sempre il primato, de Lubac voleva sempre «tenere i due capi della catena»346, cioè non voleva escludere nessuna delle due verità che a prima vista sembrano opposte. Nel caso dell’apparenza antinomica e paradossale creata dall’accostamento dell’affermazione di un desiderio naturale di vedere Dio, inteso come un desiderio assoluto che «nequit esse inane»347, a quella dell’assoluta gratuità della grazia, egli cercava, nello spirito di Ireneo, di salvare il senso del mistero, di preservare, cioè, l’unione di tutte e due le —————————– 342 MEM, 378-379. Cfr. cap. I, sez. 2. di questo lavoro. 344 Cfr. cap. I, par. 2.3 di questo lavoro. 345 Cfr. cap. I, sez. 3. di questo lavoro. 346 Riferendosi al «desiderium naturale» formulato da san Tommaso, in accordo con le conclusioni di J. Sestili, de Lubac si domandava se: «Sia nello studio storico degli antichi teologi – coloro che egli [Sestili] chiama “doctores antiquae sapientiae” –, sia nello sforzo della riflessione teologica, sarebbe preferibile, se non si scorge ancora alcuna soluzione, “tenere i due capi della catena”». Cfr. MS65, 248; MMC, 244-245. Benedetti riconosce questo atteggiamento metodico nei diversi campi della teologia lubachiana. Cfr. G. BENEDETTI, «La teologia del soprannaturale in Henri de Lubac», 8-9.19. 347 Cfr. S, 467-471; ATM, 171; MS65, 114, e n. 13; 245. 343 92 IL MISTERO DELLA SALVEZZA CRISTIANA verità in una sintesi armonica di fede348. La fede, infatti, è sempre «l’accordo di due verità opposte»349, mentre l’esclusione di una di queste due ci porterebbe ad una eresia350. La visione unitaria dell’uomo e della sua salvezza, corrispondente al realismo biblico-patristico351 presente negli scritti lubachiani, è sempre legata al mistero salvifico di Cristo la cui persona costituisce il centro e la sintesi di tutte le opere di de Lubac e della sua intera teologia352. Cercando di mostrare questo sforzo di «sintesi cristologica» nella teologia di de Lubac, ci siamo accostati soprattutto alla sua La Lumière du Christ, affidandoci alle ricerche di Hercsik e Guibert, e al giudizio dello stesso de Lubac che nelle sue opere, anche se sotto forma di «lavori sparsi», trova «una certa trama unificante», «una certa direzione o almeno una certa intenzione comune»353. Nonostante lo sforzo compiuto da de Lubac alla ricerca di una sintesi, dobbiamo ammettere insieme a lui che non è facile trovare una sintesi concettuale nelle sue opere354. Allo stesso tempo affermiamo insieme ad alcuni studiosi355 delle sue opere che è proprio la persona di Cristo che rappresenta il cuore e costituisce una sintesi vera delle opere e della teologia di de Lubac356, e questa sintesi si dovrebbe cercare piuttosto nello «spirito» delle sue opere, cioè nel suo percorso di ricerca nel mistero, nella cristologia «nascosta» ma sempre presente nel pensiero e nel cuore del nostro autore, anche se non sempre espressa in modo esplicito, perché, come egli stesso afferma: «molto spesso ciò che si ha più a cuore non viene detto nei propri libri: perché, più ci è caro e più si ha paura di parlarne troppo male»357. Scrivendo così le sue opere, con vera umiltà e fede, de Lubac confessava il senso delle sue «carenze intellettuali» e la «persuasione di essere un po’ troppo impari» per affrontare veramente l’«argomento» che gli stava più a —————————– 348 «Si può, se non tutto ridurre alla chiarezza d’un colpo d’occhio, che farebbe svanire il mistero, almeno elevarsi dialetticamente all’armonia d’una opposizione superata». MS65, 248. Sul senso dell’unità e del mistero nella dottrina di Ireneo, cfr. cap. II, parr. 3.1 e 3.3 di questo lavoro. 349 Cfr. MS65, 231-232. 350 Cfr. MS49, 127-134; MS65, 239. 351 Cfr. cap. I, par. 2.1 di questo lavoro. 352 Cfr. cap. I, sez. 3. di questo lavoro. 353 Cfr. MEM, 376.388. 354 «In pubblicazioni così diverse sarebbe vano cercare gli elementi di una sintesi personale, filosofica o teologica – o, come certuni hanno detto, “gnoseologica” – sia per criticarla che per condividerla». Cfr. MEM, 375-376. 355 Qua pensiamo soprattutto a Hercsik e Guibert ai quali, secondo noi, si potrebbe applicare la già menzionata nozione di de Lubac sui giovani lettori che nei suoi scritti scoprono «quello che lui non ne ha messo». Ricordiamo che riguardo al fatto che nell’opera di un autore esiste più di quello che l’autore stesso ha voluto mettere, de Lubac riconosce anche «la presenza dello Spirito che irriga la grande Tradizione». Cfr. Guibert, I. 356 Cfr. cap. I, par. 3.1 di questo lavoro. 357 Cfr. MEM, 378-379. SOPRANNATURALE 93 cuore, e per scrivere «quest’opera su Gesù Cristo» che gli sarebbe stata «più cara di tutte»358. Nello stesso spirito confessava: Io non ho mai avuto la pretesa di fare opera di sistemazione filosofica, né di sintesi teologica. Questo, da parte mia, non è disprezzo, anzi tutto l’opposto. Ma, lasciando ad altri dotati dei doni necessari questo duplice compito, anche recentemente, in modo più generale io mi richiamo nell’introduzione a La Foi chrétienne, come avevo fatto molto tempo prima in Catholicisme, alla grande tradizione della Chiesa intesa come l’esperienza di tutti i secoli cristiani che viene ad illuminare, orientare, dilatare la nostra meschina esperienza individuale, a proteggerla contro gli smarrimenti, ad approfondirla nello Spirito del Cristo, ad aprirle le vie dell’avvenire359. L’intenzione teologica di de Lubac è dunque lontana dallo spirito innovativo di un certo riformismo teologico, come egli stesso affermava nel 1947 in occasione di un «esame di coscienza teologico», quando rispondendo a una richiesta dei suoi superiori, scrive alcuni pro-memoria che riassumono la sua concezione del Surnaturel: Non ho il temperamento di un riformatore, ancor meno di un «innovatore». Ben lontano dall’aver mai avuto l’idea di promuovere una «teologia nuova» [...] Come tutti, o quasi, mi rendo conto di certe necessità di rinnovamento, perfino nella teologia. [...] Ma di mia iniziativa non ho intrapreso con metodo un impegno simile. Offro soltanto un po’ di materiale e qualche idea, presi dal tesoro della Tradizione [...] Io non ho da proporre né un progetto, né un programma. [...] le mie tendenze sono molto tradizionali. Continuo a reagire contro i partiti-presi per la modernità, contro la foga di mode intellettuali, contro le eccessive preoccupazioni di adattamento o le teorie troppo compiacenti sul progresso del dogma. [...] A me piace la Tradizione della Chiesa, nella sua unità così varia. Mi piace in tutte le sue forme, e non soltanto nelle forme che i casi della vita mi hanno portato a valorizzare. Io sono poco teorico, nel senso sistematico del termine; ma non disprezzo le teorie ed i sistemi; li credo invece molto necessari. Io mi attacco a tutto quello che si è sviluppato nella Chiesa con la sua approvazione, in venti secoli, per esplorare le inesauribili ricchezze di Cristo360. Lontane dal riformismo e dall’innovazione teologica, le intenzioni di de Lubac sono estranee anche a un certo passatismo. Rispondendo a chi —————————– 358 Cfr. MEM, 391; cap. I, par. 3.1 di questo lavoro. MEM, 383-384. 360 MEM, 174-175. De Lubac continua le sue «confessioni» riguardo a san Tommaso e alla scolastica scrivendo: «Sono di formazione tomista [...] non ho mai fatto perciò dell’anti-tomismo [...] Credo inoltre che tutta una scuola tomista contemporanea – che, grazie a Dio, non è l’unica – sia estremamente lontana dallo spirito di san Tommaso». Ibid., 176. «Credo anche di aver lavorato (con successo più o meno grande) per riportare gli spiriti al san Tommaso autentico, come ad una guida sempre attuale. Circa il “tomismo” del nostro secolo, troppo spesso ho trovato in esso un sistema troppo rigido ed insieme troppo poco fedele al dottore cui si appellava». Ibid., 379. 359 94 IL MISTERO DELLA SALVEZZA CRISTIANA accusava la sua teologia di essere eccessivamente segnata da un «ritorno alle fonti» in senso esclusivo e selettivo, egli scrive: Senza pretendere di tracciare strade nuove al pensiero, ho piuttosto cercato, senza alcun passatismo, di far conoscere alcuni dei grandi luoghi della tradizione cattolica. Ho voluto farla amare, mostrarne la fecondità sempre attuale. [...] Perciò non sono mai stato tentato da un «ritorno alle fonti» che volesse disprezzare gli sviluppi posteriori e che volesse immaginare la storia del pensiero cristiano come una cascata di decadenze [...] Riguardo alla mia teologia fatta unicamente a partire dai Padri e dalla Scrittura, questo non mi soddisfa affatto361. 4.2 Il mistero salvifico di Cristo Possiamo dunque concludere che la dottrina sul soprannaturale di de Lubac presenta un recupero della teologia della salvezza cristiana. La visione dell’uomo, presentata dai concetti antropo-teologici degli scritti di de Lubac, è una visione unitaria che esclude ogni dualismo ipotetico legato ai concetti della «natura» umana e del fine ultimo dell’uomo362. Legata al mistero363, la visione lubachiana dell’uomo è in stretto rapporto con la dottrina biblico-patristica364 ed è in linea con la tradizione della teologia cattolica365. Il «mistero di Dio» fonda il «mistero dell’uomo» – creato ad immagine e somiglianza di Dio. Questi due misteri sono mediati dal «mistero del soprannaturale»366. Rivelandosi in Cristo, Dio ci ha rivelato noi stessi a noi stessi367. Il mistero dell’uomo dunque converge, insieme agli altri misteri della fede, nel mistero di Cristo – centro vivo – il Tout du Dogme. Senza questo Centro vivo, tutti i misteri particolari della fede, tutti i —————————– 361 MEM, 376. E con un tono simile, rispondendo alle domande di uno studente di teologia, de Lubac scrive: «Credo anche di non aver mai usato l’espressione banale (che può essere accettata in un senso buono, basta che non sia esclusivo) di “ritorno alle fonti”. Del resto basta aprire l’uno o l’altro dei miei libri, per esempio Surnaturel, per vedere che non disprezzo affatto lo sforzo della Scolastica e nemmeno quello di san Tommaso: è l’autore che io ho frequentato e studiato maggiormente per molto tempo». Cfr. Ibid., 376-377. 362 Questa visione «unitaria» di de Lubac dell’uomo e della sua salvezza, come vedremo nel capitolo seguente, è in sintonia con la visione antropo-teologica di Ireneo. Cfr. cap. II di questo lavoro. 363 «Noi non sappiamo che cosa è l’uomo». PNP, 57. Cfr. Hercsik, 163-167. 364 Cfr. MMC, 59-117. 365 Sulla visione originaria cristiana dell’uomo a confronto con la visione ateista, vedi: DHA, soprattutto il cap. «La ricerca di un uomo nuovo», pp. 321-375. 366 Cfr. G. BENEDETTI, «La teologia del mistero in Henri de Lubac», 11. Ricordiamo che l’instancabile sforzo di de Lubac, chiamato, senza alcuna traccia di esclusivismo, «ritorno alle fonti» o «ritorno ai Padri», significa infatti un appello a tornare al mistero. De Lubac chiamava questo sforzo anche un «ritorno all’antichità» e «alla semplicità» o «ritorno alla tradizione» e «all’esenziale». Cfr. MS49, 69.110.134; MS65, 70.251.256; PC, 27; MEM, 376; Hercsik, 215. 367 L’inseparabilità dell’antropologia dalla cristologia ci apparirà più evidente nella dottrina ireneiana sulla salus carnis, fondata sulla teologia di san Paolo. Cfr. cap. II, par. 2.1 di questo lavoro. SOPRANNATURALE 95 dogmi della fede, perdono il loro senso e rimangono a livello del paradosso. Il mistero di Cristo invece crea una sintesi viva della fede368. Il «principio della sintesi» era vivo e agiva nei cuori dei Padri che adorando questo mistero, prima di interpretarlo o di tradurlo in formule, ne penetravano il senso spirituale369. Nel mistero sintetico di Cristo, superando gli apparenti paradossi della fede, l’uomo che ha (è) il desiderio naturale di vedere Dio370, è elevato ad un «altro ordine» assolutamente gratuito e nuovo, l’«ordine soprannaturale», l’unico che risolve il paradosso dell’uomo e colma il suo desiderio371, l’unico che dona il senso (la salvezza) allo «spirito creato». La salvezza dell’uomo, o meglio – il concetto di salvezza cristiana nella teologia lubachiana – si fonda sul concetto di mistero. Se l’uomo è mistero, anche la sua salvezza è legata al Mistero supremo – mistero sintetico di Cristo. Come abbiamo visto, la sfera teologica de La lumière du Christ372 ci rivela tre aspetti complementari della novità assoluta dell’Incarnazione, «il grande Gesto d’Amore»373 è infatti visto come: un evento storico; è l’espressione del Disegno divino nel quale Cristo presenta la chiave di comprensione della tensione tra continuità e discontinuità nella storia374; e finalmente, l’Incarnazione è orientata verso la salvezza dell’umanità, essa è il Disegno della salvezza375. Non si tratta di una salvezza mitica o di un prodotto della riflessione filosofica astratta. Si tratta di una salvezza reale, legata ai fatti storici, tra cui l’Incarnazione – «il Gesto assoluto» presenta un fatto unico e originale, storico e trascendente, nel quale si uniscono la realtà della Carità e la verità del Dogma376. Nel Cristo mistico – il grande Gesto —————————– 368 «Car notre foi est une, et elle se résume toute en vous, ô Jésus. De tous ses “articles”, vous êtes le centre et le lien». TDH1, 219. 369 Cfr. TDH1, 212. «La fede cristiana può essere, e la storia ci dimostra che lo è stata, generatrice di ragione; ma essa stessa non è una scienza, né una filosofia rivelata: tali termini non hanno alcun senso. Essa è (e riprendiamo la formula di Pascal) di un altro ordine». PC, 43. «La fede è abbandono. [...] La fede non ci reca una teoria più bella delle teorie dei filosofi: essa ci eleva al di sopra delle teorie». PNP, 3. «Comme la divinité du Christ elle-même, la nouveauté définitive du principe chrétien ne peut être perçue que par les yeux de la foi». TDH1, 210. 370 «L’esprit est donc désir de Dieu». S, 483. 371 «Paradoxe de l’esprit humain: créé, fini, il n’est pas seulement doublé d’une nature; il est lui-même nature. Avant d’être esprit pensant, il est nature spirituelle. Dualité irrésoluble, autant qu’union indissoluble. Image de Dieu, mais tiré du néant. Avant donc d’aimer Dieu, et pour pouvoir l’aimer, il désire. Fait pour Dieu, l’esprit est attiré par lui». S, 483. 372 Cfr. cap. I, par. 3.2 di questo lavoro. 373 «Un grand Geste s’est fait sur le monde, il y a de cela vingt siècles: le Geste de la Charité». TDH1, 211. 374 La «novità di Cristo» non nega la continuità. Cfr. AH, I, 10,1; IV, 10,1–11,1; 34,1; E, 50-86. 375 Cfr. AH, III, 19,2; 21,5.7; V, 1–14. 376 «Geste absolu: rien n’a de valeur que par la charité. La charité exige tout, assume tout. La charité juge tout». TDH1, 221. 96 IL MISTERO DELLA SALVEZZA CRISTIANA del Padre, sotto l’azione segreta del suo Spirito377 – viene realizzata la vera sintesi della fede nella quale si supera il paradosso dell’uomo. La salvezza in Cristo è un’opera divina realizzata per mezzo della grazia concreta378 nella persona di Gesù Cristo379 che abbraccia l’uomo storico reale380. La Lumière du Christ381 ci rivela un po’ più esplicitamente il cuore cristologico della teologia di de Lubac382, insieme alla frase cristologica di Ireneo – «Omnem novitatem attulit semetipsum afferens, qui fuerat annuntiatus» – spesso citata negli scritti lubachiani383. Le seppur poche nozioni su Cristo, presenti nelle opere sul soprannaturale, ci fanno percepire una certa sintesi cristologica, che ritroviamo sempre tra le righe degli scritti di de Lubac. Specialmente nelle sue trattazioni sulla «grazia di Cristo» nell’Augustinisme et théologie moderne384 o nelle sue affermazioni sul mistero del soprannaturale – «che è il mistero del nostro destino divino» e si presenta come la «forma all’interno della quale verranno ad inserirsi tutti gli altri misteri della Rivelazione»385 – si mette in risalto come Cristo che è il «Tout du Dogme», sia il punto di convergenza di tutti i dogmi particolari della fede386. In tutto ciò diventa chiaro come la teologia sul mistero del soprannaturale di de Lubac sia un’espressione della fedeltà al Mistero supremo di Cristo387. —————————– 377 «Sous l’action secrète de votre Esprit, la foi sait trouver ses formules exactes». TDH1, 215. 378 «Il Cristo non è venuto a fare “opera di incarnazione”; ma il Verbo si è fatto carne per fare opera di redenzione». PNP, 27. Cfr. Hercsik, 3. 379 Nell’evento dell’incarnazione del Logos eterno l’offerta della grazia divina diventa un evento concreto. «Die Gnade ist konkret, weil sie angeboten ist in einer konkreten Person, in Jesus Christus». Hercsik, 85. 380 Cfr. MS65, 111. «quando in de Lubac si parla di “gnoseologia religiosa” bisogna intendere la sua caratteristica “logica del Mistero” o “logica biblica”, tutta legata ai “fatti storici”. Per cui è ben difficile separare in de Lubac le due cose. Egli parla ed argomenta con i fatti storici. Le conclusioni storiche sono da lui affermate come “principi” validi, certamente, per quel periodo storico studiato. Ma, è logico, nel contesto della Tradizione cristiana, quel certo periodo ha un peso anche oggi, perché, per esplicita affermazione dello stesso de Lubac, “tutte le generazioni sono solidali”. [...] È, in fondo, quello che esige la “serietà” del fatto storico, su cui spesso insiste il P. de Lubac. In esso sono concentrate realtà divine, ecclesiali, spirituali. Esso è come un incrocio misterioso e sorprendente di spiriti viventi in “comunità di fede” il Mistero di Cristo, il quale in ogni epoca rivela ricchezze caratteristiche, già possedute fin dall’origine». G. BENEDETTI, «La teologia del mistero in Henri de Lubac», 3. 381 Cfr. cap. I, par. 3.2 di questo lavoro. 382 «Ce grand Geste d’Amour, Jésus, c’est Vous-même…». Cfr. TDH1, 213ss; «Jésus, je crois en vous. Je confesse que vous êtes Dieu. Vous êtes pour nous tout le Mystère de Dieu». Ibid., 220. 383 Cfr. AH, IV, 34,1; TDH1, 209.220; MS65, 141; Hercsik, 14.98.106. 384 Cfr. ATM, 51-53.88-91.105-107.114-115.120. 385 Cfr. MS65, 231. 386 Cfr. TDH1, 219. 387 Cfr. G. BENEDETTI, «La teologia del mistero in Henri de Lubac», 13-14. SOPRANNATURALE 97 In questo senso ci sembrano importanti soprattutto le nozioni su Cristo nella Petite catéchèse – l’ultima opera di de Lubac sul soprannaturale che oltre al menzionato carattere «chiarificante» presenta una «conclusione» sull’argomento del soprannaturale, e proprio le conclusioni, sia dei capitoli, sia delle diverse opere di de Lubac, rivestono un’importanza particolare perché esprimono il suo pensiero originale e la sua intenzione più profonda, spesso nascosta nelle previe esposizioni di carattere storico sui diversi argomenti teologici388. Proprio queste conclusioni ci rivelano, in modo sintetico, la forza originale e «nuova» del pensiero teologico del nostro autore. Scegliendo un linguaggio più biblico sulla grazia, de Lubac nella sua Petite catéchèse parla del rapporto fra natura e grazia, cioè fra grazia e peccato389. Dopo il primo capitolo, in cui chiarifica i concetti di «natura», «soprannaturale» e «grazia»390, e che conclude con l’affermazione del profondo realismo presente nella dottrina sulla grazia di Ireneo e degli altri Padri391, de Lubac, comincia con una trattazione più pratica ed esistenziale sulla vita di fede392 dove, insieme al costante richiamo ad Agostino e agli altri Padri, fa riferimento, commentandoli, agli autori cristiani più recenti come Florenski, Barth, Bonhoeffer, Teilhard de Chardin, de Montcheuil, Kasper, Balthasar e altri. In questa trattazione de Lubac parla dei concetti di mistero, ascesi, trasformazione, sintesi, nuova nascita e del ruolo della Chiesa nella vita religiosa. La grazia soprannaturale diventa percepibile nella vita di fede come quella realtà che ci eleva e ci trasforma: il soprannaturale non solo eleva la natura (questo vocabolo classico è giusto, ma da solo troppo debole); esso non solo la penetra per aiutarla a prolungare il suo slancio (l’infinito non prolunga il finito) e farla giungere a un fine. Esso la trasforma. Ritroviamo qui la parola trasformazione con i suoi due analoghi, —————————– 388 «Se avesse fatto “Storia” da “puro” erudito non si sarebbero avute le polemiche che hanno suscitato le sue opere “storiche”, e soprattutto i loro Avant-propos e le loro Conclusions». G. BENEDETTI, «La teologia del mistero in Henri de Lubac», 4. Al centro della prima critica al Surnaturel, nel 1947, c’erano proprio le ultime dieci pagine della Conclusion. Exigence divine et désir naturel che provocavano una certa «riserva». Cfr. S, 483-493; MEM, 160-164. 389 «In “grazia” vi è anche “fare grazia”. La grazia è anche pietà e perdono. Allora la distinzione fra natura e grazia è in un primo tempo un rapporto di opposizione molto più radicale che nel caso della distinzione generale fra natura e soprannaturale. [...] Fra la grazia e il peccato la lotta è irriducibile». PC, 70. 390 Cfr. PC, 13-35. 391 «C’è, dicevano volentieri gli antichi, il doppio rapporto del datum optimum della creazione e del donum perfectum della divinizzazione. Un rapporto di questo genere esprime quindi insieme, da una parte, la trascendenza divina, la libertà del dono che Dio fa di se stesso, la “grazia” e, dall’altra, il realismo profondo della qualità di “figli di Dio” acquisita dagli uomini in principio per mezzo dell’incarnazione del Verbo: “hosoi de elabon auton edôken autois eksousian techna Theou genesthai” [“A quanti lo accolsero diede il potere di diventare figli di Dio” (Gv, 1,12)]». PC, 33-34. Cfr. MS49, 120-121; MS65, 133-159. 392 Cfr. intero capitolo secondo della Petite catéchèse, pp. 37-67. 98 IL MISTERO DELLA SALVEZZA CRISTIANA metamorfosi e trasfigurazione, anch’essi classici, il cui fondamento sulle Scritture è garantito e sul quale vale la pena di fermare la nostra attenzione. «Ecco io faccio nuove tutte le cose» (Ap 21,5). Il cristianesimo è una «dottrina di trasformazione» perché lo spirito di Cristo viene ad investire la prima creazione per farne una «nuova creatura». Ciò che è vero della grande trasformazione finale nel giorno della «Parusia» da cui sorgeranno «cieli nuovi e terra nuova» (Ap 21) è già vero per ciascuno di noi. «Noi attendiamo come Salvatore, il Signore nostro Gesù Cristo che trasformerà il corpo della nostra umiliazione, rendendolo simile al suo corpo glorioso» (Fil 3,21) ma dobbiamo già essere nel fondo di noi stessi «trasformati a sua immagine» (2Cor 3,18); così anche san Paolo ci esorta a lasciarci «trasformare rinnovando il nostro intelletto» (Rm 12,2)393. I concetti di trasfigurazione, ricerca dell’equilibrio, dell’armonia e della sintesi394 fanno parte della vita di fede, che è un processo395 verso il fine soprannaturale dell’uomo, l’unico fine ultimo che è «la vita eterna (Gv 6,27; Rm 5,21), che viene infusa dallo Spirito di Cristo nel fondo del cuore umano»396 e realizzata mediante l’azione «interiore e trasformatrice, propriamente deificatrice» di Cristo397. L’intima unione con Dio viene realizzata da parte dell’uomo attraverso una libera risposta all’invito della grazia divina e per mezzo di un’ascesi cristiana che non conosce il disprezzo del corpo398. La visione unitaria e reale dell’uomo e della sua salvezza, contenuta negli scritti lubachiani sul soprannaturale, è dunque disegnata dai concetti di «trasformazione», «unione» e «trasfigurazione»: EXCURSUS: Per esempio, quando tratta della grazia in sant’Agostino: «In fondo, fra la natura e la grazia non v’era, per lui [per Agostino] opposizione, ma inclusione; non lotta, ma unione. Non si trattava, per l’uomo, di annientamento, ma di unificazione intima e di trasformazione. Un grande principio dominava tutto, in cui si esprimeva la sua anima: Deus interior intimo meo»399. O quando, affer- —————————– 393 PC, 50. De Lubac aggiunge in nota: «Le tre parole sono: métaschèmatisei, métamorphoumèna, métamorphousté». Cfr. Ibid., 51, n. 56. Parlando di «trasformazione», de Lubac spesso cita C. Tresmontant. Cfr. Ibid., 50, n. 55. 394 Cfr. PC, 55. 395 «Il soprannaturale è un fermento, un’anima, non un organismo completo, viene a trasformare “la natura”». De Lubac, citando P. Teilhard de Cahrdin. Cfr. PC, 33. Il concetto di «processo» come constante «crescita» dell’uomo «spirituale» e «perfetto», realizzata mediante l’inabitazione dello Spirito Santo, e mediante l’adesione alle opere della fede e dell’amore, insieme ai concetti della «trasformazione» e della «trasfigurazione», lo incontreremo nella dottrina di Ireneo. Cfr. AH, IV, 38,3-4; cap. II, parr. 1.3 e 2.3 di questo lavoro. 396 Cfr. PC, 51. 397 De Lubac fa riferimento a M. Blondel e L. Laberthonnière. Cfr. PC, 51. 398 «Questo è il principio dell’ascesi cristiana, essa non è né un disprezzo del corpo o di qualsiasi altro dono della prima creazione e neppure un allenamento della natura umana per permettergli di compiere dietro ordine delle prestazioni; essa è la condizione indispensabile perché si realizzi l’unione di due incommensurabili: l’uomo e Dio». PC, 51. 399 ATM, 111. SOPRANNATURALE 99 mando la trascendenza della grazia, usando sempre un linguaggio «più astratto», parla dell’assoluta novità del cristianesimo contenuta nell’«idea d’un sursum, e di un di più; l’idea d’un ordine incommensurabile a quello della natura; l’idea di una novità radicale e, se si può dire, d’una invenzione nell’essere; l’idea d’un Dio che potrebbe venire gratuitamente dall’alto per innalzare questa natura indigente esaudendo il suo voto, trasformandolo completamente»400. E, citando Y. de Montcheuil: «L’ottimismo cristiano ha la sua origine non nel pensiero che l’uomo buono può essere sottratto a delle condizioni esterne che lo renderebbero malvagio, ma nel pensiero che Dio può operare in lui, nel suo essere intimo, una trasformazione. Può essere “convertito”. Il suo cuore può essere cambiato»401. Si tratta di una trasformazione intima dell’uomo nella sua dimensione personale e collettiva: «Nessuna “rivoluzione” esteriore potrà mai dispensare da questa rivoluzione intima. Come bisognava accettare di essere nato, adesso bisogna accettare di morire. Non si tratta più solo di dominare se stessi: si tratta di rinnegare se stessi. Qui vult salvare animam suam, perdet eam... Se nessuno deve evadere dall’umanità per un destino solitario, l’umanità tutta intera deve morire a se stessa in ciascuno dei suoi membri per vivere, trasfigurata, in Dio. Questa è la prima e l’ultima parola della predicazione cristiana. Questa è la legge che s’impone all’umanità in ogni uomo – perché ciascuno è responsabile di tutti, portatore, per la sua parte, del destino di tutti – la legge, se si accetta questo modo di dire, dell’umanesimo cristiano, che può essere soltanto un umanesimo convertito. Gloria Dei, vivens homo. Il detto di sant’Ireneo ne esprime bene la verità ma, d’altra parte, l’uomo accede alla vita, nell’unica società totale che possa esistere, soltanto dicendo con tutto se stesso: Soli Deo Gloria»402. Anche se non esplicitamente espresso in questi scritti, la «trasformazione» lubachiana, come abbiamo visto nell’ultima citazione dalla Petite catéchèse, ha sempre come suo fine l’«immagine di Cristo» (2Cor 3,18)403. Il primato appartiene sempre al Cristo nel quale abbiamo ottenuto l’adozione filiale: —————————– 400 Cfr. MS65, 190. PC, 92-93. Cfr. Ibid., 33.50-52.70-71. Sul bisogno di una «trasformazione» e «conversione» spirituale al posto di una «guarigione» offerta all’uomo dalla psicologia moderna, cfr. PNP, 58. Ci permettiamo di segnalare una riflessione relativa all’argomento di T. Merton: «Il fatto che dall’incarnazione Dio e l’uomo siano diventati inseparabili nell’unica persona di Gesù Cristo significa che “l’ordine soprannaturale” non è stato in qualche modo imposto dall’esterno sulla natura creata, ma che la natura stessa è stata, nell’uomo, trasformata e soprannaturalizzata in modo che in ogni persona in cui Cristo vive e agisce, per lo Spirito santo, non c’è più alcuna divisione tra natura e soprannatura. L’uomo che vive e agisce secondo la grazia di Cristo, che abita in lui, agisce in tal caso come un altro Cristo, come un figlio di Dio, e in questo modo prolunga nella sua vita gli effetti e il miracolo dell’incarnazione. Secondo le parole di san Massimo: “Dio desidera in ogni tempo farsi uomo in coloro che sono degni”». T. MERTON, L’esperienza interiore. Note sulla contemplazione, 83. Per una riflessione sulla «contemplazione cristiana», ricca di citazioni neotestamentarie della teologia giovannea e paolina e di numerosi riferimenti ai Padri, vedi: Ibid., 74-106. 402 Citazione da una lezione di de Lubac del 1947. Cfr. MEM, 136-137. 403 Cfr. PC, 50. Similmente, in entrambe le dottrine – di Ireneo e di de Lubac – si può riconoscere il vero concetto cristiano della «divinizzazione» dell’uomo mediante i misteri 401 100 IL MISTERO DELLA SALVEZZA CRISTIANA Infatti, come avremmo potuto divenire partecipi dell’adozione filiale (cfr. Gal 4,5), se mediante il Figlio non avessimo ricevuto da lui la comunione con Lui; se non fosse entrato in comunione con noi il suo Verbo facendosi carne (cfr. Gv 1,14)? Per questo è passato attraverso ogni età, restituendo così a tutti la comunione con Dio404. Soprattutto troviamo importanti l’ultimo capitolo e la Conclusione della Petite catéchèse405 dove si parla esplicitamente della «salvezza di Cristo», della realtà del peccato e del perdono, e del Cristo redentore406. Affermando la realtà del peccato, contro «la grande proclamazione di innocenza» della «scientificità» ateistica407, la «salvezza di Cristo» viene presentata come «atto di solidarietà con gli umiliati»408, perché possiede lo stesso realismo del peccato: Ci invita a riconoscere che siamo esseri deboli – e che non sappiamo quello che facciamo – e che il peccatore è prima di tutto un essere infelice. Ci ricorda che il Creatore sa di che pasta siamo fatti e che il Redentore è venuto per guarire i malati, per aprire gli occhi ai ciechi e per liberare gli schiavi. [...] Nulla più sussisterebbe delle Scritture che la Chiesa ci trasmette intatte – niente più, neppure di una speranza ecumenica di unione fra i cristiani per i quali questo tesoro è un bene comune – se queste parole di natura umana, di peccato, di libertà, di grazia fossero rifiutate, o semplicemente dimenticate; se le realtà che —————————– di Cristo, anche se nessuno di loro usa esplicitamente lo stesso termine «divinizzazione». Cfr. cap. II, par. 2.3 di questo lavoro. 404 La citazione di sant’Ireneo dall’AH, III, 18,7. Cfr. AH, III, 19,2; 21,5.7; V, 1–14; C, 158. A proposito dell’adozione filiale, proprio nel Catholicisme, spesso troviamo i relativi riferimenti a sant’Ireneo: «Dio, dice per esempio S. Ireneo, pianta all'inizio dei tempi la vigna del genere umano; egli predilige questo genere umano, si propone di riversare su di lui il Suo Spirito e di conferirgli l’adozione filiale [AH, passim]». C, 3. Cfr. Ibid., 54 [AH, III, 17,2]; 117 [AH, III, 22,3]; 158 [AH, III, 3,18; IV, 20,6.7; 22,2]; 282 [AH, V, 17,4]. «Ciò che considerano [i Padri della Chiesa] prima di tutto, non è la proclamazione d’una dottrina astratta, ma l’incontro effettivo dell’uomo e di Dio, l’assuefarsi della natura umana alla divinità [cfr. AH, IV, 14,2], la trasformazione dell’uomo sotto l’azione della grazia di Dio». Ibid., 191-192. 405 Cfr. PC, 69-98. 406 All’inizio del terzo capitolo de Lubac scrive: «Finora, malgrado qualche furtiva osservazione, le nostre considerazioni hanno conservato un carattere astratto [...] Comunque, per la chiarezza dell’analisi, era giusto procedere a tappe e crediamo che in teologia l’abbandono di qualsiasi “astrazione scolastica” per un esposto immediatamente sintetico e concreto non avrebbe solo vantaggi. Così abbiamo cominciato dicendo che la nostra vocazione soprannaturale era, da parte di Dio, una chiamata gratuita [cfr. CCC, 1718-1729], poi abbiamo detto che il soprannaturale si realizzava nell’uomo mediante il fatto dell’incarnazione divina e le conseguenze della sua rivelazione [cfr. CCC, 17011717], ma questa Incarnazione non poteva essere pienamente riconosciuta in quanto redentrice perché non si era considerato il secondo senso, coniugato spesso con il primo, che la parola “grazia” offre nelle Scritture». PC, 69-70. Vediamo che il Catechismo della Chiesa cattolica segue l’ordine di esposizione inverso rispetto a quello di de Lubac. Cfr. CCC, 1699-1729. 407 Cfr. PC, 80-85. 408 Cfr. PC, 80. SOPRANNATURALE 101 esse designano fossero fondamentalmente contestate o insidiosamente edulcorate. Si potrebbe a mala pena parlare ancora di un «cristianesimo castrato», incapace di resistere agli assalti delle forze avverse409. Il realismo della salvezza cristiana intesa come liberazione410 dalla schiavitù del peccato non si ferma ai concetti delle diverse liberazioni particolari dell’uomo, come la liberazione sociale o psicologica, realizzata per mezzo di strumenti umani411. «La “salvezza in Gesù Cristo” al contrario è essenzialmente opera divina che si compie nel fondo dei cuori412 e si inscrive nell’eternità; è la “realizzazione del Regno di Dio in un essere libero”»413. La Petite catéchèse di de Lubac si presenta come una chiarificazione, «conclusione» e riassunto della sua dottrina sul soprannaturale. Ricca di citazioni bibliche, soprattutto quelle neotestamentarie414, e con un linguaggio più «classico» sulla grazia, grazie alla sua collocazione «postconciliare», distante dalle previe opere lubachiane sul soprannaturale, ci presenta dunque una sintesi della dottrina sul rapporto fra natura e grazia nel percorso storico della teologia cattolica, e ci mostra alcuni aspetti necessari per la salvaguardia di una sana dottrina attuale sulla grazia: Come l’idea del soprannaturale resterebbe astratta se non si concretizzasse nella realtà dell’Alleanza che si consuma nell’Uomo-Dio, l’idea di salvezza lo sarebbe altrettanto, senza la realtà del Sacrificio nuovo: Incarnazione e Redenzione sono per noi inseparabili. [...] Questa salvezza, partecipazione alla Vita divina, è stata offerta all’uomo nel Cristo e la Chiesa di Cristo ha ricevuto il compito di trasmetterla a tutte le generazioni415. —————————– 409 PC, 87-88. Cfr. AH, III, 23,1-2; V, 1,1; 21,1.3-22. Come vedremo nella dottrina di Ireneo, i termini «redenzione, liberazione e salvezza si equivalgono». Cfr. Orbe, II, 335; Redenzione, III, 6 (EV, 14, 1902). 411 «L’entrata nel Regno è una nuova nascita. È sorgente di una vita che è qualcosa di superiore ad una vita naturale e ben organizzata, di una vita che è su un altro piano, soprannaturale». De Lubac, citando Y. de Montcheuil. Cfr. PC, 63. 412 Sul concetto della salvezza «iscritta nei cuori» mediante lo Spirito, cfr. AH, III, 4,2. 413 PC, 90. «L’esprit est donc désir de Dieu. Tout le problème de la vie spirituelle sera de libérer ce désir, puis de le transformer: conversion radicale, μετανοια sans laquelle il n’est point d’entrée dans le Royaume». S, 483. «Per essere “trasfigurata”, la natura peccatrice deve prima essere “rovesciata”. È questo il richiamo che si ode da un capo all’altro della Scrittura. Questo apre il Vangelo e sempre questo risuona nel primo discorso di Pietro a Gerusalemme: “Metanoiete” (Mc 1,15; At 2,38). È molto di più che un semplice richiamo al “pentimento” o alla “penitenza” a proposito dei pensieri o delle azioni particolari. È il rovesciamento legato all’ascolto della Buona Novella che “tocca tutte le dimensioni e fino in fondo l’esistenza”». De Lubac, facendo riferimento a P. Teilhard de Chardin e K. Lehmann. Cfr. PC, 71. 414 Vedi per esempio: PC, 13-14 (1Pt 1,13; 2Cor 1,12), 29 (2Pt 1,4), 50 (Fil 3,21; 2Cor 3,18; Rm 12,2), 59 (Gv 6,27; Rm 5,21), 71 (Mc 1,15; At 2,38). 415 PC, 96-97. In questo paragrafo si può chiaramente riconoscere l’eco della dottrina di Ireneo. Cfr. cap. II, par. 2.2.1 di questo lavoro. 410 102 IL MISTERO DELLA SALVEZZA CRISTIANA 4.3 Conclusione Dalla dottrina sul soprannaturale di de Lubac, presentata in questo capitolo che ne mette in evidenza i punti, a nostro parere, più importanti, e dalle sue relative testimonianze personali, appena presentate in questa breve sintesi conclusiva, possiamo concludere che l’intenzione di de Lubac è di ristabilire la vera visione cristiana dell’uomo e della sua salvezza. Vedendo i pericoli dell’allontanamento dalla dottrina della Bibbia, dei Padri e di san Tommaso, lottando contro l’invenzione e l’uso delle «teorie moderne» – «troppo compiacenti sul progresso del dogma»416, basate sui concetti astratti dell’uomo, de Lubac avvertiva le pericolose conseguenze di questi «adattamenti moderni»417. Egli quindi si richiama alla Tradizione della Chiesa che ama e difende anche nei momenti più difficili della sua vita, scegliendo sempre, come l’abbiamo già detto, lo stile «agostiniano» di una serena disputatio e in pace catholica pacifico studio418. In questo senso, l’amico e «discepolo» di de Lubac, H.U. von Balthasar, ritiene che la sua dottrina sul «soprannaturale» sia come un colpo del «giovane David contro il Golia della razionalizzazione e logicizzazione moderna del mistero cristiano»419. Lo stesso Balthasar, infatti, ci offre una bella testimonianza420 sul nostro autore e sulla sua teologia: Mi lasci solamente dire quel che io ho appreso da Lei dagli anni di studio a Lione fino ad oggi: qualcosa sullo Spirito Santo. Lo spirito, così Lei ci ha insegnato, può unire molto di più di quanto noi abitualmente riteniamo. [...] Lei stesso ci ha sempre mostrato donde è possibile questa unità paradossale: dal Vangelo in cui lettera e spirito sono così poco scindibili come in Cristo l’umanità e la divinità, come nella Chiesa l’Antico e il Nuovo Testamento, pre- —————————– 416 Cfr. MEM, 75. Questo riguarda sopratutto il concetto di «natura pura» del quale de Lubac afferma che: «non il concetto antico di natura pura, ma il sistema che si è sviluppato attorno ad esso nella teologia moderna e che ne ha profondamente cambiato il significato, ci sembra possa esser lasciato da parte senza danno. [...] questo sistema, che la grande Scolastica ignora, non ci sembra esser né il solo mezzo né il migliore per assicurare alla natura umana consistenza e dignità; e neppure trascendenza e gratuità al soprannaturale». Cfr. MS65, 85. Questo sistema è dunque, secondo de Lubac, fortemente minato dal pericolo di una «doppia finalità ultima», da un dualismo dannoso che si sviluppa nell’estrinsecismo della teologia e filosofia cattolica moderna che per de Lubac rappresenta uno dei fattori che fonda e caratterizza il movimento del «laicismo e indifferentismo». Cfr. S, 153.424-425; G. COLOMBO, «Il problema del soprannaturale negli ultimi cinquant’anni», 572; C. RUINI, «La questione del soprannaturale. Natura e grazia», 18. 418 Cfr. MS49, 104; MS65, 106-107. 419 Cfr. H.U. von BALTHASAR, Il padre Henri de Lubac. La tradizione fonte di rinnovamento, 67. Proprio questo si potrebbe dire della dottrina di Ireneo che nel suo tempo, come vedremo nel capitolo seguente, con una dottrina semplice, ma nello stesso tempo chiara e completa, lottava contro i complessi sistemi gnostici. Cfr. Brox, I, 19; P. CODA, Teo-logia, 156. 420 Si tratta di una lettera di Balthasar a de Lubac all’occasione del suo novantesimo compleanno. Cfr. H.U. von BALTHASAR, Il padre Henri de Lubac. La tradizione fonte di rinnovamento, 1-3. 417 SOPRANNATURALE 103 senza del passato che viene a noi sempre come futuro. Ogni teologia veramente grande, e la Sua è tale, si prende continuamente gioco della scienza umana per il fatto che si rivela attraverso ogni tempo come la continuazione ininterrotta di questo mistero di Cristo che viene nella Chiesa, per Ireneo il recipiente, sempre ringiovanito dallo Spirito, di nostro Signore che mai invecchia. Per cui Agostino può facilmente esortarci: «la tua età avanzata sia come quella di un giovane»421. Grazie a tutto questo e alla sua tardiva nomina cardinalizia, da parte di coloro che hanno riconosciuto nelle sue opere questo amore per la Tradizione della Chiesa, il quale fu confermato anche con una «sofferta fedeltà», il padre de Lubac ha guadagnato il titolo amichevole di «vir ecclesiasticus», perché spesso paragonato con alcuni Padri della Chiesa422. Negli elementi cristologici della sua teologia423, soprattutto nella «novità assoluta di Cristo», abbiamo già visto la consonanza con la dottrina di Ireneo a cui si può riconoscere un continuo riferimento anche negli scritti sul soprannaturale di de Lubac424. Nel capitolo seguente vorremmo presentare la dottrina ireneiana sulla salvezza alla quale, a nostro parere, nonostante le differenze di linguaggio, corrisponde la dottrina sul soprannaturale di de Lubac. Oltre ai tanti «paralleli» che abbiamo già segnalato in questo capitolo tra le dottrine di Ireneo e di de Lubac, e che approfondiremo dettagliatamente nella sintesi del nostro lavoro425, possiamo anche individuare una certa «consonanza dottrinale» fra Ireneo e de Lubac. Pensiamo soprattutto al realismo e ottimismo ireneiano e alla sua visione dell’uomo partecipe dell’unica «natura» umana nella quale si compiono i «misteri di Dio»426 – l’uomo creato e plasmato a Immagine e Somiglianza di Dio, trinitariamente e cristologicamente determinato e inserito nel percorso della storia, orientato verso il suo unico fine ultimo che è la vita in comunione con Dio, cioè la visione di Dio427. Legato a questa visione realistica dell’unica «natura» dell’uomo, ci sembra piuttosto importante il senso ireneiano del mistero e dell’unità cristologica grazie al quale egli riesce ad affermare le verità che ci possono «sembrare opposte»428. Egli, infatti, riesce ad affermare l’assoluta necessità della grazia, senza alcuna pretesa da parte dell’uomo, insieme all’affer—————————– 421 H.U. von BALTHASAR, Il padre Henri de Lubac. La tradizione fonte di rinnovamento, 1-2. 422 Cfr. E. GUERIERO, «Introduzione» in MEM, XXI; Hercsik, 15.52-53. 423 Cfr. cap. I, sez. 3. di questo lavoro. 424 Cfr. per esempio: MS49, 99.107.134; ATM, 104; MS65, 69.111.140.183-186.194195.244; PC, 13.34. Già nell’introduzione del nostro lavoro, abbiamo detto che de Lubac, già agli inizi dei suoi studi leggeva con passione proprio gli scritti di sant’Ireneo. Cfr. MEM, 184. Cfr. Hercsik, 20; Introduzione, par. 1.1 di questo lavoro. 425 Cfr. Sintesi di questo lavoro. 426 Cfr. AH, V, 36,3. 427 Cfr. AH, IV, 20,5.7; 38,3. 428 Cfr. MS49, 128. 104 IL MISTERO DELLA SALVEZZA CRISTIANA mazione dell’assoluta gratuità della salvezza429. Si tratta dunque degli elementi dottrinali che abbiamo incontrato nella dottrina di de Lubac appena presentata sul «soprannaturale», facilmente riconoscibili, come vedremo nel capitolo seguente, anche nella dottrina di Ireneo. —————————– 429 Cfr. cap. II, parr. 3.1-3.2 di questo lavoro. CAPITOLO II IL CONCETTO DI SALVEZZA CRISTIANA IN IRENEO DI LIONE Ireneo nasce tra il 130 e il 1401 d.C. in Asia Minore. Da giovane conosce l’anziano vescovo Policarpo a Smirne2 e familiarizza con il suo insegnamento. Questo contatto è molto importante per lui e contribuisce, come ci rivelano i suoi propri appunti, a formare il suo pensiero, il suo comportamento e la sua dottrina3. Per di più anch’egli divenne vescovo di Lione come successore di Potino, durante il pontificato di Vittore (189-198). Delle opere di Ireneo, conosciamo l’Adversus haereses4 e la Epideixis5. Ci —————————– 1 I dati biografici di Ireneo provengono maggiormente dalle sue stesse opere, da cui sono stati raccolti da Esusebio (HE, soprattutto nel libro V). Cfr. A. ORBE, «Ireneo di Lione», 2609-2610. 2 Cfr. AH, III, 3,4; Lettera di Ireneo a Florino in HE, V, 20,6-7; Bellini-Maschio, 532. 3 Cfr. AH, III, 3,4; V, 33,4. 