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Monica M.G.L. Valentini
E il mondo non fu più lo
stesso…
©MGL VALENTINI
E IL MONDO NON FU PIU’ LO STESSO
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DELLA STESSA AUTRICE:
Cristalli
La spada bianca
Il condottiero
Il richiamo del silenzio
Principe delle tenebre
Agemina
L’ombra della ginestra
Come convivere con uno sport sconosciuto
Roma vista da me
E il mondo non fu più lo stesso…
© 2009 MGL VALENTINI
Tutti i diritti riservati
Copertina e Grafica: Marco Licio Fabi
Stampa: LULU.COM
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www.monicavalentini.net
©MGL VALENTINI
E IL MONDO NON FU PIU’ LO STESSO
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Il kaiser Guglielmo II di Germania
Lo zar Nicola II di Russia
L’imperatore Francesco Giuseppe I d’Austria
Il re Giorgio V d’Inghilterra
©MGL VALENTINI
E IL MONDO NON FU PIU’ LO STESSO
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Tutto ebbe inizio con la fine delle guerre in Europa, nel
1870.
La cosa buffa, a pensarci bene, è che questo lungo periodo
di pace, in cui alleanze e prosperità economica avrebbero
dovuto dare stabilità, era in realtà un focolaio intestino di ciò
che sarebbe accaduto in seguito. A partire dai francesi che, in
Place de la Concorde, avevano drappeggiato di nero la statua
di Strasburgo, ceduta l’11 maggio 1871 alla Germania
assieme all’Alsazia e alla Lorena. Se, da un lato, il cancelliere
di ferro, il prussiano Bismarck, era stato ben felice di apporre
la firma sul documento che gli permetteva di incamerare le due
provincie francesi, dall’altra il popolo gallico avrebbe
rimuginato e borbottato e covato sogni di rivincita fino al secolo
successivo. Tuttavia, se i francesi fremevano senza darlo a
vedere, una parte dell’Europa, quella balcanica, scalpitava
come se avesse avuto la febbre.
Ma