4 L’intera opera dell’Adversus haereses (Contro le eresie), composta da cinque libri, esiste solo in una traduzione latina. Ci sono anche traduzioni in armeno (libri IV e V), numerosi frammenti in siriaco e diversi frammenti in greco, reperibili attraverso le citazioni che sono riportate dagli autori posteriori. In questo lavoro ci serviamo dell’edizione critica secondo la versione armena e latina della Sources chrétiennes (SC 100,1-2; 152-153; 210211; 263-264; 293-294), ma non indicheremo sempre riferimento alla collana. Per le citazioni in italiano, sia dell’Adversus haereses, sia dell’Epideixis, facciamo riferimento all’edizione ristampata (Milano 2003) della seconda edizione (Milano 1997) di E. Bellini – G. Maschio, fatta anch’essa secondo l’edizione critica del Sources Chrétiennes. Cfr. «Nota alla seconda edizione» di G. Maschio in Bellini-Maschio, 42-43. Facciamo attenzione anche all’edizione bilingue tedesca di N. Brox, contenente i testi in greco e latino, fornita in cinque volumi presso Fontes Christiani (FC 8/1-5), tra i quali il primo volume (FC 8/1) comprende il testo della Epideixis e del primo libro dell’Adversus haereses, mentre gli altri quattro volumi corrispondono ai quattro ultimi libri dell’AH. 5 «Epideixis» (dimostrazione, esposizione) è il nome abbreviato dell’opera di Ireneo, menzionata da Eusebio (HE, V, 26) con il titolo completo in greco: «Επιδειξις (Εις επιδειξιν) του αποστολικον κηρυγματος» (Dimostrazione della predicazione apostolica). L’opera presenta un breve compendio della fede cristiana con carattere catechetico ed è stata ritrovata solo nel 1904 in una traduzione armena a Ervan in Armenia. Cfr. A. ORBE, «Ireneo di Lione», 2610; Brox, I, 23. Anche per quest’opera di Ireneo, in questo lavoro ci serviamo della seconda edizione della Sources chrétiennes (SC 406), e per la traduzione italiana ci serviamo della traduzione dall’armeno di U. Faldati (Roma 1923), ristampata 106 IL MISTERO DELLA SALVEZZA CRISTIANA sono anche due frammenti di due lettere di Ireneo: a Florino e al papa Vittore, che troviamo in Eusebio6. Le sue opere presentano una teologia non tanto spontanea e sistematica ma piuttosto nata in opposizione alle dottrine gnostiche per contestarle. Questo ce lo rivela la stessa opera Adversus haereses il cui titolo in greco significa «lo smascheramento e la confutazione della falsa gnosi»7. Come gli altri Padri della Chiesa, Ireneo mostra di conoscere e voler confutare la gnosi soltanto nella sua variante «cristiana»8, mettendone in rilievo le evidenti divergenze, soprattutto per ciò che concerne la concezione dell’uomo e della sua salvezza, servendosi dei theologúmena ricevuti dalla tradizione, dei metodi esegetici tipici delle comunità cristiane, delle fonti e degli scritti precedenti, spiegando così il concetto cristiano della salvezza e la progressiva liberazione dell’uomo mediante la «ricapitolazione» [άνακεφαλαίωσις/recapitulatio] in Cristo9. —————————– (Milano 2003) in Bellini-Maschio, 485-528. La traduzione di Faldati è segnalata da Orbe come «molto buona». Cfr. Antropología, XIII. 6 Cfr. HE, V, 20 (Lettera a Florino) e HE, V, 23-24 (Lettera a papa Vittore sulla pasqua). Per la traduzione italiana si può consultare sempre Bellini-Maschio, 530-535, dove si trova anche la Lettera dei martiri di Lione e alcuni Frammenti dei quali non si ha la certezza sull’autore, anche se sono scritti «in piena sintonia» con il pensiero ireneiano. Cfr. Ibid. 42.536-559. Eusebio parla anche della De scientia come opera di Ireneo, però a noi non è pervenuta. Cfr. HE, V, 26; F. VERNET, «Irénée (Saint)», 2530. 7 Il termine «gnosi» proviene dal vocabolario greco classico e indica la «conoscenza» o l’«atto di conoscere qualche cosa». Si riferisce primariamente a una «particolare forma di conoscenza dei misteri divini da parte degli iniziati, rintracciabile in molte correnti filosofiche del mondo antico». Invece, nell’ambito dello «gnosticismo» – il «noto movimento religioso sorto nel I secolo e notevolmente fiorito nel II», la gnosi é: «una forma di conoscenza religiosa che ha per oggetto l’uomo, trasmessa/rivelata esotericamente, che tende alla salvezza di chi la riceve, e alla soluzione dei più angosciosi interrogativi dell’uomo come quello sul senso della vita e del suo fine, della purificazione/generazione/rigenerazione». Cfr. G. BOVE, «Gnosi», 481. Lo «gnosticismo» dunque «più che un sistema va considerato un movimento di pensiero organico, unitario, nel quale si riscontrano diversi elementi orientali, greci, ebraici e cristiani», un movimento non «ben compaginato, ma come un insieme di scuole o sette distinte per culto, organizzazione e dottrina». Cfr. L. PADOVESE, «Gnosticismo», 482. Usando i termini «gnosi» e «gnosticismo» dandogli lo stesso significato, Brox afferma che la gnosi nel tempo di Ireneo si è già sviluppata in una religione autonoma: «Im 2. Jahrhundert, zu Lebzeiten des Irenäus, erreichte die Auseinandersetzung des Frühchristentums mit der zeitgleich entstandenen Religion Gnosis (man sagt auch Gnostizismus) ihren Höhepunkt», aggiungendo nella nota: «Die Gnosis war nicht, wie es die frühchristlichen Theologen sahen und tradierten, eine Häresie des Christentums, sondern eine eigenständige Religion». Cfr. Brox, I, 7, e n. 1. Per saperne di più sui sistemi gnostici e sull’importanza dell’Adversus hareses di Ireneo e per la conoscenza contemporanea della dottrina gnostica vedi: A. ORBE, Cristología gnóstica. Introducción a la soteriología de los siglos II y III, III, Biblioteca de autores cristianos 384-385, Madrid 1976; Orbe, I-II, sopratutto vol. I, pp. 11-19; N. BROX., Offenbarung, Gnosis und gnostischer Mythos bei Irenäus von Lyon. Zur Charakteristik der Systeme, Salzburg – München 1966; Brox, I-II, soprattutto vol. I, pp. 715. 8 Cfr. Brox, I, 8. 9 Cfr. E. VILANOVA, Storia della teologia cristiana, I, 141. DOTTRINA IRENEIANA 107 Un’importanza particolare nella teologia di Ireneo è data alla tradizione della Chiesa. Nell’unità della Chiesa, costituita sul principio dell’apostolato e della successione [διαδοχή] apostolica, Ireneo vede una garanzia della verità della fede. La Chiesa del II secolo aveva un forte bisogno di una «norma» (canone, regola) per difendere le verità della fede contro gli attacchi degli gnostici. Questa «norma» doveva provenire dalla «tradizione apostolica», e in fin dei conti dallo stesso Signore Gesù Cristo. In questa prospettiva capiamo l’importanza della «tradizione» nella dottrina di Ireneo, nel cui linguaggio, diverso dal linguaggio teologico odierno, i seguenti concetti appaiono come sinonimi: «tradizione = regola della fede = predicazione della Chiesa = predicazione apostolica = verità»10. La verità, secondo Ireneo, può essere raggiunta con certezza e concretezza nella Chiesa fondata dagli Apostoli, grazie a certi «luoghi» ai quali ci si deve attenere in caso di dubbio o incertezza11. Si possono elencare quattro di questi «luoghi» principali: la Bibbia, la successione apostolica, il primato cronologico delle «origini» della Chiesa e la «regola della verità»12. La Bibbia è la «regola stessa», regola «perfetta» della verità13, ma la lettura e la comprensione della Sacra Scrittura sono strettamente legate alla Chiesa14. Davanti alle «tradizioni segrete» degli gnostici, Ireneo riconosce l’unica vera tradizione della Chiesa che è una tradizione pubblica e pneumatica, fondata sul principio dell’ininterrotta successione apostolica attraverso i vescovi delle Chiese apostoliche15. A questa tradizione appartiene il primato cronologico rispetto alla successiva comparsa dei movimenti gnostici16. La «regola della verità» serve come orientamento e principio di interpretazione17. La verità è dunque raggiungibile nella Chiesa sia come contenuto («somma») che come forma («limite» e «criterio») della verità18. —————————– 10 Cfr. D. HERCSIK, «Rivelazione e Tradizione», 250. Ireneo è il primo teologo della Chiesa che abbia messo in pratica questi orientamenti della verità di fede in modo fondamentale e comprensivo. Cfr. D. HERCSIK, «Rivelazione e Tradizione», 253. 12 Cfr. D. HERCSIK, «Rivelazione e Tradizione», 253-255. 13 Cfr. AH, II, 28,1-2. 14 «poi ogni sua parola [di colui che crede in un unico Dio] avrà consistenza, se legge attentamente le Scritture presso i presbiteri che sono nella Chiesa, presso i quali è l’insegnamento degli apostoli». AH, IV, 32,1. «Die Sicherheit liegt dann also nicht im Text, sondern in der kirchlichen Überlieferung. [...] Und das ist die wirklich entscheidende Instanz in der Theologie des Irenäus, mit der er nie in Beweisnot geriet». Brox, I, 106. Cfr. Teología, IV, 448. 15 Cfr. AH, III, 4,1. Volendo affermare l’importanza della successione apostolica, Ireneo enumera tutti i vescovi della Chiesa di Roma, a partire dagli apostoli Pietro e Paolo fino ai suoi giorni. Cfr. AH, III, 3,3. 16 Cfr. AH, III, 4,3. «Das zeitlich sekundäre ist bei Irenäus das theologisch Inferiore». Brox, I, 107. 17 Cfr. AH, I, 9,4; 10,2; 22,1; II, 27,1; III, 2,1; 11,1; 12,6; 15,1; IV, 35,4. 18 Cfr. D. HERCSIK, «Rivelazione e Tradizione», 255. 11 108 IL MISTERO DELLA SALVEZZA CRISTIANA Partendo da questa posizione, tenendo conto di questi «luoghi della verità» che convergono tutti verso l’unica verità garantita dall’unica e vera tradizione della Chiesa, Ireneo formula la sua dottrina attorno ai temi cruciali della verità su Dio, sull’uomo, sul mondo e sulla storia, e a questi lega delle trattazioni sul peccato, sulla salvezza e alla rivelazione19. Ireneo parte da alcuni «dati di fatto»: «la fede si fonda sulla verità» e noi «crediamo ciò che realmente è» e credendo ciò, «manterremo la nostra ferma adesione»20. Tra questi si possono individuare tre principali «dati di fatto» sui quali Ireneo fonda la giusta percezione della realtà. La prima verità, che serve a Ireneo come un principio ermeneutico, è il fatto che vi è un solo Dio, lo stesso Dio della creazione e della salvezza, cioè, lo stesso Dio dell’Antico e del Nuovo Testamento. La seconda verità consiste nell’affermare che il Cristo, «pur appartenendo all’ambito del pleroma, opera in questo mondo»21. Egli è il nuovo Adamo che fece «la ricapitolazione di una così grande economia»22. Nonostante l’assoluta novità di Cristo – «Omnem novitatem attulit semetipsum afferens»23 – non si perde la continuità tra creazione e redenzione, tra queste due parti integranti di un unico piano e di un’unica volontà divina. Questa visione d’insieme presenta il terzo principio che, in unità con gli altri due, permette di concepire in modo giusto l’azione pedagogica e l’economia salvifica di Dio. Grazie a questi semplici criteri di verità, Ireneo opera una distinzione tra la predicazione della Chiesa e quella della gnosi24. Conoscendo i complicati sistemi gnostici, Ireneo si oppone alle loro false dottrine confutandole con la forte e semplice risposta della fede elaborata attraverso una completa riflessione teologica25. A differenza degli gnostici, egli parla di Dio con —————————– 19 Cfr. Brox, I, 13. Cfr. E, 3. «I dati di fatto a cui si riferisce Ireneo sono il mondo e la storia, tutti e due presi in considerazione dal principio fino al momento presente, poiché in queste due realtà Dio ha operato, detto e presentato in modo chiarissimo tutto quanto l’uomo deve sapere per la propria salvezza». D. HERCSIK, «Rivelazione e Tradizione», 251. 21 Cfr. D. HERCSIK, «Rivelazione e Tradizione», 252. 22 Cfr. AH, III, 23,1. «Le mot “économie” οικονομία, est familier à Irénée et, en général, aux Pères grecs; il désigne la grâce de l’incarnation et l’ensemble du plan divin pour le salut des hommes par le Verbe incarné. La traduction latine le rend par dispositio». F. VERNET, «Irénée (Saint)», 2467. 23 Cfr. AH, IV, 34,1. 24 «Ihm ist es wichtig, keinerlei Wissen anzuerkennen, das über die kirchliche Glaubensregel hinausgeht. Er unterscheidet aber deutlich den gemeinsamen Glauben, den alle in der Kirche kennen und festhalten, von einer ganzen Liste schwieriger Fragen und Themen, die nur von wenigen beherrscht werden». Brox, I, 19. 25 «Irenäus ist selbst gerade kein hochgebildeter Mensch und Theologe gewesen, der mit philosophischen Leitideen und hochreflektierten Argumenten umzugehen gelernt hätte, was er auch nicht für sich beanspruchte. Seine Sache war es, vom Boden des schlichten Gemeindeglaubens aus (AH, III, 1, pref.; 15,2) für die Einheit der Lehre und für die Grenze zwischen legitimen theologischen Ambitionen und exzessiven Prätentionen, wie er sie bei den Gnostikern beobachtete, zu sorgen (z.B. AH, I, 10,2-3). […] Er ergreift Partei für die einfachen Christen, aus deren Milieu er selber kommt, gegen ihre Disqualifikation durch 20 DOTTRINA IRENEIANA 109 umiltà e con la consapevolezza di non sapere tutto. La sua fede in un unico Dio si sviluppa in una chiara visione triadica che mediante una cristologia del Logos esprime le relazioni intime tra Padre, Figlio e Spirito26. L’uomo, ordinato alla salvezza, dipende completamente da Dio dal quale è stato creato, e si trova in un processo di educazione e sviluppo, progredendo sempre verso la pienezza27. Quest’ottimismo di Ireneo si sviluppa in una visione dinamica dell’uomo, del mondo e della storia nella quale l’incarnazione di Cristo rappresenta il culmine reale e salvifico di tutta l’umanità. La teologia di Ireneo ci testimonia lo sviluppo e la ricchezza della teologia nell’Asia minore verso la fine del II secolo28. Dalla sua teologia, che è una dottrina «semplice», non unilateralmente dogmatica, piena di spiritualità cristiana realistica, vogliamo attingere alcuni punti cruciali per meglio definire il nostro discorso sulla salvezza. In questo intento siamo sostenuti anche dal documento della Commissione Teologica Internazionale del 1994 – «Alcune questioni sulla teologia della redenzione» –, in cui si fa riferimento alla dottrina di Ireneo sulla «ricapitolazione»29 presentando l’idea della salvezza dell’uomo che anche noi cercheremo di presentare nei paragrafi successivi del nostro lavoro, facendo attenzione alle ricerche degli esperti in questo campo30. Per rispettare i limiti e la natura del nostro lavoro, non ci occuperemo dei sistemi gnostici, precisamente presentati dai primi due libri dell’Adversus haereses, ma ci interesseremo piuttosto degli ultimi tre libri della stessa opera (AH, III–V) nei quali Ireneo cerca di presentare la dottrina ortodossa —————————– die Gnostiker, die den schlichten Glauben, di einfache Predigt Unwissenheit nennen (z.B. AH, II, 26,1; V, 20,2)». Brox, I, 19. 26 Cfr. Brox, I, 109. 27 Cfr. AH, IV, 38,3. «Mediante la pedagogía del hombre, a partir de su infancia hacia la madurez divina, en continua sujeción a Dios hasta apropiarse con la incorruptela la Gloria y perfección del Increado». Teología, IV, 516. 28 A. Orbe, il grande studioso della teologia cristiana dei secoli II e III, riconosce che la letteratura del II secolo, che può essere considerata la base di partenza per la grande dogmatica, «è eterogenea, con carattere ed estensione disuguali». Nonostante ciò, la risposta degli ecclesiastici alle dottrine eretiche degli eterodossi era unitaria. In questo senso Orbe considera l’Adversus haereses un’opera «più rigorosa e ricca di antichità». Egli riconosce che nel suo studio «il maggior peso grava sempre su Ireneo» affermando che: «è l’autore verso il quale nutro maggiore simpatia, superiore per profondità e istinto dogmatico a tutti gli altri». Cfr. Orbe, I, 15-19. 29 CTI, «Alcune questioni sulla teologia della redenzione», III, 5-6 (EV, 14, 1901-1902). 30 Pensiamo soprattutto a Orbe e ad alcuni altri autori che nelle loro approfondite ricerche ci testimoniano la fatica dei lettori causata dallo stile scritturistico di Ireneo che, se pur caratterizzato da una certa verbosità e dal molte ripetizioni, alla fine, non risulta noioso: «Irenäus wirbt beim Leser um Aufmerksamkeit und Geduld». Brox, III, 10. «Trotz seiner Wiederholungen schreibt Irenäus interessant». Brox, IV, 10. Orbe direbbe: «Como teólogo resulta desconcertante», e anche: «Tanto como lo que Ireneo dice, interesa muchas veces lo que no dice, y por qué lo calla». Cfr. Antropología, 3.7. Sui diversi metodi di studio della teologia ireneiana e sul metodo proprio di Ireneo, vedi l’Introduzione di Orbe in Antropología, 3-7; E. VILANOVA, Storia della teologia cristiana, I, 141. 110 IL MISTERO DELLA SALVEZZA CRISTIANA del cristianesimo elaborando i punti fondamentali della fede. Secondo Orbe, «ci sono punti di grande importanza in cui Ireneo coincide con i suoi avversari»31. Uno di questi punti, preliminare e costitutivo, è l’uomo chiamato alla salvezza. «Tutto gira intorno alla Salus hominis»32. Partendo da questo punto, che è proprio il punto centrale del nostro lavoro, Ireneo si distingue dai suoi avversari nelle domande cruciali: chi è Dio, chi è l’uomo e come quest’uomo viene salvato. Partendo da queste tre domande fondamentali, si apre una serie di altre domande teologiche e antropologiche attraverso le quali cerchiamo di presentare la dottrina di Ireneo sulla salvezza dell’uomo. Anche qua, sempre rispettando i limiti del nostro lavoro, cerchiamo di fare emergere il nucleo della dottrina ireneiana sulla salvezza, senza però perderci nei temi parziali, della morte, del giudizio finale, del paradiso e negli altri temi a esso legati, tutti presenti nelle opere di Ireneo33. Ci limiteremo dunque a rispondere alle due domande fondamentali: «Chi è l’uomo?» e «Come quest’uomo viene salvato?». A questo scopo divideremo questo capitolo in tre sezioni: la prima dedicata all’aspetto antropologico34, la seconda all’aspetto cristologico-soteriologico della dottrina ireneiana35, mentre la terza sezione offrirà una sintesi conclusiva del capitolo36. Nella sezione antropologica cercheremo di mettere in evidenza la concezione unitaria che Ireneo sviluppa attorno al concetto di uomo inteso come essere creato e plasmato ad «Immagine e Somiglianza di Dio», trinitariamente e cristologicamente determinato e ordinato al processo della salvezza verso la comunione piena con Dio, «composto» di carne e anima e come tale aperto all’unione con Dio mediante l’inabitazione dello Spirito Santo che lo rende «uomo spirituale e perfetto», minacciato dalla realtà del peccato, senza che, però, riesca a distruggere il disegno salvifico della Bontà divina. Dato che l’impostazione antropologica di Ireneo riecheggia nella sua soteriologia/cristologia, prima di presentare l’aspetto soteriologico della dottrina ireneiana, ci soffermeremo sugli aspetti antropo-cristologici della dottrina di Paolo dalla quale fu fortemente determinato il pensiero e la logica di Ireneo, che nel mistero salvifico della Carne di Cristo trova l’unità e l’armonia della sua dottrina37. Partendo dunque dai concetti antropocristologici di Paolo, presenteremo i vari aspetti della soteriologia di Ireneo costruita attorno ai misteri dell’incarnazione e della risurrezione di Cristo e al concetto della «ricapitolazione». Passando a trattare del tema della —————————– 31 Cfr. A. ORBE, «Ireneo di Lione», 2610. Cfr. A. ORBE, «Ireneo di Lione», 2610. 33 Suggeriamo a proposito: F. VERNET, «Irénée (Saint)», 2410-2507. 34 Cfr. cap. II, sez. 1. di questo lavoro. 35 Cfr. cap. II, sez. 2. di questo lavoro. 36 Cfr. cap. II, sez. 3. di questo lavoro. 37 Cfr. cap. II, par. 2.1 di questo lavoro. 32 DOTTRINA IRENEIANA 111 «divinizzazione», in quanto aspetto essenziale della dottrina ireneiana, cercheremo di presentare il contributo del teologo lionese allo sviluppo teologico della dottrina sulla grazia. In forma di breve sintesi, in relazione ai concetti di unità e di gratuità, cercheremo di riassumere la dottrina di Ireneo, esplicitando il forte senso del mistero proveniente dalla potenza ricapitolante di Cristo, che si avverte quando ci si accosta ad essa. È questo ciò che ci fa riconoscere nella dottrina ireneiana la stessa originalità e vitalità che abbiamo scoperto nella dottrina di de Lubac. La dottrina di Ireneo, nella quale andremo in cerca delle risposte alle domande che ci poniamo sull’uomo e sulla sua salvezza, ci aiuterà a comprendere meglio anche la relativa dottrina di de Lubac – cronologicamente posteriore a quella ireneiana e, grazie allo sviluppo teologico apportato dai secoli, diversa e più ricca nell’espressione. Avvicinandoci alla dottrina di Ireneo capiremo meglio la stessa dottrina di de Lubac nel suo contenuto e intento e si farà più chiara l’attualità, l’importanza e la forza della stessa dottrina di Ireneo. 1. L’antropologia di Ireneo Siccome la gnosi, oltre ad attaccare la giusta visione di Dio, del mondo e della rivelazione, minacciava specialmente la giusta visione cristiana dell’uomo e della sua salvezza38, Ireneo dovette ingaggiare una lotta con l’eresia gnostica proprio a questo livello, per stabilire e difendere una retta concezione antropologica e soteriologica39. Conformemente alle esigenze del nostro tema, cominciamo anche noi l’esposizione della dottrina ireneiana, focalizzando proprio l’aspetto antropologico della sua dottrina. Lo studio di Orbe nel campo dell’antropologia di Ireneo ci offre sei nozioni sull’uomo: statica, fisico-storica, dinamica, cristologica, divina ed ecclesiale40. La nostra domanda sull’uomo, a cui cerchiamo di rispondere —————————– 38 «Die besondere Gnosis, um die es inhaltlich geht, besteht darin, dass der Mensch (sc. der Gnostiker) sein eigenes Geist-Selbst erkennt und die Gottheit, deren Teil er mit diesem Selbst ist. Diese Erkenntnis ist bereits die Erlösung». Brox, I, 8. 39 Per questo si può dire: «Più che una teologia, Ireneo ci offre un’interessantissima antropologia teologica e una soteriologia incentrata sulla storia». Cfr. E. VILANOVA, Storia della teologia cristiana, I, 141. Ireneo, però, tratta le domande antropologiche in modo esplicito solo nell’ultimo libro dell’Adversus haereses nell’ambito dell’escatologia cristiana. Cfr. AH V, 1,1. Ma, anche qui, grazie all’ispirazione paolina, il suo punto di partenza è Cristo, e la sua antropologia è strettamente legata alla teologia trinitaria. «Lo Spirito di Dio, che governa l’uomo interiore paolino, si percepisce in una prospettiva cristologica fin dai giorni di Adamo. L’economia della salvezza, filo conduttore della storia, coinvolge i Tre fin dalla prima plasmazione di Adamo “a immagine e somiglianza di Dio”». Cfr. Orbe, I, 13. Finalmente, Orbe lo sintetiza cosí: «Su doctrina [di Ireneo] gira entre dos polos: la unidad de Dios, creador del mundo y Padre del Verbo, y la Salud del hombre carnal mediante la incorruptela». Cfr. Antropología, 7. 40 Cfr. Antropología, 28-31. 112 IL MISTERO DELLA SALVEZZA CRISTIANA attingendo alla dottrina di Ireneo, si pone soprattutto alla luce della domanda di salvezza. A noi interessa il «realismo» di Ireneo, celato quasi sotto una forma di «materialismo» che si esprime nella concezione ireneiana dell’«uomo-carne» e risuona in una soteriologia designata come «salus carnis». Attraverso la dottrina di Ireneo, cerchiamo, anzitutto, di rispondere alla domanda: «Chi è l’uomo?». Abbiamo rilevato quattro punti che ci sembrano importanti da elaborare. Il primo tocca la creazione-plasmazione dell’uomo «a Immagine e Somiglianza di Dio». Il secondo riguarda la «materia» plasmata, cristologicamente determinata. La «triplice costituzione» dell’uomo individuata dall’«efficacia del Pneuma [Πνεύμα] divino sulla sarx [σαρξ] umana» attraverso il quale l’uomo diventa «spirituale» e «perfetto», rappresenta il terzo punto della nostra questione antropologica. Infine, la realtà del peccato, vista secondo la visione ottimistica ireneiana, proveniente dalla sua fede e dalla sua concezione dell’uomo cristo-logicamente immerso nel disegno della salvezza fin dal momento della sua creazione, conclude la nostra prima domanda – «Chi è l’uomo?» e apre la seconda – «Come quest’uomo viene salvato?». 1.1 La creazione dell’uomo Essenziali per l’antropologia di Ireneo sono i capitoli iniziali della Genesi e le lettere di Paolo41. Partendo da questi due «luoghi della verità», Ireneo crea la sua visione dell’«uomo-Plasma»42 con la quale si oppone alla visione dell’«uomo-Spirito» degli gnostici e dell’«uomo-Psiche» degli ecclesiastici di stampo origeniano43. Inoltre, nei due versetti della Genesi (Gen 1,26 e Gen 2,7)44, Ireneo vede due aspetti inerenti alla stessa creazione45. Egli —————————– 41 «Mosè guarda all’uomo dal di fuori, l’Apostolo dall’interno». Orbe, I, 13. Cfr. Orbe, I, 13. 43 Cfr. Antropología, 8-13. «Los alejandrinos Clemente y Orígenes enseñan la unidad del género humano; mas, según ideología platónica (homo = anima, homo = mens), tampoco para ellos el cuerpo sensible es en rigor constitutivo del hombre. Ireneo coincide con los dos alejandrinos en la unidad del género humano y se aparta da ellos – al igual que de los gnósticos – en el peso específico asignado al cuerpo. Sin negar la composición de cuerpo y alma, arranca de la idea Homo = Humus, con base en Gen 2,7; la psique instrumento del individuo está al servicio del “plasma”, única sustancia hecha directamente a imagen y semejanza de Dios, y principal constitutivo del hombre». Teología, III, 636. 44 Gen 1,26: «E Dio disse: “Facciamo l’uomo a nostra immagine, a nostra somiglianza, e domini sui pesci del mare e sugli uccelli del cielo, sul bestiame, su tutte le bestie selvatiche e su tutti i rettili che strisciano sulla terra”». Gen 2,7: «allora il Signore Dio plasmò l’uomo con polvere del suolo e soffiò nelle sue narici un alito di vita e l’uomo divenne un essere vivente». Il testo biblico è riportato da: «La Bibbia di Gerusalemme», il testo biblico di «La Sacra Bibbia della CEI», «editio princeps» 1971, note e commenti di «La Bible de Jérusalem», Bologna 1985. 45 «l’uomo creato e plasmato diviene ad immagine e somiglianza di Dio increato [corsivo nostro]». AH, IV, 38,3. Cfr. Antropología, 13-24; Teología, IV, 516-517. A differenza di questa visione di Ireneo dell’unica creazione dell’uomo, manifestata nella 42 DOTTRINA IRENEIANA 113 identifica le due espressioni legate alla creazione dell’uomo: «fare» (creare) e «plasmare»46 (modellare, formare)47, cioè, identifica l’uomo «fatto» e «plasmato» dicendo: «Il signore fece l’uomo, plasmandolo a sua immagine e somiglianza» e anche: «Lo plasmò, facendolo a sua immagine e somiglianza»48. Usando queste espressioni, Ireneo innalza la plasis49 al massimo grado: «le opere di Dio sono la plasmazione dell’uomo»50. Egli distingue i due aspetti dell’unica creazione: «fatto» e «plasmato», distinguendo nello stesso tempo l’uomo fatto (factus) e Dio ingenerato (non creato – infectus)51. Inoltre, solo l’uomo è nello stesso tempo fatto e plasmato – fatto plasticamente – modellato da Dio, mentre tutte le altre creature sono soltanto fatte. Cioè, solo l’uomo è fatto in tal modo da poter giungere a essere infectus, immagine e somiglianza perfetta di Dio52. É evidente che Ireneo attribuisce al corpo umano la perfezione della forma «a immagine di Dio». La creazione unica dell’uomo è legata alla sublimità della plasis umana, modellata dalle Mani di Dio in ordine al proprio destino, che si prolungherà lungo tutta la storia53. Per comprendere l’intenzione teologica di Ireneo, è necessario chiarificare la sua comprensione delle tre parole del versetto di Gen 1,26: «facciamo», «immagine» e «somiglianza». Nel suo studio esaustivo, Orbe distingue i diversi modi in cui gli ultimi due termini furono usati e spiegati da parte degli gnostici e di alcuni Padri della Chiesa, soprattutto da —————————– plasis del corpo umano a immagine e somiglianza di Dio, Origene sostiene la duplice creazione dell’uomo. Egli pone l’accento sulla psiche [ψυχή], applicando Gen 1,26 alla creazione dell’intelletto [νους] – l’uomo essenziale, fatto a immagine e somiglianza di Dio. Mentre applica Gen 2,7 alla creazione dell’uomo sensibile, corporeo, plasmato. Gli gnostici Valentiniani parlavano di tre creazioni dell’uomo distinguendo la creazione dell’uomo spirituale, dell’uomo psichico e dell’uomo ilico. Cfr. Antropología, 8-13.25-26; Orbe, I, 259-260. 46 Qua usiamo i termini «plasmare» (dal greco πλάσεις = plasmare, modellare; formare, fondere) e «modellare» dandogli lo stesso significato, similmente come fa Orbe nella sua Antropología de San Ireneo parlando del «hombre hecho [ποιηθείς] a imagen (y semejanza) de Dios» e del «anthropos modelado [πλασθείς] a partir del lodo». Cfr. Antropología, 9. 47 Della stessa dottrina sono anche Clemente Romano, Giustino, Teofilo Antiocheno e altri sostenitori della creazione unica che danno particolare attenzione al corpo, modellato a immagine di Dio, lasciando così in secondo piano l’origine dell’anima. Ilario e Ambrogio, invece, volendo spiegare l’origine dell’anima, fatta a immagine di Dio (Gen 1,26) e del corpo, modellato dalla terra (Gen 2,7) ricorrevano alle due creazioni. Cfr. Orbe, I, 258. 48 Il verbo «plasmare» viene dunque usato in diversi modi. Cfr. AH, III, 21,10; IV, pref., 4; 38,3; V, 3,2; 9,1; 15,3; 21,2; 23,2. 49 Il termine «plasis» si riferisce prima di tutto all’uomo – corpo/carne formato (modellato-plasmato) dalla terra. Questi tre termini (plasis, corpo e carne) li usiamo come sinonimi. Cfr. la nozione di de Lubac in MMC, 74, n. 54. 50 «Opera autem Dei plasmatio est hominis». AH V, 15,2. 51 Cfr. AH, IV, 38,2-3; 39,2. 52 Cfr. AH, IV, 38,3; Orbe, I, 258-259; Teología, IV, 516-517. 53 Cfr. Orbe, I, 260. 114 IL MISTERO DELLA SALVEZZA CRISTIANA Origene54. A noi però interessa la comprensione che ne ha Ireneo, che viene da Orbe sintetizzata con le seguenti parole: Per Ireneo non vi sono interferenze tra l’immagine e la somiglianza. Intende la prima come impronta plastica in una natura completamente diversa da Dio, una natura terrena dissimile da quella di Dio Padre. Lungi dal presupporre identità di natura come per gli gnostici o affinità di sostanza come in Origene, l’assimilazione, a giudizio di Ireneo, si realizza tra le due nature più antitetiche. E si verifica grazie allo Spirito di Dio, ricevuto dal plasma umano (mediante la psiche) a modo di qualità operante. Vivificato il corpo con lo Spirito e gradualmente educato a sottomettersi a lui, dimentica le opere della carne ed assimila quelle dello Spirito; senza abbandonare la propria sostanza terrena riveste le proprietà dello Spirito55. In Ireneo la somiglianza concerne per sé il corpo umano, in ragione della partecipazione allo Spirito di Dio. Partecipazione, come in Origene, di indole qualitativa. Imperfetta al momento della plasmazione, ma chiamata a evolvere secondo le leggi della materia. Aumentando il grado di assimilazione, nasce anche la somiglianza verso la «unità di Spirito» con Dio56. In Ireneo l’uomo dev’essere secundum plasma simile a Dio, con il dinamismo dello Spirito di Dio. Nel suo destino finale sarà somigliante per comunione perfetta di Spirito, idoneo secundum carnem alla visione di Dio57. Possiamo dunque concludere, insieme con Orbe e Ladaria, che in Ireneo si trova «una distinzione, non sempre mantenuta con estrema coerenza, tra l’immagine di Dio e la somiglianza»58. «La prima sarebbe una nozione più statica, conferita nel momento della creazione e appartenente alla costituzione dell’uomo. La seconda è essenzialmente dinamica e indica il progressivo assimilarsi a Dio»59. Si deve inoltre fare attenzione all’importanza della preposizione «a» (in greco κατά) nell’interpretazione dei termini «a immagine» [κατ’εικόνα] e —————————– 54 Cfr. Orbe, I, 261-270. Orbe, I, 266. 56 Orbe, I, 267. 57 Orbe, I, 268. «En las palabras del Señor […] descubre Ireneo la visión facial, la audición inmediata, cara a cara; como la visa y audición de un amigo que conversa con otro. No una visión indirecta o mediata, ni a distancia de tiempo – como la peculiar de profetas –, sino la visión presencial, característica de los Apóstoles». Teología, IV, 141. 58 Cfr. AH, V, 6,1; 11,2; 16,2; E, 11; Antropología, 118-148; L.F. LADARIA, «L’uomo creato a immagine di Dio», 86. 59 L.F. LADARIA, «L’uomo creato a immagine di Dio», 87-88. Questa visione di Ireneo, De Lubac, citando J. Meyendorff, la descrive come «una concezione dinamica dell’uomo che esclude la nozione di “natura pura”. L’uomo è creato per condividere l’esistenza di Dio, ciò lo distingue dall’animale ed è espresso nel racconto biblico nella creazione di Adamo “a immagine di Dio”». Cfr. MMC, 76. Sulle distinzioni nell’interpretazione dei termini «immagine» e «somiglianza» nella teologia patristica fino al IV e dopo di esso, e sulle relative distinzioni tra la tradizione orientale e occidentale, cfr. Introduzione, parr. 2.4.2 e 2.5 di questo lavoro e anche: MS65, 157-158; L.F. LADARIA, «L’uomo creato a immagine di Dio», 81-103; J. ALFARO, Cristologia e antropologia, 272 e n. 26. 55 DOTTRINA IRENEIANA 115 «a somiglianza» [καθ’ὁμοίωσιν]. Senza l’uso della menzionata preposizione la traduzione del testo biblico sarebbe la seguente: «Facciamo l’uomo nostra immagine e somiglianza». Questo significherebbe che Dio, prima della creazione dell’uomo, non aveva né immagine né somiglianza proprie. Invece, già la dottrina gnostica e poi quella dei Padri insegna l’esistenza del Figlio, Immagine personale di Dio, e l’esistenza di Sophia (= Spirito Santo), Somiglianza personale di Dio, ben prima della creazione dell’uomo60. Facendo così attenzione all’uso della preposizione «a immagine» e «a somiglianza» si arriva alla visione-comprensione trinitaria del momento della creazione dell’uomo61, e il versetto della Genesi (Gen 1,26) si leggerebbe in parafrasi: «Facciamo l’uomo conforme al Logos, Immagine (personale) nostra, e conforme anche allo Spirito Santo, nostra Somiglianza (personale)»62. Così arriviamo alla comprensione logica del plurale «facciamo» che nell’interpretazione di Ireneo significa il momento in cui Dio convoca il Verbo e lo Spirito Santo per fare l’uomo conforme a essi: Di questo appunto la Scrittura dice: «E Dio plasmò l’uomo, prendendo un po’ di fango della terra, e insufflò sul suo volto il soffio della vita» (Gen 2,7). Dunque non sono stati gli angeli a crearlo e plasmarlo – perché gli angeli non avrebbero potuto creare una immagine di Dio – né alcun altro all’infuori del vero Dio, né una Potenza immensamente lontana dal Padre di tutte le cose. Dio non aveva bisogno di loro per creare ciò che aveva deciso di creare. Come se non avesse le sue Mani! Da sempre, infatti, gli sono accanto il Verbo e la Sapienza, il Figlio e lo Spirito. Mediante loro e in loro ha creato tutte le cose, liberamente e spontaneamente, e a loro appunto parla dicendo: «Creiamo l’uomo a nostra immagine e somiglianza» (Gen 1,26) […]63. Vediamo che per esprimere questa particolare azione di Dio nella creazione dell’uomo, Ireneo si serve dell’espressione: «le Mani di Dio»64. Questa frase appare qualche volta anche nella forma singolare65: «la Mano di Dio», ma include sempre il significato bivalente, che esprime la duplice efficacia del Verbo e del suo Spirito66. Orbe distingue qui il riferimento allo —————————– 60 Cfr. Orbe, I, 269-270. Le soluzioni non-trinitarie della creazione dell’uomo e dell’espressione «facciamo» sono quelle dei giudei e dei «loro simpatizzanti» che invece del Logos e dello Spirito Santo nella creazione dell’uomo coinvolgono angeli, arconti e dynameis [δυνάμεις] il cui aiuto Dio crea l’uomo come essere razionale «a sua immagine (di Dio)» e «a sua somiglianza». Cfr. Orbe, I, 271. 62 Cfr. Orbe, I, 270. I. SANNA, Chiamati per nome. Antropologia teologica, 150-151. 63 AH, IV, pref. 4; 20,1. Cfr. AH, IV, 38,3; V, 6,1; Teología, IV, 273-276.516-517. 64 Cfr. AH, IV, 7,4; V, 1,3; 6,1; E, 11. Ireneo non era l’unico che utilizzava questa espressione. Cfr. Orbe, I, 274-301; Antropología, 42-47; Teología, I, 270-271; IV, 6. 65 Cfr. AH, III, 21,10. 66 «Il passaggio dal singolare al plurale e viceversa non sarebbe giustificato se lo Spirito non appartenesse al Verbo o non procedesse dal Verbo in ordine all’economia comune. In un’economia nella quale il Verbo procede dal Padre e lo Spirito dal Verbo, è lecito attribuire al Padre l’opera del Verbo e dello Spirito e al Verbo l’opera del suo Spirito». Alla 61 116 IL MISTERO DELLA SALVEZZA CRISTIANA Spirito Santo inteso una volta come «dýnamis [δύναμις] del Figlio» – Spirito (impersonale) del Figlio, non distinto personalmente da Lui67, e l’altra volta come Spirito personale68, procedente dal «dýnamis [δύναμις] del Figlio», personalmente distinto da Lui ma nello stesso tempo unito a Lui come «Seconda Mano di Dio»69. L’efficacia delle «Mani di Dio» si presenta in due modi: un modo generico, legato alla creazione del mondo, e l’altro specifico, esclusivo dell’uomo. Di qui proviene la dignità particolare dell’uomo70. Solo lui è stato creato mediante un intervento particolare del Figlio e dello Spirito che si assoggettano all’invito di Dio Padre nella plasmazione dell’uomo: «E come l’uomo che fu plasmato per primo, Adamo, ricevette la sua sostanza da una terra incolta e ancora vergine [...] e fu plasmato dalla Mano di Dio, cioè dal Verbo di Dio – infatti “tutte le cose furono create per mezzo di lui” (Gv 1,3) e il Signore prese un po’ di polvere della terra e plasmò l’uomo»71. La plasmazione dell’uomo è dunque un avvenimento privilegiato nel quale tutti e tre – Padre, Figlio e Spirito – Dio, Immagine e Somiglianza – agiscono sulla sostanza terrena per costituire l’uomo «a Immagine e Somiglianza di Dio»: l’uomo creato e plasmato diviene ad immagine e somiglianza di Dio increato: il Padre decide benevolmente e comanda (cfr. Gen 1,26), il Figlio esegue e plasma (cfr. Gen 2,7), lo Spirito nutre e accresce (cfr. Gen 1,28), e l’uomo a poco a poco progredisce e si eleva alla perfezione, cioè si avvicina all’Increato; perché solo l’Increato è perfetto, e questo è Dio72. La dignità dell’uomo, nota già nel momento della sua creazione, diventa ancora più evidente con la collocazione dell’uomo al centro di tutta la creazione. Ireneo, non limita il dominio dell’uomo alla sola creazione sensibile (Gen 1,28). Egli va oltre il testo biblico e costituisce l’uomo padrone e —————————– luce di tali premesse, Orbe ci invita a comprendere le testimonianze di Ireneo e Tertulliano, «favorevoli alcune, alla “Mano di Dio”, singolare ma bivalente, altre, alle “Mani di Dio” al plurale». Cfr. Orbe, I, 279-280. 67 «Lo Spirito di Dio, con cui il Padre battezzò il proprio Figlio in quanto uomo, sarebbe la potenza salvifica, sorgente delle operazioni divine, comune alle tre persone ma non direttamente la persona dello Spirito». Così Orbe commentando At 10,37-38 in Orbe II, 197. Cfr. AH, III, 12,5.7; V, 8,1-2. 68 Cfr. AH, I, 22,1; 24,2; E, 5. 69 Cfr. Orbe, I, 279-280; Orbe, II, 24-25.180-183. 70 «Non c’è contraddizione o sconcerto nell’atteggiamento dei Padri. La Scrittura, interpretata correttamente, li invita da un lato ad attribuire alle Mani di Dio, il Verbo e lo Spirito, la formazione del mondo, senza operare distinzioni tra le creature sia in cielo che in terra tra angeli o uomini, tanto nei cieli planetari che in quelli sublunari e sulla Terra; dall’altro a contrapporre la plasmazione dell’uomo (secondo Gen 2,7 e Gen 1,26 s.) mediante le Mani di Dio, il Verbo e lo Spirito, alla formazione delle altre creature». Orbe, I, 282. 71 AH, III, 21,10. 72 AH, IV, 38,3. Cfr. Teología, IV, 517. DOTTRINA IRENEIANA 117 signore degli angeli73. La creazione «a immagine e somiglianza» implica il dominio dell’uomo su tutte le creature, visibili e invisibili. La chiamata dell’uomo alla salvezza, alle altezze di Dio e alla visione di Dio, lo innalza sopra tutta la creazione. Tutto questo, come vedremo nei paragrafi seguenti, include un’evoluzione graduale dell’uomo74, una lenta preparazione al passaggio dal fango informe all’essere dotato, internamente ed esternamente, della Forma del Logos (Immagine del Padre) e della Somiglianza dello Spirito (Somiglianza con Dio). 1.2 La dignità del corpo umano Abbiamo già visto come Ireneo applichi l’efficacia dell’Immagine e Somiglianza personale di Dio alla creazione (plasmazione-modellazione) dell’uomo terreno (corpo-carne)75. Anche se questo ci può sembrare paradossale76, l’antropologia di Ireneo si sviluppa attorno al corpo77, perché, l’uomo è prima di tutto il corpo – la carne nella quale Dio ha infuso l’anima con il proprio soffio78. Al contrario degli gnostici che riducevano la salvezza —————————– 73 Cfr. E, 9-11; Orbe, I, 234; Antropología, 39-40. Nella visione di Ireneo questa evoluzione graduale dell’uomo destinato alle altezze del Verbo e dello Spirito, si cela nei sei grandi giorni. Cfr. AH, V, 28,3. Sulla dottrina dell’Hexameron, nella quale Ireneo sviluppa i concetti dello Pseudo-Barnaba attorno ai seimila anni della maturazione del mondo, corrispondenti ai sei giorni della Genesi vedi: Orbe, I, 242-244, e l’intero capitolo, pp. 238-254. 75 «L’uomo è, infatti, una mescolanza di anima e di carne modellata ad immagine di Dio e plasmata dalle Mani di Dio, cioè dal Figlio e dallo Spirito, ai quali disse: “Facciamo l’uomo” (Gen 1,26)». AH, IV, pref. 4. Cfr. Teología, IV, 6. Riguardo all’idea di «carne» nell’antropologia di Ireneo, de Lubac ci suggerisce le spiegazioni di H.U. von Balthasar. Cfr. MMC, 76. 76 Cfr. AH, V, 4,1-2. «l’idée que la chair, réalité matérielle, a été formée à l’image de Dieu, être spirituel, a quelque chose de paradoxal». SC 100/1, 198. Il commento di A. Rousseau spiega la divergenza dottrinale tra testo latino [Homo est enim temperatio animae et carnis, qui secundum similitudinem Dei formatus est] e armeno [Ἄνθρωπος γὰρ κρᾶσις ψυχῆς καὶ σαρκὸς τῆς καθ’ ὁμοíωσιν Θεοῦ μεμορφωμένης]: «selon le texte latin, c’est l’homme qui a été formé à l’image de Dieu, tandis que, selon le texte arménien, c’est la chair». Rousseau afferma che «le traducteur latin ait pu infléchir son texte dans le sens d’une orthodoxie plus pointilleuse», e conclude: «le texte qui nous occupe n’est nullement isolé, car en AH, V, 6,1, aussi bien d’après le latin que d’après l’arménien, Irénée affirme de façon explicite que la chair a été modelée selon l’image de Dieu: “animae... admixta(e) ei carni quae est plasmata secundum imaginem Dei”. [...] c’est très précisément le salut de la chair que nient les hérétiques et qu’affirme Irénée». Cfr. Ibid., 198; Teología, I, 207-224. 77 Come anche quella di Tertulliano. Cfr. L.F. LADARIA, «L’uomo creato a immagine di Dio», 88. 78 Nell’interpretazione letterale di Gen 2,7, prima dell’infusione dell’anima, l’uomo (corpo) era già formato. L’anima come «il soffio di vita» o «il respiro» si distingue dallo «Spirito vivificante che rende l’uomo spirituale». Cfr. AH, V, 6,1; 9,1; 12,2. L’anima, secondo Ireneo, non costituisce la vera essenza dell’uomo. Essa è immortale, non per natura, ma perché Dio vuole che resti nell’essere e che attenda così la risurrezione del corpo. Cfr. AH, II, 34,1-4; V, 31,2; L.F. LADARIA, «L’uomo creato a immagine di Dio», 8586; Teología, I, 522-601. Per saperne di più sull’«immortalità dell’anima» negli scritti di 74 118 IL MISTERO DELLA SALVEZZA CRISTIANA dell’uomo a quella dell’anima, senza alcuna relazione con il mondo materiale, Ireneo insiste sulla dignità e salvezza del corpo79, perché lo stesso Cristo «è salvezza poiché è carne»80. Lo stesso organismo umano riflette le perfezioni del Verbo di cui è immagine diventando così un «micrologos»81, capace di ricevere la potenza di Dio: la carne è capace di ricevere e di contenere la potenza di Dio, la carne che all’inizio accolse l’arte di Dio, per cui una parte divenne occhio che vede, un’altra orecchio che ode, un’altra mano che tocca e lavora, un’altra nervi che sono distesi da ogni parte e tengono insieme le membra, un’altra arterie e vene, vie del sangue e del respiro, un’altra i diversi visceri, un’altra sangue, legame dell’anima e del corpo. E che altro dire? Infatti, non è possibile enumerare tutte le parti dell’organismo umano che non è stato creato senza la grande sapienza di Dio (Sal 103,24). Ora ciò che partecipa dell’arte e della sapienza di Dio partecipa anche della sua potenza82. Ireneo attribuisce la dignità al plasma umano, fatto in se stesso a Immagine e Somiglianza di Dio: «l’uomo originato e plasmato diviene ad immagine e somiglianza di Dio increato»83. E anche: «Ora chi altro potrebbe essere superiore all’uomo, che fu creato a somiglianza di Dio, se non il Figlio di Dio, a somiglianza del quale l’uomo è stato creato? Per questo alla fine il Figlio stesso di Dio mostrò la somiglianza, divenendo uomo, prendendo su di sé l’antica opera plasmata»84. Nella visione di Ireneo viene dunque prima il Secondo Adamo, cioè Cristo, e poi successivamente, in futuro, il Primo – fatto ad immagine del Secondo. Se l’immagine è corpo di carne, anche il paradigma è dunque corpo di carne – archetipo del Primo Adamo. Il corpo di Adamo è dunque immagine del corpo di Cristo, ma non immagine naturale, «bensì immagine plastica che riflette – nella natura —————————– Ireneo vedi: AH, V, 1,3; 4,1; 7,1; 13,3; M. AUBINEAU, «Incorruptibilité et divinisation selon saint Irénée», 34-35. 79 Cfr. AH, V, 14,1-4. 80 «Infatti, “il Verbo si fece carne ed abitò tra noi” (Gv, 1,14)». AH, III, 10,3. Cfr. L.F. LADARIA, «Destino dell’uomo e fine dei tempi», 370; ID., «L’uomo», 85-88. 81 Cfr. Orbe, I, 294. 82 AH, V, 3,2. 83 Cfr. AH, IV, 38,3. Orbe, I, 273. Origene invece riferisce «l’Immagine e Somiglianza» alla creazione dell’«intelletto». Secondo Orbe, entrambe le ideologie – origeniana e ireneiana – sembrano giustificare nella stessa misura la dignità dell’uomo fatto da Dio Padre con l’aiuto del Figlio e dello Spirito Santo. Cfr. Ibid., 272; Teología, III, 636. 84 AH, IV, 33,4. «El Verbo configura el cuerpo de Adán con miras al suyo futuro. Desde la primera aparición se orienta el hombre hacia el Hombre perfecto, Cristo. [...] La plasis del primer Adán se consumaría además en el segundo, a que se ordenaba, paradigma único de la humano (corpórea)-divina perfección. [...] En el cuerpo del Verbo se manifestó, pues, la semejanza divina misteriosamente oculta en el plasma de Adán. La atención del Santo se concentra en torno al sôma». Antropología, 99. DOTTRINA IRENEIANA 119 corporea – gli stessi lineamenti di Cristo»85: «il Verbo di Dio si fece uomo, rendendo se stesso simile all’uomo e l’uomo simile a sé, affinché, attraverso la somiglianza con il Figlio, l’uomo divenga prezioso di fronte al Padre»86. Il Figlio di Dio – Immagine del Padre – riflette così i suoi attributi personali nella forma del corpo umano adeguandoli per mezzo dello Spirito Santo al disegno dell’economia della salvezza. Anche la sostanza di cui è stato creato il corpo umano era «nobile» perché era una «terra vergine» dalla quale la volontà e la «Sapienza di Dio» hanno creato il corpo umano87. Ireneo lega così i due misteri, la creazione dell’uomo e l’incarnazione di Cristo – tutti e due sono «nati» dalla «vergine». Il Signore nacque da una Vergine per la volontà e per la Sapienza di Dio, rivelando la somiglianza della sua corporeità con quella del primo Adamo ricapitolandolo in sé e rifacendolo a immagine e somiglianza di Dio88. La plasmazione di Adamo annuncia dunque quella di Cristo, come la plasmazione di Cristo ricapitola quella di Adamo89. Gesù Cristo è il modello secondo il quale l’uomo è stato plasmato, perché Egli è l’immagine perfetta del Padre (cfr. 2Cor 4,4; Col 1,15): «“a sua immagine Dio ha fatto l’uomo” (cfr. Gen 9,6). L’“immagine” è il Figlio di Dio, alla cui immagine l’uomo fu fatto (cfr. 2Cor 4,4; Col 1,15). Per questa ragione si è manifestato alla fine dei tempi “per dimostrare che l’immagine rassomigliava a lui”»90. Il forte senso cristologico che Ireneo, ispirato dalla teologia paolina, sviluppa nella sua dottrina, ci mostra di nuovo l’inseparabilità dell’antropologia dalla cristologia. La domanda sull’uomo si trova nascosta nella domanda sul Cristo. La risposta all’ultima risolve anche la prima. L’antropologia ireneiana sviluppata attorno all’uomo-carne riecheggerà nella sua soteriologia nei termini di quella «salvezza della carne» realizzata nello stretto rapporto tra Carne gloriosa di Cristo e la carne-corpo «spirituale» dell’uomo. 1.3 L’uomo spirituale Nel terzo libro dell’Adversus haereses, parlando del battesimo di Gesù e dello Spirito disceso su di Lui, Ireneo fa riferimento alla salvezza umana mediante il battesimo: «I nostri corpi, infatti, hanno ricevuto, mediante il lavacro, l’unione alla incorruttibilità (cfr. Ef 5,26; Tt 3,5), mentre le nostre anime l’hanno ricevuta mediante lo Spirito (Gv 3,5)»91. Vediamo qui come —————————– 85 Cfr. Orbe, I, 292. AH, V, 16,2; Teología, II, 87-104. 87 Cfr. AH, III, 21,10; E, 32. 88 Cfr. AH, III, 21,10–22,1. Il tema della ricapitolazione e redenzione, lo elaboreremo nei paragrafi successivi. 89 Cfr. Orbe, I, 297. 90 E, 22. 91 AH, III, 17,2. 86 120 IL MISTERO DELLA SALVEZZA CRISTIANA la prospettiva di Ireneo riassunta nell’equazione homo = caro, si ampli: homo = caro + anima. L’uomo è primariamente il plasma – modellato a immagine e somiglianza del Creatore, e l’anima, che viene infusa a completamento del plasma, entra adesso nella composizione dell’uomo e nella sua salvezza. Così, all’inizio del quarto libro, come abbiamo già riportato, leggiamo esplicitamente: «L’uomo è, infatti, una mescolanza di anima e di carne modellata ad immagine di Dio e plasmata dalle Mani di Dio, cioè dal Figlio e dallo Spirito, ai quali disse: “Facciamo l’uomo” (Gen 1,26)» 92. Però, poco dopo, nello stesso paragrafo, Ireneo parla della salvezza dell’uomo che è: «la creatura di Dio, che è la carne, per la quale, come abbiamo dimostrato in molti modi, il Figlio di Dio ha compiuto tutta la sua economia». Vediamo, dunque, che la prospettiva di Ireneo incentrata sull’uomo-carne va ampliandosi. Tutto questo diviene ancora più evidente nell’ultimo libro dell’Adversus haereses, dove Ireneo parla dell’uomo «spirituale» e «perfetto» nel quale lo Spirito «mescolato all’anima si unisce all’opera plasmata»93. Facendo una certa esegesi del pensiero paolino, Ireneo sintetizza in un paragrafo la sua visione ampliata dell’uomo e della sua salvezza94. Ci permettiamo di riportarlo quasi per intero: Dio sarà glorificato nella sua propria creatura, rendendola conforme e simile al suo proprio Figlio (cfr. Rm 8,29). Infatti per mezzo delle Mani del Padre, cioè il Figlio e lo Spirito, l’uomo e non una parte dell’uomo, è fatto ad immagine e somiglianza di Dio (Gen 1,26). Ora l’anima e lo Spirito possono essere una parte dell’uomo, ma in nessun modo l’uomo: l’uomo perfetto è la mescolanza e l’unione dell’anima, che ha ricevuto lo Spirito del Padre e si è mescolata alla carne plasmata ad immagine di Dio. Appunto per questo l’Apostolo dice: «Noi parliamo di sapienza tra i perfetti» (1Cor 2,6) [...] Sono questi gli uomini che l’Apostolo chiama spirituali (cfr. 1Cor 2,15; 3,1), essendo spirituali grazie alla partecipazione dello Spirito, ma non grazie alla privazione ed eliminazione della carne95. Se, infatti, si elimina la sostanza della carne, cioè dell’opera plasmata, e si considera semplicemente ciò che è propriamente spirito, una cosa tale non è più un uomo spirituale, ma lo spirito dell’uomo o lo Spirito di Dio (cfr. 1Cor 2,11). Quando invece questo spirito mescolato all’anima si unisce all’opera plasmata, grazie all’effusione dello Spirito, giunge a compimento l’uomo spirituale e perfetto, e questo è l’uomo creato ad immagine e somiglianza di Dio (cfr. Gen 1,26). Quando invece all’anima manca lo Spirito, un tale uomo, rimasto realmente animale e carnale, sarà imperfetto, perché ha bensì l’immagine di Dio nell’opera plasmata, ma non ha ricevuto la somiglianza per mezzo dello Spirito. Ora come —————————– 92 AH, IV, pref. 4. Cfr. Teología, IV, 6. Cfr. AH, V, 6,1. Ireneo si ispira al concetto paolino dell’«uomo perfetto» (cfr. 1Cor 2,6). Cfr. Teología, I, 264-321. 94 Trattando del significato della «somiglianza di Dio», anche Orbe attribuisce un grande valore a questi passi di Ireneo. Cfr. Antropología, 127-148. 95 Ireneo lotta contro gli eretici che negano la salvezza della carne. 93 DOTTRINA IRENEIANA 121 quest’uomo è imperfetto, così, ancora, se si elimina l’immagine e si rifiuta l’opera plasmata, non si può più considerare l’uomo, ma o una parte dell’uomo, come abbiamo detto prima, o qualche altra cosa che non è l’uomo. Infatti né la carne plasmata è in se stessa uomo perfetto, ma corpo dell’uomo e parte dell’uomo, né l’anima è in se stessa uomo, ma anima dell’uomo e parte dell’uomo, né lo Spirito è uomo, perché si chiama Spirito e non uomo. Ora la mescolanza e l’unione di tutte queste cose costituisce l’uomo perfetto. E per questo l’Apostolo, spiegandosi da sé, ha definito chiaramente l’uomo perfetto e spirituale, partecipe della salvezza, dicendo nella prima lettera ai Tessalonicesi: «Il Dio della pace vi santifichi in modo che diveniate perfetti e tutto il vostro essere – lo Spirito, l’anima e il corpo – sia conservato irreprensibile per la venuta del Signore Gesù» (1Ts 5,23). In verità, quale motivo aveva di chiedere per queste tre cose, cioè l’anima, il corpo e lo Spirito, una conservazione totale per la venuta del Signore, se non avesse saputo che ci sarebbe stata la restaurazione e l’unione delle tre cose e che una sola e la medesima sarebbe stata la loro salvezza? Per questo dice perfetti quelli che presentano al Signore le tre cose irreprensibili. Sono dunque perfetti quelli che hanno lo Spirito di Dio sempre dimorante in loro e si conservano irreprensibili nell’anima e nel corpo, cioè conservano la fede in Dio e la giustizia verso il prossimo96. Vediamo che Ireneo nella composizione dell’uomo distingue anima e spirito. A riguardo della nozione di spirito, non è sempre chiaro quando intende lo «spirito dell’uomo» e quando «lo Spirito di Dio»97. Comunque, sembra che nella sua visione, lo Spirito Santo entri in qualche modo nella composizione dell’uomo rendendolo, nel corpo e nell’anima, conforme a Cristo98. Questo è l’uomo perfetto, nel quale abita lo Spirito di Dio. Però, —————————– 96 AH, V, 6,1 [corsivo nostro]. Per questa ragione, nelle diverse traduzioni degli scritti ireneiani esiste una differenza nell’uso del maiuscolo o minuscolo legato alla parola spirito. Vedi per esempio il commento di V. Dellagiacoma nella ristampa della terza edizione della traduzione italiana dell’Adversus haereses di Edizioni Cantagalli, Siena 1996, rist. 20023, II, 167, n. 1. La parola «spirito» appare qualche volta anche in senso generico, come «realtà distinta dalla carne, che può essere l’anima umana o lo Spirito di Dio». Cfr. AH, V, 6,1 in BelliniMaschio, 625, n. 5 e la spiegazione dettagliata di A. Rousseau in SC 152, 230-232. 98 Questo ci conferma il riferimento di Ireneo alla prima lettera ai Tessalonicesi (1Ts 5,23) nel testo appena citato (AH, V, 6,1) secondo il quale lo Spirito di Dio comunicato all’uomo e dimorante in lui diventa in qualche modo il suo Spirito. Cfr. AH, V, 6,1 in Bellini-Maschio, 625, n. 6. Ma, già prima, nell’AH, II, 33,5, senza un approfondimento dettagliato, Ireneo parla degli uomini che «risorgeranno con i loro corpi, le loro anime e il loro Spirito». Anche questo passo è in sintonia con AH, V, 6,1 e 9,2 secondo i quali lo Spirito Santo si intende «donato a molti e divenuto loro possesso intimo». Cfr. AH, II, 33,5 e V, 9,2 in Bellini-Maschio, 594 e SC 293, 341. De Lubac, considerandolo «un problema antropologico», direbbe a proposito: «noi crediamo perciò che lo Spirito di cui parla [Ireneo] è sempre lo Spirito di Dio, anche quando lo considera nell’uomo». Cfr. MMC, 7576. E, anche: «Ireneo parlava soprattutto dello Spirito di Dio, anche quando questo Spirito, partecipato, diveniva lo spirito dell’uomo. Origene parlerà più esplicitamente dello spirito dell’uomo, in quanto apertura allo Spirito di Dio. Sono due prospettive inverse, più che due dottrine contrarie». Ibid., 77. Vedi anche Gross, 127, dove si confrontano i relativi 97 122 IL MISTERO DELLA SALVEZZA CRISTIANA senza lo Spirito, l’uomo continua a essere uomo, perché è già modellato, composto dalla carne e dall’anima – «il soffio della vita»99. Ugualmente, neanche ricevendo lo Spirito di Dio, l’uomo non cessa di essere uomo, cioè, non perde la natura della carne, ma cambia la «qualità dei frutti» e diventa uomo spirituale100. Nella visione di Ireneo esiste una sola creazione e un unico tipo di uomo creato da Dio101. Egli, però, distingue due condizioni di vita che l’unico uomo può scegliere: la vita di comunione con lo Spirito di Dio, che lo fa diventare uomo spirituale; o la vita senza questa comunione, nella quale egli rimane a livello dell’uomo «psichico» e carnale. Quando Ireneo parla delle «tre realtà» dell’«uomo spirituale», cioè del corpo, dell’anima e dello Spirito102, egli non considera queste realtà come tre elementi o parti separabili dell’uomo. La sua visione, più biblica e unitaria, infatti, permette di parlare dei tre aspetti dell’uomo, tra i quali la carne e lo Spirito di Dio hanno il primato103, mentre l’anima presenterebbe una «realtà intermedia»: «L’uno, cioè lo Spirito, salva e forma; l’altra, cioè la carne, è salvata ed è formata; e l’altra, che si trova tra queste due, cioè l’anima, ora segue lo Spirito e grazie a lui vola, ora obbedisce alla carne e cade in desideri —————————– commenti di Strucker e Klebba; e T. ŠPIDLÍK, «Comprensioni differenti del medesimo mistero: le vie dell’ortodossia orientale e del cristianesimo latino», 119-120. 99 Ireneo distingue l’anima – il soffio della vita – dallo Spirito vivificante: «Altro è, infatti, il soffio di vita (Gen 2,7), che rende l’uomo psichico, e altro lo Spirito vivificante (cfr. 1Cor 15,45), che rende l’uomo spirituale». Cfr. AH, V, 12,2. «Da un lato, lo Spirito costituisce con l’anima una parte dell’uomo; è chiamato “Spirito dell’uomo” e sembra distinguersi dallo “Spirito di Dio”; esso da solo non costituisce l’uomo, non più di quanto lo facciano, da soli il corpo o l’anima, ma è uno dei tre elementi costitutivi; questi tre elementi sono ancora enumerati in Paolo il quale augura che siano tutti e tre “irreprensibili” [cfr. 1Ts 5,23]». De Lubac, commentando AH, V, 9,1. Cfr. MMC, 73; Teología, I, 522-601. 100 Non si tratta dunque di due tipi di uomini diversi per natura, secondo la distinzione che facevano gli gnostici Valentiniani che affermavano tre creazioni dell’uomo, corrispondenti alle tre specie di uomini (l’uomo spirituale, l’uomo psichico e l’uomo ilico). Cfr. Teología, I, 499-521. 101 «C’è, infatti, un solo Figlio, che ha compiuto la volontà del Padre, ed una sola umanità, nella quale si compiono i misteri di Dio». AH, V, 36,3. Cfr. Antropología, III, 632-638. 102 «l’uomo perfetto è composto, come abbiamo dimostrato, di tre realtà: la carne, l’anima e lo Spirito». AH, V, 9,1. 103 Ricordiamo, come abbiamo già ribadito, che «l’assimilazione, a giudizio di Ireneo, si realizza tra le due nature più antitetiche. E si verifica grazie allo Spirito di Dio, ricevuto dal plasma umano (mediante la psiche) a modo di qualità operante». Cfr. Orbe, I, 266.504-509. Commentando il battesimo di Gesù in AH, III, 17, e la nostra partecipazione «de plenitudine eius», Orbe scrive: «Effuso il nuovo Spirito su servi e serve, resi partecipi dello Spirito di Dio con il quale era stato battezzato lo stesso Verbo come uomo, le genti manifesteranno la potenza dello Spirito di Gesù sull’uomo, l’efficacia del Pneuma divino sulla sarx umana. Se la comunione Logos/sarx è incomunicabile nella sua efficienza personale, non lo è la comunione Pneuma/sarx nella sua efficienza dinamica». Cfr. Orbe, II, 188-189. DOTTRINA IRENEIANA 123 terrestri»104. L’accento cade sempre sulla carne che determina l’uomo completo, ma debole, aperto e capace di salvezza, perché «la debolezza della carne» sarà assorbita «dalla forza dello Spirito» e l’uomo non sarà più «carnale», ma «spirituale»105, e perché «la carne come tale, in se stessa, non può ereditare il regno di Dio, ma può essere ereditata, nel regno, dallo Spirito»106. Quando dunque Ireneo parla dell’uomo spirituale o perfetto, questo non indica l’assoluta perfezione, ma al contrario, si riferisce a uno stato in cui il dono dello Spirito Santo è come un seme che deve essere coltivato lungo il processo della crescita spirituale verso la perfezione della vita cristiana107. Per concludere la riflessione offertaci da questi passi di Ireneo, facciamo due osservazioni che ci sembrano particolarmente importanti. La prima consiste nella sottolineatura dell’importanza del ruolo delle «Mani di Dio», cioè del Cristo e dello Spirito Santo108, sia nel momento della creazione dell’uomo, sia nella sua vita orientata verso la salvezza. Questa è la vita di comunione di Dio: come all’inizio della nostra formazione in Adamo il soffio della vita proveniente da Dio, unendosi alla creatura, animò l’uomo e lo fece apparire come essere animato dotato di ragione (cfr. Gen 2,7), così alla fine il Verbo del Padre e lo Spirito di Dio, unendosi all’antica sostanza dell’opera, cioè di Adamo, ha reso l’uomo vivente e perfetto, capace di comprendere il Padre perfetto […]109. —————————– 104 AH, V, 9,1. «Ireneo si riallaccia all’antropologia giudaica. L’anima di cui parla è probabilmente più vicina al nephesch ebraico che alla psyche greca». De Lubac, citando H. Rondet e facendo riferimento all’AH, V, 9,1. Cfr. MMC, 74. É interessante a proposito il discorso di U. Galimberti sulla «visione unitaria dell’uomo» della tradizione biblica «a forte accentuazione corporea», nella quale i concetti biblici come bâsâr [rf'B])' , nefeš [vp,n]< e leb [ble], non presentano i diversi elementi dell'uomo, ma i diversi aspetti dello stesso uomo. In questo senso, secondo Galimberti, si dovrebbe intendere l’«antropologia» paolina, e a nostro parere anche quella di Ireneo. Cfr. U. GALIMBERTI, Il corpo, 57-68, soprattutto pp. 60-61; I. SANNA, Chiamati per nome. Antropologia teologica, 119-123. 105 Cfr. AH, V, 9,2. 106 Cfr. AH, V, 9,4. 107 Cfr. AH, IV, 38; Gross, 129-130; M. AUBINEAU, «Incorruptibilité et divinisation selon saint Irénée», 42-43. L’aspetto della crescita o del progresso spirituale nella vita cristiana, lo svilupperemo nei paragrafi seguenti sotto il tema della divinizzazione. 108 Teniamo conto che nella teologia di Ireneo lo Spirito Santo non è mai separato dal Verbo e dalla comunione trinitaria: «Il Padre, infatti, porta contemporaneamente le creature e il suo Verbo, e il Verbo, portato dal Padre, dà lo Spirito a tutti come vuole il Padre: agli uni, in rapporto alla creazione, lo spirito della creazione, che è una realtà creata; agli altri, in rapporto all’adozione filiale, lo Spirito che proviene dal Padre, che è la sua Generazione». Cfr. AH, V, 18,2. Cfr. Teología, II, 211-235. Il termine «Generazione» indica nella teologia di Ireneo «un essere che deriva da Dio senza essere creato» e si riferisce sia al Figlio sia allo Spirito. Cfr. AH, IV, 7,4; V, 36,3; SC 152, 286-295; AH, V, 18,2 in Bellini-Maschio, 631, n. 3. 109 AH, V, 1,3. Ci sembra qua importante il commento di Ladaria: «Questa visione unitaria dell’uomo, che include la dimensione che oggi si chiama “soprannaturale”, si trova definitivamente spiegata alla luce della concezione che Ireneo ha dell’immagine e della somiglianza divina». Cfr. L.F. LADARIA, «L’uomo creato a immagine di Dio», 86. Anche 124 IL MISTERO DELLA SALVEZZA CRISTIANA In secondo luogo, ci sembra importante evidenziare la visione attiva dell’uomo secondo la quale egli non è un ricettore passivo della vita divina, ma deve scegliere tra «carne» e «Spirito»110, tra «le opere della carne»111 e «le opere dello Spirito»112: «il soffio è stato dato comunemente a tutto il popolo che è sulla terra, mentre lo Spirito è stato dato esclusivamente a quelli che calpestano i desideri terreni»113. Questi due aspetti dell’antropologia di Ireneo, il ruolo di Cristo e dello Spirito Santo114 e l’attiva collaborazione dell’uomo nel cammino della salvezza, saranno sviluppati nelle pagine seguenti, dove cercheremo di rispondere alla domanda sulla salvezza dell’uomo. Per adesso basta precisare che Ireneo ha una visione reale e completa dell’uomo, e anche se pone l’accento sulla carne, l’uomo di Ireneo è «l’unione dell’anima e della carne, che, ricevendo lo Spirito di Dio, costituisce l’uomo spirituale»115. Quest’uomo è inserito nel disegno salvifico di Dio fin dal momento della sua creazione, e come tale è sempre orientato a Dio: Se dunque è stata mostrata precisamente la Mano di Dio, per mezzo della quale fu plasmato Adamo e fummo plasmati anche noi; se c’è un solo e medesimo Padre, la cui Voce è, dall’inizio alla fine, accanto alla sua creatura; se la sostanza con cui siamo stati plasmati è stata chiaramente indicata nel Vangelo, non si deve più cercare un altro Padre all’infuori di questo, né un’altra sostanza con cui siamo stati plasmati oltre quella che abbiamo detto prima e che è stata indicata dal Signore, né un’altra Mano di Dio oltre quella che dall’inizio alla fine ci plasma, ci prepara per la vita, è accanto alla sua creatura e la rende perfetta ad immagine e somiglianza di Dio (Gen 1,26)116. —————————– Gross: «In fact, rejecting the gnostic concept of ὁμοίωσις as a divine seed which, forming the essence of the pneumatic, is a gift of nature in this one and consequently incapable of being lost, the bishop of Lyon identifies the ὁμοίωσις with the possession of the Hoy Spirit and His gifts. In this, he is manifestly inspired by the Pauline doctrine of the divine Spirit, the source of new life in the Christian». Gross, 130-131. La visione gnostica dell’uomo «spirituale» è molto diversa da quella di Ireneo. Cfr. Orbe, I, 260; Orbe, II, 347. 110 Cfr. AH, V, 9-12. 111 Cfr. AH, V, 11,1. 112 Cfr. AH, V, 12,1-2. 113 Cfr. AH, V, 12,2. 114 «La orientación de Adán a Cristo representa en consecuencia una deificación del plasma inicial, que así como en el primer hombre fue dotado de “soplo de vida”, pasando a animal, en el segundo será dotado del “Espíritu vivificante”, convirtiéndose en hombre espiritual». Antropología, 27. 115 Cfr. AH, V, 8,2. 116 AH, V, 16,1. I passi di Ireneo simili a questo ci rivelano il fondamento del realismo lubachiano che non sopporta l’ipotesi della «natura pura», perche, già dai suoi inizi, l’uomo è immerso nel disegno salvifico di Dio. DOTTRINA IRENEIANA 125 1.4 La realtà del peccato La dignità della carne non viene distrutta neanche dopo il peccato. Infatti, proprio attorno a questo tema viene in piena luce l’ottimismo di Ireneo, perfettamente in accordo con il suo realismo. Già nel primo libro dell’Adversus haereses, il tema del peccato è legato al tema della redenzione, cioè, alla lotta contro le teorie gnostiche sulla redenzione117. Ma, sopratutto negli ultimi tre libri, Ireneo lega il tema del peccato alla salvezza di Adamo, alla sua liberazione118, mediante la benevolenza e la compassione di Dio Padre119 e la sovrabbondante grazia donatagli in Cristo120. Infatti, l’ottimismo teologico di Ireneo proviene dalla fiducia in Dio Padre e nella sua infinita bontà che è la prima causa della salvezza umana121. Ireneo è duro verso coloro che negano la salvezza di Adamo – gli gnostici122, coloro che, «nell’impenitenza e nell’ostinazione, perseverano nelle opere cattive»123, tutti i pagani e gli eretici – «che non meditano le parole di Dio e non si adornano di opere di giustizia» e per questo sono simili agli animali124. L’oggetto del peccato è la disobbedienza dell’uomo al precetto di Dio125. L’uomo, sedotto dall’angelo malvagio, disobbedì a Dio126. In questo consiste il male commesso – nell’insubordinazione a Dio. Dopo il peccato, l’uomo è diventato debitore nei confronti di Dio ed è divenuto sottomesso alla morte127. Il peccato è dunque un debito che richiede la riconciliazione —————————– 117 Cfr. AH, I, 21,1-2. Cfr. AH, III, 23,1-2; V, 21,3–22,2. 119 «essendo stato Dio magnanimo, l’uomo ha conosciuto il bene dell’obbedienza e il male della disobbedienza». AH, IV, 39,1. «A la magnanimidad de Dios debe el hombre el conocimiento del bien y del mal. El Creador no le obligó al bien, llevándole como a los irracionales por un solo camino. Al no obligarle por naturaleza al bien, a la sola obediencia (necesaria) al Creador, revela éste su magnanimidad. Deja al hombre en libertad, para que Le obedezca; con posibilidad de abuso. Así resplandecen, además de la Omnipotencia, la Bondad y la Sabiduría del Creador». Teología, IV, 521. 120 Cfr. AH, III, 23,1-8; IV, 27,2; V, 16,3; 17,1-4. 121 «il bene della nostra salvezza non viene da noi ma da Dio (cfr. Rm 7,18)». AH, III, 20,3. «tutta l’economia della salvezza che riguardava l’uomo si svolgeva secondo il beneplacito del Padre (cfr. Ef 1,5.9)». AH, III, 23,1. «senza il beneplacito del Padre, come senza il ministero del Figlio, nessuno conoscerà Dio». AH, IV, 7,3. Cfr. AH, III, 20,1-2; 25,1-5; IV, 20,8; 26,2; 37,7; 38,4. 122 Cfr. AH, III, 23,7-8. 123 Cfr. AH, III, 23,3. 124 Cfr. AH, V, 8,3. 125 La disobbedienza prende la forma dell’ingratitudine da parte dell’uomo. Cfr. AH, IV, 37,6; 39,2; Antropología, 272-276; Teología, IV, 509-510.524-525. 126 Per le nozioni di Ireneo sul «demonio», «il serpente», «il bugiardo e l’omicida», «il nemico», «il forte», «Satana» e «l’Anticristo»..., vedi: AH, V, 21,1-2; 23,1–25,1. Cfr. «El pecado en su vertiente angélica y humana» in Antropología, 253-276. Sul peccato originale e sul ruolo di Eva e Adamo, cfr. Antropología, 277-314; Orbe, I, 375-376. 127 «É bene obbedire a Dio, credere a lui e custodire il suo precetto: e questa è la vita dell’uomo; come disobbedire a Dio è male: e questa è la sua morte». AH, IV, 39,1. Cfr. AH, 118 126 IL MISTERO DELLA SALVEZZA CRISTIANA attraverso la remissione128, proprio come il Signore ci ha insegnato nella preghiera che ci ha lasciato129. Soltanto così, l’uomo divenuto schiavo del peccato e del demonio può riottenere la sua libertà130. Usando la forma singolare – «il peccato di Adamo», «il nostro debito»131 –, Ireneo vuole rafforzare la sua visione dell’unità esistente tra i due Testamenti che rivelano un unico Dio, creatore dell’unica natura umana che disobbedì al suo creatore. Ireneo non pone l’accento sulla persona di Adamo, ma sulla natura umana, sul plasma – l’uomo in quanto tale che disobbedì a Dio132. Nello stesso tempo, allargando il peccato di Adamo ai figli, Ireneo usa la forma paolina della prima persona plurale, affermando l’identità della nostra natura con quella di Adamo e identificandoci come debitori ed eredi delle conseguenze del peccato133. Il soggetto del peccato è —————————– V, 23,2; 27,2; Teología, IV, 521. Per avere una maggiore conoscenza sulla «morte» in Ireneo cfr. Antropología, 430-480. 128 Quello che fu annunciato già nell’Antico Testamento sarà compiuto in Cristo: «Per questo David ha proclamato in precedenza: “Beati quelli ai quali sono state rimesse le iniquità e sono stati coperti i peccati; beato l’uomo al quale il Signore non imputerà il peccato” (cfr. Sal 31,1-2). Preannunciava la remissione portata dalla sua venuta, per mezzo della quale “distrusse il documento” del nostro debito “e lo inchiodò alla croce” (cfr. Col 2,14), affinché come per mezzo del legno eravamo divenuti debitori di Dio, così per mezzo del legno ricevessimo la remissione del nostro debito». Cfr. AH, V, 17,3; Teología, II, 163167. 129 Cfr. Mt 6,12; AH, V, 17,1. 130 Contro le categorie gnostiche, Ireneo afferma la libertà dell’uomo che egli perse a causa del «peccato della disobbedienza». Cfr. AH, IV, 37,1–39,4. «il primo vaso che era divenuto suo possesso [del demonio] era stato Adamo, che teneva in suo potere, per averlo spinto ingiustamente alla trasgressione e avergli dato la morte con il pretesto dell’immortalità. [...] Perciò giustamente fu fatto prigioniero a sua volta da Dio colui che aveva fatto prigioniero l’uomo, mentre fu liberato dai vincoli della condanna l’uomo che era stato fatto prigioniero». AH, III, 23,1. «Dio ha aiutato l’uomo e l’ha ristabilito nella sua libertà». AH, III, 23,2. Vedi anche AH, III, 10,5; 12,15, dove Ireneo parla della «nuova economia» e del «nuovo Testamento della libertà». 131 In sintonia con Gv 1,29: «Ecco l’agnello di Dio, ecco colui che toglie il peccato del mondo!». 132 «Nel peccato di Adamo la persona non interessa e nemmeno la psiche. Né Ireneo intende rendere l’anima (e la sua libera decisione) o l’uomo interiore responsabile del peccato in Eva o in Adamo. Se fosse stato così, al di fuori da qualsiasi realizzazione secundum carnem, il ruolo di protagonista sarebbe passato alla psiche e, suo tramite, alla persona. Ancora un po’ e ne sarebbe risultato un peccato psichico, razionale; un peccato caratteristico dell’uomo platonico o filoniano ed estraneo al plasma. [...] Ireneo comprende il rischio che corre la dottrina del peccato originale nella sua applicazione alla persona di Adamo». Orbe, I, 381. 133 Contro gli gnostici che affermavano la diversità della natura degli uomini, Ireneo dichiara: «Essendo, invece, tutti della stessa natura, capaci di possedere e fare il bene e capaci anche di rigettarlo e di non farlo, giustamente, sia presso gli uomini governati da buone leggi sia ancor più presso Dio, gli uni sono lodati e ricevono una degna testimonianza per la scelta del bene e la perseveranza in esso, mentre gli altri sono biasimati e subiscono un’adeguata pena per il rifiuto del bene». AH, IV, 37,2. Cfr. AH, V, 16,3–17,1; Teología, IV, 505. Per conoscere elementi in più sulle conseguenze del peccato, come la maledizione, l’allontanamento dal paradiso e la morte, cfr. Antropología, 314-430. DOTTRINA IRENEIANA 127 dunque l’uomo, la carne che siamo noi oggi, il plasma che disobbedì al suo Plasmatore: «è Dio colui che avevamo offeso nel primo Adamo, non compiendo il suo comandamento [...] Infatti, non eravamo debitori di un altro, ma di colui del quale avevamo trasgredito il precetto all’inizio»134. Se dunque il soggetto del peccato era la carne, la carne peccatrice di Adamo e dei figli, anche la salvezza dell’uomo avrà la carne come suo soggetto, e questa sarà la carne del Signore135. L’impostazione antropologica di Ireneo è in sintonia con la sua soteriologia. Per questo, egli non parla della «salus animae», come fanno le soluzioni valentiniana e origeniana136, perché secondo la dottrina paolina137, in Adamo non peccò la psiché [ψυχή] e nemmeno il pneúma [πνεύμα] ma la carne. Proprio quest’ultima deve quindi essere riconciliata138: «Infatti, si riconcilia ciò che una volta era nell’inimicizia. [...] il Signore ha riconciliato l’uomo al Padre, riconciliando noi a sé per mezzo del corpo della sua carne (cfr. Col 1,22) e riscattandoci con il suo sangue, come dice l’Apostolo agli Efesini»139. Da questo proviene il parallelismo Adamo-Cristo, Carne-carne, Plasma-plasma, perché il Signore ci ha riconciliati «nel corpo della sua carne». La Carne innocente riconcilia dunque la carne peccatrice con il suo Creatore140: E per questo l’Apostolo dice nella lettera ai Colossesi: «E voi che una volta eravate lontani da lui e nemici del suo pensiero per le vostre opere cattive, ora, riconciliati nel corpo della sua carne, per mezzo della sua morte, per presentarvi —————————– 134 Ireneo, commentando Fil 2,8. Cfr. AH, V, 16,3; Teología, II, 104-117. Vedi anche: AH, V, 17,1. 135 «la Carne giusta ha riconciliato la carne che era tenuta schiava nel peccato e l’ha ricondotta all’amicizia di Dio». AH, V, 14,2. Cfr. AH, IV, 20,2. «No basta la acción directa de persona a persona, del Verbo a Adán e hijos. Requiérese la comunión sustancial entre el reconciliador y los reconciliados. […] Es la carne, la sustancia, la que reconcilia la carne, sustancia». Teología, I, 682. 136 Cfr. Orbe, I, 381; Teología, III, 636. 137 «l’Apostolo attesta chiaramente che noi siamo stati salvati per mezzo della carne e del sangue del Signore». AH, V, 14,3. 138 Secondo lo studio di Orbe, nella soteriologia di Ireneo l’«oggetto della redenzione» era «unicamente l’uomo che peccò in Adamo, il plasma, modellato a immagine e somiglianza del Creatore e, a completamento, l’anima infusa nel plasma. Cristo, pertanto, viene a redimere il corpo del protoplasto e con esso, a modo di complemento, anche l’anima». Cfr. Orbe, II, 347. «Lo spirito, componente dell’uomo perfetto (o divino), non appartiene in senso stretto alla natura dell’uomo e per questa ragione neppure l’accompagna nei condannati. [...] É oggetto di redenzione soltanto l’uomo con le sue componenti naturali, il corpo e l’anima. Il pneuma divino non è redimibile come non è soggiogabile». Orbe, II, 357. 139 AH, V, 14,3. 140 «Cristo uomo possiede le tre componenti umane: spirito-anima-corpo (1Ts 5,23; AH, V, 6,1). E tuttavia offre la sua anima per la nostra e la sua carne (=corpo) per la nostra. Omette l’offerta del suo spirito per il nostro spirito. Lo spirito, componente dell’uomo, è divino, in quanto partecipazione dello Spirito di Dio. Non cadde nella schiavitù in Adamo e non necessita di essere redento». Orbe, II, 350. 128 IL MISTERO DELLA SALVEZZA CRISTIANA santi, immacolati e irreprensibili davanti a lui» (cfr. Col 1,21-22). Riconciliati, dice, nel corpo della sua carne: questo perché la carne giusta ha riconciliato la carne che era tenuta schiava nel peccato e l’ha ricondotta all’amicizia di Dio141. Ireneo ci dona una spiegazione perentoria e indiretta del peccato originale. Aderendo sempre alla teologia paolina, egli lega i due misteri: il peccato di Adamo e la riconciliazione di Cristo142: «Infatti, per distruggere la disobbedienza dell’uomo, avvenuta all’inizio nel legno, “si fece obbediente fino alla morte e alla morte di croce” (cfr. Fil 2,8), guarendo la disobbedienza avvenuta nel legno per mezzo dell’obbedienza sul legno»143. Questo è il rimedio del nostro debito – l’obbedienza di Cristo nella quale di nuovo viene in piena luce la visione unitaria di Ireneo: un solo Dio, una sola stirpe umana – soggetto del peccato della disobbedienza e un unico Salvatore che obbedì a Dio e nel quale anche noi siamo riconciliati e divenuti amici di Dio: Per questo negli ultimi tempi ci ha ristabilito nell’amicizia per mezzo della sua propria Incarnazione, divenendo «mediatore fra Dio e gli uomini» (1Tim 2,5), placando per noi il Padre contro il quale avevamo peccato, consolando la nostra disobbedienza per mezzo della sua obbedienza e donandoci la conversione e la sottomissione a Colui che ci ha creato. Perciò ci ha insegnato a dire nella preghiera: «Rimetti a noi i nostri debiti» (Mt 6,12)144. Della salvezza dell’uomo nella teologia di Ireneo parleremo ulteriormente nei paragrafi seguenti. Per adesso abbiamo cercato di mostrare come la sua visione unitaria dell’uomo comprenda l’uomo già immerso nel disegno salvifico di Dio145 e, come abbiamo già detto prima, l’impostazione antropologica di Ireneo, costruita attorno all’uomo-carne, risuona anche nella sua soteriologia realizzata attorno alla «salus carnis»146, nella quale Gesù risorto rappresenta il centro dell’escatologia ireneiana. 2. La salvezza dell’uomo Nei paragrafi precedenti, cercando di rispondere alla domanda «Chi è l’uomo?», abbiamo affermato che secondo la dottrina di Ireneo l’uomo è destinato alla salvezza sin dal momento della sua creazione. Adesso, esaminando gli scritti ireneiani, cercheremo di tirare fuori la dottrina che —————————– 141 142 379. 143 AH, V, 14,2. «Chiarito il secondo viene, in buona parte, esplicitato anche il primo». Cfr. Orbe, I, AH, V, 16,3. Cfr. Teología, II, 104-117. AH, V, 17,1. Cfr. Teología, II, 135-146. 145 Cfr. AH, IV, 38,3 – il testo già citato dove Ireneo parla dell’uomo ordinato fin dal momento della sua creazione a un constante progresso verso la perfezione. Cfr. Teología, IV, 515-517. O quando parla della «salvezza iscritta nei cuori», cioè dei «molti popoli barbari che hanno creduto in Cristo e possiedono la salvezza, scritta senza carta e inchiostro (cfr. 2Gv 12) nei loro cuori (cfr. 2Cor 3,3) mediante lo Spirito». Cfr. AH, III, 4,2. 146 Cfr. AH, IV, 34,1; V, 2,2; Teología, IV, 471. 144 DOTTRINA IRENEIANA 129 risponderebbe alla nostra seconda domanda: «In che cosa consiste e come si realizza la salvezza dell’uomo?». Anche adesso, insieme agli studiosi della dottrina ireneiana, dobbiamo ammettere che, anche se può sembrare così, non è facile sintetizzare la dottrina di Ireneo147. Questa difficoltà non è dovuta solo alla già menzionata «verbosità» e alle «molte ripetizioni» di Ireneo, ma è causata anche dal suo linguaggio che non presenta ancora la strutturazione tipica della futura teologia sistematica. Per questo, cercando di dedicare particolare attenzione all’uso dei termini ireneiani, ci affidiamo al giudizio degli studiosi passati148 secondo i quali nella dottrina di Ireneo i termini «redenzione, liberazione e salvezza si equivalgono»149. Dopo aver mostrato nei paragrafi precedenti che, secondo Ireneo, «l’uomo-carne», creato e plasmato «a Immagine e Somiglianza di Dio»150 è stato cristologicamente immerso nel disegno della salvezza fin dal momento della sua creazione151, ed è stato reso «spirituale» mediante l’inabitazione dello Spirito Santo che «entra nella composizione» dell’uomo rendendolo conforme a Cristo152 e orientandolo verso la vita di comunione con Dio nella quale proprio consiste la salus carnis153, nel seguente passo del nostro lavoro vorremmo illustrare come «la soteriologia di Ireneo sia coerente alla sua antropologia»154. La domanda di Ireneo sulla salvezza dell’uomo-carne è la stessa domanda che si ponevano gli gnostici: «Se la carne possa ottenere la salvezza?»155. La risposta a questa domanda, offertaci da Ireneo e sviluppata soprattutto nell’ultimo libro dell’Adversus haereses156, è contraria a —————————– 147 Cfr. Orbe, II, 28. «Sant’Ireneo, e poi Origene, ci obbligano a sostare un po’ di più, in ragione dell’abbondanza dei testi e della loro importanza e difficoltà». «L’antropologia di Ireneo […] non è una antropologia dotta. Si può dire lo stesso di tutta la sua teologia. Ciò non significa che essa sia senza interesse». De Lubac, facendo riferimento a B. Botte. Cfr. MMC, 71 e nota 47. 148 Pensiamo soprattutto a Orbe. 149 Orbe, II, 335. Cfr. Redenzione, III, 6 (EV, 14, 1902). 150 Cfr. cap. II, par. 1.1 di questo lavoro. 151 Cfr. cap. II, par. 1.2 di questo lavoro. 152 Cfr. cap. II, par. 1.3 di questo lavoro. 153 Cfr. AH, IV, 20,7; Orbe, II, 594. «Ammessa l’identità homo = plasma, la “salvezza dell’uomo” è la salus carnis o salus plasmatis». Ibid., 597. Cfr. Teología, IV, 471. 154 Cfr. Orbe, I, 380. 155 Cfr. Orbe, II, 597. «Nach einer kurzen Einleitung mit appellativem Inhalt setzt er [Irenäus] mit einer geradezu dramatischen Verteidigung der Rettungsfähigkeit des (menschlichen) Fleisches gegen die Gnostiker ein. Es geht um die Frage, ob das Fleisch das Heil erlangen kann. Gemeint ist die Substanz des Fleisches, nämlich die des menschlichen Leibes». Brox sull’AH , V. Cfr. Brox, V, 9. 156 I temi teologici dell’ultimo libro dell’Adversus haereses si potrebbero dividere secondo il seguente ordine: Il discorso teologico sulla carne e sangue di Cristo negli scritti neotestamentari (AH, V, 1–14); la continuità tra creazione e redenzione garantita dall’identità di Dio Creatore e Padre di Gesù Cristo e dall’affidabilità della predicazione della Chiesa e dei suoi annunciatori (AH, V, 15–20); il diavolo come nemico – la storia biblica della tentazione (AH, V, 21–24); lo scenario della venuta dell’Anticristo (AH, V, 130 IL MISTERO DELLA SALVEZZA CRISTIANA quella degli gnostici157, e ci mostra chiaramente la coerenza tra l’antropologia e la soteriologia cristologica di Ireneo, perché il vero uomo – Gesù risorto – «sarà al centro dell’escatologia di Ireneo»158. Il contributo di Ireneo nella storia della soteriologia sta nella sua teoria sulla «ricapitolazione» [άνακεφαλαίωσις/recapitulatio] che «implica la restaurazione dell’immagine di Dio nell’essere umano»159. Inoltre, Ireneo «è stato uno dei primi a formulare la grande tesi dello “scambio” come fondamento della salvezza che Cristo ci dona»160. Per il suo sovrabbondante amore (cfr. Ef 3,19), il Verbo di Dio Gesù Cristo Signore nostro «si è fatto ciò che siamo noi, per fare di noi ciò che è lui stesso»161. Il punto focale della soteriologia di Ireneo sta dunque nella persona di Gesù Cristo: Christus Magister è il Verbo fatto uomo che ha stabilito una comunione con noi, cosicché possiamo vederlo, comprendere le sue parole, imitare le sue opere, realizzare i suoi comandi e rivestirci d’incorruttibilità. In questo noi siamo ricreati a somiglianza di Cristo. Allo stesso tempo, Cristo è Verbo potente in tutto e vero uomo (Verbum potens et homo verus) che intelligibilmente (rationabiliter) ci ha redento mediante il suo sangue, donando se stesso come riscatto (redemptionem) per noi. [...] Nel redimerci con il suo sangue, Cristo ha inaugurato un nuovo stadio nella storia della salvezza, effondendo lo Spirito del Padre affinché Dio e l’umanità possano essere uniti e in armonia. Mediante la sua Incarnazione, egli ha garantito all’umanità, in maniera certa e reale, l’incorruttibilità»162. Queste parole che ci sintetizzano il nucleo della dottrina ireneiana sul tema della salvezza, ci fanno intuire il legame con la teologia giovannea del Verbo incarnato, e soprattutto con la dottrina paolina che riecheggia negli scritti ireneiani163. Per questa ragione, prima di continuare con l’esposizione della dottrina di Ireneo, vorremmo prima fermarci un po’ alla dottrina di Paolo per tirarne fuori i punti centrali che riguardano il nostro tema sulla salvezza e per comprendere meglio la stessa dottrina di Ireneo. —————————– 25–30); conclusione – il Padre conduce la storia della salvezza nella fase ultima (AH, V, 31–36). Cfr. Brox, V, 9. 157 «Di fronte alla gnosi, che riduce la salvezza dell’uomo a quella dell’anima, senza alcuna relazione con questo mondo materiale, Ireneo insisterà sulla salvezza della carne (salus carnis), coerentemente alla propria visione antropologica». L.F. LADARIA, «Destino dell’uomo e fine dei tempi», 370. Per la sintesi ireneiana delle false dottrine gnostiche sul tema della salvezza cfr. AH, V, 19,2. 158 L.F. LADARIA, «Destino dell’uomo e fine dei tempi», 370. 159 Cfr. Ef 1,10; AH, III, 23,1; Redenzione, III, 6 (EV, 14, 1902). 160 Cfr. AH, III, 19,1; V, pref.; 36,3; L.F. LADARIA, «Destino dell’uomo e fine dei tempi», 371; B. SESBOÜÉ, Gesù Cristo, I, 237-238. 161 Cfr. AH, V, pref. 162 Redenzione, III, 5 (EV, 14, 1901). Cfr. AH, V, 1,1. 163 Cfr. Brox, IV, 10. DOTTRINA IRENEIANA 131 2.1 Il patrimonio paolino 2.1.1 Salus carnis Nella presentazione dei risvolti antropologici della dottrina di Ireneo, fatta nei paragrafi precedenti, abbiamo spesso accentuato la forma mentis paolina di Ireneo, per esempio nell’importante passo antropologico (AH, V, 6,1) nel quale Ireneo, facendo una certa esegesi paolina, parla dell’uomo «spirituale» e «perfetto»164, o quando lega il peccato di Adamo alla carne165 dicendo che è proprio la carne che deve essere riconciliata per mezzo della carne e del sangue del Signore166, e finalmente quando lega i due misteri: il peccato di Adamo e la riconciliazione di Cristo167. Dunque, il legame tra l’antropologia e la soteriologia, realizzato mediante il tema della carne, presente negli scritti ireneiani, proviene dal «legame paolino». Era proprio l’«Apostolo di Ireneo» a disegnare la realtà dell’uomo nei suoi diversi aspetti come sóma [σώμα], sarx [σαρξ], psyché [ψυχή], pneúma [πνεύμα], nous [νους], kárdia [κάρδια] e zoé [ζωή], ponendo l’accento, secondo la tradizione del suo tempo, sul binomio/trinomio sómapsyché/pneúma [σώμα-ψυχή/πνεύμα]168, ma sempre salvando l’unità dell’essere umano, secondo la tradizione biblica169. Tra tutti questi aspetti, però, è la nozione di sóma [σώμα] ad essere quella più usata da Paolo. Il suo significato, secondo la tradizione veterotestamentaria, si applica all’uomo in quanto essere unitario e complesso, anzi in quanto persona nel suo aspetto materiale, visibile e sensibile (cfr. Rm 1,24; 12,4; 1Cor 12,14-26; 13,3; 2Cor 4,10; 10,10; Gal 1,16). Il corpo, dunque non è una cosa posseduta dall’uomo. L’uomo stesso è il corpo170. In conformità con il significato veterotestamentario del termine bâsâr [rf'B'] che si riferisce al «corpo» e alla «carne»171, Paolo usa qualche volta il termine sarx [σαρξ] come sinonimo di sóma [σώμα]172, preferendo però il termine sóma [σώμα], sviluppandone un significato teologico più profondo, soprattutto quando parla del corpo eucaristico di Cristo o della Chiesa come «corpo di Cristo». —————————– 164 Cfr. cap. II, par. 1.3 di questo lavoro. Cfr. cap. II, par. 1.4 di questo lavoro. 166 Cfr. AH, V, 14,3; Orbe, I, 381; II, 357. 167 Cfr. AH, V, 16,3; Orbe, I, 379; Teología, II, 104-117. 168 Cfr. 1Cor 5,3; 7,34; 2Cor 12,2-3; 1Ts 5,23; AH, V, 6,1. 169 Cfr. Fitzmyer, 175-180. 170 Cfr. Fitzmyer, 176. Sull’interpretazione ontologica della «corporeità» umana, designata dai termini soma [σώμα] e sarx [σαρξ] nell’antropologia paolina, vedi: G. BOF, Una antropologia cristiana nelle lettere di San Paolo, 33-100. 171 Cfr. Fitzmyer, 177. 172 Cfr. 1Cor 6,16 con riferimento alla Gen 2,24; 2Cor 4,10-11; Gal 4,13-14; 6,17. Lo stesso succede con il binomio «carne e sangue» (cfr. Gal 1,16; 1Cor 15,50). Infatti, tutti questi termini non hanno un significato antropologico stretto, ma vengono usati in modo «fluido» e spesso sono sinonimi usati per accentuare qualche aspetto dell’essere umano. 165 132 IL MISTERO DELLA SALVEZZA CRISTIANA Inoltre, per indicare l’aspetto complesso, materiale e visibile della persona umana, Paolo usa il termine «carne» volendo accentuare la debolezza della creatura umana legata alla terra e in un certo senso allontanatasi da Dio (1Cor 1,29; Rm 6,12; 8,13). Egli parlerà così del corpo in senso peggiorativo usando i termini come «corpo del peccato», «corpo misero» e «corpo di morte» (cfr. Rm 6,6; 7,14.18.23; 8,3; Fil 3,21). Questo riguarda soprattutto l’uomo prima della venuta di Cristo, ma anche l’uomo che dopo la venuta di Cristo rimane sotto il dominio del peccato aderendo alle «opere della carne» (cfr. Gal 5,19-21). L’aspetto debole dell’esistenza umana nella sua «corporeità» viene ancora più accentuato nella contrapposizione paolina tra «carne» e «Spirito»173, dove si tratta sempre dello stesso uomo liberamente soggetto alle tendenze terrene o aperto allo Spirito di Dio (Gal 3,3; 4,29; Rm 8,4–9.13)174. Con la stessa forza con la quale Paolo usa i termini «corpo» e «carne» dandogli un significato «neutro» – per designare un aspetto dell’essere umano –, o un significato peggiorativo – per accentuare la debolezza dello stato umano terreno –, Paolo usa questi termini dandogli anche un significato più «nobile». Per esempio quando parla del corpo crocifisso (cfr. Rm 7,4) o del corpo eucaristico di Cristo (1Cor 10,16), e finalmente, quando parla della Chiesa come «corpo di Cristo» (1Cor 12,27-28; cfr. Col 2,17; Ef 4,12)175. Il termine «corpo», si trova negli scritti paolini nell’ambito delle contrapposizioni fra «naturale/animale» e «spirituale», o fra «terrestre» e «celeste», esprimendo così il dinamismo della vita umana proveniente da una costante relazione del «primo Adamo» al «Secondo», relazione che Paolo esprime attraverso il contrasto di «anti-tipo e tipo» – Cristo e Adamo176: Se c’è un corpo animale, vi è anche un corpo spirituale, poiché sta scritto che il primo uomo, Adamo, divenne un essere vivente, ma l’ultimo Adamo divenne spirito datore di vita. Non vi fu prima il corpo spirituale, ma quello animale, e poi lo spirituale. Il primo uomo tratto dalla terra è di terra, il secondo uomo viene dal cielo. Quale è l’uomo fatto di terra, così sono quelli di terra; ma quale —————————– 173 Cfr. Fitzmyer, 177. Ricordiamo che è proprio la differenziazione paolina che Ireneo invoca quando parla dell’uomo «spirituale» che deve scegliere tra «carne» e «Spirito», tra «le opere della carne» e «le opere dello Spirito». Cfr. AH, V, 9–12, sopratutto 11,1; 12,1-2; Teología, I, 499-521; cap. II, par. 1.3 di questo lavoro. 175 Infatti, nelle lettere «paoline», salvo che nella 1Cor 12,27-28, il termine «corpo di Cristo» viene raramente applicato esplicitamente alla Chiesa, a differenza di quanto avviene nelle lettere «deutero-paoline» nelle quali questo legame viene espresso in modo più esplicito (cfr. Col 1,18; Ef 1,22-23; 2,16; 4,4). Sul modo in cui Paolo usa il termine «corpo di Cristo» parlando della Chiesa, e sulla possibile elaborazione paolina del concetto greco di «corpo politico», cfr. Fitzmyer, 192-197. 176 Cfr. Fitzmyer, 157; A. PITTA, «Tipologia», 1069-1071; ID., Paolo, la Scrittura e la Legge. Antiche e nuove prospettive, 112-115. 174 DOTTRINA IRENEIANA 133 il celeste, così anche i celesti. E come abbiamo portato l’immagine dell’uomo di terra, così porteremo l’immagine dell’uomo celeste (1Cor 15,44b-49)177. Infatti, nell’intero capitolo appena citato della Prima lettera ai Corinzi (1Cor 15) nel quale Paolo sviluppa «l’antropologia della risurrezione», emerge chiaramente il ruolo del corpo che perfettamente disegna l’uomo in una tensione fra il suo stato umano «terreno»-storico e lo stato futuro dell’uomo «risorto». In questo senso Paolo parlerà del «corruttibile» che deve rivestirsi di «incorruttibilità» e del «mortale» che deve rivestirsi di «immortalità» (cfr. 1Cor 15,53-54)178, e tutto questo nella forza di Cristo che «è stato risuscitato dai morti, ed è la primizia di coloro che dormono» (1Cor 15,20; cfr. Fil 3,20). Questa ordinazione a Cristo diventa dunque un dinamismo nel quale l’uomo si trova in una continua tensione fra il suo stato «terreno», determinato dall’imperfezione e dalla peccaminosità, e la vita in Cristo secondo la cui immagine l’uomo è stato creato e al quale è permanentemente ordinato. Paolo rafforza questo dinamismo parlando dell’uomo «interiore» (Rm 7,22; Ef 3,16; 2Cor 4,16), «celeste» (1Cor 15,47-49) e «nuovo» (Ef 4,24), o accentuando ancora il contrasto di «anti-tipo» e «tipo» – Cristo e Adamo: Poiché se a causa di un uomo venne la morte, a causa di un uomo verrà anche la risurrezione dei morti; e come tutti muoiono in Adamo, così tutti riceveranno la vita in Cristo (1Cor 15,21-22). Come dunque per la colpa di uno solo si è riversata su tutti gli uomini la condanna, così anche per l’opera di giustizia di uno solo si riversa su tutti gli uomini la giustificazione che dà la vita. Similmente, come per la disobbedienza di uno solo tutti sono stati costituiti peccatori, così anche per l’obbedienza di uno solo tutti saranno costituiti giusti (Rm 5,18-19)179. Anche attraverso questo dinamismo della vita umana ordinata a Cristo, vediamo che il concetto del corpo ha un ruolo insostituibile e crea un legame tra antropologia e cristologia/soteriologia paolina rendendole inseparabili. Anche se l’uomo è ordinato a Cristo già dal momento della sua creazione, soltanto dopo l’avvenimento storico dell’Incarnazione (Fil 2,68), nel quale il Logos eterno assume la natura umana, l’uomo riceve —————————– 177 Si potrebbe dire che parlando dell’«immagine», Paolo usa il concetto dell’«immagine di Dio» applicandolo prima di tutto a Cristo (2Cor 4,4; Col 1,15), e il cristiano diventa prima «l’immagine di Cristo» (Rm 8,29; 1Cor 15,49; 2Cor 3,18) e poi, «l’immagine di Dio» (Col 3,10). Cfr. I. SANNA, Chiamati per nome. Antropologia teologica, 150-151. Questa dottrina paolina, l'abbiamo vista ripresa e sviluppata da Ireneo. Cfr. cap. II, par. 1.1 di questo lavoro. 178 Cfr. AH, V, 7,1; 10,2; 13,3. Ireneo userà questa dottrina di Paolo per affermare la salvezza della carne contro gli gnostici che negavano la salvezza della carne richiamandosi erroneamente proprio alla dottrina paolina sulla «carne e sangue che non possono ereditare il regno di Dio». Cfr. 1Cor 15,50; AH, V, 9–10; 13,2-3; 14,1. Teología, I, 401-497.619-703. 179 Cfr. AH, V, 16,3; 17,1. 134 IL MISTERO DELLA SALVEZZA CRISTIANA l’adozione filiale e diventa erede delle promesse di Dio (Gal 4,4-7; Ef 1,4-5; Rm 8,15)180, cioè, gli si apre l’ingresso alla vita di comunione con Dio che è la visione beatifica: «Tutti hanno peccato e sono privi della gloria di Dio» (Rm 3,23)181. La gloria di Dio è dunque la vita dell’uomo, cioè l’unico e l’ultimo fine della vita umana, offerto all’uomo come un puro dono, attraverso l’incarnazione di Cristo per mezzo del quale l’uomo riceve il dono dell’adozione filiale182. Nell’antropologia di Ireneo, costruita attorno all’uomo-carne – trinitariamente e cristologicamente determinato fin dal momento della sua creazione –, abbiamo già visto questi elementi della dottrina paolina, soprattutto nell’accentuazione ireneiana del legame esistente fra due misteri – la creazione dell’uomo e l’incarnazione di Cristo. Quest’ultima presenta una novità183 nella storia della salvezza, il culmine reale e salvifico di tutta l’umanità – «Omnem novitatem attulit semetipsum afferens, qui fuerat annuntiatus»184 – e, come vedremo adesso, anch’essa proviene dalla dottrina paolina. 2.1.2 La novità di Cristo Secondo Paolo, senza la grazia di Cristo, l’uomo non può ottenere la salvezza, e già in questa vita è sottoposto ad una triplice schiavitù: del peccato, della Legge e degli «spiriti e divinità di questo mondo»185. Paolo prende in considerazione la prima schiavitù – quella del peccato – partendo dalle precedenti interpretazioni giudaiche dei primi capitoli del libro della Genesi e integrandole con una certa novità. Infatti, nella tarda letteratura giudaica pre-cristiana, c’era la tendenza ad esaltare Adamo creato ad immagine di Dio e predestinato all’immortalità (Gen 1). Allo stesso tempo, —————————– 180 Cfr. AH, V, 10,2; 18,2; 32,2. Ripetiamo di nuovo la famosa frase di Ireneo nella quale, in sintonia con tutta la tradizione biblica, riecheggia la dottrina paolina: «gloria enim Dei vivens homo, vita autem hominis visio Dei». AH, IV, 20,7. «La contemplación de Dios vivifica (con Vida divina) al hombre. Y la Vida divina del hombre constituye la gloria de Dios. El hombre glorificado por Dios con la comunión de Su Vida. Y tal comunión se la procura al hombre la visión de Dios». Teología, IV, 299. Cfr. Ez, 33,11; Rm 3,23; A. ORBE, «Gloria Dei vivens homo», 205-268. 182 Cristo possiede la filiazione «per natura», mente l’uomo riceve l’adozione filiale «per volontà di Dio». Cfr. L.F. LADARIA, Antropologia teologica, 176, nota 1, dove si fa un richiamo alla dottrina di Clemente Alessandrino e Origene. 183 La «novità di Cristo» non nega la continuità. Cfr. AH, I, 10,1; IV, 10,1–11,1; 34,1; E, 50-86. 184 Cfr. AH, IV, 34,1. «Trajo toda la novedad con la presencia Suya en carne. Al presentarse en carne el Señor vaticinado por los profetas, traía la gran Novedad de su eficacia sobre el hombre. En virtud de su parusía en carne, venía a innovar y vivificar al hombre. Era la gran Novedad salvífica, vinculada a Su presencia entre los hombres. “Novitas” equivale, por el contexto, a “praesentia in carne”, “Verbum in carne praesens” en su eficacia salvífica». Teología, IV, 471. 185 Cfr. Fitzmyer, 152-175. 181 DOTTRINA IRENEIANA 135 la realtà del peccato, insieme alla conseguenza della morte, venivano attribuite all’«invidia del diavolo» (cfr. Sap 2,23-24) e all’azione di Eva186. Paolo riprende le interpretazioni bibliche precedenti (Gen 2–3) attribuendo però la causalità del peccato e della morte a «un uomo», e introducendo nello stesso tempo, la già menzionata opposizione-relazione tra «anti-tipo e tipo» – tra Cristo e Adamo (cfr. 1Cor 15,21-22; Rm 5,18-19)187. Prima della venuta di Cristo, tutti – giudei e pagani – erano sottomessi alla schiavitù. A causa della loro ignoranza di Dio e della sua legge i pagani erano «sottomessi a divinità che in realtà non lo sono» e alla schiavitù «di quei deboli e miserabili elementi» (cfr. Gal 4,8-9)188. Anche se è molto severo nel giudicare l’ignoranza dei pagani e la loro empietà e malvagità (cfr. Rm 1,18-32; 1Cor 6,9-10), Paolo ammette che anche loro qualche volta sono esecutori della Legge, quando «fanno per natura le cose della legge» perché «l’opera della legge è scritta nei loro cuori» (cfr. Rm 2,14-15). Per questo, Paolo è ugualmente severo nel giudicare i giudei che, anche se hanno la Legge, non la osservano (cfr. Rm 2,1-24). Dunque, prima della venuta di Cristo, cioè senza il vangelo e la grazia di Cristo, tutta l’umanità si trovava sotto il dominio del peccato (cfr. Rm 3,9-19), nello stato di inimicizia con Dio (cfr. 2Cor 5,19; Rm 5,10; 8,5-7), e secondo le lettere deutero-paoline, anche in un certo stato di morte che è la conseguenza dell’alienazione dell’uomo da Dio (cfr. Ef 2,1-5; 6,11-12; Col 1,13; 2,13)189. È importante notare che Paolo non considera la Legge di Mosè un mezzo sufficiente per ottenere la salvezza190. La Legge è buona perché proviene da Dio e può costituire un aiuto nella via della salvezza (cfr. Rm 7,12.22.25). Paolo, però, mette in evidenza anche l’aspetto «negativo» della Legge considerandola una norma «esterna» non capace di dare la vita, anzi, una norma capace di mettere l’uomo nella condizione di condanna (cfr. Rm 3,9; 8,1-3). Ci sono due modi in cui Paolo spiega la «debolezza» della Legge. Nella lettera ai Galati egli fa risalire l’incapacità della Legge al suo ruolo meramente temporale. In questo senso, siccome la Legge viene soltanto dopo le promesse di Dio date ad Abramo, essa viene considerata inferiore rispetto alle promesse divine: «Perché allora la legge? Essa fu aggiunta per le trasgressioni, fino alla venuta della discendenza per la quale era stata fatta la promessa» (Gal 3,19a). Fino alla venuta di Cristo, la Legge ha rivestito un ruolo pedagogico (cfr. Gal 3,23-25). Nella lettera ai Romani si trova una —————————– 186 Cfr. Fitzmyer, 156. Cfr. Fitzmyer, 157. 188 Cfr. Fitzmyer, 158-159. 189 Cfr. AH, V, 27,2; Teología, III, 138-144. 190 Paolo usa la parola nomos in diversi contesti. Nel contesto della Legge di Mosè, quello di cui qui si tratta, la parola nomos negli scritti paolini si ripete 97 volte. Il tema della Legge è considerato uno dei temi più complessi della teologia paolina. Cfr. Fitzmyer, 161162. 187 136 IL MISTERO DELLA SALVEZZA CRISTIANA spiegazione più intrinseca e sottile che parte dall’uomo nella sua condizione di «debolezza della carne». L’accento si trasferisce dalla Legge all’uomo. Il problema non sta nella Legge, ma nell’uomo «debole»: «Sappiamo, infatti, che la legge è spirituale, mentre io sono carnale, venduto come schiavo del peccato» (Rm 7,14). Entrambe le spiegazioni conducono verso l’unica soluzione. Secondo la lettera ai Galati, con la venuta di Cristo è arrivata la «pienezza del tempo» stabilita dal Padre, fino alla quale l’uomo era un «minorenne» e bisognoso della Legge (cfr. Gal 4,1-5). Con la venuta di Cristo comincia una nuova fase nella storia della salvezza con la quale l’uomo, liberato dallo stato di schiavitù, diventa erede delle promesse di Abramo, cioè gli viene concessa la filiazione adottiva: Ma quando venne la pienezza del tempo, Dio mandò il suo Figlio, nato da donna, nato sotto la legge, per riscattare coloro che erano sotto la legge, perché ricevessimo l’adozione a figli. E che voi siete figli ne è prova il fatto che Dio ha mandato nei nostri cuori lo Spirito del suo Figlio che grida: Abbà, Padre! Quindi non sei più schiavo, ma figlio; e se figlio, sei anche erede per volontà di Dio (Gal 4,4-7)191. La lettera ai Romani pone l’accento sul cambiamento interiore che avviene nell’uomo per lo Spirito di Gesù Cristo. Infatti, l’uomo debole secondo la sua natura (cfr. Rm 7,4) diventa fortificato per la grazia di Cristo, cioè per lo Spirito di Dio che abita nell’uomo rendendolo libero dalla legge del peccato e della morte (cfr. Rm 8,1-2). Quello dunque che non era possibile alla Legge, Dio l’ha fatto per mezzo di Gesù Cristo (cfr. Rm 8,34): «Ora, il termine della legge è Cristo» (Rm 10,4a). Quest’ultima espressione paolina afferma che Cristo è il fine ultimo della Legge192, vale a dire che il fine ultimo della Legge è stato raggiunto non per l’osservanza stessa della Legge, ma per Gesù Cristo, per la grazia e la fede in Cristo che libera dalla «maledizione della legge» (cfr. Gal 3,13)193. La novità della venuta di Cristo è espressa da Paolo mediante l’idea di «nuova creatura»: «Quindi se uno è in Cristo, è una creatura nuova; le cose vecchie sono passate, ecco ne sono nate di nuove» (2Cor 5,17; cfr. Gal 2,19; 5,6; 6,15; Is 43,18-19)194. Si tratta dunque di una novità ontologica grazie —————————– 191 «Ora la sua discendenza è la Chiesa, che riceve per mezzo del Signore la filiazione adottiva di Abramo». AH, V, 32,2. Cfr. AH, V, 34,3. «La única semilla de Abrahán a que responden las promesas divinas es la Iglesia cristiana, constituida por los hijos de su fe, israelitas según la fe (en Cristo): “(semen Abrahae), hoc est qui timent et credunt in Eum (=Deum)”». Teología, III, 373.470-479. Cfr. AH, V, 32,2 in Bellini-Maschio, 635-636, nota 2; SC 153, 402. 192 L’espressione «telos nomu» potrebbe significare sia «la fine» come termine, sia «il fine» come meta o scopo ultimo della Legge. Secondo Fitzmyer, quest’ultimo sarebbe più coerente con lo spirito della lettera ai Romani. Cfr. Fitzmyer, 170-171. 193 Questa spiegazione cristologica della Legge di Mosè rende Paolo unico tra gli autori neotestamentari. Cfr. Fitzmyer, 173. 194 Cfr. AH, V, 18,2. DOTTRINA IRENEIANA 137 alla quale l’uomo entra in una nuova relazione con Dio nella persona di Gesù Cristo, così da trascendere la precedente relazione con Dio legata all’osservanza della Legge195. I temi con cui Paolo presenta questa novità della vita in Cristo196 sono la fede, il battesimo e l’eucaristia, indicando come attraverso queste realtà l’uomo venga incorporato in Cristo e nella sua Chiesa – comunità della fede – diventando così partecipe della vita in Cristo. La novità della vita in Cristo è un dono gratuito che viene da Dio come una libera offerta (cfr. Rm 3,2425; 6,14; 11,6; 12,3), non acquistabile con sforzi umani. L’iniziativa viene da Dio e si offre come dono di una vita nuova in comunione con Dio. Accettando quest’offerta da Dio, attraverso un atteggiamento di fede e di sottomissione a Dio, accogliendo nello stesso tempo la vita nello Spirito, compiendo le «opere dello Spirito» (cfr. Gal 5,6.13)197 e astenendosi dalle «opere della carne» (cfr. Gal 5,19-21)198, l’uomo viene gratuitamente giustificato davanti a Dio (cfr. Gal 2,16; Rm 3,28)199 e viene liberato dalla schiavitù della Legge e del peccato. Rifiutando invece la vita in Cristo, l’uomo rimane sottomesso alla schiavitù del peccato e delle «divinità di questo mondo» (cfr. Gal 4,8-9; 2Cor 4,3-4; Rm 8,29; 2Ts 2,10)200. Inoltre, Paolo esprime la novità della vita in Cristo utilizzando le preposizioni per Cristo, con Cristo e in Cristo [δια, συν, εις/εν] – che oggi risuonano nella dossologia eucaristica –, e applicando il termine «corpo di Cristo» al battezzato diventato una delle «membra di Cristo» (1Cor 6,15; 12,12.27), alla Chiesa (1Cor 12,27-28; cfr. Col 2,17; Ef 4,12), e al corpo eucaristico di Cristo (1Cor 10,16)201. 2.1.3 Elementi paolini nella dottrina di Ireneo Come nella dottrina di Paolo la sua impostazione antropologica risuona nella sua cristologia e soteriologia, così succede nella dottrina di Ireneo. Per renderlo più evidente abbiamo deciso di inserire questo breve «excursus» sulla dottrina paolina proprio a cavallo tra gli elementi antropologici e quelli soteriologici della dottrina ireneiana. In questo senso abbiamo già affermato —————————– 195 Negli ultimi capitoli dell’Adversus haereses, Ireneo parlerà dell’universalismo della salvezza in Cristo, basandosi sulle profezie veterotestamentarie sulle promesse e benedizioni di Dio legate alla futura risurrezione dei giusti, al rinnovamento e alla liberazione di tutte le creature, in vista di cieli nuovi e terra nuova, applicandole anche «alle Chiese radunate dalle nazioni». Cfr. AH, V, 32,2–36,3, soprattutto 34,3; Teología, III, 470479. 196 Cfr. Fitzmyer, 181-205. 197 Cfr. AH, V, 9–12; 11,1; 12,1-2. 198 Cfr. AH, V, 11,1-2. 199 Sulla grazia e la giustificazione nella dottrina paolina, vedi: A. GANOCZY, Dalla sua pienezza noi tutti abbiamo ricevuto. Lineamenti fondamentali della dottrina della grazia, 47-76; I. SANNA, Chiamati per nome. Antropologia teologica, 230-234. 200 Cfr. AH, V, 11,1. 201 Cfr. Fitzmyer, 188-197. 138 IL MISTERO DELLA SALVEZZA CRISTIANA la forma mentis paolina nell’antropologia di Ireneo costruita attorno all’uomo-carne, creato a «Immagine e Somiglianza di Dio», oppresso dalla forza del peccato, ma capace di ricevere lo Spirito di Dio, perché strettamente ordinato a Cristo attraverso i misteri della Sua incarnazione e risurrezione. Per mezzo di questi misteri di Cristo si compie la salvezza dell’uomo che consiste nella vita di comunione con Dio – l’unico fine ultimo della vita umana – che, secondo l’universalismo paolino e ireneiano della salvezza in Cristo, viene offerta a tutti202. Per i misteri dell’Incarnazione e della Risurrezione, l’uomo di Paolo è trinitariamente determinato ed è incluso nel progetto della salvezza (cfr. 1Cor 15,20-24; Ef 1,10-14). Anche se Paolo non cita le formule battesimali delle prime comunità cristiane (cfr. Mt 28,19), i suoi scritti rivelano la professione della fede trinitaria (cfr. 1Cor 6,11) secondo la quale l’uomo per mezzo del battesimo diventa tempio dello Spirito Santo (1Cor 6,19) e riceve la filiazione adottiva (Gal 4,4-6; Rm 8,9.14-17)203. Lo Spirito Santo è dunque il principio costituivo della filiazione in Cristo, ed è la sorgente viva della vita nuova dei figli di Dio (cfr. Rm 8,14-17; Ef 1,10-14). Non è dunque possibile nella dottrina paolina separare gli elementi antropologici da quelli cristologico-soteriologici, perché gli uni includono gli altri. Proprio così succede nella soteriologia di Ireneo nella quale risuona la sua impostazione antropo-cristologica di colore paolino, che si rivela nei temi seguenti: nel legame ireneiano esistente fra i misteri della creazione e dell’Incarnazione; nella «novità assoluta di Cristo»; nella dottrina sulla «ricapitolazione» e «adozione filiale», e infine nell’«antropologia della risurrezione» che rivela la tensione fra «corruttibile» e «incorruttibile», fra «mortale» e «immortale», cioè il dinamismo della «vita in Cristo». Nei paragrafi successivi del nostro lavoro cercheremo di presentare questi elementi della dottrina ireneiana inquadrandoli nei temi della redenzione e della «divinizzazione». 2.2 Redenzione 2.2.1 I misteri dell’Incarnazione e della Risurrezione Oltre al carattere paolino della dottrina ireneiana sulla salvezza, si deve tenere presente, come abbiamo già detto prima, che nella dottrina di Ireneo i termini «redenzione, liberazione e salvezza si equivalgono»204, e che i —————————– 202 L’offerta universale della salvezza non esclude la libertà dell’uomo, perché anche dopo la venuta di Cristo, aderendo liberamente alle «opere della carne», l’uomo rimane sotto il dominio del peccato. Cfr. Gal 3,3; 4,29; 5,19-21; Rm 8,4–9.13; AH, V, 11,1; 12,2; 27,2. 203 Cfr. Fitzmyer, 187; AH, V, 32,2; 34,3. 204 Cfr. Orbe, II, 335. «Riconciliazione, remissione dei peccati, redenzione, salvezza sono concetti distinti tra loro, ma facilmente intercambiabili. Ireneo non vi insiste qui, contento di collegarli al corpo carnale di Cristo, alla carne e al sangue intesi fuori metafora DOTTRINA IRENEIANA 139 misteri dell’incarnazione e della risurrezione di Cristo sono al centro della sua soteriologia. Questo appare evidente fin dall’inizio dell’ultimo libro dell’Adversus haereses, nel quale Ireneo, cercando di rispondere alla domanda sulla salus carnis, prende le mosse dal discorso teologico sulla «carne e sangue di Cristo», cioè sulla realtà dell’Incarnazione negli scritti neotestamentari: «non avremmo potuto conoscere i misteri di Dio, se il nostro maestro, che è il Verbo, non si fosse fatto uomo»205. Il riferimento all’Incarnazione si ripete spesso anche nell’Epideixis, dove Ireneo, sviluppando la dottrina della «ricapitolazione», istituisce un parallelismo tra l’origine del corpo di Adamo e quello del Salvatore: «Ricapitolando in sé quest’uomo, il Signore, nascendo da una vergine per volontà e sapienza di Dio206, riprodusse lo stesso schema di corporeità per dimostrare l’identità della sua corporeità con quella di Adamo e per rifare […] l’uomo a immagine e somiglianza di Dio»207. Alla luce della frase appena citata si chiarisce la segnalazione ireneiana delle due nature del Figlio: «nascendo da una vergine per volontà e sapienza di Dio»208. Basandosi sui testi evangelici209 e confutando le dottrine gnostiche, Ireneo spesso ripete lo stesso tema: «generato da Dio per virtù dello Spirito Santo, e nato dalla Vergine Maria della stirpe di Davide e di Abramo»210. Dagli scritti ireneiani sull’Incarnazione, diventa dunque chiaro che Ireneo parla delle due nature di Gesù – che è Figlio di Dio «secondo lo Spirito (o sostanza divina)» e Figlio dell’uomo «secondo la carne» –, rimanendo chiaro che si tratta sempre della medesima persona: «La Chiesa […] ricevette dagli apostoli e dai loro discepoli la fede in un solo Dio, Padre onnipotente […] e in un solo Gesù Cristo, il Figlio di Dio, incarnatosi per la nostra salvezza»211. Ireneo presenta dunque l’Incarnazione come una condizione necessaria della redenzione212: —————————– come strumenti o mezzi di redenzione o di salvezza». Orbe, II, 361. Infatti, secondo Orbe, «la redenzione non è né un termine né un concetto su cui Ireneo torna con frequenza». Cfr. Ibid., 330; Redenzione, III, 6 (EV, 14, 1902). 205 AH, V, 1,1. Cfr. AH, III, 19,2; 21,5.7; V, 1–14; Brox, V, 9; Redenzione, III, 6 (EV, 14, 1902). Sulla «necessità dell’Incarnazione» in Ireneo, cfr. Teología, I, 52-81. Il mistero dell’Incarnazione come specificum christianum è al centro della riflessione dei Padri più del mistero della Risurrezione. Cfr. P. CODA, Teo-logia, 178. 206 Cfr. il versetto giovanneo Gv 1,13, che accentua la volontà di Dio nel mistero dell’Incarnazione e spesso risuona negli scritti di Ireneo. Cfr. AH, III, 16,2; 19,2; 21,5.7; 26,2; V, 1,3; Orbe, II, 32-34. 207 E, 32. 208 E, 32. 209 Cfr. Lc 1,35; Mt 1,18; Gv 1,13. 210 E, 39-40. Cfr. AH, III, 21,4; V, 1,3; Orbe, II, 22-23. 211 AH, I, 10,1. Cfr. E, 6. Cfr. Orbe, II, 26. Orbe sostiene che Ireneo aveva nella mente la categoria filosofica stoica della crasi – «unione inconfusa di sostanze»: «Conforme a tale orientamento pensò probabilmente alla comunione di crasi tra lo Spirito del Verbo e la carne, presa da Maria; si tratta della crasi analoga a quella di anima e corpo in ciascun 140 IL MISTERO DELLA SALVEZZA CRISTIANA Infatti, come avremmo potuto divenire partecipi della adozione filiale (cfr. Gal 4,5), se mediante il Figlio non avessimo ricevuto da lui la comunione con Lui; se non fosse entrato in comunione con noi il suo Verbo facendosi carne (cfr. Gv 1,14)? Per questo è passato attraverso ogni età, restituendo così a tutti la comunione con Dio213. Come nella plasmazione di Adamo, così nell’incarnazione di Cristo tutte e tre le persone divine sono attive: «il Padre come causa principale, il Figlio come causa ministeriale e lo Spirito Santo come causa materiale, operano nella Vergine per formare il Verbo con la sua duplice natura spirituale e carnale»214. A causa del «silenzio ireneiano» sulla psiché [ψυχή] nella comunione cristologica, «le espressioni di Ireneo sembrano suggerire che quanto il soffio di vita (= anima) rappresentava per il corpo di Adamo, era il Verbo (= Spirito di Dio) per il plasma di Cristo»215. Similmente come nei Vangeli216, Ireneo non parla spesso della psiché [ψυχή] di Cristo perché «non è essa a caratterizzare l’incarnazione»217, però Ireneo non esclude l’esistenza della psiché [ψυχή]: Infatti, se non ha preso da un essere umano la sostanza della carne, non si è fatto né uomo né Figlio dell’uomo. Ora se non si è fatto ciò che eravamo noi, non aveva grande importanza che patisse e soffrisse. Ognuno ammetterà che noi siamo un corpo preso dalla terra e un’anima che riceve da Dio lo Spirito. Tutto questo dunque è divenuto il Verbo di Dio ricapitolando in sé la sua propria creatura, e per questo confessa di essere Figlio dell’uomo e proclama beati «i miti che erediteranno la terra» (Mt 5,5)218. Anche qua è evidente il realismo di Ireneo e la sua accentuazione del corpo, ma come abbiamo già ripetuto prima, il linguaggio di Ireneo e le sue formule «non sono così chiare come sembrano»219. Proprio per questa ragione, anche qua ci fidiamo del giudizio degli studiosi più degni e riportiamo la sintesi di Orbe sul tema dell’Incarnazione nella dottrina di Ireneo: Si può parlare di Verbo totalmente e perfettamente incarnato soltanto quando alla comunione personale si accompagna la comunione fisica dello Spirito con la sarx, in virtù dell’unzione iniziata nel Giordano e compiuta in pienezza con la —————————– uomo». Cfr. Ibid., 26. «L’union de l’élément divin et de l’élément humain dans le personnage unique du Verbe est affirmée sans ambages». F. VERNET, «Irénée (Saint)», 2467. 212 Cfr. Teología, I, 52-81. 213 AH, III, 18,7. «il veut sauvegarder avant tout la possibilité et la réalité du salut; or, le salut n’est possible et réel qu’avec un Christ qui appartienne à la fois à la divinité et à l’humanité». F. VERNET, «Irénée (Saint)», 2468. 214 Cfr. E, 53, 71. 215 Cfr. AH, V, 1,3; Orbe, II, 27. 216 Cfr. Gv 1,3; Lc 1,35. 217 Cfr. Orbe, II, 27. 218 AH, III, 22,1 [corsivo nostro]. 219 Cfr. Orbe, II, 28. DOTTRINA IRENEIANA 141 risurrezione; in altri termini, allorché la sarx (o homo) è innalzata all’unione con il Verbo, Immagine del Padre (per mezzo dell’incarnazione), e con lo Spirito, Somiglianza di Dio (in virtù della risurrezione), e diventa caro divina, dinamicamente partecipe dello Spirito, veicolo e origine dello Spirito Santo per i suoi fratelli, gli uomini. Nell’incarnazione la sarx è assunta come dall’interno, in maniera invisibile e priva di efficacia esteriore, dal Logos (o dallo Spirito del Verbo). Con la risurrezione la sarx è assunta come dall’esterno, visibilmente e con un’efficacia sensibile, dallo Spirito Santo (del Giordano)220. E solamente dopo la risurrezione, superato il regime effimero dell’anima, la carne entra nel regime definitivo dello Spirito221. Il mistero dell’Incarnazione si esprime dunque pienamente soltanto alla luce del mistero della Risurrezione e anche qua la realtà della carne ha il suo ruolo insostituibile. Infatti, proprio mediante i dogmi della Risurrezione e dell’Eucaristia, Ireneo presenta la necessità dell’Incarnazione per la nostra redenzione: Così, se non è nato, non è neppure morto; e se non è morto, non è risuscitato dai morti; e se non è risuscitato dai morti, non ha trionfato della morte, né ha distrutto il suo regno (cfr. Rm 5,14.17; 2Tim 1,10); se la morte non è vinta, come saliremo verso la vita noi che fin dall’inizio siamo caduti sotto l’impero della morte (cfr. 1Cor 15,12-17)? Chi nega la redenzione dell’uomo e non crede che Dio lo risusciterà dai morti, disprezza anche la nascita di nostro Signore222. Come potranno [gli eretici] essere certi che il pane eucaristizzato è il corpo del loro Signore e il calice è il suo sangue, se non affermano che egli è il Figlio del Creatore del mondo […]? Perché gli offriamo ciò che è suo, proclamando armoniosamente la comunione e l’unità della carne e dello Spirito. Infatti, come il pane che proviene dalla terra, dopo aver ricevuto l’invocazione di Dio, non è più pane comune ma eucaristia costituita di due realtà, una terrestre e una celeste, così anche i nostri corpi che ricevono l’eucaristia non sono più corruttibili, perché hanno la speranza della risurrezione223. —————————– 220 «Lo Spirito del Giordano», secondo lo studio di Orbe, «deve essere necessariamente lo Spirito Santo – Spiritus Dei – comune alle altre persone, comunicato come “qualità” o “virtù” fisica alla natura umana di Gesù, per predisporla a compiere atti fisicamente divini». Orbe, II, 182. Cfr. Ibid., I, 279-280; II, 180-183. 221 Orbe, II, 29. 222 E, 39. 223 AH, IV, 18,4-5. Cfr. AH, IV, 33,2. Sull’importanza di questo passo per la comprensione della dottrina di Ireneo sull’Eucaristia e sulla polemica tra cattolici e protestanti ad esso legata, vedi: AH, IV, 18,5 in Bellini-Mascihio, 615-616, n. 1. «La consonancia de la salus carnis con la Eucaristía salta a la vista. La Eucaristía del Cuerpo y Sangre de Cristo alimenta nuestro cuerpo y sangre y los dispone para la Vida eterna. En virtud del Espíritu que pasa del Cuerpo y Sangre de Cristo – en la Eucaristía – a nuestro cuerpo y sangre, asegura Cristo la salus carnis. La eficacia de la Eucaristía pasa de Carne a carne, de Sangre a sangre. Merced a la acción, no de solos Cuerpo y Sangre, sino del Espíritu de que son vehículo el Cuerpo y Sangre de Cristo en la eucaristía, confirma ésta la vida eterna de los predestinados». Teología, IV, 256. Cfr. Ibid., 256-258. 142 IL MISTERO DELLA SALVEZZA CRISTIANA Negli scritti di Ireneo non manca il del tema sulla Risurrezione, sia nei riferimenti alle profezie dell’Antico Testamento sulla risurrezione di Cristo sia nei rimandi ai testi neotestamentari224. La logica di Ireneo è semplice: alla morte di Gesù secundum carnem segue la sua risurrezione pure nella carne. «Ireneo coglie nella risurrezione di Cristo, fondamentalmente, il rivestimento da parte della sua sarx [σαρξ], sostanza corruttibile e mortale, dall’athanasía [αθανασία] e incorruttibilità dello Spirito di Dio (Padre)»225. Nella risurrezione di Cristo – prefigurato e sintetizzato nel «segno di Giona» – si realizza l’economia della salus carnis come trionfo «nella carne» dell’Uomo-Carne sul nemico e sulla morte: Allo stesso modo [come nel caso di Giona], fin dall’inizio, Dio permise che l’uomo fosse inghiottito dal grande mostro, che fu autore della trasgressione, non perché, inghiottito, perisse totalmente, ma perché preparava in antecedenza l’acquisto della salvezza, che sarebbe stata effettuata dal Verbo mediante il segno di Giona (cfr. Mt 12,39-40) per coloro che avrebbero avuto gli stessi sentimenti di Giona nei confronti di Dio, l’avrebbero confessato ed avrebbero detto: «Io sono il servo del Signore ed onoro il Signore Dio del cielo che ha creato il mare e la terra ferma (Gn 1,9)»; perché dunque l’uomo, ricevendo da Dio una salvezza insperata, risorgesse dai morti e glorificasse Dio, e dicesse la parola che fu profetata da Giona: «Ho gridato al Signore mio Dio nella mia tribolazione ed egli mi ha esaudito dal ventre dell’inferno» (Gn 2,2), e rimanesse sempre costante a glorificare Dio e a ringraziarlo continuamente per la salvezza ricevuta da lui, «affinché nessuna carne possa gloriarsi al cospetto di Dio» (1Cor 1,29), né mai l’uomo accolga su Dio un pensiero contrario, considerando come sua propria per natura l’incorruttibilità, di cui è rivestito, senza esaltarsi in un vano orgoglio, come se fosse simile a Dio per natura (cfr. Gen 3,5), abbandonando la verità. Questo infatti lo rendeva piuttosto ingrato verso Colui che lo aveva creato ed offuscava l’amore che Dio aveva verso l’uomo ed accecava il suo pensiero, inducendolo a pensare ciò che non è degno di Dio, spingendolo a paragonarsi e considerarsi uguale a Dio226. Come fu prefigurato in Giona, così succederà con il Signore che ha «osservato la legge dei morti per divenire il Primogenito dai morti (cfr. Col 1,18)» e «ha dimorato fino al terzo giorno nelle regioni inferiori della terra (cfr. Ef 4,9)» per risuscitare «nella carne»227. Cristo è dunque il «Primogenito dei morti» e la sua risurrezione «nella carne», che implica la risurrezione dell’anima, produce i frutti di salvezza per i «suoi discepoli» perché anche loro, come il Signore, risusciteranno «integralmente»: —————————– 224 Cfr. E 72; 73; AH, III, 5,1; 12,1-2; 16,5; 20,1; IV, 5,2; 33,13; V, 31,1-2; Orbe II, 412-431. 225 Orbe, II, 415. 226 AH, III, 20,1 [corsivo nostro]. Le parole in corsivo di questa citazione ci rivelano la dottrina paolina nascosta negli scritti di Ireneo sul tema del fine ultimo dell’uomo e l’assoluta gratuità della salvezza. Cfr. Ez, 33,11; Rm 3,23; AH, IV, 20,7; Teología, IV, 296301; A. ORBE, «Gloria Dei vivens homo», 205-268. 227 AH, V, 31,2. Cfr. Teología, III, 320-322. DOTTRINA IRENEIANA 143 Poiché il Signore “se n’è andato in mezzo all’ombra della morte” (Sal 22,4), dove erano le anime dei morti, poi è risorto corporalmente e dopo la risurrezione è stato elevato al cielo, è chiaro che anche le anime dei suoi discepoli, per i quali il Signore ha fatto queste cose, andranno nella regione invisibile, assegnata loro da Dio, e lì dimoreranno i loro corpi e risusciteranno integralmente, cioè corporalmente, come risuscitò il Signore, e così andranno al cospetto di Dio228. Proprio attorno al tema della Risurrezione si riconosce il marchio lasciato dalla teologia paolina sugli scritti ireneiani, soprattutto nei capitoli AH, V, 13,1 – 14,4 dove si sviluppano e culminano i temi sulla salvezza della carne attraverso la risurrezione di Cristo, prefigurata nelle guarigioni compiute da Gesù, cioè «attraverso le cose temporanee»229. Ireneo insiste sulla realtà della carne e del sangue di Gesù contro gli gnostici che, richiamandosi erroneamente alla dottrina paolina sulla «carne e sangue che non possono ereditare il regno di Dio», negavano la salvezza della carne230. La sua visione, del tutto «paolina», distingue le «opere della carne» dalla realtà della carne – la realtà mortale e corruttibile che deve «rivestirsi d’incorruttibilità e immortalità» (1Cor 15,53)231. Tutto questo si realizza attraverso Cristo – «risuscitato dai morti, primizia di quelli che si sono addormentati» (cfr. 1Cor 15,13-21)232 – nel quale è risorta anche la nostra carne233: Ecco la prova che Paolo non ha parlato contro la sostanza della carne e del sangue, quando diceva che essa non eredita il regno di Dio (cfr. 1Cor 15,50): sempre l’Apostolo a proposito del nostro Signore Gesù Cristo usa i termini carne e sangue. Da una parte egli mette in luce la sua umanità – e infatti egli stesso si denominava Figlio dell’uomo –, dall’altra afferma energicamente la salvezza della nostra carne – perché se la carne non avesse dovuto essere salvata, il Verbo di Dio non si sarebbe fatto carne (cfr. Gv 1,14), e se il sangue dei giusti non avesse dovuto essere vendicato, il Signore non avrebbe avuto il sangue234. —————————– 228 AH, V, 31,2 [corsivo nostro]. La dottrina comune a Giustino, Ireneo e Tertulliano afferma che «i giusti dopo la morte non vanno direttamente alla presenza del Signore». Cfr. L.F. LADARIA, «Destino dell’uomo e fine dei tempi», 374. Ireneo attribuisce l’immortalità dell’anima alla volontà di Dio e non alla natura. Cfr. AH, II, 34,1-4; L.F. LADARIA, «Destino dell’uomo e fine dei tempi», 370. «Per Ireneo di per sé è redimibile unicamente l’uomo che peccò in Adamo, il plasma, modellato a immagine e somiglianza del Creatore e, a completamento, l’anima infusa nel plasma. Cristo, pertanto, viene a redimere il corpo del protoplasto e con esso, a modo di complemento, anche l’anima». Orbe, II, 347. Cfr. cap. II, par. 1.3 di questo lavoro. 229 Cfr. AH, V, 13,1. 230 Cfr. 1Cor 15,50; AH, V, 13,2-3; 14,1; Teología, I, 401-461. 231 Cfr. AH, V, 13,3; Teología, I, 499-521. 232 Cfr. AH, V, 13,4. 233 Cfr. Teología, I, 323-359. 234 AH, V, 14,1. Il forte realismo di Ireneo nel considerare la realtà della «carne e sangue di Cristo» e la realtà della «nostra carne», che viene salvata attraverso i misteri dell’incarnazione, morte e risurrezione di Cristo, ci fa capire l’insistenza di de Lubac nel parlare dell’«uomo reale» – l’unico uomo creato e destinato al suo unico fine ultimo che è la salvezza, cioè la vita in comunione con Dio. Dunque, c’è un unico e vero Cristo che salva, e c’è un unico e vero uomo che viene salvato. 144 IL MISTERO DELLA SALVEZZA CRISTIANA Ispirato da Paolo Ireneo, dunque, lega i misteri di Cristo alla salvezza dell’uomo235. Cristo è stato «costituito Figlio di Dio» (Rm 1,4) per diventare «il primogenito di coloro che risuscitano dai morti» (Col 1,18)236. Egli lega i due segni, entrambi connessi alla realtà della carne umana: «il segno della Vergine» (di Isaia) – Incarnazione237, e «il segno di Giona» – Risurrezione238. La storia dell’umanità è associata ai misteri della vita di Cristo, alla sua incarnazione, morte e risurrezione239: Dunque questo Figlio di Dio, nostro Signore, che è Verbo del Padre e Figlio dell’uomo, divenne Figlio dell’uomo perché da Maria, che aveva avuto la generazione da creature umane ed era ella stessa creatura umana, ebbe la nascita umana. Perciò il Signore stesso ci dette un segno (cfr. Is 7,14), in profondità ed in altezza (cfr. Is 7,11), segno che l’uomo non domandò (cfr. Is 7,12), poiché non si sarebbe mai aspettato che una vergine potesse divenire madre e partorire un figlio, continuando ad essere vergine, e che il frutto di questo parto fosse «Dio-con-noi» (cfr. Is 7,14), e che egli discendesse nelle profondità della terra (cfr. Ef 4,9) a cercare la pecora che era perduta (cfr. Lc 15,4-6), cioè la sua propria creatura (cfr. Gen 2,7), e salire in alto (cfr. Ef 4,10) ad offrire e presentare al Padre l’uomo che era stato ritrovato (cfr. Lc 15,24.32), avendo prodotto in se stesso la primizia della risurrezione dell’uomo (cfr. 1Cor 15,20), affinché come risuscitò dai morti il capo (cfr. Ef 1,22; Col 1,18), così anche il resto del corpo, cioè ogni uomo che sarà trovato nella vita (cfr. Fil 3,9), compiuto il tempo della condanna dovuta alla disobbedienza, risorga (cfr. 1Cor 15,23)240. 2.2.2 Ricapitolazione in Cristo La salvezza dell’uomo si realizza nella storia umana attraverso gli avvenimenti storici della vita di Cristo. In questo senso il mistero dell’Incarnazione produce frutti per tutta l’umanità: Noi infatti abbiamo dimostrato che il Figlio di Dio non cominciò ad esistere allora [dal momento dell’Incarnazione] perché esisteva da sempre presso il Padre; ma quando si incarnò e divenne uomo, ricapitolò in se stesso la lunga storia degli uomini, procurandoci in compendio la salvezza, affinché ricuperassimo in Cristo Gesù ciò che avevamo perduto in Adamo, ciò l’essere ad immagine e somiglianza di Dio (cfr. Gen 1,26)241. Come per Paolo «tutti hanno peccato» – giudei e pagani insiemi – e «sono privi della gloria di Dio» (Rm 3,23), cosi è anche per Ireneo. Sia a —————————– 235 «La morte e la risurrezione di Gesù sono le sole ragioni e la causa della risurrezione degli uomini». L.F. LADARIA, «Destino dell’uomo e fine dei tempi», 370. 236 Cfr. AH, III, 16,3. 237 Cfr. AH, III, 21,4. 238 Cfr. AH, III, 20,1. 239 Questa riflessione rappresenta una caratteristica comune nei discorsi dei Padri sulla redenzione basata sui temi biblici. Cfr. Redenzione, III, 13 (EV, 14, 1909). 240 AH, III, 19,3. 241 AH, III, 18,1. Cfr. AH, III, 21,10; 23,1. DOTTRINA IRENEIANA 145 coloro che erano sottomesi alla «schiavitù della Legge» – i giudei (cfr. Rm 2,1-24; 3,9-19)242, che a coloro che a causa della loro ignoranza di Dio erano sottomessi alla schiavitù delle «divinità di questo mondo» – i pagani (cfr. Gal 4,8-9; Rm 1,18-32; 1Cor 6,9-10), dunque a tutti, viene offerta l’adozione filiale in Cristo. Ispirandosi ai testi Paolini243, Ireneo spesso e in vari modi afferma che «il Primogenito dei morti» (cfr. Col 1,18) che è «il Primogenito di tutta la creazione» (cfr. Col 1,15) – il Figlio di Dio – «divenne Figlio dell’uomo, affinché attraverso di lui riceviamo l’adozione»244. Però, mentre spesso e in forme sinonimi Ireneo ripete il concetto di «adozione», non lo lega strettamente a «coloro che erano sotto la Legge» per non limitare la redenzione di Cristo soltanto al «popolo eletto»245. Cristo, «nato da una donna» è dunque redentore di tutti i nati da donna, proprio secondo le promesse fatte ad Abramo, alle quali si richiamano sia Paolo che Ireneo per affermare l’universalismo della salvezza in Cristo246, senza, però, negare la libertà dell’uomo: Ma su quanti si separano da lui per loro libera decisione fa cadere la separazione scelta da loro. Ora la separazione da Dio è la morte e la separazione dalla luce è la tenebra e la separazione da Dio è la perdita di tutti i beni che provengono da lui. Dunque quelli che hanno perso le cose dette prima, a causa della loro apostasia, essendo rimasti privi di tutti i beni, sono immersi in ogni punizione, non perché Dio prenda l’iniziativa di punirli, ma perché la punizione li segue in quanto rimangono privi di tutti i beni247. Mettendosi sempre nel solco dello spirito paolino, Ireneo distingue la situazione di tutta l’umanità prima e dopo la venuta di Cristo per mezzo del quale si compie la redenzione annunciata dai Profeti: Isaia riafferma che coloro che servirono Dio saranno alla fine salvati in forza del suo nome: “Coloro che mi hanno servito saranno chiamati con un nome nuovo, che sarà benedetto sulla terra e benediranno il Vero Dio” (Is 65,15-16). Nuovamente Isaia annuncia che Egli stesso in persona renderà operante questa benedizione: “Non un inviato, non un angelo, ma il Signore stesso ha dato loro —————————– 242 Anche Ireneo, come Paolo, è «severo» nel giudicare i giudei, soprattutto perché non hanno «accolto il Verbo», e nello stesso tempo afferma anche lui la novità e l’universalismo della salvezza dei pagani. Cfr. AH, IV, 18,4; 20,12; Teología, IV, 315. 243 «Ma quando venne la pienezza del tempo, Dio mandò il suo Figlio, nato da donna, nato sotto la legge, per riscattare coloro che erano sotto la legge, perché ricevessimo l’adozione a figli» (Gal 4,4-5). 244 Cfr. AH, III, 16,3. 245 L’eccezione potrebbe essere soltanto AH, IV, 11,1. Cfr. Orbe, II, 332-333; Teología, IV, 141. 246 Cfr. Gal 3,14; AH, V, 32,2; 34,3. 247 AH, V, 27,2. Cfr. AH, IV, 37,2; 39,1; V, 16,3–17,1; Teología, III, 138-144; IV, 505. L’uomo rimane libero di scegliere tra le «opere della carne» e le «opere dello spirito» insieme alle loro conseguenze di morte e di vita. Cfr. Gal 3,3; 4,29; 5,19-21; Rm 8,4-9.13; AH, V, 11,1; 12,2; 27,2. 146 IL MISTERO DELLA SALVEZZA CRISTIANA la vita, perché li ama e ha compassione di loro. Egli stesso li ha liberati” (Is 63,9)248. Gesù, vero uomo, nato da donna, è «il Signore stesso»249, ed è dunque vero Dio che porta la novità della salvezza: «Ma allora il Signore che cosa è venuto a portarci di nuovo? Sappiate che ha portato ogni novità portando se stesso, che era stato annunciato. Infatti, era stato preannunciato che sarebbe venuta la Novità per rinnovare e rivivificare l’uomo»250. Ireneo riprende il modello paolino dello stato di schiavitù in cui viveva l’umanità prima della venuta di Cristo. Tutti gli uomini sono eredi della colpa del «primo Adamo» che disobbedì al suo Creatore251, e tutti «nascono già in stato di schiavitù»252. Per presentare il dramma di tutta l’umanità compiutosi tra il Signore Gesù e il «forte» (diavolo), Ireneo si ispira alla parabola evangelica del «forte»253: Ancora, pur avendo chiamato forte il diavolo – non in senso assoluto ma al confronto con noi –, il Signore dimostra di essere egli stesso forte in senso assoluto e in verità, dicendo che «nessuno può portar via le suppellettili del forte, se prima non incatena il forte stesso e allora depreda la casa» (cfr. Mt 12,29). Se suppellettili e casa sua eravamo noi, quando eravamo nell’apostasia: egli, infatti, si serviva di noi come voleva e lo spirito immondo abitava in noi (cfr. Mt 12,4345). Non era però forte contro colui che lo incatenava e gli depredava la casa, ma contro gli uomini di cui disponeva, poiché aveva fatto allontanare i loro pensieri da Dio. Li ha liberati il Signore, come dice Geremia: «Il Signore ha riscattato Giacobbe e l’ha liberato dalla mano di uno più forte di lui» (Ger 31,11). Dunque, se non avesse invocato colui che lo incatena e gli porta via le suppellettili, e avesse detto semplicemente che egli è forte, quel forte sarebbe invincibile. Invece ha indicato anche colui che lo tiene soggetto, perché colui che incatena tiene soggetto e colui che è incatenato è tenuto soggetto. E questo l’ha fatto —————————– 248 E, 88 [corsivo nostro]. Cfr. E, 94; AH, III, 20,3-4. Ugualmente come Paolo, Ireneo riconosce l’«impotenza», la «temporaneità» e l’«inferiorità» della Legge riguardo alle promesse fatte ad Abramo e compiute in Cristo dopo il tempo stabilito dal Padre: «Dio non ha dato la circoncisione come operatrice della perfetta giustizia ma come segno, affinché rimanesse ben riconoscibile la stirpe di Abramo. […] La circoncisione secondo la carne prefigurava la circoncisione spirituale. Perché “noi – dice l’Apostolo – siamo stati circoncisi con una circoncisione non fatta da mano d’uomo” (Col 2,11)». AH, IV, 16,1. Cfr. Teología, IV, 206. 249 «Si è dimostrato chiaramente che il Verbo, che esisteva in principio presso Dio (cfr. Gv 1,2), mediante il quale sono state create tutte le cose (cfr. Gv 1,3), che da sempre era presente al genere umano (cfr. Gv 1,10), egli stesso negli ultimi tempi, nel tempo stabilito dal Padre, si unì alla sua creatura e divenne uomo passibile (cfr. Gv 1,14)». AH, III, 18,1. Cfr. AH, III, 18,7; 19,1. 250 AH, IV, 34,1. La «novità di Cristo» non nega la «continuità»: «Leggete attentamente il Vangelo che ci è stato dato dagli apostoli, leggete attentamente le profezie, e troverete che tutta l’opera, tutta la dottrina e tutta la Passione del Signore nostro sono state predette in esse». AH, IV, 34,1. Cfr. AH, I, 10,1; IV, 10,1–11,1; 34,1; E, 50-86. 251 Cfr. AH, III, 23,1. 252 Cfr. Orbe, II, 337. 253 Cfr. Mt 12,29; Mc 3,27; Lc 11,21-22; Orbe, II, 337. DOTTRINA IRENEIANA 147 senza fare un paragone, perché il suo apostata non fosse paragonato al Signore. Infatti, non soltanto costui, ma nessuna delle cose che sono state fondate e gli sono soggette, sarà paragonata al Verbo di Dio, per mezzo del quale sono state create tutte le cose (cfr. Gv 1,3): Egli che è il Signore nostro Gesù Cristo254. Basandosi sulla semplice e chiara logica biblica, Ireneo afferma la supremazia del Creatore sulla creatura ribelle e il carattere relativo e temporaneo del significato «forte» applicato al diavolo a proposito dello stato di «schiavitù» di tutta l’umanità. La venuta di Cristo è dunque la risposta redentrice allo stato della schiavitù dell’uomo ed è presentata in modo sintetico in un capitolo del terzo libro dell’Adversus haereses che osiamo riportare per intero perché ci offre il nucleo della teoria della ricapitolazione propostaci da Ireneo255: Era dunque necessario che il Signore, venendo dalla pecora perduta (cfr. Mt 18,12-24; Lc 15,4-7), facendo la ricapitolazione di una così grande economia e cercando la sua creatura, salvasse quello stesso uomo (cfr. Lc 19,10), che era stato fatto a sua immagine e somiglianza (cfr. Gen 1,26), cioè Adamo, quando avesse compiuto i tempi della condanna, che gli era stata inflitta per la disobbedienza – tempi «che il Padre aveva stabilito nel suo potere» (At 1,7), poiché tutta l’economia di salvezza che riguardava l’uomo si svolgeva secondo il beneplacito del Padre (cfr. Ef 1,5.9) – affinché Dio non fosse vinto e la sua arte non risultasse impotente. Infatti, se l’uomo che era stato creato da Dio per vivere, dopo essere stato danneggiato dal serpente che l’aveva corrotto, avesse perso la vita e quindi non avesse potuto ritornare alla vita ma fosse stato abbandonato definitivamente alla morte, Dio sarebbe stato vinto e la nequizia del serpente avrebbe prevalso sulla volontà di Dio. Ma siccome Dio è invitto e magnanimo, si mostrò magnanimo affinché l’uomo fosse punito e provasse tutte le situazioni, come abbiamo detto prima, poi mediante il «secondo uomo» (1Cor 15,47) ha legato il «forte» e gli ha portato via i vasi (cfr. Mt 12,29; Mc 3,27) ed ha annientato la morte (cfr. 2Tim 1,10), vivificando l’uomo che era stato ucciso. Ora il primo vaso che era divenuto suo possesso era stato Adamo, che teneva in suo potere, per averlo spinto ingiustamente alla trasgressione ed avergli dato la morte con il pretesto dell’immortalità. Infatti, promettendo loro che sarebbero divenuti come dèi (cfr. Gen 3,5), cosa che non era affatto in suo potere, dette loro la morte. Perciò giustamente fu fatto prigioniero a sua volta da Dio colui che aveva fatto prigioniero l’uomo, mentre fu liberato dai vincoli della condanna l’uomo che era stato fatto prigioniero256. Nel testo citato, menzionando il compimento dei «tempi di condanna»257, Ireneo ribadisce la novità di Cristo nella quale si realizza l’economia della —————————– 254 AH, III, 8,2 [corsivo nostro]. Cfr. AH, V, 21,1; Teología, II, 346-347. «Benché l’espressione [“ricapitolazione”] provenga da Ef 1,10, il pensiero di Ireneo ha un vasto fondamento biblico». Redenzione, III, 6 (EV, 14, 1902). Ireneo, infatti, adopera e sviluppa il modello paolino antitetico di «anti-tipo e tipo» – Cristo e Adamo. Cfr. Cfr. Rm 5,18-19; 1Cor 15,21–22.44b-49; AH, V, 16,3; 17,1; 21,1; Fitzmyer, 157; cap. II, parr. 1.1 e 2.1.1 di questo lavoro. 256 AH, III, 23,1 [corsivo nostro]; cfr. AH, V, 21,1; Teología, II, 346-347. 257 Cfr. At 1,6-7; Rm 5,6; AH, III, 16,9, 23,1. 255 148 IL MISTERO DELLA SALVEZZA CRISTIANA salvezza. Le espressioni di Ireneo indicano anche il modo in cui viene realizzata la salvezza in Cristo. Il «forte» ha «spinto» Adamo «ingiustamente alla trasgressione». La ricapitolazione in Cristo si oppone alla schiavitù alla quale è stato sottomesso Adamo «ingiustamente e con violenza»258. La liberazione in Cristo avviene dunque senza violenza perché conviene sia al Verbo incarnato sia all’uomo che Dio liberi l’umanità «con la persuasione e non con la violenza»: Non avremmo potuto conoscere i misteri di Dio, se il nostro maestro, che è il Verbo, non si fosse fatto uomo […] Egli è perfetto in tutto, poiché è Verbo potente ed uomo vero, riscattandoci con il suo sangue (cfr. Col 1,14) in modo degno del Verbo259, «ha dato se stesso come riscatto» (1Tim 2,6) per quelli che erano stati fatti prigionieri: poiché l’Apostasia aveva dominato ingiustamente su di noi e, mentre appartenevamo a Dio per la nostra natura, ci aveva alienati contro la nostra natura, facendoci suoi propri discepoli. Essendo dunque potente in tutto e indefettibile nella sua giustizia, giustamente il Verbo di Dio si volse contro la stessa Apostasia, riscattando da lei i beni suoi propri non con la violenza, come lei all’inizio aveva dominato su di noi, impadronendosi insaziabilmente di ciò che non era suo, ma con la persuasione [trad. latina: secundum suadelam], poiché conveniva che Dio ricevesse con la persuasione e non con la violenza quello che voleva, affinché da una parte fosse salvaguardata la giustizia e dall’altra non perisse l’antica creatura di Dio260. La menzione della logica di persuasione utilizzata dal Verbo fa capire l’insistenza di Ireneo sulla realtà della carne e sangue di Cristo legata alla forza convincente della passione e della sofferenza di Cristo261 e alla sua obbedienza sacrificale e redentrice262. Cristo si offre al Padre in riscatto dell’uomo mediante l’effusione dolorosa del proprio sangue. Essendo vero uomo nel corpo, anima e spirito, Cristo offre la sua carne-corpo e la sua —————————– 258 Cfr. AH, III, 23,2; Orbe, II, 350-356. Il termine latino è «rationabiliter»: «sanguine suo rationabiliter redimens nos (cfr. Col 1,14)». «Nell’interpretare questa parola occorre tener presente il corrispondente greco, che assai probabilmente è λογικως, che può significare “secondo la ragione umana” o “secondo il Logos divino”. Qui ha il secondo significato sia perché si riferisce al “Verbo potente e uomo vero” che “riscatta con il suo sangue”, sia perché si contrappone l’opera dell’Apostasia (cioè di Satana che riduce l’uomo in schiavitù “con violenza”) all’opera del Verbo (che riscatta “con la persuasione”)». Cfr. AH, V, 1,1 in Bellini-Maschio, 622-623, n. 3, e la spiegazione dettagliata di A. Rousseau in SC 152, 199-201. Dunque, «Cristo è Verbo potente in tutto e vero uomo (Verbum potens et homo verus) che intelligibilmente (rationabiliter) ci ha redento mediante il suo sangue, donando se stesso come riscatto (redemptionem) per noi. Secondo Ireneo, la redenzione fu realizzata in un modo che l’essere umano era in grado di comprendere (rationabiliter): il Verbo, che è onnipotente, è anche perfetto nella giustizia». Redenzione, III, 5 (EV, 14, 1901). 260 AH, V, 1,1 [corsivo nostro]. Cfr. Teología, I, 52-81. 261 Cfr. AH, III, 22,1; V, 2,2; 14,1. 262 Cfr. AH, IV, 5,4. «Finalidad a que se ordena el sacrificio: “para redención del hombre” (“in nostram redemptionem”)». Teología, IV, 42. 259 DOTTRINA IRENEIANA 149 anima in riscatto per la nostra carne e anima263, e lo fa rationabiliter, cioè nella forma del «rationabile obsequium»264. Infatti, l’obbedienza di Cristo al Padre distrugge per sempre la disobbedienza che soggiogava l’uomo e include la liberazione dell’uomo dal «forte», cioè dal potere della trasgressione e della morte265. «Dunque, ricapitolando tutte le cose in se stesso, ha ricapitolato anche la guerra contro il nostro nemico: ha provocato e vinto colui che all’inizio in Adamo ci fece schiavi»266. La salvezza dell’uomo, secondo la dottrina di Ireneo, si realizza dunque attraverso i misteri di Cristo per mezzo dei quali l’uomo viene liberato dalla schiavitù del peccato, della morte e del diavolo. La redenzione dell’uomocarne si realizza, in Cristo – il Verbo fatto carne – in forma invisibile – per mezzo dell’obbedienza dell’Uomo – e in modo visibile – nella morte sulla croce. Tutto avviene «in modo degno del Verbo» – nella forma del rationabile obsequium267 – e in modo conveniente all’uomo – «con la persuasione e non con la violenza»268. La redenzione intesa come liberazione dell’uomo dal dominio di Satana e come ricapitolazione della storia anteriore dell’umanità sarebbe solo l’aspetto iniziale della salvezza – il terminus a quo –, mentre l’aspetto finale – il terminus ad quem – presenta il suo aspetto positivo: il ripristino dell’immagine e della somiglianza di Dio e il ristabilimento dell’unione dell’uomo con Dio269: —————————– 263 Cfr. AH, V, 6,1. «Omette l’offerta del suo spirito per il nostro spirito. Lo spirito, componente dell’uomo, è divino, in quanto partecipazione dello Spirito di Dio. Non cadde nella schiavitù in Adamo e non necessita di essere redento. Cristo ha offerto al Padre sulla croce il suo Spirito non per la redenzione dello spirito (divino) degli uomini, ma “in adunitionem et communionem Dei et hominum” (AH, V, 1,1), a modo di completamento del riscatto umano, affinché l’anima e il corpo dell’uomo, redenti, fossero uniti con il suo Spirito (e quello del Padre) per raggiungere la comunione di vita con Dio (a partire dal battesimo in Spirito a Pentecoste)». Orbe, II, 350. Dunque, secondo l’antropologia di Ireneo, «lo spirito, componente dell’uomo perfetto (o divino), non appartiene in senso stretto alla natura dell’uomo e per questa ragione neppure l’accompagna nei condannati». Cfr. AH, II, 33,5; Orbe, II, 357; cap. II, par. 1.3 di questo lavoro. 264 «Vi esorto dunque, fratelli, per la misericordia di Dio, ad offrire i vostri corpi come sacrificio vivente, santo e gradito a Dio; è questo il vostro culto spirituale» (Rm 12,1). Le parole in corsivo della Vulgata – «rationabile obsequium» – corrispondono meglio alla versione greca – λογικήν λατρείαν che alla traduzione italiana. Cfr. 1Ts 5,23. Il termine «rationabiliter» si ripete nell’AH, V, 18,3 e anche qui viene tradotto in italiano: «spiritualmente»: «Infatti egli stesso è colui che ha ricevuto dal Padre il potere su tutte le cose, come Verbo di Dio e uomo vero: comanda spiritualmente [trad. latina: rationabiliter] agli esseri invisibili e stabilisce in modo intelligibile [trad. latina: sensuabiliter – dal sensus – equivalente a νους], come legge per tutti gli esseri, che rimangano ciascuno al proprio posto». «Il y a ici un jeu de mots que notre traduction ne peut rendre». Cfr. AH, V, 18,3 in SC 153, 246-247; SC 152, 302-303; Bellini-Maschio, 632, n. 3; Teología, II, 246-252. 265 Cfr. AH, V, 21,3; 22,1. 266 AH, V, 21,1. Cfr. Teología, II, 346-347. 267 Cfr. Rm 12,1. 268 Cfr. AH, V, 1,1. 269 Cfr. Redenzione, III, 6 (EV, 14, 1902). 150 IL MISTERO DELLA SALVEZZA CRISTIANA Se dunque il Signore ci ha riscattati con il suo proprio sangue (cfr. Col 1,14), se ha dato la sua anima per la nostra anima e la sua carne per la nostra carne, se ha effuso lo Spirito del Padre per operare l’unione di Dio e degli uomini, facendo discendere Dio negli uomini mediante lo Spirito e facendo salire l’uomo fino a Dio mediante la sua propria Incarnazione; se certamente e veramente nella sua venuta ci ha donato l’incorruttibilità mediante la comunione con lui, tutti gli insegnamenti degli eretici vengono meno270. Lo Spirito Santo – la «seconda Mano di Dio» e la «Somiglianza di Dio» rispetto alla quale l’uomo è stato creato – insieme con il Verbo – «l’Immagine di Dio» – ha un ruolo costitutivo nella creazione dell’uomo271, ha dunque, insieme con il Verbo, un ruolo insostituibile anche nella vita dell’uomo in comunione con Dio, sia «adesso» sia «nella gloria futura»272. Cercheremo di presentare quest’aspetto della salvezza nel passo seguente di questo lavoro che abbiamo dedicato al tema della «divinizzazione»273. 2.3 «Divinizzazione» Prendendo in considerazione la teoria, appena presentata, di Ireneo sulla «ricapitolazione», si può constatare che alcuni elementi, quali il suo realismo e l’uso del concetto paolino di «adozione filiale»274, la distinzione ireneiana fra «immagine» e «somiglianza»275 e la tesi dello «scambio»276, ci permettono di introdurre il concetto di «divinizzazione», individuando in esso il punto chiave, o almeno, un aspetto essenziale della dottrina ireneiana sulla salvezza. Infatti, l’enfasi ireneiana posta sull’importanza dell’Incarnazione come presupposto dell’«adozione filiale» e dell’«incorporazione a Cristo» mediante il battesimo e l’Eucaristia, insieme alla tesi dello «scambio» – tutti questi concetti di provenienza paolina –, presentano un —————————– 270 AH, V, 1,1 [corsivo nostro]. Cfr. Teología, I, 52-81. «Nel redimerci con il suo sangue, Cristo ha inaugurato un nuovo stadio nella storia della salvezza, effondendo lo Spirito del Padre affinché Dio e l’umanità possano essere uniti e in armonia. Mediante la sua Incarnazione, egli ha garantito all’umanità, in maniera certa e reale, l’incorruttibilità (cfr. AH, V, 1,1). Il Redentore e la redenzione sono inseparabili, perché la redenzione non è altro che l’unità dei redenti con il Redentore (cfr. AH, V, pref.). Proprio la presenza reale del Logos divino nell’umanità ha un effetto risanatore ed elevante sulla natura umana in genere». Redenzione, III, 5 (EV, 14, 1901). 271 Cfr. cap. II, par. 1.1 di questo lavoro. 272 Cfr. 1 Cor 13,9.12; Rm 2,7; 3,23, 5,2. 273 «Per la ricapitolazione dell’immagine e della somiglianza di Dio devono essere presenti sia il Verbum sia lo Spiritus. Il primo Adamo prefigura il Verbo incarnato, in vista del quale il Verbum e lo Spiritus hanno formato il primo uomo, ma egli rimase in una condizione infantile perché lo Spirito, che dona crescita, lo abbandonò». Redenzione, III, 6 (EV, 14, 1902). 274 Cfr. AH, V, 10,2; 18,2; 32,2. 275 Cfr. cap. II, par. 1.1 di questo lavoro; Antropología, 118-148; L.F. LADARIA, «L’uomo creato a immagine di Dio», 87-88. 276 Cfr. AH, III, 19,1; V, pref.; 36,3; L.F. LADARIA, «Destino dell’uomo e fine dei tempi», 371. DOTTRINA IRENEIANA 151 approccio realistico al concetto della «divinizzazione», una dottrina comune a Giustino, Ireneo, Origene e Atanasio277. Secondo Gross, la menzionata distinzione tra «immagine» e «somiglianza», ed il concetto particolare di «somiglianza» come dono della grazia, illustrano il concetto ireneiano della «divinizzazione»278. Operando una distinzione tra «immagine» e «somiglianza», Ireneo rifiuta il concetto gnostico di «somiglianza» intesa come dono della natura proprio all’essenza dei «perfetti» (nel senso gnostico) che non può essere perduto. Egli, invece, ispirato dalla dottrina paolina sullo Spirito Santo come sorgente della vita nuova dei cristiani, identifica la «somiglianza» con la possessioneinabitazione dello Spirito Santo279. La «somiglianza» è dunque un dono della grazia divina che perfeziona la natura umana, ed è offerta a tutti e non soltanto ai «perfetti» (gnostici). Essa si dona a chi coopera con la grazia aderendo alle «opere dello Spirito», altrimenti non viene donata, o una volta donata, potrebbe essere perduta: il Verbo di Dio si fece uomo, rendendo se stesso simile all’uomo e l’uomo simile a sé, affinché, attraverso la somiglianza con il Figlio, l’uomo divenga prezioso di fronte al Padre. Infatti, nei tempi passati si diceva bensì che l’uomo è stato fatto ad immagine di Dio, ma non appariva tale, perché era ancora invisibile il Verbo, ad immagine del quale l’uomo era stato fatto: e appunto per questo facilmente perse la somiglianza. Ma quando il Verbo di Dio si fece carne (cfr. Gv 1,14), confermò l’una e l’altra cosa: mostrò veramente l’immagine, divenendo egli stesso ciò che era la sua immagine, e ristabilì saldamente la somiglianza, rendendo l’uomo simile al Padre invisibile attraverso il Verbo che si vede280. —————————– 277 L’approccio «realistico» è caratteristico soprattutto della tradizione teologica alessandrina, mentre in quella dei Padri Capadocci l’approccio sembra più «etico», con l’accento posto sull’ascesa dell’anima verso Dio. Cfr. N. RUSSELL, The Doctrine of Deification in the Greek Patristic Tradition, 9.11-14.105-108. «By the fourth century all four approaches [nominal, analogical, ethical and realistic] are well developed, with the realistic, expressed in the language of participation and relating to the sacraments of baptism and the Eucharist, an the ethical, expressed in the language of imitation and relating to the ascetic and contemplative life, predominating». Ibid., 9. Cfr. Ibid., 1-2. 278 Cfr. Gross, 130-131. 279 «Non sapete che siete tempio di Dio e che lo Spirito di Dio abita in voi? (1Cor 3,16)». Cfr. AH, V, 6,1-2. 280 AH, V, 16,2 [corsivo nostro]. Cfr. AH, IV, 38,3-4; 39,1; Gross, 123-124.130-131. «La somiglianza donata dallo Spirito Santo introduce il periodo nuovo e finale dell’oeconomia, che venne completato con la risurrezione, quando tutta la stirpe umana ricevette la forma del nuovo Adamo (cfr. AH, I, 2,1; III, 17,6). L’aspetto pneumatico dell’anakephalaiosis è importante perché il possesso duraturo della vita è possibile solo attraverso lo Spirito (cfr. AH, V, 7,2). Anche se l’Incarnazione riassume il passato, compendiandolo nella ricapitolazione, essa in un certo senso porta il passato verso un termine. Infatti l’effusione dello Spirito Santo, che è stata inaugurata dalla risurrezione, guida la storia verso l’eschaton e rende l’anakephalaiosis davvero universale». Redenzione, III, 6 (EV, 14, 1902). 152 IL MISTERO DELLA SALVEZZA CRISTIANA Ireneo non fa riferimento al versetto biblico – «partecipi della natura divina» (2Pt 1,4) – come fanno altri Padri, soprattutto Atanasio281, però nell’Adversus Haereses, il versetto del salmista – «Io ho detto: “Voi siete dèi, siete tutti figli dell’Altissimo”» (Sal 82,6) – ricorre tre volte282. Nell’AH, III, 6,1, lo stesso versetto appena menzionato, insieme al Sal 82,1, viene strettamente legato all’«adozione filiale», «a coloro che hanno ricevuto le grazie dell’adozione, per la quale “gridiamo: Abba, Padre” (Rm 8,15; cfr. Gal 4,5-6)», cioè alla Chiesa: «Parla del Padre, del Figlio e di coloro che hanno ricevuto l’adozione (cfr. Rm 8,15; Gal 4,5). Ora questi sono la Chiesa: questa è, infatti, “l’assemblea di Dio” (cfr. Sal 82,1), che Dio, cioè il Figlio, ha riunito egli stesso da sé»283. La seconda volta Ireneo usa il versetto del salmo (Sal 82,6) come argomento contro coloro che negavano la divinità di Cristo284. Ireneo sviluppa qui la dottrina dello «scambio»: «Per questo appunto il Verbo si fece uomo e il Figlio di Dio si fece Figlio dell’uomo, affinché l’uomo, mescolandosi a Dio e ricevendo l’adozione filiale, diventi figlio di Dio»285. L’Incarnazione è dunque il presupposto essenziale della salvezza, che si realizza mediante l’adozione filiale e la partecipazione all’incorruzione e all’immortalità286, ed è legata all’acquisto della gloria e della potenza dell’Increato, al riacquisto dell’immagine e somiglianza di Dio e alla visione di Dio che procura l’incorruttibilità e fa essere «vicino a Dio»287. Il versetto del Salmo su menzionato (Sal 82,6) ricorre per la terza volta nel quarto libro dell’Adversus Haereses288, dove Ireneo parla dell’uomo ordinato alla salvezza fin dal momento della sua creazione, destinato a un costante processo di educazione e sviluppo, in costante progresso verso la pienezza289. Servendosi dei versetti dei salmi, Ireneo afferma la necessità —————————– 281 Cfr. N. RUSSELL, The Doctrine of Deification in the Greek Patristic Tradition, 13. Cfr. AH, III, 6,1; 19,1; IV, 38,4. 283 Cfr. AH, III, 6,1. 284 Contro coloro che disprezzano l’Incarnazione rimanendo privi del dono dell’adozione. Cfr. AH, III, 19,1. 285 AH, III, 19,1. Cfr. 2Cor 8,9; Fil 2,6-8; AH, V, pref.; 36,3; L.F. LADARIA, «Destino dell’uomo e fine dei tempi», 371. 286 Cfr. 1Cor 15,53-57; AH, III, 19,1; IV, 38,3-4. «Irénée conçoit l’incarnation comme une condition nécessaire pour que Dieu puisse intervenir et triompher, par les œuvres du Christ, dans le monde du péché et de la mort». M. AUBINEAU, «Incorruptibilité et divinisation selon saint Irénée», 39. Cfr. Ibid., 39-40. 287 Cfr. AH, IV, 38,3-4. Commentando il riferimento di Ireneo alla passione del Signore per mezzo della quale Egli «ha distrutto l’ignoranza; ha manifestato la vita, ha mostrato la verità, ha donato l’incorruttibilità», Gross afferma: «This is nothing other than biblical realism, above all Pauline, and traditional realism, according to which our redemption is carried out through the expiatory sacrifice of Jesus Christ. But nowhere does Irenaeus show how this sacrifice harmonizes with the efficiency that he elsewhere ascribes to the incarnation as such». Cfr. AH, II, 20,3; Gross, 125-126. 288 Cfr. AH, IV, 38,4. 289 Alcuni interpreti di Ireneo considerano AH, IV, 38,1-4 la migliore introduzione alla sua dottrina sulla divinizzazione. Cfr. N. RUSSELL, The Doctrine of Deification in the Greek 282 DOTTRINA IRENEIANA 153 della grazia per la nostra salvezza insieme alla nostra libertà: «Esprime [Sal 82,6-7290] l’una e l’altra cosa: da una parte la generosità del suo dono e dall’altra la nostra debolezza e la nostra libertà»291. Questa libertà include l’esercizio della scelta morale292. La distinzione ireneiana fra «immagine» e «somiglianza» indica dunque uno stato di tensione nel quale l’uomo esercita la sua libertà tramite l’obbedienza alla volontà di Dio mediante la quale riottiene la vita e la libertà dei figli di Dio293. Abbiamo già menzionato come la visione antropologica di Ireneo, conforme all’antropologia paolina, abbia un carattere marcatamente trinitario. Il vescovo lionese, infatti, considera l’uomo è trinitariamente e cristologicamente determinato fin dal momento della sua creazione294. Tramite i misteri dell’Incarnazione e della Risurrezione l’uomo è incluso nel progetto della salvezza, perché Cristo Mediatore295 da una parte ricapitola l’uomo realizzando nella sua stessa persona quello che Adamo e i suoi discendenti non erano capaci di realizzare, e dall’altra parte apre all’uomo l’accesso alla vita divina. Cristo dunque «accomoda» Dio all’uomo e rende l’uomo capace di «ricevere Dio»296. Questa logica dello «scambio», proveniente dalla dottrina paolina, indica lo scambio delle proprietà: «Conoscete infatti la grazia del Signore nostro Gesù Cristo: da ricco che era, si è fatto povero per voi, perché voi diventaste ricchi per mezzo della sua povertà» (2Cor 8,9; cfr. Fil 2,6-8)297. Quello che appartiene a Cristo per natura, l’uomo lo ottiene per adozione298. La partecipazione alla figliolanza adottiva si realizza mediante l’incorporazione a Cristo attraverso il battesimo299 e l’Eucaristia300. Infatti, mediante il battesimo, l’uomo diventa «dimora di Dio»301, riottenendo così la somiglianza di Dio, la libertà dei figli di Dio e la comunione con Dio —————————– Patristic Tradition, 105, n. 42. Nel cap. II, sez. 1. del nostro lavoro, soprattutto nel par. 1.1 sulla creazione dell’uomo, abbiamo fatto più volte riferimento a questi passi dell’AH. Cfr. anche Teología, IV, 515-517. 290 «Io ho detto: “Voi siete dèi, siete tutti figli dell’Altissimo”. Eppure morirete come ogni uomo, cadrete come i potenti (Sal 82,6-7)». 291 AH, IV, 38,4. 292 Cfr. Gal 3,3; 4,29; 5,19-21; Rm 8,4–9.13; AH, V, 11,1; 12,2; 27,2. 293 Cfr. AH, V, 6,1; 11,2; 16,2; E, 11. 294 Cfr. cap. II, parr. 1.1, 2.1.2, 2.1.3 di questo lavoro. 295 Cfr. 1Tim 2,5; AH, V, 17,1. Cfr. Teología, II, 135-146. 296 Cfr. AH, III, 18,1.7; 20,2; IV, 28,2. «In these passages we see a physical or mystical conception of deification beginning to emerge for the first time. According to this theory, which springs from the Johannine idea of the Logos as the principle of life, human nature is immortalized and thus divinized by the very fact of the intimate contact that the incarnation establishes between it and the divine nature of the Word». Gross, 125. 297 Cfr. AH, III, 19,1; V, pref.; 36,3. 298 Cfr. AH, III, 19,1; 2Cor 8,9; Fil 2,6-8. 299 Cfr. AH, III, 17,2; V, 15,3; 32,2; E, 3.7.17.41. 300 Cfr. AH, IV, 18,4-5; 33,2. 301 Cfr. AH, III, 19,1; 20,2. 154 IL MISTERO DELLA SALVEZZA CRISTIANA immortale e incorruttibile302. Questa partecipazione alla figliolanza adottiva303 è infatti partecipazione alla vita divina perché rende l’uomo capace della visione di Dio: L’uomo, infatti, non può vedere Dio da sé; ma Egli di sua volontà si farà vedere dagli uomini che vuole, quando vuole e come vuole. Dio è potente in tutte le cose: fu visto allora profeticamente mediante lo Spirito, fu visto poi adottivamente mediante il Figlio e lo sarà poi nel regno dei cieli paternalmente, perché lo Spirito prepara in precedenza l’uomo per il Figlio di Dio, il Figlio lo conduce al Padre e il Padre gli dà l’incorruttibilità per la vita eterna che tocca a ciascuno per il fatto di vedere Dio. […] Infatti, è impossibile vivere senza la vita, l’esistenza della vita è possibile grazie alla partecipazione di Dio e la partecipazione di Dio consiste nel vedere Dio e godere della sua bontà304. La bontà di Dio è la sorgente della vita dell’uomo perché Dio vuole che l’uomo partecipi della Sua propria vita e la vita divina dell’uomo risorto consiste nella partecipazione alla vita della Trinità. L’uomo sarà glorificato in Dio: «Come coloro che vedono la luce sono nella luce e partecipano del suo splendore, così coloro che vedono Dio sono in Dio, partecipando del suo splendore. Perché lo splendore di Dio vivifica»305, e Dio sarà glorificato nell’uomo: «Dio sarà glorificato nella sua propria creatura, rendendola conforme e simile al suo proprio Figlio (cfr. Rm 8,29)»306. Qua comprendiamo nuovamente la famosa e spesso ripetuta frase di Ireneo «La gloria di Dio è l’uomo vivente e la vita dell’uomo è la visione di Dio»307. La visione di Dio ha un carattere progressivo perché Dio «fu visto allora profeticamente mediante lo Spirito, fu visto poi adottivamente mediante il Figlio e lo sarà poi nel regno dei cieli paternalmente»308. Non si tratta di una visione statica, perché l’uomo avrà sempre qualcosa da imparare da Dio e dovrà sempre progredire verso di Lui309. Questa «crescita» dell’uomo è accompagnata dall’ottimismo ireneiano che già all’inizio del processo salvifico associa il peccato dell’uomo all’«immaturità» umana e all’inganno del seduttore310, rendendo così il peccato un «vantaggio» mediante il quale l’uomo ottiene la conoscenza del bene e dei limiti della propria natura: «Dio non ha forse permesso il nostro —————————– 302 Cfr. AH, III, 18,7. Cfr. AH, III, 18,7. 304 AH, IV, 20,5. Cfr. AH, IV, 20,7. 305 AH, IV, 20,5. 306 AH, V, 6,1. 307 AH, IV, 20,7. Cfr. Ez, 33,11; Rm 3,23; AH, III, 20,1.7; Teología, IV, 296-301; A. ORBE, «Gloria Dei vivens homo», 205-268. 308 Cfr. AH, IV, 20,5 [corsivo nostro]. «Irénée reprend et approfondit l’idée de Théophile sur la convenance d’une assimilation progressive à Dieu destinée à trouver sa perfection dans la vision». I. DALMAIS – G. BARDY, «Divinisation», 1377. 309 Cfr. AH, II, 28,3; IV, 28,2; L.F. LADARIA, «Destino dell’uomo e fine dei tempi», 373. 310 Cfr. E, 12; cap. II, par. 1.4 di questo lavoro. 303 DOTTRINA IRENEIANA 155 dissolvimento nella terra affinché, educati in ogni modo, siamo attenti per il futuro in tutte le cose, senza ignorare né Dio né noi stessi?»311. La partecipazione dell’uomo alla vita della Trinità comincia già in questa vita nella quale l’uomo diventa «spirituale», cioè diventa partecipe della vita dello Spirito. La «veste di santità» che Adamo ha «ricevuto dallo Spirito» lo rende «perfetto», ma non nel senso assoluto312. «L’uomo creato e plasmato diviene ad immagine e somiglianza di Dio increato […], e l’uomo a poco a poco progredisce e si eleva alla perfezione, cioè si avvicina all’Increato; perché solo l’Increato è perfetto, e questo è Dio»313. Infatti, lo Spirito Santo come «caparra della nostra eredità» (Ef 1,14) è sempre operante per la nostra salvezza314 insieme allo «Spirito di Dio» che è «dýnamis [δύναμις] del Figlio»: «Dunque, in Lui [Figlio] discese lo Spirito di Dio – lo Spirito di Colui che per mezzo dei profeti aveva promesso di consacrarlo – affinché noi, partecipando dell’abbondanza di quella consacrazione, fossimo salvati»315. In continuità con la dottrina di Paolo sulla risurrezione (1Cor 15), e sulla base della sua considerazione dello Spirito Santo come principio costitutivo della filiazione in Cristo e sorgente viva della vita nuova dei figli di Dio (cfr. Rm 8,14-17; Ef 1,10-14), Ireneo parla dei corpi che risorgono «per mezzo dello Spirito» e diventano «corpi spirituali per possedere, per mezzo dello Spirito, la vita che dura sempre»316. Nel frattempo, però, l’uomo si trova in tensione fra il presente e il futuro, perché «ora riceviamo solo una parte del suo Spirito», ed è questa parte che «l’Apostolo definisce pegno, cioè parte di quell’onore che ci è stato promesso da Dio»317. Il carattere progressivo della salvezza include anche l’esercizio della libertà e l’accostamento alle «opere dello Spirito»318. Così Ireneo richiama ripetutamente la dottrina dell’Apostolo che presenta le azioni spirituali che vivificano l’uomo, cioè l’innesto dello Spirito, dicendo: «Invece frutto dello Spirito sono la carità, la gioia, la pace, la pazienza, la benevolenza, la bontà, la fedeltà, la dolcezza, la temperanza, la castità: contro queste cose non c’è legge” (Gal 5,22-23)». Come dunque colui che progredirà verso il meglio e produrrà il frutto dello Spirito sarà salvato in ogni modo grazie —————————– 311 AH, V, 2,3. Cfr. AH, III, 23,5. 313 AH, IV, 38,3. Cfr. M. AUBINEAU, «Incorruptibilité et divinisation selon saint Irénée», 42-43; Teología, IV, 517. 314 Cfr. AH, IV, 20,4.6; V, 6,1; 7,2; 9,1-4; 12,2. 315 Ireneo commentando il Vangelo di Matteo, in AH, III, 9,3. Cfr. AH, V, 8,1-2; Orbe, I, 279-280; Orbe, II, 180-183; cap. II, par. 1.1 di questo lavoro. 316 Cfr. IV, 20,7; V, 7,2; 317 Cfr. Ef, 1,13-14; AH, V, 8,1. «Ireneo vuol dire che ora possediamo solo una parte di ciò che deriva dallo Spirito, cioè la caparra, che viene contrapposta alla universa Spiritus gratia (la grazia intera dello Spirito) che sarà data poi». AH, V, 8,1 in Bellini-Maschio, 626-627, n. 1. 318 Cfr. AH, V, 12,1-2. 312 156 IL MISTERO DELLA SALVEZZA CRISTIANA alla comunione dello Spirito, così colui che rimarrà nelle opere della carne […], sarà considerato veramente carnale, perché non riceve lo Spirito di Dio, e non potrà ereditare il regno dei cieli319. Il realismo ireneiano legato alla salvezza dell’uomo, che si compie mediante i misteri di Cristo – Incarnazione e Risurrezione –, esclude dunque una certa passività da parte dell’uomo. Mediante l’incorporazione a Cristo, attraverso il battesimo e l’Eucaristia e attraverso l’adesione alle «opere dello Spirito», l’uomo diventa partecipe della vita divina, cioè dell’incorruttibilità e dell’immortalità320, progredendo nella visione di Dio321, a differenza di coloro che si separano da Dio «per loro libera decisione», perché «la separazione da Dio è la morte e la separazione dalla luce è la tenebra e la separazione da Dio è la perdita di tutti i beni che provengono da lui»322. In questo senso, nell’ultimo libro dell’Adversus Haereses, richiamandosi sempre alla dottrina paolina e servendosi della parabola dell’oleastro «innestato su un olivo domestico», Ireneo parla della «trasformazione in meglio»: l’uomo che è stato innestato mediante la fede ed ha ricevuto lo Spirito di Dio, non perde la sostanza della carne, ma cambia la qualità del frutto delle sue opere e prende un altro nome, che indica il suo cambiamento in meglio: egli non è più e non viene più chiamato carne e sangue, ma uomo spirituale. E viceversa […], l’uomo che non ha ricevuto l’innesto dello Spirito mediante la fede, rimane ciò che era prima, carne e sangue, e non può ereditare il regno di Dio323. Ricordiamo che Ireneo intende sempre l’uomo come «uomo-carne», mortale e corruttibile, che deve rivestirsi d’incorruttibilità e d’immortalità (cfr. 1Cor 15,53-55), che il Signore Gesù trasfigurerà per renderlo «conforme al corpo della sua gloria» (cfr. Fil 3,20-21), ribadendo sempre che questa trasformazione/trasfigurazione non deriva dalla propria sostanza della carne, ma «dall’azione del Signore, che può procurare l’immortalità a ciò che è mortale e l’incorruttibilità a ciò che è corruttibile»324. Solo nell’ultima tappa del dono salvifico, l’uomo partecipa alla vita di Cristo risorto, poiché completamente posseduto dallo Spirito, e poiché «deificato tutto intero» diventa partecipe della vita divina325. «Questa vita si riferisce —————————– 319 AH, V, 11,1. Cfr. AH, III, 19,1; IV, 18,5; V, 2,3; 13,3. 321 Cfr. AH, IV, 20,5.7. 322 Non è dunque Dio che prende l’iniziativa di punire l’uomo, ma l’uomo stesso, per la sua libera decisione, rimane privo di tutti i beni. Cfr. AH, V, 27,2. 323 AH, V, 10,2. Cfr. AH, V, 10,1; 16,1. La parola latina transmutatio viene tradotta in francese come transformation, mentre la versione Bellini-Maschio usa la parola cambiamento. Cfr. SC 153, 128-129. 324 Cfr. AH, V, 13,3. 325 Cfr. AH, V, 9,2; L.F. LADARIA, «Destino dell’uomo e fine dei tempi», 373; A. ORBE, «Gloria Dei vivens homo», 264-268; cap. II, par. 1.3 di questo lavoro. 320 DOTTRINA IRENEIANA 157 all’uomo risorto tutto intero e, in modo del tutto speciale, alla sua corporeità. È la carne che è deificata, l’uomo vede Dio nella sua carne»326. La «divinizzazione» dell’uomo si riferisce dunque alla salvezza della carne, cioè alla risurrezione e alla visione divina «nella carne»327, definita nei termini di una «novità cristiana». Tale visione rimane sempre un puro dono di Dio perché è stata resa possibile grazie alla filiazione adottiva e non attraverso le facoltà naturali dell’uomo: Queste parole [1Cor 15,53-55], infatti, saranno dette giustamente allorquando questa carne mortale e corruttibile, che ha a che fare con la morte, che appunto è dominata dalla morte, ritornerà alla vita e si rivestirà di incorruttibilità e di immortalità. Infatti, la morte sarà veramente vinta allorquando la carne, tenuta schiava da lei, uscirà dal suo potere. […] Qual è dunque il corpo dell’abiezione, che il Signore trasfigurerà rendendolo conforme al corpo della sua gloria? Evidentemente il corpo che è carne, la quale è umiliata cadendo nella terra. Ora la sua trasfigurazione, poiché essa che è mortale e corruttibile diviene immortale e incorruttibile, non deriva dalla sua propria sostanza ma dall’azione del Signore, che può procurare l’immortalità a ciò che è mortale e l’incorruttibilità a ciò che è corruttibile328. Ponendo l’accento sulla grazia di Dio nel processo della «divinizzazione» dell’uomo – «Perché la vita non deriva né da noi né dalla nostra natura, ma è data secondo la grazia di Dio»329 –, Ireneo fa una chiara distinzione tra natura e grazia, senza però insistervi troppo, ma indicando piuttosto, insieme ai Padri Greci, la continuità esistente tra questi due ordini330. Distinguendo inoltre il dono dello Spirito nell’uomo – inteso come «l’immagine e la scritta del Padre e del Figlio (cfr. Mt 22,20; Mc 12,16; Lc 20,24)»331 o come «la veste di santità»332 –, dallo stesso Spirito Santo che vivifica l’uomocarne rendendolo capace di «acquistare la qualità dello Spirito» e divenire così «conforme al Verbo di Dio»333, e dallo stesso Verbo di Dio che rende —————————– 326 Cfr. L.F. LADARIA, «Destino dell’uomo e fine dei tempi», 373. Cfr. cap. II, parr. 2.1.1 e 2.2.1 di questo lavoro. 328 AH, V, 13,3 [corsivo nostro]. Cfr. AH, II, 34,3-4; Gross, 128, n. 49. «Ainsi donc, l’immortalité qui déifie restera toujours un don divin et ne deviendra jamais une incorruptibilité par nature comme celle de Dieu». I. DALMAIS – G. BARDY, «Divinisation», 1377. 329 AH, II, 34,3. Cfr. AH, II, 34,3-4; V, 13,3. «L’incorruptibilité étant […] une propriété divine, Irénée estime que sa communication à l’homme requérait l’Incarnation». I. DALMAIS – G. BARDY, «Divinisation», 1377. L’Incarnazione è dunque la grazia più grande per la nostra salvezza. Cfr. AH, III, 18,7; 19,1; IV, 33,4. 330 Cfr. Gross, 128, n.49, dove si commenta all’AH, II, 34,3-4 in riferimento al pensiero di Congar. 331 AH, III, 17,3. 332 Cfr. AH, III, 23,5. 333 Cfr. AH, V, 9,3. 327 158 IL MISTERO DELLA SALVEZZA CRISTIANA l’uomo «simile al Padre invisibile»334, Ireneo ha anticipato la distinzione tra grazia increata e grazia creata335. Quanto possiamo rilevare a proposito del concetto di redenzione, che «non è né un termine né un concetto su cui Ireneo torna con frequenza, ma merita ugualmente attenzione»336, lo potremmo dunque applicare anche al concetto di «divinizzazione» nella dottrina ireneiana. Questi elementi presenti nella soteriologia ireneiana ci permettono di concludere, insieme a Gross, che, anche se Ireneo non parla esplicitamente di «divinizzazione» e non usa i termini theopoiein [θεοποιειν] e theopoiesis [θεοποίησις], la sua soteriologia implica la dottrina della «divinizzazione»337. Egli è stato il primo a dare un tentativo d’interpretazione teologica del fatto della «divinizzazione», precisandone l’origine e le sue condizioni, legandola ai misteri di Cristo, alla sua incarnazione e risurrezione, mediante i quali l’uomo diventa partecipe della vita divina, aprendo così la via agli sviluppi teologici successivi338. 3. Sintesi Cercando di fare una breve sintesi del tema della soteriologia ireneiana, prendiamo come nostro punto di partenza le due semplici domande con le quali Ireneo si distingue dai suoi avversari: «Chi è l’uomo?» e «Come quest’uomo viene salvato?». Consapevoli dei limiti del nostro lavoro, come anche dell’esposizione della dottrina ireneiana di cui abbiamo trattato nelle sezioni precedenti, sappiamo di non poter abbracciare, in questa sintesi, tutti —————————– 334 Cfr. AH, V, 16,3. «These images of an inscription and of a masterpiece produced in us, along with that of the “robe of holiness”, strongly suggest that our doctor has caught a glimpse within the Christian of the presence of a “spirit of the human being”. It is a spiritual gift, distinct from the divine Spirit, but produced by Him and inseparable from Him, which elevates to a superior mode of existence and activity, to the point of rendering the human being like the divine persons, a gift that would essentially constitute the divine ὁμοίωσις of the regenerated human being. Subsequent theology will not have any trouble in recognizing habitual or sanctifying grace here». Gross, 129, dove si fa riferimento al De gratia di Lange. Cfr. cap. II, par. 1.3 del nostro lavoro dove si parla della distinzione ireneiana fra «lo spirito dell’uomo» e «lo Spirito di Dio», e anche AH, V, 6,1 in Bellini-Maschio, 625, n. 6; AH, II, 33,5 e V, 9,2 in Bellini-Maschio, 594 e SC 293, 341. Ricordiamo a proposito i già menzionati commenti di de Lubac in MMC, 75.77. 336 Cfr. Orbe, II, 330; cap. II, par. 2.2 di questo lavoro. 337 Gross, 130. E anche Alfaro: «S. Ireneo non usa il termine “divinizzazione”, ma non si può dubitare che conosca questo concetto». J. ALFARO, Cristologia e antropologia, 84, n. 94. 338 Cfr. Gross, 131; J. ALFARO, «Natura», 571. «Saint Irénée, en cette matière comme en bien d’autres, apparaît comme le premier théologien qui ait pleinement maîtrisé l’ensemble du donné traditionnel. […] Mais soucieux de rester fidèle au vocabulaire scripturaire et défiant à l’égard d’expressions trop compromises, il demeure très sobre dans l’emploi du vocabulaire de la divinisation et organise sa synthèse autour du thème d’image et ressemblance. C’est là qu’on ira en chercher l’étude exhaustive». I. DALMAIS – G. BARDY, «Divinisation», 1377. 335 DOTTRINA IRENEIANA 159 i temi particolari legati alla tematica della salvezza nei testi ireneiani. Cercheremo, quindi, di sintetizzare la nostra esposizione tenendo conto del tema centrale del nostro lavoro, vale a dire il concetto di salvezza cristiana nella teologia di de Lubac in cui si possono riconoscere gli elementi della dottrina ireneiana. Non cercheremo qui di individuare e di evidenziare i paralleli esistenti tra le due dottrine dei nostri due autori perché ci riserviamo di farlo nella sintesi conclusiva del nostro lavoro339. Nelle pagine precedenti abbiamo spesso sottolineato quanto Ireneo si sforzi di affermare l’unità dell’uomo e il suo essere ordinato alla salvezza fin dal momento della sua creazione. Quest’uomo, situato in un processo di educazione e di sviluppo, costantemente dipendente dall’unico Dio, creatore e salvatore, progredisce sempre verso la pienezza340. Nella visione antropologico-soteriologica di Ireneo, dal carattere marcatamente ottimista e dinamico, l’incarnazione di Cristo rappresenta il culmine di tutta la storia del mondo. Ci sono due parole che ci sembrano particolarmente illuminanti nel confronto con la duplice domanda sull’uomo e sulla sua salvezza da cui siamo partiti per realizzare la nostra esposizione della dottrina ireneiana e questa breve sintesi. Queste due parole sono: unità e gratuità. Sono due parole in grado di sintetizzare le risposte date alle due domande in questione. Attorno ad esse vorremmo articolare, nei paragrafi seguenti, la nostra esposizione della dottrina ireneiana, cercando alla fine di elencare le affermazioni più importanti di Ireneo riguardanti il tema del nostro lavoro nella prospettiva della relativa dottrina di de Lubac. 3.1 Il senso dell’unità Sia l’Epideixis che l’Adversus haereses di Ireneo, come sua risposta alle tendenze dualistiche degli gnostici, sono segnati dal senso profondo dell’unità. Tutta la dottrina ireneiana, nel suo aspetto antropologico e soteriologico, è basata sull’unità di Dio, di Cristo, dell’uomo e della salvezza341. Il punto cruciale di questa unità è rappresentato dal concetto ireneiano della salus carnis attorno al quale Ireneo sviluppa la sua dottrina sulla salvezza dell’uomo intero, operata dall’unico Cristo – l’unico mediatore fra Dio e gli uomini342 – nel quale i due Testamenti trovano il loro centro e continuità. Per illustrare meglio il proprio pensiero, Ireneo si serve dell’espressione «la vera gnosi»343, scelta in opposizione alle speculazioni eretiche. Tale espressione viene legata dal nostro autore all’unicità —————————– 339 Cfr. Sintesi, sez. 1. di questo lavoro. Cfr. AH, IV, 38,3. 341 Cfr. P. CODA, Teo-logia, 156. 342 Cfr. 1Tim 2,5; AH, IV, 34,1; V, 2,2; 17,1. 343 Cfr. AH, II, 26,1; III, 10,3; IV, 33,8. 340 160 IL MISTERO DELLA SALVEZZA CRISTIANA della Scrittura nella forma dei due Testamenti344 e alla comprensione unitaria di tutti i misteri della salvezza realizzata in una prospettiva storicosalvifica, cristologica e soteriologica, presentata da Ireneo attraverso i concetti paolini della «ricapitolazione in Cristo» e del dinamismo tra «primo» e «secondo Adamo»345. Legando insieme i due concetti che egli distingue nella creazione (Gen 1,26 e Gen 2,7), Ireneo vuole esprimere l’unità dell’uomo: l’uomo «fatto» e l’uomo «plasmato» sono lo stesso uomo, creato ad immagine e somiglianza di Dio, situato al centro del mondo creato, al di sopra del mondo sensibile e al di sopra degli angeli346. Quest’uomo, fin dal momento della sua creazione, si trova inserito in un «ritmo» trinitario che lo spinge verso quel futuro che consiste nella visione di Dio, nella vita immortale e incorruttibile in piena comunione con Dio347. La salvezza dell’uomo si realizza per mezzo della fede in «un unico Dio» che governa tutta la storia umana e che è «il Padre del nostro Signore Gesù Cristo», come testimoniano gli Apostoli e «l’unico Vangelo quadriforme»348. Da Lui, l’unico Dio Padre, proviene «tutta l’economia di salvezza»349 che si realizza in Cristo – la Novità che rinnova e vivifica l’uomo350 ricapitolando e riunendo in sé ogni creatura351 – attraverso i misteri dell’Incarnazione e della Risurrezione, nella forza dello Spirito di Dio che «vivifica» e «fa crescere l’uomo»352. Dall’unico Dio, autore dei due Testamenti, proviene anche una sola salvezza: «Infatti, il Figlio, essendo accanto alla sua creatura fin dall’inizio, rivela il Padre a tutti […]. Per questo in tutte le cose e attraverso le cose c’è un solo Dio Padre, un solo Verbo, un solo Spirito e una sola salvezza per tutti quelli che credono in lui»353. Questa salvezza – il ristabilimento della vita di comunione e amicizia con Dio in Cristo354 – è un nuovo e unico disegno salvifico proveniente dall’unico Dio che attraverso il dono della fede e un «nuovo culto a Dio» giustifica «il circonciso» e «l’incirconciso»355. —————————– 344 «Noi invece [a differenza dagli gnostici] esporremo nel seguito dell’opera la causa della differenza tra i Testamenti, la loro unità e la loro armonia». AH, III, 12,12. Ireneo si riferisce alla sua esposizione nei libri IV e V dell’Adversus haereses. 345 Cfr. AH, IV, 33,7-8. 346 Cfr. AH, V, 36,3; cap. II, par. 1.1 di questo lavoro. 347 Cfr. AH, IV, 38,3. 348 Cfr. AH, III, 3,3; 6,1–15,3. 349 Cfr. AH, III, 23,1. 350 Cfr. AH, IV, 34,1. 351 Cfr. Ef 1,10; AH, V, 18,3; E, 6. 352 Cfr. AH, IV, 20,10; 38,3. 353 AH, IV, 6,7 [corsivo nostro]. Cfr. AH, IV, 9,3. 354 Cfr. AH, III, 18,7; V, 17,1. 355 Cfr. AH, III, 10,2; 20,1. DOTTRINA IRENEIANA 161 L’offerta della salvezza vale dunque per tutti, perché Dio è «Signore di tutti»356 e perché il Figlio di Dio manifestò «l’universalità della croce» manifestando la «chiamata alla conoscenza del Padre di tutti gli uomini dovunque dispersi (cfr. Is 11,12; Gv 11,52)»357. L’universalismo della salvezza nel suo aspetto «spaziale» e «temporale» si realizza attraverso le azioni dello Spirito Santo che già agli inizi «indicò le cose future per preformarci e predisporci ad essere soggetti a Dio»358 e per mezzo del Verbo di Dio che è «sempre presente al genere umano» e «parla dall’inizio del Padre perché dall’inizio è col Padre» ugualmente attivo «all’inizio» nella «plasmazione» dell’uomo e negli «ultimi tempi» come attore della sua salvezza359. La salvezza in Cristo include gli uomini di tutte le generazioni perché Egli è venuto «per tutti gli uomini che fin dall’inizio, secondo la loro capacità e la loro epoca, hanno temuto e amato Dio, si sono comportati con giustizia e santità verso il prossimo e hanno desiderato di vedere Cristo e di udire la sua voce»360. D’altra parte, l’ottimismo ireneiano di matrice paolina, legato all’universalità della salvezza nella novità di Cristo361 e alla «ricapitolazione» in Cristo grazie alla quale si realizza la salvezza di Adamo, padre del genere umano362, non esclude la possibilità della dannazione eterna per i «trasgressori», attestata dallo stesso Signore, da tutta la Scrittura e «dall’Apostolo»363. L’offerta universale della salvezza in Cristo non esclude neanche la necessità della Chiesa, nella quale si trovano i «luoghi» e la «regola» della verità364. Nell’unica e vera Chiesa, fondata dagli Apostoli, l’insegnamento apostolico continua a vivere immutato costituendo, sul principio dell’ininterrotta successione apostolica, l’unica vera Tradizione della Chiesa come garante della verità365. La verità è dunque accessibile nella Chiesa nella quale il battezzato incorporato a Cristo può crescere nella fede e nell’amore collaborando all’offerta universale di salvezza366. La salvezza come vita di comunione con Dio si realizza dunque in un’unica Chiesa, perché, come non c’è che un solo Dio Padre e un solo Gesù Cristo, così non c’è che una sola Chiesa367. Essa è il compimento della —————————– 356 Cfr. E, 8. Cfr. E, 34. 358 AH, IV, 20,8. 359 Cfr. E, 45-46; AH, IV, 20,7; 22,2; V, 15,4; 28,4. 360 AH, IV, 22,2. Cfr. AH, IV, 8,1; 14,2; E, 16. 361 Cfr. AH, IV, 8,3; 11,3-4; 27,2-4; 34,4. 362 Cfr. AH, I, 28,1; III, 23,1-8. 363 Cfr. Mt, 25,41; AH, II, 28,7. Ricordiamo che Ireneo intende la morte eterna come conseguenza della separazione da Dio per «libera decisione» dell’uomo. Cfr. AH, V, 27,2. 364 Cfr. AH, I, 10,1-2; introduzione al cap. II di questo lavoro. 365 Cfr. AH, III, pref; 1,1–5,3. 366 Cfr. E, 41.87. 367 Cfr. AH, III, 16,6. 357 162 IL MISTERO DELLA SALVEZZA CRISTIANA promessa della terra fatta ad Abramo368. Essa è il nuovo Israele369, il grande e glorioso corpo di Cristo370 nel quale lo Spirito Santo compie la sua azione salvifica e vivificante: «in lei è stata deposta la comunione con Cristo, cioè lo Spirito Santo, caparra di incorruttibilità (cfr. Ef 1,14; 2Cor 1,22), conferma della nostra fede (col 2,7) e scala della nostra salita a Dio (cfr. Gn 28,12)»371. Coloro che per mezzo del battesimo hanno ricevuto il dono dell’adozione filiale (cfr. Rm 8,15; Gal 4,5) sono riuniti nello Spirito (Rm 8,15; cfr. Gal 4,5-6) con il Padre e il Figlio, e formano «l’assemblea di Dio (cfr. Sal 82,1)»372. Come abbiamo spesso sottolineato nelle pagine precedenti, il concetto di salus carnis è il punto centrale nel quale convergono l’unità dell’antropologia e della cristologia/soteriologia ireneiana373. Sul concetto di «carne» si fonda il realismo e l’ottimismo ireneiano legato alla realtà peccatrice dell’uomo-corpo, alla realtà del Corpo salvifico di Cristo, dei misteri dell’Incarnazione e della Risurrezione e del mistero dell’Eucaristia374. Secondo la dottrina ireneiana, c’è un unico e vero uomo-Carne che salva375 e c’è un unico e vero uomo-carne che viene salvato376. Insieme al senso di unità e di realtà della salvezza, negli scritti ireneiani si trova anche un forte senso del mistero che supera la conoscenza umana, e che richiama alla fiducia nella bontà di Dio creatore e salvatore, che è sempre più grande di noi e che ci rivela i suoi misteri: Se non possiamo trovare le spiegazioni di tutto ciò che si cerca nelle Scritture, non dobbiamo tuttavia cercare un altro Dio oltre colui che lo è. Dobbiamo lasciare le cose di questo genere a Dio che ci ha creato, ben sapendo che le Scritture sono bensì perfette, in quanto sono state dette dal Logos di Dio e dallo Spirito, ma noi, essendo inferiori e ultimi rispetto al Logos di Dio e al suo Spirito, abbiamo bisogno per questo della conoscenza dei suoi misteri377. Più forti e più semplici di ogni nostra sintesi, sono le parole dell’ultimo capitolo dell’Adversus haereses che ci presentano la grandezza e l’unità del mistero della nostra salvezza come frutto della bontà divina e dell’unico disegno salvifico in Cristo: In tutte queste cose e attraverso tutte queste cose si rivela un solo e medesimo Dio Padre, che ha plasmato l’uomo e ha promesso l’eredità della terra ai padri, che la darà alla risurrezione dei giusti e porta a compimento le promesse nel —————————– 368 Cfr. Lc 3,8; Gal 4,28; AH, V, 32,2. Cfr. AH, V, 32,2; 34,1. 370 Cfr. AH, IV, 33,7. 371 AH, III, 24,1. Cfr. AH, III, 17,2; IV, 33,15. 372 Cfr. AH, III, 6,1. 373 Cfr. cap. II, parr. 2.1.1 e 2.1.3 di questo lavoro. 374 Cfr. AH, V, 2,2–10,2. 375 Cfr. AH, III, 22,1-2; V, 1,1-2. 376 Cfr. AH, V, 36,3; cap. II, par. 1.1 di questo lavoro. 377 AH, II, 28,2. 369 DOTTRINA IRENEIANA 163 regno del suo Figlio e poi offre, paternalmente, quei beni che occhio non vide e orecchio non udì né salirono nel cuore dell’uomo (cfr. 1Cor 2,9). C’è, infatti, un solo Figlio, che ha compiuto la volontà del Padre, ed una sola umanità, nella quale si compiono i misteri di Dio378. 3.2 La salvezza donata Partendo dalla situazione della debolezza umana determinata dalla realtà e dalle conseguenze del peccato, la semplice logica ireneiana di matrice paolina comprende l’uomo come incapace di ottenere la salvezza con le proprie forze naturali. L’ottimismo ireneiano, però, ben accompagnato dal suo realismo, concepisce il peccato come una realtà che non distrugge il disegno salvifico, perché Dio è più grande della nostra debolezza e vuole la salvezza dell’uomo: «il Padre è incomprensibile, ma secondo l’amore e la benignità che Egli ha verso gli uomini, e grazie alla sua onnipotenza, concede anche questo a coloro che lo amano, di vedere Dio – quello che appunto profetavano i profeti – poiché “ciò che è impossibile presso gli uomini è possibile presso Dio (Lc 18,27)”»379. Molto spesso, infatti, troviamo negli scritti ireneiani il riferimento alla «bontà divina» come causa prima della salvezza umana. Facendo questi riferimenti, Ireneo vuole affermare la necessità dell’aiuto divino per la salvezza dell’uomo e il carattere assolutamente gratuito di questa salvezza. Infatti, secondo la logica di Ireneo, la domanda sulla salvezza è preceduta dalla considerazione della bontà di Dio, perché all’inizio c’era la bontà creatrice e salvifica di Dio Padre, che lungo il percorso della storia segnata dal peccato è divenuta la bontà redentrice e «divinizzante». L’unica risposta possibile a quest’amore divino è la semplice fiducia in Dio, accompagnata da una fede unita all’amore e alle sue opere. La salvezza dell’uomo è, dunque, voluta da Dio, che all’inizio plasmò Adamo non perché Egli avesse bisogno dell’uomo, ma «per avere uno nel quale deporre i suoi benefici»380. Questo è il punto di partenza ireneiano per la sua antropologia e soteriologia: la differenza fondamentale tra Dio e l’uomo – Dio non ha bisogno di niente e nessuno, mentre l’uomo ha bisogno di Dio in tutto, e soprattutto per ciò che riguarda la salvezza381. L’uomo vivo, libero e felice, voluto e amato dal suo Creatore, minacciato dalla propria debolezza peccatrice, è bisognoso dell’aiuto salvifico divino. L’unica risposta al bisogno umano è lo stesso Amore creatore, le stesse Mani del Padre che furono attive nella plasmazione dell’uomo-carne e adesso operano la sua salvezza: il Verbo diventato egli stesso «uomo—————————– 378 AH, V, 36,3 [corsivo nostro]. Cfr. AH, V, 1,1. AH, IV, 20,5. 380 Cfr. AH, IV, 14,1. 381 Cfr. F. VERNET, «Irénée (Saint)», 2488. 379 164 IL MISTERO DELLA SALVEZZA CRISTIANA Carne»382 e lo Spirito, che vivifica la carne corruttibile e mortale conferendole il dono dell’incorruttibilità e dell’immortalità383. È chiara dunque la necessità della grazia affermata da Ireneo, che, secondo la sua impostazione antropo-teologica, riceve la sua prima risposta con il mistero dell’Incarnazione. La prima grazia salvifica, il primo dono della bontà di Dio Padre è dunque l’incarnazione del Figlio attraverso il quale si ristabilisce la nostra partecipazione alla figliolanza adottiva, cioè l’amicizia e la comunione con Dio perse a causa del peccato: «Infatti, come avremmo potuto divenire partecipi della adozione filiale (cfr. Gal 4,5), se mediante il Figlio non avessimo ricevuto da lui la comunione con Lui; se non fosse entrato in comunione con noi il suo Verbo facendosi carne (cfr. Gv, 1,14)?»384. È chiara anche l’assoluta gratuità della grazia frutto della magnanimità e della bontà di Dio Padre, manifestata mediante le sue Mani creatrici e salvatrici, dal momento della creazione dell’uomo, attraverso le preparazioni storiche del disegno salvifico, fino ai misteri dell’incarnazione e della risurrezione di Cristo mediante i quali l’uomo ricevette l’adozione filiale e l’accesso alla vita immortale385. È da Dio dunque che proviene la nostra salvezza, «poiché tutta l’economia di salvezza che riguardava l’uomo si svolgeva secondo il beneplacito del Padre (cfr. Ef 1,5.9)»386. È Dio che «procura l’immortalità a ciò che è mortale e dona gratuitamente l’incorruttibilità a ciò che è corruttibile (cfr. 1Cor 15,53)»387. Alla nostra debolezza umana Dio risponde con la sua potenza «affinché non ci lasciamo mai prendere dall’orgoglio come se avessimo la vita da noi stessi e non ci solleviamo contro Dio» e in maniera tale che «sapremo qual è la potenza di Dio e quali sono i benefici che l’uomo può ricevere»388. Come la nostra vita terrestre è un dono di Dio, così anche la vita immortale è un puro dono: «Perché la vita non deriva né da noi né dalla nostra natura, ma è data secondo la grazia di Dio»389. Ireneo comprende dunque il significato del dono – la grazia della nostra salvezza – in senso assoluto, distinguendo lo stesso Dio che si dona390 dai —————————– 382 «Dunque il Signore stesso (cfr. Is 7,14) ci dette il segno della nostra salvezza, l’Emmanuele nato dalla Vergine, perché era il Signore stesso colui che salvava coloro che non potevano salvarsi da sé». AH, III, 20,3. 383 «Dunque senza lo Spirito di Dio la carne è morta, non ha la vita e non può ereditare il regno di Dio». AH, V, 9,3. Cfr. AH, V, 7,1. 384 AH, III, 18,7. 385 Cfr. AH, III, 20,1. 386 AH, III, 23,1 [corsivo nostro]. 387 Cfr. AH, V, 2,3. 388 Cfr. AH, V, 2,3. 389 AH, II, 34,3. Cfr. AH, III, 20,3; V, 13,3. 390 Lo Spirito Santo e il Verbo di Dio. Cfr. AH, V, 9,3; 16,3. DOTTRINA IRENEIANA 165 suoi benefici391. Il Signore stesso è la risposta alla debolezza umana e al nostro bisogno di salvezza: «Dunque lo Spirito Santo discese […] e l’Unigenito Figlio di Dio, che è anche Verbo del Padre, quando venne la pienezza del tempo (cfr. Gal 4,4), si incarnò nell’uomo per l’uomo e portò a compimento tutta l’economia umana: Gesù Cristo nostro Signore» che è uno solo ed il medesimo»392. È il Signore stesso dunque che ci ha dato il «segno» della salvezza ed è diventato «Dio-con-noi» (cfr. Is 7,14)393. È Lui stesso che per il suo grande amore ci ha ridato la vita e ci ha liberati (cfr. Is 63,9)394. Nonostante il ruolo primario della bontà divina, che precede ed è causa dell’atto creatore e salvifico, e nonostante la «debolezza» umana, l’uomo deve rispondere al dono salvifico: Poiché dunque senza lo Spirito di Dio non possiamo essere salvati, l’Apostolo esortandoci a conservare lo Spirito di Dio mediante la fede e la vita pura, affinché, persa la partecipazione dello Spirito divino, non perdiamo il regno dei cieli, proclamò che la carne in se stessa, con il suo sangue, non può ereditare il regno di Dio395. L’unità della fede e dell’amore, insieme alle loro opere è dunque necessaria per ottenere e per salvare il dono ricevuto della salvezza396. La fede «dei padri» ci preparava alla novità rinnovatrice e vivificante di Cristo397, e le opere presenti della fede ci preparano alla gloria futura398, perché «non è con la verbosità della Legge che il genere umano è salvato, bensì con la concisione della fede e della carità»399. Incorporandosi a Cristo per mezzo del battesimo nella Chiesa, diventando così erede delle promesse di Abramo400, e partecipando all’Eucaristia401, l’uomo cresce nella fede, nell’amore e nella speranza, collaborando con l’offerta universale della —————————– 391 Cfr. cap. II, par. 2.3 di questo lavoro. Inoltre, secondo Vernet, «Irénée distingue, quoique les mots de “grâce sanctifiante” et de “grâce actuelle” lui manquent, la grâce qui nous conforme à l’image et à la ressemblance divines, la grâce qui “donne la vie” divine, grâce habituelle ou sanctifiante, de celle, grâce actuelle, qui fait produire des “fruits de vie”». F. VERNET, «Irénée (Saint)», 2488. Cfr. AH, III, 17,3-4. 392 AH, III, 17,4 [corsivo nostro]. Riguardo alle ultime parole in corsivo: «τὴν κατὰ ἄνθρωπον οἰκονομίαν. Il ne s’agit pas de l’“économie” concernant l’homme, accomplie au bénéfice de l’homme, mais de l’“économie” humaine du Fils de Dieu, autrement dit de tout le déroulement concret des événements sauveurs accomplis par le Fils de Dieu dans sa chair, depuis sa naissance jusqu’à sa glorification en passant par sa Passion et sa mort sur la croix». SC 210, 331. 393 Cfr. AH, III, 19,3. 394 Cfr. E, 88.94; AH, III, 20,3-4. 395 AH, V, 9,3 [corsivo nostro]. Cfr. AH, III, 20,3. 396 Cfr. AH, I, 6,4; 10,1; IV, 6,5; 13,1-4; 16,3-5; 18,3; 23,3; 25,5; 28,2-3; E, 15.95. 397 Cfr. AH, IV, 5,3-5; V, 32,2; E, 1-3.35.93. 398 Cfr. AH, IV, 34,1; E, 1-3. 399 E, 87. 400 Cfr. AH, I, 21,3-4; II, 22,4; III, 17,1-2; V, 15,3; 32,2; E, 3.7.17.41. 401 Cfr. AH, IV, 18,4-5; 33,2. 166 IL MISTERO DELLA SALVEZZA CRISTIANA salvezza sull’esempio dei primi discepoli di Cristo i quali «con la fede, la carità e la speranza attuarono la chiamata dei Gentili, che anticipata dai profeti, fu loro rivolta secondo la misericordia di Dio manifestata col loro ministero»402. 3.3 Conclusione Dall’esposizione svolta sui risvolti antropologico-soteriologici della dottrina ireneiana possiamo trarre alcuni elementi essenziali che riguardano il tema generale del nostro lavoro ed esporli nella forma di una breve conclusione. Alla domanda sull’uomo, la dottrina di Ireneo ci offre una risposta unitaria. L’uomo – «ireneiano», creato e plasmato ad Immagine e Somiglianza di Dio403, unitamente «composto» di carne e anima, sulle quali agisce l’efficacia del Pneuma [Πνεύμα] divino, è l’unico uomo che esista, l’uomo reale, partecipe dell’unica «natura» umana creata dall’unico Dio creatore. Quest’uomo, a causa della sua disobbedienza a Dio, per l’invidia e per la seduzione del «malvagio»404, è diventato debitore nei confronti di Dio, ha perso la sua libertà e la comunione della vita con Dio, ed è stato sottomesso alla morte. Il soggetto del peccato è dunque la carne peccatrice di Adamo, che può essere riconciliata con Dio soltanto mediante la Carne salvatrice – unico Soggetto della salvezza405. Similmente, l’oggetto del peccato – la disobbedienza dell’uomo-carne con la sua conseguente morte e schiavitù – può essere annullato soltanto tramite l’oggetto della salvezza – l’obbedienza dell’uomo-Carne divino. La logica ireneiana d’ispirazione paolina, lega il mistero del peccato di Adamo alla riconciliazione realizzata da Cristo, avvalendosi del concetto di «ricapitolazione»: la realizzazione della salvezza si compie mediante i misteri di Cristo – l’incarnazione e la risurrezione. Attraverso di essi l’uomo ottiene l’adozione filiale, divenendo partecipe della vita divina e trasformandosi in uomo «spirituale e perfetto», nel quale lo Spirito Santo, mediante l’anima, si unisce alla «carne» rendendola conforme a Cristo406. Così, la salvezza dell’uomo si realizza «in modo degno del Verbo» – rationabiliter, e in modo più conveniente all’uomo – secundum suadelam407. A quest’ultimo è legato anche il carattere progressivo della salvezza secondo cui l’uomo nel percorso della storia «cresce», collabora e progredisce verso la vita di comunione con Dio, che comincia già in questa vita e si compie nella gloria futura, senza perdere mai il suo carattere progressivo perché «Dio è —————————– 402 Cfr. E, 41.87 [corsivo nostro]. Cfr. cap. II, par. 1.1 di questo lavoro. 404 Cfr. AH, V, 21,1-2; 23,1–25,1. 405 Cfr. AH, IV, 20,2; V, 14,2. 406 Cfr. cap. II, par. 1.3 di questo lavoro. 407 Cfr. AH, V, 1,1; cap. II, par. 2.2.2 di questo lavoro. 403 DOTTRINA IRENEIANA 167 sempre più grande» e «l’uomo ha sempre qualcosa da imparare davanti a Dio». Grazie alla semplicità del pensiero ireneiano e delle sue chiare riflessioni antropo-teologiche, sorte nel confronto con i complessi ma ben articolati sistemi gnostici, Ireneo, nonostante la sua «verbosità» e le molteplici ripetizioni che possono dare un po’ di fastidio agli studiosi della sua opera, ci offre una dottrina, libera dalla «razionalità ellenistica»408, che contiene i fondamenti e gli orientamenti per lo sviluppo dogmatico successivo409. Questo riguarda soprattutto la dottrina sull’uomo e su Dio, sulla grazia e sulla Chiesa, temi, tutti questi, che si rifrangono nel prisma del tema della salvezza in Cristo. Per la ricchezza della sua dottrina e gli orientamenti che essa imprime allo sviluppo della teologia posteriore, secondo Vernet, il nome di Ireneo potrebbe essere accostato, per un verso, a quello di san Paolo e di san Giovanni e, per un altro verso, a quello di sant’Agostino410. L’importanza, l’originalità e la vitalità della dottrina di Ireneo, oltre che dal menzionato documento della Commissione Teologica Internazionale in cui si fa riferimento alla dottrina ireneiana sulla «ricapitolazione»411, ci viene testimoniata anche dai frequenti riferimenti alla dottrina di Ireneo contenuti nei documenti del Concilio Vaticano II e nell’ultimo Catechismo della Chiesa Cattolica412. All’interno della dottrina ireneiana sula salvezza, rileviamo alcune caratteristiche, che ci sembrano più rilevanti per un confronto con la relativa dottrina di de Lubac. Le elenchiamo di seguito: – il primato dell’iniziativa divina: la salvezza proviene da Dio creatore e salvatore; —————————– 408 «Il primo tentativo di offrire una visione organica della fede cristiana è dunque realizzato nella prospettiva della storia della salvezza e di una riflessione interna alla dinamica della rivelazione e alle categorie di pensiero bibliche, senza indulgere all’uso di una razionalità – quella della filosofia greca – che è sconosciuta al mondo biblico. Quella di Ireneo, però, resterà in fondo una voce isolata nel proseguimento dello sviluppo della teologia». P. CODA, Teo-logia, 156. 409 Cfr. F. VERNET, «Irénée (Saint)», 2517-2530. «Le premier, et le seul, de tous les anciens, il a un exposé relativement complet du dogme catholique. Pour ne rien dire de ses écrits non connus et qu’on peut espérer de lire un jour, en particulier de ce traité “De la science”, qu’Eusebe qualifie de “court mais nécessaire”, le Contra haereses et la Demonstration de la prédication apostolique constituent une sorte de somme de théologie des origines chrétiennes. […] Et non seulement Irénée offre des anticipations de la dogmatique ultérieure, non seulement il aborde presque toutes les questions vitales; mais encore il a eu le mérite de donner au Christ la place à laquelle il a droit». Ibid., 2530. 410 Cfr. F. VERNET, «Irénée (Saint)», 2517. 411 Cfr. CTI, «Alcune questioni sulla teologia della redenzione», III, 5-6 (EV, 14, 19011902). 412 Cfr. LG 4, 13, 17, 20; DV 7, 16, 18, 25; AG 3, 7, 8; GS 39, 57; CCC, soprattutto 511065. 168 IL MISTERO DELLA SALVEZZA CRISTIANA – la «predestinazione» dell’uomo alla salvezza: l’uomo creato e plasmato a Immagine e Somiglianza di Dio è trinitariamente e cristologicamente determinato e inserito nel percorso della storia verso il suo unico fine ultimo – la vita di comunione con Dio, cioè la visione di Dio; – la chiamata universale alla salvezza riguarda ogni uomo partecipe dell’unica «natura» umana concepita soprattutto come sarx [σαρξ] creata e plasmata; – l’apertura dell’uomo alla «ricezione di Dio» mediante l’inabitazione dello Spirito Santo che «entra nella composizione» dell’uomo rendendolo uomo «spirituale e perfetto»; – la debolezza umana e il realismo del peccato sono incapaci di minacciare l’unico disegno salvifico in Cristo; – la realizzazione della salvezza nel percorso storico mediante gli eventi di Cristo, l’incarnazione e la risurrezione; – la necessità della Chiesa e dei sacramenti, soprattutto del battesimo e dell’Eucaristia, attraverso i quali si realizza l’«incorporazione a Cristo»; – l’affermazione della libertà dell’uomo e della necessità della sua libera collaborazione con la grazia mediante l’adesione alla fede e l’amore e le opere da essi suscitate, cioè «le opere dello Spirito»; – l’affermazione della possibile perdizione eterna come conseguenza della libera scelta dell’uomo di venire meno alla collaborazione con l’offerta della salvezza; – il carattere progressivo della salvezza; – l’affermazione dell’assoluta necessità della grazia per la salvezza; – l’affermazione dell’assoluta gratuità della salvezza. Dai caratteri della soteriologia ireneiana appena elencati, si può evincere il realismo e l’ottimismo di Ireneo, insieme al suo senso dell’unità, della bontà divina e del mistero che supera la conoscenza umana senza negarla, ma lasciando spazio alla fede intesa come fiducia nell’infinita bontà divina dalla quale tutto proviene e nella quale tutto trova il suo senso e il suo fine413. Grazie a questa prospettiva, presa come punto di partenza per la riflessione e l’espressione teologica, insieme con il forte senso cristologico di tipo paolino, Ireneo riesce a collegare affermazioni che ci possono «sembrare opposte»414. Pensiamo soprattutto all’affermazione ireneiana dell’unica «natura» umana e alla sua determinazione cristologica, cioè alla «predestinazione» alla salvezza, insieme alla simultanea affermazione dell’assoluta gratuità della salvezza. Dunque, l’affermazione dell’assoluta necessità della grazia, senza alcuna pretesa da parte dell’uomo, va di pari passo con l’affermazione del carattere assolutamente gratuito della sal—————————– 413 Cfr. AH, II, 28,2, V, 1,1; 36,3. Alludiamo alla riflessione lubachiana sulla fede intesa come «accordo di due verità opposte». Cfr. MS49, 128. 414 DOTTRINA IRENEIANA 169 vezza415. Queste asserzioni dottrinali, comuni a Ireneo e a de Lubac, nel corso della storia, a causa d’interpretazioni sproporzionate e parziali, hanno provocato la nascita di eresie o almeno di vivaci dispute dottrinali416. Partendo proprio dal realismo e dall’ottimismo antropo-teologico e dal senso ireneo-lubachiano dell’unità e del mistero, nella sintesi seguente, che offriamo a conclusione del nostro lavoro, cercheremo di evidenziare i paralleli dottrinali che, nonostante la distanza storica e le differenze di metodo e di linguaggio fra Ireneo e de Lubac, dimostrano l’unità di pensiero che li accomuna e la loro profonda consonanza dottrinale, espressa nell’instancabile sforzo di salvare la visione biblica e reale dell’uomo e della sua salvezza. —————————– 415 416 Cfr. cap. II, par. 3.2 di questo lavoro. Cfr. Augustinisme et théologie moderne di de Lubac. SINTESI Questa sintesi conclusiva del nostro lavoro si configura come una rilettura di alcuni scritti lubachiani, attraverso la quale ci proponiamo di cogliere quei riferimenti in grado di dimostrare in maniera più esplicita le somiglianze e i paralleli dottrinali esistenti tra l’insegnamento di Ireneo e quello di de Lubac. Ovviamente, da questa analisi, emergeranno anche le differenze esistenti tra le due dottrine. Si cercherà, infatti, di individuare le caratteristiche peculiari di ciascun autore, sia a livello della prospettiva teologica che del metodo teologico utilizzato. La nostra rilettura includerà gli scritti già menzionati sul «soprannaturale» di de Lubac, insieme ad alcune ripetizioni necessarie di quanto è stato detto nei capitoli precedenti. La nostra riflessione si allargherà, poi, alle altre opere lubachiane, nella misura in cui ci aiuteranno a trovare una conferma delle nostre argomentazioni. Pensiamo in primo luogo a Catholicisme, che abbiamo già consultato1, a Mistica e Mistero cristiano2 e a un paragrafo della Exégèse médiévale dedicato alla meditazione su Cristo – «Verbum abbreviatum»3. Già nei paragrafi conclusivi dei due capitoli precedenti dove abbiamo sintetizzato i punti principali delle due dottrine, si possono facilmente notare i «punti comuni» dei nostri due autori4. Per evitare ripetizioni, in questa sintesi cerchiamo di riassumere questi paralleli dottrinali sotto tre punti di vista: il realismo e l’ottimismo antropo-teologico5, il senso dell’unità e del mistero6 e il concetto di una «antropologia aperta» nella quale possiamo —————————– 1 Cfr. cap. I, par. 3.2 di questo lavoro. L’opera è stata pubblicata in italiano, Milano 1979, e contiene le versioni riedite e tradotte di due articoli: «Mystique et Mystère chrétien», prefazione all’opera collettiva su La Mystique et les mystiques, diretta da A. Ravier, Paris 1965; «Le problème du développement du dogme», RSR 35 (1948) 130-160; e il saggio «Le fondement théologique des missions» che è, infatti, la stesura di due lezioni tenute dall’autore alla Facoltà Cattolica di Teologia, Lyon, gennaio 1941, Paris 1946; trad. italiana, «Il fondamento teologico delle missioni», Milano 1975. 3 Cfr. EM, III, 249-271. 4 Cfr. cap. I, parr. 4.2-4.3 e cap. II, par. 3.3 di questo lavoro. 5 Cfr. Sintesi, par. 1.1 di questo lavoro. 6 Cfr. Sintesi, par. 1.2 di questo lavoro. 2 172 IL MISTERO DELLA SALVEZZA CRISTIANA riconoscere un passaggio dal mistero alla mistica7. Sono questi, tre punti di vista o punti di partenza che danno origine ad uno spazio spirituale e dottrinale, nel quale nascono e si sviluppano il pensiero e la dottrina di Ireneo e di de Lubac. La sottolineatura costante di questi tre aspetti lungo le riflessioni teologiche di entrambi i nostri autori permette loro di salvare la concezione biblica dell’unicità della natura umana – dell’uomo chiamato alla vita di comunione con Dio –, e, nello stesso tempo, di preservare l’assoluta gratuità della grazia. Nonostante i punti di convergenza tra le dottrine dei nostri due autori, incentrate sul tema della salvezza, si riscontrano alcune differenze a livello teologico sia nell’accento che nello stile. È su tali differenze che intendiamo soffermarci in quest’ultima fase del nostro lavoro8. Pensiamo soprattutto alla diversa accentuazione che i due autori danno alla concezione paolina dell’«antropologia tripartita». Mentre Ireneo, secondo il suo metodo antignostico pone l’accento sull’«uomo carne», de Lubac invece preferisce l’aspetto dello «spirito creato e aperto», in sintonia con il suo metodo antineoscolastico, teso all’affermazione dell’apertura e del destino soprannaturale dell’uomo9. Come vedremo, sono due prospettive diverse, ma non contrarie. A differenza di Ireneo, in cui ci imbattiamo in una cristologia dai cui sviluppi prende le mosse la sua riflessione antropologica, in de Lubac, come abbiamo visto, incontriamo una cristologia implicita o indiretta. Sono proprio i risvolti antropologico-cristologici della dottrina di Ireneo che ci aiutano a riconoscere l’impronta cristologica implicita presente negli scritti lubachiani10. Partendo dalla novità (paolino-ireneiana) di Cristo, e aderendo al mistero unente di Cristo, de Lubac, difendendo l’unica vocazione divina dell’uomo, riesce ad unire filosofia, teologia e mistica11. Questo sforzo lubachiano di unificazione sarà poi riconoscibile nella dottrina del Concilio Vaticano II. 1. Paralleli dottrinali 1.1 Il realismo e l’ottimismo antropo-teologico Partendo dalla dottrina di Ireneo di Lione che abbiamo presentato nel capitolo precedente di questo lavoro, possiamo intraprendere una certa rilettura degli scritti lubachiani, ripensando la sua dottrina alla luce dei punti principali della riflessione ireneiana sul tema della salvezza, presentati in —————————– 7 Cfr. Sintesi, par. 1.3 di questo lavoro. Cfr. Sintesi, sez. 2. di questo lavoro. 9 Cfr. Sintesi, par. 2.1 di questo lavoro. 10 Cfr. Sintesi, par. 2.2 di questo lavoro. 11 Cfr. Sintesi, par. 2.3 di questo lavoro. 8 SINTESI 173 modo sintetico nelle pagine precedenti di questo lavoro12. Mettendo a confronto i due insegnamenti dei nostri autori, ci appare chiara la loro profonda sintonia che li unisce proprio attorno ai principali punti antropoteologici. Pensiamo in primo luogo all’insistenza con cui de Lubac parla dell’unica natura umana – reale, respingendo l’ipotesi astratta della «natura pura», che egli considera «un’ipotesi insufficiente», perché incapace di assicurare la piena gratuità del «soprannaturale» per un’umanità reale13. Proprio questa insistenza di de Lubac sul realismo della natura umana è conforme alla visione realistica di Ireneo dell’uomo, secondo la quale, egli partecipa dell’unica «natura» umana, concepita soprattutto come sarx [σαρξ] creata e plasmata. Le argomentazioni di de Lubac sviluppate in opposizione all’ipotesi della «natura pura», si presuppongono dunque una concezione che è propria anche di Ireneo. Anche il vescovo lionese, nella lotta condotta contro la visione eretica dualista dell’uomo, aveva elaborato una concezione biblica e reale dell’uomo, essere creato e plasmato a Immagine e Somiglianza di Dio, trinitariamente e cristologicamente determinato ed inserito nel percorso della storia verso il suo unico fine ultimo – la vita di comunione con Dio. È facile dunque riconoscere che alla concezione realistica di Ireneo dell’uomo corrisponda la visione antropologica realista e unitaria di de Lubac, che esclude ogni dualismo ipotetico. Il forte realismo ireneo-lubachiano, che concepisce l’uomo in quanto creato e ordinato alla salvezza, non ignora però la realtà del peccato. Questo è proprio il punto in cui il realismo antropologico dei nostri due autori si incontra con il loro ottimismo teologico. La realtà del peccato, infatti, non distrugge il progetto divino della salvezza, perché la debolezza umana e il realismo del peccato sono incapaci di minacciare l’unico disegno salvifico in Cristo. A causa della realtà del peccato e delle sue conseguenze, la salvezza in Cristo si realizza inizialmente liberando l’uomo dal peccato, e solo successivamente riportandolo all’unione con Dio. Il ripristino dell’immagine e della somiglianza di Dio, infatti, è solo l’aspetto finale della salvezza. L’uomo, inserito nel percorso storico della salvezza, si trova in un processo di continuo progresso e educazione, e tende verso il suo fine ultimo soccorso dall’azione interiore e trasformatrice-deificatrice di Cristo. In questa dottrina sulla «trasformazione/trasfigurazione», il cui fine è l’«immagine di Cristo», troviamo una forte consonanza della dottrina di de Lubac e il concetto ireneiano di «divinizzazione». Entrambi gli autori non usano molto la parola «divinizzazione», ma ricorrono prevalentemente ai —————————– 12 Cfr. cap. I, par. 4.2 e cap. II, par. 3.3 di questo lavoro. Grazie al linguaggio più «classico» sulla grazia, usato da de Lubac nella sua Petite catéchèse, dove si fa esplicito richiamo alla dottrina di Ireneo e di altri Padri della Chiesa, come abbiamo mostrato nel cap. I, par. 4.2 di questo lavoro, è più facile riconoscere la consonanza della dottrina lubachiana con quella di Ireneo e con il pensiero patristico in generale. 13 Cfr. MS65, 109; cap. I, par. 1.2 di questo lavoro. 174 IL MISTERO DELLA SALVEZZA CRISTIANA concetti paolini di «filiazione adottiva», di «partecipazione alla vita divina» e di «trasformazione-trasfigurazione», ed entrambi legano quest’aspetto della salvezza alla grazia di Cristo14. Il carattere progressivo della salvezza, presentato attraverso i già menzionati concetti di trasformazione e di trasfigurazione, e da quelli della ricerca dell’equilibrio, dell’armonia e della sintesi, rivela l’ottimismo teologico ireneo-lubachiano proveniente da una fiducia fondamentale nella bontà divina dalla quale provengono il perdono e la grazia «soprannaturale» come realtà che elevano e trasformano l’uomo ad immagine di Cristo15. Questa visione teologica ottimista, basata sull’offerta universale della salvezza, non esclude la libera, però necessaria, risposta dell’uomo alla grazia divina donata ed elargita in Cristo. Anzi, l’offerta universale della salvezza chiede all’uomo di collaborare, per mezzo dell’ascesi e dell’adesione alle «opere dello Spirito», al progetto divino della salvezza in Cristo. La risposta dell’uomo alla previa offerta divina della salvezza assume, in entrambi i nostri autori, la forma biblico-paolina dell’Alleanza tra Dio e l’uomo, realizzata nel «Sacrificio nuovo» di Cristo – punto in cui i misteri dell’Incarnazione e della Redenzione sono inseparabili. Grazie alla risposta di Cristo – Uomo nuovo – Carne salvatrice, è salvato l’uomo primo – carne peccatrice. L’affermazione della novità (paolina) di Cristo in entrambi i nostri autori, esprime il carattere assolutamente gratuito della salvezza in Cristo intesa come liberazione dalla schiavitù del peccato e come offerta universale della salvezza all’uomo partecipe dell’unica natura umana. Il realismo e l’ottimismo antropo-teologico ireneo-lubachiano non minacciano dunque in nessun modo l’assoluta gratuità del dono divino della salvezza in Cristo. La salvezza proviene da Dio Padre come un dono assolutamente gratuito e libero, in nessun modo acquistabile con le forze naturali dell’uomo, e si realizza per mezzo dell’azione redentrice-liberatrice e trasformatricedivinizzatrice di Cristo. Seguendo la dottrina paolina sulla novità di Cristo, Ireneo pone l’accento sull’importanza degli eventi storici di Cristo, dell’Incarnazione e della Risurrezione, rilevando il loro effetto universale e trascendente sulla salvezza dell’uomo nella forma della «ricapitolazione» in Cristo di tutta —————————– 14 La parola «divinizzazione» o «deificazione» negli scritti sul «soprannaturale» appare solo quando si parla del rapporto fra «datum optimum» e «donum perfectum», Cfr. MS49, 120-121; MS65, 151-152; PC, 33. Sui concetti di «trasformazione» e «trasfigurazione» in de Lubac, cfr. cap. I, par. 4.2 di questo lavoro. Sulla «divinizzazione» in Ireneo, cfr. cap. II, par. 2.3 di questo lavoro. 15 Volendo affermare l’originalità dell’ottimismo di Ireneo, de Lubac scrive: «Non tutti i Padri certamente hanno quell’ampio umanesimo dei più grandi fra essi, alessandrini, cappadoci, antiocheni, o, fra i latini, Agostino stesso; come non hanno l’ottimismo d’Ireneo». Poco dopo però, aggiunge che un medesimo dato fondamentale è supposto da tutti i Padri: «l’unità del genere umano nel suo sviluppo temporale». Cfr. C, 192-193. SINTESI 175 l’umanità16. La logica del realismo e dell’universalismo di matrice paolinoireneiana, fondata esplicitamente sulla realtà e sulla centralità dei misteri di Cristo per la salvezza dell’uomo, la incontriamo nella riflessione lubachiana sulla tensione antropo-teologica esistente fra paradosso e mistero dell’uomo17, fra storicità e trascendenza del cristianesimo/Chiesa18. Partendo dalla novità di Cristo, dalla novità assoluta e reale dell’Incarnazione come fatto unico e originale, storico e trascendente, de Lubac, seguendo la linea di pensiero di Paolo e di Ireneo, senza mai perdere il senso dell’unità e della continuità, prolunga la sua riflessione sul carattere storico e trascendente del cristianesimo stesso19: Il Creatore e il Redentore, aggiunge la Chiesa, sono un solo e medesimo Dio; non potrebbe dunque esservi opposizione tra le loro opere, ed è un’aberrazione credere che si esalterà la seconda screditando la prima. Il Verbo s’è incarnato per riparare e consumare tutte le cose, è anche Colui che già illumina ogni uomo che viene in questo mondo. [...] L’opera del Creatore, per quanto sia guastata dall’uomo, resta tuttavia la preparazione naturale e necessaria dell’opera del Redentore. [...] Quanto è bello vedere gli «elementi del mondo» lentamente formarsi, maturare, evolversi, senza che nessuno lo sappia, per fornire il corpo al Cristianesimo nascente! Il cristianesimo ha trasfigurato l’antico mondo assorbendolo. [...] Se difatti il Cristianesimo è divino, tutto divino, è anche, in un certo senso, umano, tutto umano, ed è venuto a trasformare l’uomo e rinnovare la faccia della terra, insinuandosi, senza lacerarlo, nel fitto tessuto della storia umana. [...] Dono di Dio, Gesù non è dunque meno, nello stesso tempo, fiore di Iesse. Venuto dal cielo, è anche il frutto della terra. Dominus dabit benignitatem, et terra nostra dabit fructum suum. Ugualmente la Chiesa: è l’umanità che le fornisce il suo corpo20. Il realismo ireneo-lubachiano prende in considerazione la storicità e l’universalità di Cristo e della Chiesa, nella quale si compiono i «misteri di Dio» nella realizzazione della salvezza dell’uomo. Partendo dunque dalla realtà di Cristo, dal vero e unico Cristo – il vero Uomo-Carne che salva –, si arriva all’«unica e sola umanità nella quale si compiono i misteri di Dio»21, e dunque all’unica e vera Chiesa nella quale si compie la salvezza dell’uomo. Insieme al forte realismo e ottimismo antropo-teologico, la —————————– 16 Cfr. cap. II, parr. 2.2.1-2.2.2 di questo lavoro. Cfr. MS65, capp. 6-9; cap. I, par. 3.3 di questo lavoro. 18 Cfr. TDH1, 203-222; C, 23-51. 19 Cfr. cap. I, par. 3.2 di questo lavoro. 20 C, 212-214. Nel testo citato di Catholicisme, facendo riferimento ai Padri e volendo affermare la tensione intrinseca del cristianesimo che è «tutto divino» e nello stesso tempo «tutto umano», de Lubac richiama la dottrina di Ireneo sul Verbo che «s’infiltra nella sua creatura». Questa dottrina ireneiana, che si trova all’inizio dell’ultimo libro dell’Adversus haereses, è, infatti, una forte affermazione della realtà della carne e del sangue di Cristo per mezzo dei quali l’uomo è stato redento, «ricapitolato» e «vivificato». Cfr. AH, V, 1,1-3; C, 214. 21 Cfr. AH, V, 1,1; 36,3. 17 176 IL MISTERO DELLA SALVEZZA CRISTIANA dottrina ireneo-lubachiana sulla salvezza è fortemente caratterizzata dal senso dell’unità e del mistero. 1.2 Il senso dell’unità e del mistero Abbiamo visto come la riflessione lubachiana, in piena corrispondenza con il senso teologico ireneiano dell’unità22, pone l’accento sul concetto del mistero unente e sintetico di Cristo nel quale si trascendono gli apparenti paradossi della fede23. Confutando la dottrina eterodossa degli gnostici, Ireneo affermava l’unità della natura umana proveniente dall’unico atto creatore24, corrispondente all’unico progetto divino della salvezza in Cristo. Questo progetto di salvezza, frutto della bontà di Dio Padre, realizzabile mediante le Mani di Dio, il Figlio e lo Spirito Santo, si compie attraverso i misteri della Carne, dell’Incarnazione e Risurrezione, per mezzo dei quali la carne peccatrice viene salvata, redenta e ricapitolata. L’offerta della salvezza in Cristo, corrispondente all’unica natura umana, ha dunque un carattere universale. Essa, però, si compie in un’unica Chiesa, l’«assemblea di Dio», nella quale c’è «l’accesso alla verità» e nella quale «si compiono i misteri di Dio». Questa logica di fede, grazie alla quale Ireneo e gli altri Padri, trovavano il senso del mistero e dell’unità25, è presente anche nel pensiero di de Lubac. Questa stessa impostazione antropologica, legata al senso dell’unità e del mistero, l’abbiamo riconosciuta proprio nelle opere lubachiane sul «soprannaturale», nella costante affermazione lubachiana dell’unicità della natura umana e del fine ultimo dell’uomo, insieme al forte senso del mistero, visto come superamento del paradosso dell’uomo. Nella nostra presentazione della dottrina lubachiana sul «soprannaturale», abbiamo cercato di accostare la proposta di de Lubac circa le affermazioni sul «desiderio naturale» inteso in senso «assoluto», all’affermazione che lo stesso autore fa dell’assoluta gratuità della salvezza26. Entrambi gli assunti si riconciliano all’interno della logica teologica lubachiana. Tale riconciliazione si spiega profondamente in base al suo forte senso teologico del «mistero», inteso come «mistero salvifico di Cristo», nel quale converge il «mistero dell’uomo» ed è elevato all’«ordine soprannaturale», nel quale si superano gli apparenti paradossi del dogma, e nel quale tutti i misteri della nostra fede trovano il loro centro e unità27. Per rimanere nei limiti del nostro lavoro, volutamente non abbiamo trattato l’aspetto teologico-ecclesiale della dottrina di de Lubac, elaborata in —————————– 22 Cfr. cap. II, par. 3.1 di questo lavoro. Cfr. cap. I, par. 3.3 di questo lavoro. 24 Cfr. cap. II, par. 1.1 di questo lavoro. 25 Cfr. TDH1, 212. 26 Cfr. cap. I, par. 2.3 di questo lavoro. 27 Cfr. cap. I, par. 4.2 di questo lavoro. 23 SINTESI 177 Catholicisme e in altre sue opere dedicate al tema della Chiesa, nelle quali si può riconoscere la presenza costante del forte senso ireneiano del mistero e dell’unità, insieme all’affermazione della necessità della Chiesa per la salvezza dell’uomo. Infatti, nella nostra «rilettura» degli scritti lubachiani, non possiamo non fermarci, almeno brevemente, su alcuni capitoli di Catholicisme nei quali de Lubac fa un esplicito richiamo al realismo di Ireneo e degli altri Padri riguardo all’affermazione dell’unico Dio – Padre, Figlio e Spirito Santo –, dell’unica natura umana e dell’unica salvezza intesa come Redenzione, come «il ristabilimento dell’unità perduta» nel suo aspetto personale e sociale. Si tratta del «ristabilimento dell’unità soprannaturale dell’uomo con Dio, ma altrettanto dell’unità degli uomini fra di loro»28. L’aspetto sociale della salvezza, elaborato soprattutto nel secondo e terzo capitolo di Catholicisme, inquadra la realtà della Chiesa, intesa nel senso paolino-ireneiano di Corpus Christi, nella sua relazione all’Eucaristia – il Corpo mistico di Cristo, il sacramento/sacrificio dell’unità29. Seguendo la dottrina di Ireneo, de Lubac nella sua visione unitaria e sintetica della salvezza tratta del rapporto tra il dogma della chiamata universale alla salvezza e il dogma della necessità della Chiesa per la salvezza, riaffermando l’unicità del genere umano e la chiamata universale alla salvezza in Cristo intesa come trasformazione interiore e ricezione della «forma di Cristo»30. Insieme all’affermazione del carattere «universale» della salvezza, de Lubac, nello spirito ireneiano, non omette di rimarcare la necessità della cooperazione attiva di tutta l’umanità alla sua salvezza, ma soprattutto la necessità della responsabilità propria del cristiano, conformemente all’incarico particolare affidato alla Chiesa, quello di realizzare l’«unificazione spirituale di tutti gli uomini»31. Così de Lubac insiste fortemente sull’unità della natura/genere umano, dell’unico Salvatore – Cristo e dell’unico «luogo» della salvezza: «A prendere le cose nel loro insieme, Rivelazione e Redenzione sono legate, e la Chiesa è il loro unico Tabernacolo»32. Ciò che abbiamo rilevato ci permette di individuare in Catholicisme una vera testimonianza lubachiana, di tipo ireneiano, dell’unità. Essa ci offre, in un modo sintetico e «programmatico», tutti gli elementi fondamentali della dottrina ireneiana, riguardanti il tema della salvezza. Li elenchiamo sintetizzati qui di seguito: —————————– 28 Cfr. C, 11 e l’intero primo capitolo della Catholicisme, dove de Lubac, richiamandosi e citando la dottrina biblica paolina e giovannea e quella di Ireneo e di altri Padri, tratta il tema del dogma cristiano nella prospettiva antropologico-soteriologica, accentuando fortemente il principio dell’unità. 29 Cfr. capp. II-IV della Catholicisme dove de Lubac riflette sulla realtà della Chiesa, dei sacramenti e della vita eterna. 30 Cfr. C, cap. VII. 31 Cfr. C, cap. VII-VIII, soprattutto pp. 161-165. 32 Cfr. C, 164-165. 178 IL MISTERO DELLA SALVEZZA CRISTIANA – l’affermazione dell’unica creazione dell’uomo e il suo inserimento nel progetto della salvezza in Cristo33, – l’affermazione dell’unico Dio e dell’unico salvatore – Cristo e della novità della Sua venuta nella storia, insieme agli effetti di questa Venuta per l’umanità intera34, – l’affermazione dell’offerta universale della salvezza in Cristo corrispondente alla dichiarazione dell’unica natura/genere umano35, – l’affermazione dell’unica Chiesa e della sua necessità per la salvezza, e, ad esso legata, la necessità dei sacramenti, soprattutto del battesimo e dell’Eucaristia offerti nella Chiesa come segno/sacrificio visibile dell’unità, mediante i quali si realizza l’«incorporazione a Cristo»36, – l’affermazione della necessità della libera collaborazione dell’uomo con l’offerta della grazia/salvezza di/in Cristo37, —————————– 33 Cfr. «Bisogna stabilire contro di lui [Marcione] che era lo stesso e unico Dio che, all’origine, aveva creato l’uomo, poi l’aveva lentamente formato, e finalmente gli era apparso nella realtà della carne per condurlo fino al suo temine, la divina Rassomiglianza». Così de Lubac, riflettendo sul cristianesimo nel suo contesto storico dell’Incarnazione, richiama la risposta di Ireneo al marcionismo nella quale si mette in luce la profonda unità dei due Testamenti e l’unità del Piano divino sul mondo. Cfr. C, 183 e l’intero capitolo I. 34 «Cristo, appena venuto all’esistenza, porta in sé virtualmente tutti gli uomini, – erat in Christo Jesu omnis homo –. Perché il Verbo non ha preso solamente un corpo umano; la sua incarnazione non fu una semplice corporatio, ma, come dice Sant’Ilario, una concorporatio. Egli si è incorporato alla nostra umanità e ha incorporato questa umanità a se stesso. Universitatis nostrae caro est factus. Assumendo una natura umana, è la natura umana a cui egli s’è unito, che ha inclusa in lui, e questa tutta intera gli serve in qualche modo di corpo. Naturam in se universae carnis adsumpsit. Intera Egli la porterà dunque al Calvario, intera la risusciterà, intera la salverà. Il Cristo Redentore non offre soltanto la salvezza a ciascuno: egli opera, egli stesso è la salvezza del Tutto, e per ciascuno la salvezza consiste nel ratificare personalmente l’apparenza originale a Cristo, in modo da non essere respinto, «separato» da questo Tutto». C, 12-14. Citando sempre Ireneo, de Lubac parla del pensiero dei Padri, della loro visione unitaria dei due Testamenti secondo cui affermavano la novità di Cristo insieme all’affermazione di una «continuità reale». Cfr. C, 189-193, e l’intero cap. VIII. 35 «L’Immagine di Dio, l’Immagine del Verbo, che il Verbo incarnato restaura, e a cui rende il suo splendore, è me stesso, ed è l’altro, ed è ogni altro. È questo punto di me stesso che coincide con ogni altro, è il segno della nostra comune origine ed è la chiamata al nostro destino comune. È la nostra unità stessa, in Dio». C, 258. «La razza umana intera è la figlia di Dio, e con un grande movimento che persiste attraverso la varietà sconcertante dei suoi gesti – ab Abel iusto usque ad novissimum electum – sostenuta dalle due mani di Dio, il Verbo e lo Spirito, queste due mani che, malgrado i suoi errori, non l’hanno mai completamente abbandonata, essa s’incammina verso il Padre suo». C, 99. Così de Lubac, facendo riferimento a Ireneo. Cfr. anche C, capp. VII-VIII. 36 Cfr. C, capp. II-IV.VII. Per la riflessione lubachiana sul «compito degli “infedeli”» e la possibilità della loro salvezza, cfr. C, 165-170; N. ETEROVIĆ, Cristianesimo e religioni secondo Henri de Lubac, Roma 1981; I. MORALI, La salvezza dei non cristiani. L’influsso di Henri de Lubac sulla dottrina del Vaticano II, Bologna 1999. 37 «L’umanità quindi deve cooperare attivamente alla sua salvezza, ed ecco perché all’Atto del suo Sacrificio, Cristo ha congiunto la rivelazione obiettiva della sua Persona e la fondazione della sua Chiesa». C, 165. SINTESI 179 – l’affermazione dell’unico fine ultimo dell’uomo, che consiste nella visione di Dio o nella vita di comunione con Dio, nel suo aspetto personale e sociale38, – l’affermazione del carattere assolutamente gratuito e progressivo della salvezza: crescita nel mistero di Cristo39, trasformazione progressiva sotto l’azione della grazia di Dio40, divinizzazione dell’uomo in Cristo41. La visione realista e unitaria dell’uomo, il senso del mistero, il concetto di divinizzazione, il concetto di salvezza come liberazione dell’uomo nella novità di Cristo, il carattere gratuito della salvezza e la necessità della libera risposta e collaborazione dell’uomo all’invito della grazia divina in Cristo, sono tutti elementi della dottrina ireneiana che abbiamo riconosciuto in Petite catéchèse sur Nature et Grâce di de Lubac e in La Lumière du Christ42. L’opera Catholicisme, come abbiamo appena visto, integrando tutti gli elementi sopra elencati, ci offre un concetto di salvezza dal carattere fortemente cristo- ed ecclesio-centrico. Questo concetto, in sintonia con la visione biblico-patristica, è un invito a ritrovare l’unità dei Padri e il loro senso del mistero vivo di Cristo, che è sempre stato presente nella loro vita e nella loro dottrina43. L’instancabile sforzo mostrato da de Lubac nel cercare di ritrovare questa «unità dei Padri», legandola sempre alla persona di Cristo, pone alla nostra attenzione uno dei paralleli più importanti che legano la dottrina lubachiana a quella di Ireneo. Nella nostra introduzione alla dottrina ireneiana in questo lavoro44, parlando delle «verità» o dei «dati di fatto», a partire dai quali Ireneo sviluppa la sua dottrina, abbiamo visto come la novità di Cristo, non soltanto non rompa la continuità tra creazione e redenzione, ma come, anzi, in Cristo – nuovo Adamo –, si realizzi e si esprima l’unità dei due Testamenti, proveniente dall’unico e medesimo Dio Creatore e Salvatore45. —————————– 38 Cfr. C, cap. IV. «il mistero del Verbo incarnato è prima di tutto il mistero del nuovo Adamo e del capo dell’Umanità». De Lubac, citando E. Masure. Cfr. C, 243. «Rivelando il Padre ed essendo rivelato da lui, Cristo finisce di rivelare l’uomo a se stesso. [...] Per mezzo di Cristo la Persona è adulta, l’Uomo emerge definitivamente dall’universo, prende piena coscienza di sé». C, 258. Cfr. GS 21-22; H. de LUBAC, «“Soprannaturale” al Vaticano II», 350. 40 «La novità cristiana è una trasfigurazione, piuttosto che una creazione». C, 31. «È così che Cristo, da buon pedagogo, suscita nell’uomo la riflessione che lo riconduce dal di fuori al di dentro, e l’eleva dal senso allo spirito. È così che da buon medico adatta i rimedi alla situazione del malato, e li dosa con saggia progressione». C, 188. Cfr. anche C, 192, dove c'è un constante richiamo alla dottrina di Ireneo. 41 «Ma ciò che è impossibile all’uomo solo, diviene possibile all’uomo divinizzato [...]. Compiendo in sé l’umanità, nello stesso istante Cristo compie tutti noi, – ma in Dio. [...] noi non siamo pienamente personali se non all’interno della Persona del Figlio, per la quale e nella quale partecipiamo agli scambi della Vita Trinitaria». C, 260. Cfr. C, 12-14. 42 Cfr. cap. I, par. 4.2 di questo lavoro. 43 Cfr. TDH1, 212. 44 Cfr. introduzione al cap. II di questo lavoro. 45 Cfr. AH, IV, 34,1 e l’intero libro AH, IV. 39 180 IL MISTERO DELLA SALVEZZA CRISTIANA Seguendo la dottrina di Paolo, Ireneo sviluppa la sua dottrina sulla salvezza dell’uomo attraverso i concetti di liberazione, redenzione e restaurazione. Come abbiamo visto, tutti questi aspetti della salvezza vengono sintetizzati nel concetto paolino-ireneiano della «ricapitolazione» in Cristo di tutta l’umanità46. Seguendo la dottrina di Ireneo, alla quale si richiama esplicitamente47, de Lubac nel terzo volume della sua Exégèse médiévale dedica un paragrafo a un concetto proveniente dalla teologia giovannea, ripreso e sviluppato nel percorso storico della teologia e liturgia sotto l’espressione del Verbum abbreviatum48. Il concetto esprime realizzata in Cristo l’«unità visibile»49 della Sacra Scrittura: «In Gesù Cristo, che ne era il fine, l’antica Legge trovava già in precedenza la sua unità. Di secolo in secolo, tutto in questa Legge convergeva verso di Lui. È Lui che, della “totalità delle Scritture”, formava già “l’unica Parola di Dio”»50. In questo «Verbo unico» e incarnato, si riassume dunque tutto il contenuto della Scrittura e si ricapitola tutta la storia dell’umanità. In questa linea de Lubac parla della «doppia abbreviazione» o della «doppia ricapitolazione» di un unico Verbo: Doppia abbreviazione, quella del tempo e quella dell’eternità, che si ricongiungono per farne una, come il tempo e l’eternità si uniscono indissolubilmente in questo Verbo abbreviato. Doppia ricapitolazione, quella della Parola eternamente pronunziata nel seno del Padre e quella della Parola rivolta agli uomini nel corso dei secoli51. Servendosi dei sinonimi presi dalla tradizione – Filius incarnatus, Verbum incarnatum, Liber maximus –, de Lubac cerca di mostrare le molteplici possibilità dell’applicazione del concetto del Verbum incarnatum per esprimere l’«unità di pienezza»: «Verbo pronunziato dapprima “in abscondito”, e adesso “manifestum in carne”. Verbo abbreviato, Verbo sempre ineffabile in se stesso, e che tuttavia spiega tutto! Verbo perfetto, che riassume tutto, che completa tutto, che conclude tutto, che sublima tutto, che unifica tutto»52. —————————– 46 Cfr. Ef 1,10; AH, III, 23,1; IV, 34,1; Redenzione, III, 6 (EV, 14, 1902); cap. II, par. 2.2.2 di questo lavoro. 47 «quando si incarnò e divenne uomo [il Figlio di Dio], ricapitolò in se stesso la lunga storia degli uomini, procurandoci in compendio la salvezza». AH, III, 18,1 [corsivo nostro]. Cfr. EM, III, 262. 48 «È una dottrina profonda, contenuta tutta in linea generale nel prologo di san Giovanni, corroborata da una lunga serie di testimoni e dalla liturgia stessa». EM, 269. Cfr. Ibid., 249-271; Hercsik, 91-93. 49 Cfr. EM, III, 261. 50 De Lubac, facendo riferimento alla dottrina dei Padri. Cfr. EM, III, 258. «In Lui, i “verba multa” degli scrittori biblici diventano per sempre “Verbum unum”». Cfr. Eb, 1,1; EM, III, 258. 51 EM, III, 262-263. 52 EM, III, 268-269. SINTESI 181 In quest’accentuazione lubachiana del Verbum abbreviatum, in cui si realizza una «doppia abbreviazione/ricapitolazione», riconosciamo facilmente l’eco della dottrina ireneiana sulla «ricapitolazione», la quale, come abbiamo visto, «implica la restaurazione dell’immagine di Dio nell’essere umano»53 ed è legata alla tesi dello «scambio» di cui Ireneo è stato uno dei primi a formularla54. Le conseguenze di questa visione cristocentrica della rivelazione e della salvezza si manifestano, ugualmente in Ireneo come in de Lubac, nella concezione dell’unità da lui sviluppata: unità della creazione e Incarnazione/Redenzione e unità dei due Testamenti55. Le conseguenze di questa visione unitaria sono inoltre, come abbiamo appena visto in questo paragrafo, l’ottimismo antropo-teologico, e l’universalismo dell’offerta della salvezza in Cristo56. È nella persona di Cristo che si realizza l’unità della Scrittura e della salvezza. La persona di Cristo ha la precedenza rispetto alla Scrittura, perché «è Lui che, della totalità della Scritture, formava già l’unica Parola di Dio»57. Egli è la fonte stessa della rivelazione58. Egli «ha portato ogni novità portando se stesso»59, non negando la «continuità», anzi, realizzando l’unità – garante del realismo e dell’ottimismo antropo-teologico ireneolubachiano. De Lubac è dunque riuscito, in perfetto stile ireneiano, a ritrovare l’armonia proveniente dal mistero di Cristo, dal «Tout du Dogme» – il Centro vivo – al quale devono convergere tutte le verità particolari della fede60. L’unità tra le impostazioni antropologico-soteriologiche dei nostri autori trova il suo punto di convergenza nel mistero di Cristo, nonostante che in de Lubac, considerando la sua opera nella sua ampiezza, il carattere —————————– 53 Cfr. Ef 1,10; AH, III, 23,1; Redenzione, III, 6 (EV, 14, 1902); introduzione al cap. II, sez. 2. di questo lavoro. La parola greca άνακεφαλαíωσις troverebbe i suoi equivalenti in latino nelle seguenti espressioni: recapitulatio, restauratio e repetitio. 54 Cfr. AH, III, 19,1; V, pref.; 36,3; L.F. LADARIA, «Destino dell’uomo e fine dei tempi», 371. 55 Cfr. AH, IV, 34,1 e l’intero libro AH, IV; C, 183.189-193 e gli interi capp. I e VIII. 56 De Lubac comincia la sua riflessione sul Verbum abbreviatum proprio con la visione ottimistica della salvezza del «popolo primogenito» il cui «rifiuto», in forma dello «zelus perfidiae», grazie alla potenza unente e all’atto salvifico dello stesso Verbum abbreviatum, è stato trasformato in una «divinae pietatis dispensatio», annunziato dai profeti e manifestato come «il prezzo della chiamata dei Gentili alla fede». Cfr. EM, III, 249-258, dove de Lubac fa tanti riferimenti alla dottrina dei Padri e agli altri autori. 57 Cfr. EM, III, 258. Questa verità, presente negli scritti lubachiani, l’abbiamo riconosciuta anche in Ireneo, per cui «la sicurezza non sta nel testo», ma prima di tutto nella Tradizione della Chiesa nella quale Cristo è presente e vivo. Cfr. AH, IV, 32,1; Brox, I, 106; Teología, IV, 448. 58 Cfr. Entretien, 50-51. «Er [Jesus Christus] ist al das Wort Gottes die eine und wahre Quelle der Offenbarung Gottes; er ist das lebendige Wort, für das Tradition und Schrift ein einziges heiliges Depositum bilden, da seiner Kirche anvertraut ist». Cfr. Hercsik, 90-91. 59 Cfr. AH, IV, 34,1. 60 Cfr. TDH1, 219; cap. I, parr. 3.2 e 4.2 di questo lavoro. 182 IL MISTERO DELLA SALVEZZA CRISTIANA cristologico del mistero unente e convergente, come abbiamo mostrato, è meno esplicito che in Ireneo, ma non meno presente e reale61. Il ritorno all’unità e al Mistero non è in nessun caso un invito alla fuga in «un passato morto», ma, al contrario, è un invito a «rivivere il vasto umanesimo dei Padri» con uno sforzo d’«assimilazione trasformatrice»62. Aderendo al mistero storico e trascendente, sintetico e unente di Cristo, Ireneo e de Lubac insieme, ognuno in tempi diversi e quindi con linguaggi e metodi diversi, combattevano le dottrine che minacciavano la visione biblica unitaria e reale dell’uomo e della sua salvezza. In questo senso entrambi hanno cercato di salvare la visione unitaria del mistero della fede, del «mistero di Dio che fonda il mistero dell’uomo» e del «mistero dell’uomo che converge nel mistero di Cristo». Né lo stile a volte difficile di Ireneo, caratterizzato dalle già menzionate ripetizioni frequenti e da una certa «verbosità», né lo stile scritturistico «occasionale» di de Lubac, né il «carattere astratto» delle sue analisi sul «soprannaturale», né il carattere «implicito» e «diffuso» della sua cristologia, indeboliscono l’unità degli scritti ireneo-lubachiani che ci rivelano «una certa direzione» e «una certa intenzione comune»63. Ripetiamo che è proprio nell’ottica di questa unità e della difesa del senso cristiano del Mistero della fede che si devono leggere le opere di de Lubac sul «soprannaturale». Ciò significa che vanno inquadrate nel loro contesto storico e nell’ambito dell’intera sua opera teologica64. 1.3 L’antropologia aperta: dal mistero alla mistica La visione ireneiana dell’«uomo spirituale» concepisce l’uomo come «composto» di carne e di anima, aperto e capace di ricevere lo Spirito di Dio65. Quest’ apertura e questa capacità dell’uomo ireneiano ha un forte carattere cristologico. L’abbiamo visto nell’inseparabilità della sua antropologia dalla cristologia, nel modo in cui Ireneo, ispirato dalla teologia paolina, lega la creazione dell’uomo a Cristo presente e attivo nel momento stesso della creazione66. L’abbiamo visto, poi, nella concezione paolinoireneiana dell’uomo spirituale completamente ordinato e legato a Cristo – nuovo Adamo – attraverso i cui misteri – Incarnazione e Risurrezione – l’uomo diventa «ricapitolato in Cristo», cioè, liberato, redento e salvato – messo di nuovo nello stato della vita di unione con Dio67. Questo stato nuovo dell’uomo «salvato», come abbiamo visto, viene descritto con i termini paolino-ireneiani della «partecipazione alla figliolanza adottiva», —————————– 61 Cfr. cap. I, par. 3.1 di questo lavoro. Cfr. C, 244. «Se il Dogma è immutabile nella sua essenza, la teologia non è mai una cosa fatta». C, 246. 63 Cfr. MEM, 388; Guibert, 425. 64 Cfr. cap. I, par. 4.1 di questo lavoro. 65 Cfr. cap. II, par. 1.3 di questo lavoro. 66 Cfr. cap. II, par. 1.2 di questo lavoro. 67 Cfr. cap. II, par. 2.2 di questo lavoro. 62 SINTESI 183 della «visone di Dio» di carattere progressivo, e della trasfigurazione o trasformazione in meglio. Tutti questi aspetti della dottrina ireneiana, che implicano la dottrina cristiana della «divinizzazione»68, ci mostrano il passaggio ireneiano dal mistero alla mistica: l’uomo, ordinato fin dal momento della sua creazione ai misteri di Cristo, attraverso l’incorporazione in Cristo69, diventa «dimora di Dio»70, partecipe della vita divina e capace della visione di Dio71. Anche se de Lubac vede un problema antropologico nell’interpretazione ireneiana dell’«antropologia tripartita» di Paolo – più precisamente: nell’intendere lo «Spirito di Dio nell’uomo», insieme alla carne e all’anima, uno dei tre elementi costitutivi dell’uomo perfetto –72,la sua antropologia accetta la visione ireneiana dell’apertura fondamentale dell’uomo alla ricezione dello Spirito di Dio. Questa visione biblico-patristica è, infatti, una novità propriamente cristiana73. Negli scritti di de Lubac la incontriamo legata alla sua dialettica fra paradosso e mistero dell’uomo, e alla comprensione lubachiana del concetto di desiderium naturale di Tommaso74. In questa «apertura» dello «spirito creato», che è un elemento costitutivo dell’antropologia lubachiana75, riconosciamo gli elementi antropologici della dottrina paolino-ireneiana presenti, in modo più o meno implicito, negli scritti lubachiani sul «soprannaturale», soprattutto nell’affermazione lubachiana dell’unico fine ultimo dell’uomo che esclude ogni ipotesi di una «natura pura»76 e nel legame implicito fra i concetti antropologici di de Lubac e la sua cristologia. È negli scritti lubachiani sulla mistica cristiana, nei quali il senso lubachiano del mistero e dell’unità riveste un ruolo fondamentale, che troviamo i riferimenti più espliciti alla dottrina di Paolo e di Ireneo, e in cui il concetto lubachiano di apertura antropologica fondamentale, mostra un carattere più marcatamente cristologico. Già l’ultimo capitolo di Catholicisme, intitolato «Trascendenza», ci offre una bellissima lettura sul destino «trascendente» e «collettivo» dell’umanità che suppone «l’esistenza —————————– 68 Cfr. cap. II, par. 2.3 di questo lavoro. Cfr. AH, III, 17,2; V, 15,3; 32,2; E, 3.7.17.41. 70 Cfr. AH, III, 19,1; 20,2. 71 Cfr. AH, IV, 20,5-7. 72 «Se dunque lo Spirito designa per Ireneo lo Spirito di Dio, il suo stesso modo di concepirLo nell’uomo e di vedervi uno dei tre elementi che concorrono a costituire l’uomo perfetto, pone un problema antropologico». MMC, 76. 73 Cfr. MS65, 179.184-186.190.297; cap. I, par. 2.2 di questo lavoro. 74 Cfr. cap. I, sez. 2. di questo lavoro, soprattutto par. 2.2. 75 «Spiriti creati, siamo uno slancio verso l’Assoluto! Molte cose ci nascondono a noi stessi e si sforzano di far deviare questo slancio, che però rimane nel nostro intimo, in attesa di essere liberato. E quando ci applichiamo a criticare e a rettificare la condotta e i prodotti del nostro pensiero, obbediamo alla nostra natura, siamo fedeli allo slancio che noi siamo. Le nostre critiche non lo intralciano né lo sviano: è lui stesso che le ispira, le dirige e dono loro un senso positivo. E in questo slancio l’Assoluto si fa conoscere a noi». SCD, 117. 76 Cfr. MMC, 76. 69 184 IL MISTERO DELLA SALVEZZA CRISTIANA di un Dio trascendente», e che si realizza attraverso un «Luogo in cui l’umanità, di generazione in generazione, sia raccolta» e attraverso «un Centro» verso cui tutto converga. Per riconoscere questo «Centro» bisogna, sostiene de Lubac, «risalire fino a S. Paolo. Bisogna, con lui, credere in Cristo» – «l’Uomo nuovo», «L’uomo compiuto», «l’uomo perfetto»77. Servendosi di un lignaggio proprio della mistica cristiana e rilevando il ruolo particolare e attuale del cristiano, de Lubac continua la sua meditazione: Perfino in queste ore di ebbrezza mista ad angoscia, in mezzo alle più urgenti necessità, il cristiano, uomo fra gli uomini suoi fratelli, sollevato dagli stessi desideri e agitato dalle stesse inquietudini, ha l’ufficio di elevare tuttavia la voce per ricordare a coloro che la dimenticano, la loro nobiltà: l’uomo è se stesso, esiste per sé fin d’ora, soltanto se scopre in sé, nel silenzio, qualche zona intatta, qualche sfondo misterioso non invaso dall’attualità, fosca o noncurante, banale o tragica che sia78. Questa «zona intatta», questo «sfondo misterioso», che si trova nell’interiorità più intima dell’uomo, anch’esso è di carattere cristologico – l’Immagine cristologica, in senso ireneiano, per la quale l’uomo è stato creato79. Quest’Immagine è garante dell’apertura fondamentale del cristiano ed è proprio quest’apertura a distinguere la mistica cristiana dalla mistica naturale e non cristiana80. Secondo la logica lubachiana del mistero, il mistero di Cristo è il «mistero supremo in cui convergono tutti gli altri misteri della fede»81 e la mistica cristiana è strettamente legata al Mistero e proprio in questo nesso essa si distingue dalla mistica naturale e da un «misticismo» inteso nel senso peggiorativo del termine come deviazione della vera mistica cristiana82. De Lubac prende come punto di partenza la costatazione generale, di matrice ireneiana, sulla natura umana: «Provenendo dallo stesso Creatore, la natura umana è in fondo sempre la stessa»83, poi, restando fedele alla sua interpre—————————– 77 Cfr. C, 269-270. C, 272 [corsivo nostro]. 79 Cfr. MMC, 19; cap. II, par. 1.1 di questo lavoro. 80 Il tema è stato profondamente elaborato da de Lubac nella sua Mistica e Mistero cristiano. Wagner tratta il tema della mistica in de Lubac scegliendo tre approcci: la natura particolare della mistica cristiana in vista del suo legame stretto con il mistero di Dio rivelato in Cristo; la mistica cristiana nel suo rapporto con la filosofia sull’esempio dell’interpretazione lubachiana del concetto di Tommaso del «desiderio naturale»; l’influsso esercitato da Teilhard de Chardin su de Lubac, che si manifesta nell’aspetto dell’inseparabilità della mistica dalla teologia e nei concetti di «trasformazione» e «trasfigurazione» spesso utilizzati da entrambi gli autori. Cfr. J.-P. WAGNER, «Henri de Lubac et la mystique», 90-103, G. CHANTRAINE, «La théologie du Surnaturel selon Henri de Lubac», 230-233. 81 Cfr. TDH1, 219-220; E. Ancilli, «Introduzione» in MMC, XVII; cap. I, par. 3.3 di questo lavoro. 82 Cfr. MMC, 19. 83 Cfr. MMC, 19. 78 SINTESI 185 tazione del pensiero di Tommaso ed escludendo ogni «ipotesi astratta» sulla natura umana, lega il mistero di questa «natura» al mistero di Cristo: L’uomo, ci dice la Bibbia, è creato a immagine di Dio, ciò che la tradizione commenta dicendo che Dio ha fatto l’uomo a sua immagine in vista di condurlo alla sua rassomiglianza – che deve compiersi nella “visione beatifica”»84. [...] Nella creazione che è la nostra, l’immagine è il dono ricevuto con la stessa esistenza; la rassomiglianza divina dev’essere realizzata sotto l’azione dello Spirito Santo, in dipendenza dall’Incarnazione redentrice, mediante l’imitazione del Cristo, per mezzo dell’unione a Cristo, dove si trova l’unione divina. L’aspirazione mistica è inerente alla natura umana, perché l’uomo è fatto per questa unione. Detto in altro modo, ci deve essere nella nostra natura una certa capacità d’intima accoglienza del mistero che ci è assieme donato e rivelato in Gesù Cristo; capacità accompagnata naturalmente dal desiderio85. L’«aspirazione mistica» e la «capacità d’accoglienza del mistero», indicate dal testo appena citato, ci descrivono molto bene la concezione lubachiana dell’uomo inteso come «spirito creato e aperto»86. Tali caratteri della visione antropologica di de Lubac sono strettamente legati al mistero di Cristo senza il quale rimarrebbero vuote e senza senso. Il mistero di Cristo, nella forma del dono della Rivelazione e dell’Azione redentrice, che, insieme, illustrano il grande disegno della salvezza, è l’unica risposta al nostro desiderio e alla nostra vocazione gratuita alla vita eterna per Cristo e in Cristo87. De Lubac lo chiama semplicemente «il Mistero» e il «Tout du Dogme»88. Questo «Mistero», questo «Tutto», deve essere il punto di partenza e si deve tenere presente quando si fanno le «astrazioni legittime e necessarie» nel ragionamento teologico, perché il punto di partenza e la sostanza stessa del dogma più che un insegnamento è una persona e perché «Gesù, per i cristiani, è l’oggetto stesso della fede»89. Partendo dunque dal mistero e sempre in relazione ad esso, de Lubac parla della mistica cristiana che, a nostro parere, si configura come un’articolazione del concetto lubachiano dell’apertura fondamentale dell’uomo. La mistica cristiana è, come abbiamo affermato, legata e aperta al mistero che è Cristo stesso90. Fra essa e il mistero c’è «una reciproca —————————– 84 Qui si fa il riferimento a Tommaso. Cfr. S. Th., III, q. 9, a. 2, ad 3. MMC, 19. 86 Cfr. cap. I, par. 2.2 di questo lavoro. 87 Cfr. MMC, 253 dove de Lubac, parlando del problema dello sviluppo del dogma, fa riferimento a J. Huby. 88 Cfr. MMC, 253; TDH1, 219; cap. I, par. 3.2 di questo lavoro. 89 De Lubac, facendo riferimento a J. Lebreton. Cfr. MMC, 255. Se il teologo perde il contatto vivo con il mistero di Cristo, diventa un «teorico di Dio», ma non un vero «teologo». De Lubac, citando il papa Gregorio IX. Cfr. MMC, 21. 90 «Il mistero è il Cristo [cfr. Col 1,27; 1Tm 3,16]. In quanto esso è la rivelazione di Dio che ama, il mistero è tutta la teologia. In quanto esso è l’atto di Dio che discende fino all’uomo, è il culto cristiano, mistero di fede. In quanto esso è l’atto dell’uomo che s’assimila a Dio, è tutta la mistica». MMC, 20 [corsivo nostro]. De Lubac qui cita D. Barsotti. 85 186 IL MISTERO DELLA SALVEZZA CRISTIANA fecondazione e un’inadeguatezza». Fecondazione, perché il mistero alimenta la vita mistica e perché la mistica interiorizza il mistero. Inadeguatezza, perché il mistero «oltrepassa sempre l’esperienza che di esso si ha o se ne può avere»91. La mistica cristiana si distingue da una mistica naturale non soltanto perché è legata e aperta al mistero e tende all’unione con Dio, ma anche perché essa, come tale, «non può realizzarsi che in forza di una grazia soprannaturale»92. Non può, in altri termini, compiersi con uno sforzo umano. Per tale motivo, essa si caratterizza per una «passività essenziale», perché «il mistero può essere soltanto accolto»93. La mistica cristiana è legata alla Chiesa come «luogo normale» in cui si trovano le «condizioni normali» per la vita di fede94, cioè, per la partecipazione sacramentale al mistero, alla «Realtà del Cristo»95. L’esperienza mistica cristiana non è dunque un «approfondimento di Sé», non è una chiusura, un’«interiorità pura», ma è un «approfondimento di Fede» e implica un «movimento intenzionale che conduce il mistico al di là di se stesso». Essa include un progresso e una crescita «nell’approfondimento del mistero»96. Insieme al senso del mistero, che sorge sempre di nuovo negli scritti di de Lubac, in questo discorso legato all’apertura antropologico-mistica al mistero di Cristo, ci imbattiamo nuovamente nella sottolineatura lubachiana dell’unità. Essendoci molti modi d’interiorizzare il mistero, all’interno del cristianesimo stesso, ci sono anche molte specie di mistiche. Dal momento, però, che tutte quante si riconducono all’unità della natura umana considerata nella sua vocazione divina e secondo l’unità del mistero, per mezzo del quale questa vocazione si compie, de Lubac sostiene l’esistenza di un’«unità fondamentale della mistica cristiana»97. Le sue origini si confondono con quelle del cristianesimo. Per dimostrarlo, de Lubac torna alla dottrina paolina e giovannea secondo la quale si trova un’unità mistica in tutto ciò che è «già misteriosamente compiuto», «un’interiorità», una mistica cristologica, non soltanto escatologica, ma viva e «attuale»98. Secondo l’«apertura» della mistica cristiana al Mistero che consiste nel «mistero dell’Incarnazione del Verbo di Dio rivelato nella Scrittura»99, all’ombra del quale si sviluppa la mistica cristiana e senza il quale essa diventerebbe un «misticismo spiritualista»100, «sterile» e «dannoso»101, de —————————– 91 Cfr. MMC, 21. Cfr. MMC, 9. 93 Cfr. MMC, 19-20. 94 Cfr. MMC, 9. 95 Cfr. MMC, 22. 96 Cfr. MMC, 22-23. 97 Cfr. MMC, 24. 98 Cfr. MMC, 17-18. 99 Cfr. MMC, 25-26. 100 Cfr. MMC, 24. 101 Cfr. MMC, 19. 92 SINTESI 187 Lubac cerca di precisare le principali caratteristiche di un’autentica mistica cristiana102, chiamandola «mistica della rassomiglianza», perché tende all’unione con Dio che è un’«unione di rassomiglianza». A tale mistica corrisponde il simbolismo biblico-tradizionale del «matrimonio spirituale». Secondo il «luogo» in cui nasce e cresce, essa si potrebbe chiamare «mistica ecclesiale», e secondo la sua origine e il suo fine ultimo, si potrebbe chiamare anche «mistica trinitaria». Comprese queste caratteristiche particolari e fondamentali dell’autentica mistica cristiana, de Lubac, nello spirito della sua «ricerca di una sintesi cattolica»103, vede la mistica cristiana integrata e in equilibrio con la morale e la religione. Egli rileva soprattutto la costanza con cui la tradizione cristiana afferma un reciproco coinvolgimento fra morale e mistica e con cui sono state evitate le forme estreme e dannose del moralismo e del misticismo104. In queste riflessioni di de Lubac sulla mistica cristiana non è difficile riconoscere gli elementi antropo-teologici tipici di Ireneo. Per questo, non ci sorprende che il riferimento esplicito a Ireneo cada proprio alla fine dell’esposizione lubachiana sulla particolarità della mistica cristiana nel suo carattere trinitario, cristologico ed ecclesiale, come affermazione della novità cristiana: In Gesù Cristo noi abbiamo la rivelazione perfetta, definitiva, dell’esser umano come essere personale. La rivelazione di Dio all’uomo fu al tempo stesso rivelazione di un rapporto tra Dio e l’uomo. Ora ciò che riguarda uno dei termini, riguarda anche l’altro: nello stesso tempo dunque in cui Dio si rivela nel suo essere Tri-personale, intervenendo nella nostra umanità, rivela noi a noi stessi come esseri personali capaci di rispondergli, per sua grazia, nell’amore. Ciò che noi, nella Chiesa cattolica, chiamiamo mistica non è che l’attualizzazione cosciente di questo dono di Dio. Da qualunque angolo di visuale si guardi il fatto cristiano, la frase di sant’Ireneo lo riassume: Che ha portato Dio di nuovo venendo in terra? Ha portato ogni novità portando Se stesso105. Trattando dell’antropologia tripartita di Paolo106 e della sua ricezione nella tradizione patristica, de Lubac dedica una decina di pagine al modo in cui Ireneo comprende l’impostazione antropologica di Paolo. Ricordiamo che nonostante il «problema antropologico», menzionato all’inizio di questo paragrafo, legato all’interpretazione ireneiana dello «Spirito di Dio nell’uomo» inteso come un «terzo» elemento costitutivo dell’«uomo spirituale», de Lubac conclude insieme a Meyendorff che la visione di Ireneo «mostra di fatto una concezione dinamica dell’uomo che esclude la nozione di “natura pura”»107. Questa concezione dinamica esclude dunque —————————– 102 Cfr. MMC, 24-32. Cfr. cap. I, par. 3.3 di questo lavoro. 104 Cfr. MMC, 143-163. 105 MMC, 31-32. De Lubac fa qui riferimento a H.U. von Balthasar. 106 Cfr. MMC, 59-117. 107 Cfr. MMC, 76; cap. II, par. 1.1 di questo lavoro. 103 188 IL MISTERO DELLA SALVEZZA CRISTIANA una certa chiusura ontologica e implica un’apertura fondamentale dell’uomo creato «a Immagine di Dio», destinato a «condividere l’esistenza di Dio». La riflessione antropologica di de Lubac, nella quale il concetto di apertura dello «spirito creato» riveste il ruolo principale, è dunque in accordo con l’insegnamento antropologico di Ireneo concernente l’«uomo carne» aperto alla ricezione dello Spirito di Dio, che lo rende conforme a Cristo. Quest’apertura antropologica, in entrambi nostri autori, ha un carattere strettamente trinitario, cristologico ed ecclesiologico. Essa esclude ogni «dualismo ipotetico», affermando di nuovo un unico fine ultimo dell’uomo – l’unione con Dio, realizzata, come già citato, «sotto l’azione dello Spirito Santo, in dipendenza dall’Incarnazione redentrice, mediante l’imitazione del Cristo, per mezzo dell’unione a Cristo»108. Essa è da intendersi come un «puro dono», al quale si accompagna la libera risposta dell’uomo che deve sintetizzare in sé l’unità della fede e dell’amore109, senza far venir meno l’equilibrio intimo della morale, della religione e della mistica cristiana110. Il riferimento esplicito a Ireneo, fatto da de Lubac nella bellissima meditazione «Mysterium crucis», collocata a cavallo fra il testo lubachiano e l’esposizione dei testi patristici in Catholicisme, afferma il fine esplicitamente cristologico dell’apertura fondamentale dell’uomo, quel fine che si realizza non attraverso un processo o una crescita naturale e spontanea, ma attraverso un’assoluta Novità, attraverso la Pasqua – passaggio, la «conversione», l’«esodo», l’«estasi» e la «trasfigurazione»111. Se dunque non ci soffermiamo eccessivamente sulle «variazioni di vocabolario da un autore all’altro o da un’epoca all’altra», come sembra suggerirci de Lubac seguendo il pensiero di Harpius, possiamo riconoscere che i nostri due «uomini di Chiesa», Ireneo e de Lubac, sono in piena continuità l’uno con l’altro, lungo «una tradizione che, per quanto riguarda l’essenziale, è molto decisa»112. 2. Le differenze, la prospettiva e il metodo teologico 2.1 L’uomo tra «carne» e «spirito» L’affermazione dell’apertura fondamentale dell’uomo, cioè la capacità e la destinazione dell’uomo alla ricezione dello Spirito di Dio, come abbiamo illustrato nel paragrafo precedente, è riconoscibile nelle concezioni antropologiche di entrambi i nostri autori. Occorre però rilevare una —————————– 108 MMC, 19. Cfr. AH, IV, 6,5; 13,1-4; 16,3-5; 18,3; 23,3; 25,5; 28,2-3; E, 15.95; MMC, 143-163; cap. II, par. 3.2 di questo lavoro. 110 Cfr. MMC, 143-163. 111 Cfr. C, 281-282. 112 Cfr. MMC, 115. 109 SINTESI 189 distinzione di accentuazione antropologica fra Ireneo e de Lubac. Da una parte, infatti, Ireneo, partendo dall’«antropologia tripartita» di Paolo, pone l’accento sulla realtà della «carne». Essa determina l’uomo debole senza però toglierli l’apertura e la capacità di salvezza, perché, «la debolezza della carne» sarà assorbita «dalla forza dello Spirito» e l’uomo non sarà più «carnale», ma «spirituale»113. Dall’altra, invece, de Lubac parla prima di tutto dello «spirito creato» aperto al Mistero, all’Assoluto. È uno spirito libero e peccabile, ma capace d’una bontà perfetta, rivolto al suo Autore e aperto ad una finalità soprannaturale114. Sembra che a questo punto de Lubac preferisca l’accentuazione antropologica di Origene che parlava «più esplicitamente dello spirito dell’uomo, in quanto apertura allo Spirito di Dio», a differenza di Ireneo che poneva l’accento sulla «carne» capace di ricevere lo Spirito di Dio115. Le parole con cui de Lubac osserva la diversità di accentuazione antropologica fra Ireneo e Origene, ci sembrano molto adatte anche a mostrare in che senso vada intesa la distinzione antropologica fra Ireneo e de Lubac stesso appena rilevata. L’autore francese, infatti, distinguendo fra «l’uomo-carne» e «l’uomo-spirito», sostiene: «Sono due prospettive inverse, più che due dottrine contrarie»116. Questo diventa più chiaro quando si tiene presente che l’«antropologia tripartita» di Paolo, secondo la spiegazione dello stesso de Lubac, «non deve essere compresa quasi che distingua nell’uomo tre sostanze, e nemmeno tre “facoltà”: piuttosto essa discerne come una triplice zona d’attività, dalla periferia verso il centro»117. Partendo dunque dalla Sacra Scrittura, dall’impostazione antropologica della Genesi – dall’uomo creato a immagine e somiglianza di Dio – e dall’«antropologia tripartita» di Paolo, Ireneo e de Lubac sviluppano insieme le loro dottrine, ognuno secondo le esigenze del suo tempo e secondo l’ambito in cui vivevano, ponendo l’accento sugli aspetti particolari dell’antropologia biblica. Per confutare la «falsa gnosi», che negava la salvezza della «carne», Ireneo adopera un metodo antignostico affermando, come abbiamo visto, proprio la realtà ontologica e cristologico-soteriologica della «carne». De Lubac, invece, essendo consapevole dell’unità e originalità dell’antro—————————– 113 Cfr. AH, V, 9,2; cap. II, sez. 1. e 2. di questo lavoro. Cfr. S, 187.197-198; MS65, 84; SCD, 117; cap. I, sez. 2. di questo lavoro, soprattutto par. 2.2 Sul concetto antropologico dello «spirito» in de Lubac, cfr. É. de MOULINSBEAUFORT, Anthropologie et mystique selon Henri de Lubac. «L’esprit de l’homme», ou la présence de Dieu en l’homme, Paris 2003. 115 Ricordiamo che secondo de Lubac, «Ireneo parlava soprattutto dello Spirito di Dio, anche quando questo Spirito, partecipato, diveniva lo spirito dell’uomo». MMC, 77. Cfr. Ibid., 70-84; cap. II, par. 1.3 di questo lavoro. 116 Cfr. MMC, 77. «Henri de Lubac choisit nettement l’interprétation d’Origène qui permet d’intégrer celle d’Irénée». É. de MOULINS-BEAUFORT, Anthropologie et mystique, 98. 117 Cfr. MMC, 59 e anche 1Cor 5,3; 7,34; 2Cor 12,2-3; 1Ts 5,23; AH, V, 6,1; Fitzmyer, 175-180; cap. II, par. 2.1.1 di questo lavoro. 114 190 IL MISTERO DELLA SALVEZZA CRISTIANA pologia cristiana e rispettando il suo sviluppo dalle origini bibliche, attraverso l’epoca patristica e scolastica, fino alla sua epoca, pone l’accento sullo «spirito» come «luogo della mistica» e garante dell’apertura antropologica118. Affermando sempre la continuità della tradizione cristiana «per quanto riguarda l’essenziale», de Lubac con il suo metodo antineoscolastico confuta le tendenze «modernistiche» di coloro che, chiudendo l’uomo dentro i limiti della sua «natura», affermavano la dualità del fine ultimo dell’uomo119. L’essenziale per de Lubac, come l’abbiamo visto, è proprio quest’apertura, quest’orientamento fondamentale dell’uomo verso il suo unico fine ultimo – «quello soprannaturale». Proprio nelle impostazioni dell’«antropologia tripartita» di Paolo, de Lubac, insieme con Bouyer, riconosce una «formula definitiva dell’antropologia biblica e cristiana»120, nella quale il concetto paolino di pneuma [πνεύμα] inteso come spirito che è «nell’uomo», è un concetto diverso da quello della filosofia greca121. Esso è piuttosto un termine semitico suggerito dalla Genesi (Gen 2,7) e interpretato da Filone come «il principio di una vita superiore, il luogo della comunicazione con Dio»122, e alla fine è un concetto “di cui le nostre antropologie moderne non possono assolutamente dar ragione”»123. La concezione dell’«uomo-carne» risponde perfettamente al metodo antignostico di Ireneo, con il quale egli, seguendo la dottrina di Paolo, vuole affermare esplicitamente lo stato dell’uomo peccatore, bisognoso dell’aiuto divino per ottenere la salvezza mediante la liberazione dalla schiavitù del peccato. Partendo da questa concezione antropologica, egli sviluppa la difesa della vera dottrina biblico-cristiana, legando il concetto antropologico della «carne-peccatrice» al concetto teologico della «Carne-Redentrice». Egli unisce, così, il fatto della creazione dell’uomo ai misteri dell’Incarnazione e Risurrezione di Cristo mediante cui si realizza la salvezza dell’uomo, la sua liberazione, redenzione, ricapitolazione e divinizzazione. De Lubac, invece, nelle sue opere sul «soprannaturale», salvo che in Petite catéchèse sur Nature et Grâce, dando un «carattere astratto» delle sue osservazioni, ha compiuto un’«astrazione della condizione concreta dell’uomo, che è una condizione di peccato»124. —————————– 118 Cfr. MMC, 108-117. Sui «teologi moderni» o «modernisti» che sostenevano il concetto della «natura pura», dottrina che de Lubac considerava caratterizzata dall’abbandono della dottrina biblico-patristica, cfr. MS49, 104-105; ATM, 152-153.326-327; MS65, 54-58.126-131.170.254255; cap. I, par. 1.2 di questo lavoro. 120 Cfr. 1Ts 5,23; MMC, 70. 121 De Lubac insieme con J. Huby. Cfr. MMC, 66. 122 Cfr. MMC, 66. 123 De Lubac, citando M.-A. Chevallier. Cfr. MMC, 69-70. 124 «nella ricerca di una definizione del rapporto natura-soprannaturale, conformandoci al metodo lungamente in uso presso la teologia classica, abbiamo considerato questo rapporto nella sua maggiore generalità, nella sua indeterminatezza primaria» [corsivo nostro]. Cfr. PC, 69. Rifacendosi a P. Ricoeur, de Lubac chiama questo «metodo» il «metodo 119 SINTESI 191 Evitando per adesso un giudizio sul «metodo» di de Lubac, possiamo solo affermare che a questa astrazione lubachiana risponde proprio la concezione antropologica dell’uomo in quanto «spirito creato», libero e «aperto», rivolto verso l’Assoluto125. Lo stesso si potrebbe dire per il suo ragionamento «più astratto» sviluppato attorno al rapporto fra «natura» e «soprannaturale», che negli scritti lubachiani comprende la relazione esistente fra peccato e grazia. Infatti, anche se de Lubac parla della doppia distinzione, una fra «natura» e «soprannaturale» e l’altra fra peccato e grazia, egli, ricordiamoci, afferma, insieme con Mouroux, e proprio nello spirito ireneiano, che «non vi sono due ordini differenti, ma uno solo, quello dell’alleanza, di cui la creazione è il primo momento e di cui Cristo è l’Alfa e l’Omega, l’inizio e la fine; e questo ordine è soprannaturale»126. Essendo de Lubac fedele al suo «metodo», non ci sorprende se nei suoi scritti sul «soprannaturale» incontriamo un linguaggio meno esplicito sulla grazia e la divinizzazione, o se, pur seguendo la stessa impostazione antropologica di Ireneo, la elabori con un linguaggio dal carattere meno esplicitamente «cristico e incarnazionale»127. Anche a questo proposito, però, possiamo constatare che, nonostante la differenza di linguaggio e di metodo, l’antropologia di de Lubac, per quanto riguarda l’essenziale, concorda appieno con quella di Ireneo. 2.2 La cristologia «indiretta/implicita» di de Lubac Rifacendoci ad Alfaro cerchiamo di presentare la critica che è stata rivolta a de Lubac a causa del suo vocabolario, segnato da un «carattere astratto», e del suo metodo, fortemente influenzato dall’«ontologia formale» a cui ricorre nei suoi scritti sul «soprannaturale»128. Ricordiamo che Alfaro non è stato l’unico a fare tali osservazioni critiche a proposito della mancanza di un carattere cristologico negli scritti lubachiani sul «soprannaturale»129. Il primo critico, infatti, è stato H. Bouillard, amico di de Lubac, che invitava a sostituire il termine «soprannaturale» con un altro più adatto ad un linguaggio più esistenziale e ad un approccio più cristologico al tema —————————– d’innocenza», o l’«astrazione scolastica». Cfr. Ibid., 69; cap. I, parr. 1.4 e 4.2 di questo lavoro. 125 Cfr. S, 187.197-198; MS65, 84; SCD, 117. 126 Cfr. H. de LUBAC, «“Soprannaturale” al Vaticano II», 350; cap. I, par. 1.4 di questo lavoro. Similmente, a proposito della sua «astrazione», de Lubac afferma che: «L’astrazione tuttavia non era totale. Non poteva esserlo perché da una parte è evidentemente il mistero cristiano, come l’ha ricevuto la fede nella sua realtà concreta che ha provocato nella Chiesa la riflessione sul fine soprannaturale dell’uomo, e perché dall’altra, né il mondo né la società, né la Chiesta sarebbero ciò che sono in una supposta creazione innocente». PC, 69. 127 Cfr. cap. I, par. 2.3 di questo lavoro. 128 Cfr. MS65, 45-46; PC, 69; cap. I, parr. 1.4 e 2.3 di questo lavoro. 129 Cfr. Entretien, 29-32; J.-P. WAGNER, Henri de Lubac, 89-92; K.H. NEUFELD, «Soprannaturale», 1166-1168. 192 IL MISTERO DELLA SALVEZZA CRISTIANA della salvezza e del rapporto tra natura e grazia130. Similmente K. H. Neufeld afferma: «La caratteristica cristiana del soprannaturale esige certamente una concezione che includa la piena e definitiva rivelazione di Dio in Gesù Cristo»131, e continua: il soprannaturale esiste solo in modo indicativo e perché si possa spiegare chiaramente ha bisogno di un nome che gli dia la parola rivelante di Dio, cioè di Gesù Cristo e del suo messaggio, per diventare comprensibile per l’uomo nel suo vero significato. In questo senso è interpretato il carattere cristologico del soprannaturale. Soltanto quando è apparso Cristo la comunicazione di Dio nel mondo ha un nome e un volto132. Lo stesso de Lubac, restando fedele al suo «metodo», risponde a simili critiche, affermando che il suo approccio e la sua ricerca nel campo del «soprannaturale» sono più di carattere «storico» e che in questa prospettiva il suo ragionamento «astratto» e «analitico» risulta più adatto133. A proposito di coloro che «procedevano differentemente», scegliendo «un modo globale e concreto di teologizzare», de Lubac afferma che la sua indagine storica può soltanto confermare che «la loro dottrina non era contraria alla tradizione»134. Come abbiamo già detto, uno degli intenti che ci siamo proposti con questo lavoro è stato quello della presentazione della dottrina sul «soprannaturale» di de Lubac, nella prospettiva della dimensione cristologica della sua teologia135. A questo scopo ci siamo serviti delle ricerche di Hercsik e Guibert, i quali, avendo rilevato l’esistenza di una cristologia «implicita» e «indiretta», diffusa nelle opere di de Lubac, hanno potuto indicare in Cristo il centro e la sintesi viva delle sue opere136. Questa prospettiva ci invita a considerare le opere di de Lubac nel loro insieme per poter cogliere il loro —————————– 130 Cfr. PC, 28-29; J.-P. WAGNER, Henri de Lubac, 89-91; cap. I, par. 1.4 di questo lavoro. 131 K.H. NEUFELD, «Soprannaturale», 1167. 132 K.H. NEUFELD, «Soprannaturale», 1168. Cfr. L.F. LADARIA, Antropologia teologica, 194, n. 57. 133 «C’est en historien que j’avais pris le problème, tel qu’il était posé en Occident depuis des siècles et diversement résolu par la tradition scolastique, dans sa perspective propre, dans son langage, dans sa manière de sérier les questions et de procéder par étapes. C’était le seul moyen d’être objectif et précis». Entretien, 31; Cfr. MS65, 45-46; MEM, 378; PC, 69-70. 134 Cfr. Entretien, 30. «Quand mon ami le Père Henri Bouillard a proposé cette voie, il en avait bien conscience, et j’étais avec lui en plein accord. Pas plus d’ailleurs qu’au Christ, je n’avais fait allusion à l’homme pécheur. Encore une fois, je devais prendre les anciens auteurs tels qu’ils sont, calquant mon enquête sur leurs procédés plus abstraits, plus analytiques (tels qu’on les trouve encore dans tous les traités et manuels jusqu’à une date récente): ils parlent de la création de l’homme, – puis de sa fin ou de son «élévation surnaturelle», – ensuite seulement du «péché originel», – puis de l’Incarnation, – de la Rédemption, etc.». Ibid., 30-31. 135 Cfr. cap. I, sez. 4. di questo lavoro. 136 Cfr. cap. I, sez. 3. di questo lavoro. SINTESI 193 vero messaggio vivo e attuale. Servendosi, inoltre, delle testimonianze dello stesso de Lubac, e del suo constante richiamo alla dottrina dei Padri, soprattutto a quella di Ireneo137, abbiamo cercato di presentare la sua dottrina sul «soprannaturale» come un tentativo di recupero di una vera e reale visione cristiana dell’uomo e della sua salvezza138. Il percorso compiuto dalla nostra ricerca ci invita a considerare le opere di de Lubac, soprattutto la sua dottrina sul «soprannaturale», nella prospettiva della relativa dottrina di Ireneo, della sua impostazione antropoteologica caratterizzata, come abbiamo visto, da un forte realismo e ottimismo antropologico139, e da un particolare senso dell’unità e del mistero140. L’impostazione della riflessione lubachiana ci permette di affermare che, nonostante la differente accentuazione antropologica, come abbiamo visto nei paragrafi precedenti, la dottrina di de Lubac, nelle sue linee antropologico-soteriologiche principali, coincide con quella di Ireneo. Infatti, proprio nelle opere lubachiane sul «soprannaturale», si può riconoscere la presenza implicita di Ireneo e della sua concezione dell’uomo e della sua salvezza. Come abbia evidenziato, lo sfondo di entrambe le dottrine, quella di Ireneo e quella di de Lubac, è lo stesso. La visione biblica dell’uomo, che emerge dalla Genesi e dalle lettere paoline, lo concepisce come uomo creato a immagine e somiglianza di Dio, chiamato alla vita di comunione con Dio come unico suo fine ultimo. Tale fine ultimo, sebbene sia minacciato dal peccato non ne viene però mai annullato. Inoltre, esso si configura come una meta mai conquistabile mediante le forze naturali dell’uomo, ma come un dono assolutamente gratuito. In questa concezione vi è una forte sottolineatura dell’unità della natura umana, che va di pari passo con l’affermazione della chiamata dell’uomo alla vita divina come dono gratuito di Dio. Questa chiamata si configura come un «paradosso», che il nostro autore esprime attraverso il concetto del desiderium naturale coniato da Tommaso141, ma con delle radici che risalgono ad Agostino. De Lubac, grazie anche allo stimolo offerto dal pensiero di Rousselot, Blondel e Maréchal142, individua nel mistero il superamento di questa dimensione paradossale143. Il primato del mistero, l’unità della natura umana e l’unità del fine ultimo dell’uomo sono gli elementi della dottrina cristiana che si incontrano nelle opere sul «soprannaturale» di de Lubac, marcate da un forte realismo e ottimismo antropo-teologico e da una impronta cristologica implicita, che si —————————– 137 Cfr. cap. I, par. 4.2 di questo lavoro. Cfr. cap. I, sez. 4. di questo lavoro. 139 Cfr. Sintesi, par. 1.1 di questo lavoro. 140 Cfr. Sintesi, par. 1.2 di questo lavoro. 141 Cfr. cap. I, par. 3.2 di questo lavoro. 142 Cfr. Hercsik, 4-12.85-86.163-167; G. CHANTRAINE, «La théologie du Surnaturel selon Henri de Lubac», 219-226. 143 Cfr. cap. I, par. 3.3 di questo lavoro. 138 194 IL MISTERO DELLA SALVEZZA CRISTIANA esplicita nella rilettura delle opere lubachiane, considerate nel loro complesso, alla luce della dottrina ireneiana. Diventa chiaro, in tal modo, che l’uomo, che per de Lubac «è mistero»144, è strettamente legato a Cristo145, considerato da de Lubac il mistero centrale e supremo146 alla cui immagine l’uomo è stato creato147 e attraverso i cui misteri – Incarnazione e Risurrezione – è stato salvato148. 2.3 La prospettiva e le conseguenze della dottrina lubachiana La «novità di Cristo», ereditata da Paolo e da Ireneo149, su cui insiste de Lubac150, apre una prospettiva particolare per la sua logica antropoteologica. Hercsik la riconosce negli scritti lubachiani come «fondamento di ogni “novità” cristiana» nei suoi diversi aspetti151, e come causa della triplice «novità» cristiana, particolarmente riconoscibile nella teologia di de Lubac: la «novità» della visione di Dio, la «novità» della visione dell’uomo e la «novità» del rapporto dell’uomo con Dio152. Possiamo riconoscere questa «Novità» paolino-ireneiana anzitutto come novità unente di Cristo, alla quale de Lubac attinge la forza necessaria per portare a termine lo «sforzo di sintesi» che determina tutta la sua logica dottrinale153. Questo sforzo l’abbiamo riconosciuto prima in Ireneo come una novità assoluta, una discontinuità che però non nega la continuità154. Possiamo dunque affermare che si tratta di un paradosso superato già nella logica paolino-ireneiana della «ricapitolazione di Cristo»155, alla quale, come abbiamo visto, corrisponde l’accentuazione lubachiana del concetto cristologico di «Verbum abbreviatum» che «riassume tutto, che completa tutto, che conclude tutto, che sublima tutto, che unifica tutto»156. Seguendo dunque la logica di Ireneo, caratterizzata dal senso dell’unità e del mistero, de Lubac ha trovato nella «novità di Cristo» la forza unificatrice – il «Tout du Dogme»157 – nella quale si uniscono tutte le verità particolari della fede. Nella «novità di Cristo» – «Verbum unum» – si supera la tensione fra —————————– 144 Cfr. MS49, 136; PNP, 57; MS65, 277-278; GS 10; Hercsik, 163-167. Cfr. GS 22. 146 Cfr. AH, III, 19,2; 21,5.7; V, 1–14; TDH1, 219-220; Hercsik, 83-85.216; cap. I, par. 3.3 di questo lavoro. 147 Cfr. cap. II, par. 1.1 di questo lavoro. 148 Cfr. cap. I, par. 2.4.2 e cap. II, par. 2.2 di questo lavoro. 149 Cfr. cap. II, parr. 2.1.2-2.1.3 di questo lavoro. 150 Cfr. AH, IV, 34,1; TDH1, 209.220; MS65, 141; Hercsik, 14.98.106. 151 Cfr. Hercsik, cap. 2.2. 152 Cfr. Hercsik, cap. 2.3. 153 Cfr. cap. I, sez. 3. di questo lavoro. 154 Cfr. AH, I, 10,1; IV, 10,1–11,1; 34,1; E, 50-86; cap. I, par. 4.2 di questo lavoro. 155 Cfr. cap. II, par. 2.2.2 di questo lavoro. 156 EM, III, 268-269; Sintesi, par. 1.2 di questo lavoro. 157 «Tutto del Dogma». Cfr. TDH1, 219; cap. I, par. 3.2 di questo lavoro. 145 SINTESI 195 «continuità» e «discontinuità»158 e si superano tutti gli apparenti paradossi della fede159. La logica della riflessione di de Lubac, nella quale la persona di Cristo sta al centro di ogni novità cristiana – teologica e antropologica –, rivestendo il ruolo di «Mistero supremo» e di «Sintesi viva» di tutti misteri particolari della fede160, ci apre una prospettiva nella quale non soltanto l’antropologia diventa inseparabile dalla teologia e cristologia161, ma la stessa teologia diventa inseparabile dalla mistica. Se in Gesù Cristo – il Mistero supremo della nostra fede – abbiamo il dono della rivelazione perfetta e definitiva di Dio, dell’uomo e del rapporto fra Dio e l’uomo, e se la mistica è «l’attualizzazione cosciente di questo dono di Dio»162, allora la teologia senza mistica diventa sterile, e il teologo senza il contatto vivo con il mistero di Cristo diventa un «teorico di Dio», ma non un vero «teologo»163. Ugualmente, se la mistica perde il suo legame con il Mistero e la vita della Chiesa, diventa non soltanto sterile ma anche dannosa: «Tutte le profondità insondabili nelle quali la contemplazione dell’uomo potrebbe immergersi, quando non sono – implicitamente o esplicitamente – profondità della vita trinitaria, divino-umana ed ecclesiale, o non sono per nulla delle vere profondità, o sono profondità demoniache»164. Nel passaggio lubachiano «dal mistero alla mistica»165, ereditato da Ireneo in cui forse più evidente che in de Lubac, ci diventa chiaro il primato del mistero, perché, come abbiamo visto, il mistero, che è Cristo stesso, «oltrepassa sempre l’esperienza che di esso si ha o se ne può avere»166. Questo Mistero che, secondo la logica dottrinale di de Lubac, è il punto di partenza per il ragionamento teologico, ed è «Uno unico», non soltanto unisce le verità particolari della fede imponendosi ai suoi apparenti paradossi, ma riesce anche a legare insieme mistica, teologia e filosofia167. È proprio quello che de Lubac ha cercato di mostrare, aderendo alla dottrina di san Tommaso, al suo concetto di desiderium naturale: egli ha cercato di difendere l’idea centrale della filosofia cristiana – l’idea dell’unica vocazione divina dell’uomo168. —————————– 158 Cfr. Eb, 1,1; EM, III, 258; Hercsik, 89.106-107; Guibert, 167. Cfr. cap. I, par. 3.3 di questo lavoro. 160 Cfr. TDH1, 219-220. 161 La verità che abbiamo riconosciuto ugualmente in Ireneo e de Lubac. 162 Cfr. MMC, 31-32. 163 Questo riferimento di de Lubac al papa Gregorio IX, l’abbiamo già citato. Cfr. MMC, 21; Sintesi, par. 1.3 di questo lavoro. 164 MMC, 31. 165 Cfr. Sintesi, par. 1.3 di questo lavoro. 166 Cfr. MMC, 21. 167 «la filosofia, è anzitutto ricerca dell’Uno Unificante, mentre la mistica è la ricerca – o l’attrattiva – dell’Uno unico». SCD, 152. 168 Questo sforzo di de Lubac avrà il suo eco nel Concilio Vaticano II: «De même qu’il s’est inspiré de l’ecclésiologie eucharistique du Père Henri de Lubac, Vatican II, s’est aussi 159 196 IL MISTERO DELLA SALVEZZA CRISTIANA Che de Lubac stesso fosse «un vero teologo», che, mantenendo la sua ferma adesione al mistero vivo e unente di Cristo, ha cercato di unire filosofia, teologia e mistica, lo mostrano, come abbiamo visto, i suoi scritti, in cui riconosciamo una cristologia implicita ma viva e attiva169. Lo mostrano inequivocabilmente le parole con cui si rivolge direttamente a Cristo, parole che esprimono la sua fede e il suo amore per Lui170. E finalmente, lo mostrano anche le testimonianze, molto simili, che egli diede su due progetti di libri che «gli stavano a cuore». Il primo, già menzionato, è l’opera su Gesù Cristo che gli sarebbe «più cara di tutte», e verso cui si sentiva un po’ «troppo impari» a scriverlo171. Il secondo libro è accompagnato da parole molto simili: Credo che da molto tempo sia proprio l’idea del mio libro sulla Mistica che mi ispira in tutto; è di là che traggo i miei giudizi, è questo che mi offre il parametro per classificare man mano le mie idee. Ma questo libro non lo scriverò mai. È completamente al di sopra delle mie forze: fisiche, intellettuali e spirituali. Ho la visione netta delle sue articolazioni, distinguo e sistemo a poco a poco i problemi che dovrebbero esservi trattati, nella loro natura e nel loro ordine, vedo la direzione precisa nella quale cercare la soluzione di ciascuno di essi; ma questa soluzione, io sono incapace di formularla172. Queste testimonianze ci rivelano di nuovo il Mistero di cui scriveva de Lubac riconoscendolo presente, vivo e attivo nella vita e nella dottrina dei Padri173. Questo Mistero, pur essendo così grande da non poter esprimerlo con le parole, perché oltrepassa la nostra esperienza umana e le capacità del nostro linguaggio, noi lo riconosciamo, vivo, attivo e unente negli scritti e nel cuore del nostro autore. Esso, fungendo da punto di partenza per la riflessione del nostro teologo, determina il suo metodo e la sua prospettiva dottrinale che noi riconosciamo in pieno accordo con i risvolti antroposoteriologici dell’insegnamento di Ireneo e con l’impostazione dottrinale della costituzione Gaudium et Spes del Concilio Vaticano II, già citata in questo lavoro: «In realtà solamente nel mistero del Verbo incarnato trova vera luce il mistero dell’uomo»174. —————————– fait le gardien de l’idée centrale de la philosophie chrétienne: l’idée de l’unique vocation divine de l’homme. Pour la garder vivante, il est nécessaire selon notre auteur [de Lubac] d’unir philosophie, théologie et mystique ou vie de foi». G. Chantraine, facendo riferimento alla testimonianza di J. Ratzinger. Cfr. G. CHANTRAINE, «La théologie du Surnaturel selon Henri de Lubac», 234. 169 Cfr. cap. I, par. 3.1 di questo lavoro. 170 Cfr. TDH1, 213-214; Hercsik, 95, n. 181; 216. 171 Cfr. MEM, 391; cap. I, par. 4.1 di questo lavoro. 172 MEM, 311. 173 Cfr. TDH1, 212; cap. I, parr. 3.2-3.3 di questo lavoro. 174 GS 22. Cfr. AH, V, 1,1; introduzione al cap. I, sez. 2. di questo lavoro. Sul contributo di de Lubac alla preparazione dei documenti conciliari, sopratutto delle costituzioni dogmatiche sulla rivelazione (Dei verbum) e sulla Chiesa (Lumen gentium), della costituzione pastorale sulla Chiesa nel mondo (Gaudium et spes), della costituzione sulla SINTESI 197 3. Conclusione Come già annunziato nell’introduzione di questo lavoro, il nostro tentativo è stato quello di presentare la dottrina di de Lubac come uno sforzo di rivalutazione della dottrina cristiana sulla salvezza, cioè come difesa della visione biblico-cristiana tradizionale dell’uomo creato ad immagine e somiglianza di Dio, chiamato alla vita di comunione con Dio intesa come l’unico destino dell’uomo. In questo senso, partendo prima di tutto dagli scritti sul «soprannaturale» di de Lubac, abbiamo cercato di accostare la sua dottrina a quella biblico-patristica tradizionale, mostrandone la profonda consonanza. La nostra scelta di Ireneo di Lione, «il dottore della dogmatica», di cui si può trovare un continuo riferimento negli scritti lubachiani, si è subito mostrata promettente e valida in vista del nostro obiettivo. Come abbiamo visto, rispetto a Catholicisme e alle opere lubachiane sulla Chiesa e sulla Sacra Scrittura, il riferimento a Ireneo negli scritti sul «soprannaturale» è meno frequente. La nostra ricerca, però, ha dimostrato che l’impostazione antropo-teologica di Ireneo è implicitamente presente anche nelle sue opere sul «soprannaturale». Le differenze che constatiamo tra i nostri due autori, a livello del linguaggio e del metodo, spiegabili in base al contesto storico peculiare in cui ciascuno di loro si colloca, potrebbero farci apparire le loro due dottrine molto diverse e perfino contrarie. L’abbiamo visto a proposito della diversa accentuazione antropologica dell’«antropologia tripartita» di Paolo. In realtà, abbiamo rilevato che tra l’«uomo-carne» di Ireneo e l’«uomo-spirito» di de Lubac, non esiste né la tensione paolina fra l’uomo «terreste» e l’uomo «celeste», fra «corruttibile» e «incorruttibile», e nemmeno la tensione gnostica fra l’uomo «carnale» e l’uomo «spirituale». Le rispettive impostazioni antropologiche di Ireneo e di de Lubac, sebbene ci offrano due prospettive diverse, hanno però lo stesso punto di partenza e lo stesso fine. Il punto di partenza di entrambi è l’uomo biblico, partecipe dell’unica natura umana, destinato alla visione di Dio, mediante l’offerta universale della salvezza in Cristo. La realtà del peccato – il punto d’incontro del realismo e dell’ottimismo antropo-teologico di Ireneo e de Lubac –, rende riconoscibile l’Atto salvifico di Dio Padre, il «grande Gesto dell’Amore», il «Gesto assoluto», efficace e definitivo che abbraccia e rinnova il mondo e brilla al di là del tempo175. Nella novità di questo Gesto – Verbum abbreviatum, apparso nella —————————– sacra liturgia (Sacrosantum concilium), del decreto sull’attività missionaria della Chiesa (Ad gentes) e della dichiarazione sulle relazioni della Chiesa con le religioni non-cristiane (Nostra aetate), cfr. Entretien, MEM, 319-365; Hercsik, 42-51. Suggeriamo a proposito i «Quaderni» di de Lubac nati negli anni del Concilio: ID., Carnets du Concile, I-II, Paris 2007; trad. italiana, Quaderni del Concilio, I-II, Milano 2009. 175 Cfr. TDH1, 219-220. 198 IL MISTERO DELLA SALVEZZA CRISTIANA storia del nostro mondo per «riassumere» e «ricapitolare tutto», e attraverso i Suoi misteri storici – Incarnazione e Risurrezione – si realizza l’offerta universale della nostra salvezza. Essa però diventa raggiungibile nell’unico vero «luogo» della salvezza in cui, mediante l’incorporazione a Cristo, diventa possibile la nostra vera partecipazione al Suo mistero. La «capacità d’accoglienza del mistero» e «l’aspirazione mistica» del cristiano trovano la loro vera risposta soltanto nel Mistero di Cristo a cui è aperta e legata la vera mistica cristiana che secondo de Lubac è una partecipazione al mistero di Cristo, un approfondimento e un’attualizzazione cosciente del dono di Dio. Questi sviluppi antropologici, riconoscibili in modo ancora più esplicito in Ireneo, hanno delle radici bibliche, che affondano nella teologia mistica di Giovanni e Paolo, in cui le nozioni sul mistero di Cristo, presente e vivo nella vita del cristiano, si riferivano non soltanto all’escatologia cristiana, ma anche a questa vita terreste176. Partendo dunque dalle impostazioni bibliche sul mistero di Cristo – «Immagine del Padre» – Verbum abbreviatum – «Gesto della Carità» – il Tout du Dogme – che unisce e ricapitola tutto – Ireneo e de Lubac fondavano le loro dottrine antropo-teologiche sulla salvezza dell’uomo e riuscivano a superare il paradosso della nostra chiamata alla visione di Dio. Riuscivano, cioè, a riconciliare il fatto dell’offerta universale di questa chiamata all’unico destino dell’uomo, con l’assoluta gratuità della chiamata stessa, realizzabile soltanto nella grazia di Cristo accessibile nella sua Chiesa – l’unico «luogo» sicuro della salvezza. Nel passaggio, cristologicamente determinato, dal mistero alla mistica, cioè nella partecipazione ai misteri di Cristo, si realizza la «divinizzazione» del cristiano, partecipe della filiazione adottiva in Cristo. Legandola al mistero di Cristo, soprattutto al mistero dell’incarnazione, Ireneo e de Lubac, affermano il carattere gratuito della «divinizzazione» e il carattere «passivo» e «umile» della mistica cristiana come tale177. Partendo dunque dal mistero di Cristo, Ireneo e de Lubac, ognuno nel suo tempo, difendono l’unicità della natura umana, legandola ai misteri di Cristo. Con un forte realismo e ottimismo antropo-teologico entrambi affermano l’assoluta gratuità della salvezza per «un’umanità reale». In questo modo, ciascuno con il metodo e il linguaggio che gli è proprio, essi combattono la «falsa —————————– 176 Cfr. MMC, 17-18. Alla domanda sulla mistica cristiana che egli riconosceva opposta alle concezioni gnostiche del tempo di Ireneo, e alle tendenze gnostiche «attuali», de Lubac risponde: «Je relisais récemment l’Adversus haereses de saint Irénée, dans la traduction parfaite publiée aux Editions du Cerf, en marge des “Sources chrétiennes”, et j’y trouvais décrit le même fond que dans divers ouvrages contemporains. Il s’agit toujours d’un état supérieur, au caractère actif, alors que la mystique serait pure passivité». E a proposito delle tendenze gnostiche «di tutti i tempi», diceva: «C’est là le plus subtil et le plus profond athéisme, l’inverse de l’attitude propre à la logique de l’Incarnation, et d’abord à un sain réalisme, qui est d’humilité. Saint Augustin l’observait à mainte reprise: il faut une attitude humble pour entrer dans le mystère de l’Incarnation du Verbe». Cfr. Entretien, 78-82. 177 SINTESI 199 gnosi» e le tendenze dualistiche che minacciano la vera visione cristiana dell’uomo e della sua salvezza. Né le differenze di accentuazione antropologica fra Ireneo e de Lubac, né il carattere implicito della cristologia lubachiana, possono impedirci di cogliere il forte influsso esercitato da Ireneo sul pensiero e sulla dottrina di de Lubac, caratterizzata da un forte senso dell’unità e del mistero, facilmente riconoscibile soprattutto in Catholicisme lubachiana, però non meno presente nella sua dottrina sul «soprannaturale». È proprio l’opera Catholicisme di de Lubac – il «libro programma» della sua intera opera teologica successiva –, a suggerirci di considerare anche e soprattutto le sue opere sul «soprannaturale» nella prospettiva della relativa dottrina di Ireneo di Lione, spesso richiamata in Catholicisme stessa e da noi presentata in questo lavoro nei suoi principali risvolti antropo-teologici intorno al nostro tema della salvezza. Ci troviamo pertanto in pieno accordo con il commento di Orbe, quando osserva che nelle opere di Ireneo più di quello che egli dice, ci interessa quello che egli non dice e il motivo per cui egli tace su certi punti178. Riteniamo che lo stesso atteggiamento che Orbe suggerisce di coltivare, quando ci si accosta all’opera ireneiana, vada mantenuto anche nell’approccio agli scritti lubachiani, onde evitare conclusioni affrettate e giudizi errati. In tal modo, conformemente alla logica della «sintesi che è più di una sintesi»179, lo studio di de Lubac ci farà il dono inaspettato di riuscire a leggere più di quello che è scritto180. —————————– 178 Cfr. Antropología, 7. Cfr. TDH1, 207. 180 Aggiungiamo la già menzionata testimonianza di P. Barbarin: «Le cardinal Henri de Lubac a dit un jour avec sa modestie habituelle à un ami: “J’aime être lu par des jeunes parce qu’ils trouvent dans mes écrits ce que je n’y ai pas mis”». Cfr. Guibert, I. 179 SIGLE E ABBREVIAZIONI a. AA.VV. 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INDICE DEGLI AUTORI Alfaro, 11, 13, 30, 31, 39, 40, 41, 43, 44, 45, 46, 49, 50, 53, 59, 60, 61, 63, 64, 65, 66, 67, 70, 87, 88, 91, 114, 158, 191 Alszeghy, 29, 32 Ardusso, 26, 27, 29, 31 Aubert, 45 Aubineau, 118, 123, 152, 155 Auer, 21, 26, 27, 28 Baio, 27, 41, 44, 46 Balthasar, 35, 37, 38, 46, 90, 98, 102, 103, 117, 187 Bardy, 28, 30, 32, 33, 42, 154, 157, 158 Barth, 28, 90, 98 Bellini, 105, 106, 121, 123, 136, 141, 148, 149, 155, 156, 158 Benedetti, 37, 84, 90, 92, 95, 96, 97 Berger, 23, 24 Bertoldi, 90 Berzosa Martínez, 90 Blondel, 36, 64, 77, 98, 193 Bof, 131 Bouillard, 35, 52, 191, 192 Bove, 106 Brox, 54, 103, 105, 106, 107, 108, 109, 111, 129, 130, 139, 181 Bultmann, 24 Chantraine, 184, 193, 196 Chenu, 56 Ciola, 84 Coda, 54, 103, 139, 159, 167 Colombo, 27, 43, 44, 102 Conzelmann, 24 Dalmais, 28, 30, 32, 33, 42, 154, 157, 158 Dellagiacoma, 121 Eterović, 178 Fessard, 35, 36 Figura, 90 Flick, 29, 32 Galimberti, 123 Ganoczy, 137 Gianfreda, 90 Giansenio, 27, 44, 46 Gibellini, 35, 36, 38, 46 Gilson, 36, 42 Gross, 42, 47, 121, 123, 124, 151, 152, 153, 157, 158 Guardini, 28, 41 Gueriero, 103 Guibert, 12, 13, 39, 70, 71, 72, 74, 75, 76, 77, 78, 79, 82, 83, 85, 86, 88, 89, 92, 182, 192, 195, 199 Haggerty, 90 Harpius, 188 Hercsik, 10, 12, 13, 14, 39, 70, 71, 72, 73, 74, 75, 76, 77, 78, 79, 80, 82, 84, 86, 88, 89, 90, 92, 94, 95, 96, 103, 107, 108, 180, 181, 192, 193, 194, 195, 196, 197 Hilberath, 21, 23, 24, 25 Huby, 36, 185, 190 Klebba, 122 Ladaria, 12, 20, 30, 31, 40, 41, 42, 43, 44, 45, 46, 54, 59, 60, 64, 67, 68, 114, 117, 118, 123, 130, 134, 143, 144, 150, 152, 154, 156, 157, 181, 192 Lehmann, 101 Léonard, 90 Maisch, 22 212 IL MISTERO DELLA SALVEZZA CRISTIANA Malevez, 68, 90 Maréchal, 193 Marrou, 35 Maschio, 105, 106, 121, 123, 136, 148, 149, 155, 156, 158 Merton, 99 Montcheuil, 36, 98, 99, 101 Morali, 36, 37, 38, 178 Moulins-Beaufort, 189 Mouroux, 52, 191 Müller, 41 Negri, 90 Neufeld, 191, 192 Orbe, 10, 12, 14, 16, 101, 105, 106, 109, 110, 111, 112, 113, 114, 115, 116, 117, 118, 119, 120, 122, 124, 125, 126, 127, 128, 129, 131, 134, 138, 139, 140, 141, 142, 143, 145, 146, 148, 149, 154, 155, 156, 158 Origene, 26, 31, 35, 36, 68, 83, 87, 113, 114, 118, 121, 129, 134, 151, 189 Padovese, 106 Pesch, 20 Pio V, 41 Pio XII, 37 Pitta, 132 Rahner, K., 20, 21, 26, 27, 28, 41, 43, 46, 50, 57, 58, 90 Rahner, H., 35 Rondet, 35, 123 Rousseau, 117, 121, 148 Rousselot, 80, 193 Ruini, 90, 102 Russell, 151, 152 Ryan, 90 Sanna, 115, 123, 133, 137 Schüssler Fiorenza, 22 Sesboüé, 21, 28, 30, 31, 32, 90, 130 Špidlík, 122 Spiteris, 33 Splett, 19 Stoebe, 23, 24 Strucker, 122 Teilhard de Chardin, 36, 77, 98, 101, 184 Tommaso d'Aquino, 10, 11, 13, 21, 27, 31, 38, 41, 42, 43, 44, 45, 46, 48, 50, 54, 56, 57, 60, 61, 62, 64, 70, 87, 91, 94, 102, 183, 184, 185, 193, 195 Valensin, 36 Vanneste, 90 Vernet, 106, 108, 110, 140, 163, 165, 167 Vilanova, 106, 109, 111 Wagner, 35, 36, 72, 74, 77, 84, 184, 191, 192 Wildberger, 24 Zimmerli, 24 INDICE GENERALE PRESENTAZIONE di Donath Hercsik.......................................................................... 5 RINGRAZIAMENTI ...................................................................................................... 7 INTRODUZIONE .......................................................................................................... 9 1. Presentazione del lavoro ....................................................................................... 9 1.1 Argomento della tesi..................................................................................... 9 1.2 Limiti e metodo della ricerca ...................................................................... 11 1.3 L’itinerario della ricerca ............................................................................. 12 2. Il concetto di salvezza cristiana .......................................................................... 18 2.1 La questione sull’uomo: l’antropologia cristiana ....................................... 19 2.2 Fondamenti biblici ...................................................................................... 21 2.3 Salvezza come dono della grazia divina ..................................................... 23 2.3.1 Enunciazioni bibliche....................................................................... 23 2.3.2 Sviluppo storico-dogmatico ............................................................. 25 2.4 Dottrina sulla «divinizzazione» .................................................................. 28 2.4.1 Partecipi della natura divina............................................................. 28 2.4.2 Testimonianza della tradizione ........................................................ 30 2.5 Tra Oriente e Occidente.............................................................................. 32 CAPITOLO I: Dottrina del «soprannaturale» in Henri de Lubac............................. 35 1. Chiarificazione dei concetti ................................................................................ 39 1.1 Natura e «soprannaturale» .......................................................................... 40 1.2 «Natura pura» ............................................................................................. 43 1.3 Il «soprannaturale» di de Lubac.................................................................. 47 1.4 Il problema del linguaggio.......................................................................... 49 2. Il «soprannaturale» in ambito antropologico ...................................................... 53 2.1 L’«antropologia» di de Lubac..................................................................... 54 2.2 La «natura aperta» dello «spirito creato».................................................... 56 2.3 Desiderium naturale ................................................................................... 60 3. Lo sforzo di sintesi.............................................................................................. 70 3.1 La cristologia di de Lubac .......................................................................... 71 3.2 «La Lumière du Christ».............................................................................. 75 3.3 Il mistero sintetico di Cristo........................................................................ 83 214 IL MISTERO DELLA SALVEZZA CRISTIANA 4. Sintesi.................................................................................................................. 89 4.1 De Lubac sul «soprannaturale»................................................................... 89 4.2 Il mistero salvifico di Cristo ....................................................................... 94 4.3 Conclusione .............................................................................................. 102 CAPITOLO II: Il concetto di salvezza cristiana in Ireneo di Lione ........................ 105 1. L’antropologia di Ireneo ................................................................................... 111 1.1 La creazione dell’uomo ............................................................................ 112 1.2 La dignità del corpo umano ...................................................................... 117 1.3 L’uomo spirituale...................................................................................... 119 1.4 La realtà del peccato ................................................................................. 125 2. La salvezza dell’uomo ...................................................................................... 128 2.1 Il patrimonio paolino ................................................................................ 131 2.1.1 Salus carnis .................................................................................... 131 2.1.2 La novità di Cristo.......................................................................... 134 2.1.3 Elementi paolini nella dottrina di Ireneo........................................ 137 2.2 Redenzione ............................................................................................... 138 2.2.1 I misteri dell’Incarnazione e della Risurrezione ............................ 138 2.2.2 Ricapitolazione in Cristo................................................................ 144 2.3 «Divinizzazione» ...................................................................................... 150 3. Sintesi................................................................................................................ 158 3.1 Il senso dell’unità...................................................................................... 159 3.2 La salvezza donata .................................................................................... 163 3.3 Conclusione .............................................................................................. 166 SINTESI .................................................................................................................. 171 1. Paralleli dottrinali.............................................................................................. 172 1.1 Il realismo e l’ottimismo antropo-teologico ............................................. 172 1.2 Il senso dell’unità e del mistero ................................................................ 176 1.3 L’antropologia aperta: dal mistero alla mistica ........................................ 182 2. Le differenze, la prospettiva e il metodo teologico........................................... 188 2.1 L’uomo tra «carne» e «spirito»................................................................. 188 2.2 La cristologia «indiretta/implicita» di de Lubac ....................................... 191 2.3 La prospettiva e le conseguenze della dottrina lubachiana ....................... 194 3. Conclusione....................................................................................................... 197 SIGLE E ABBREVIAZIONI ........................................................................................ 201 BIBLIOGRAFIA ....................................................................................................... 205 1. Bibliografia principale ...................................................................................... 205 2. Bibliografia secondaria ..................................................................................... 207 INDICE DEGLI AUTORI ........................................................................................... 211 INDICE GENERALE ................................................................................................. 213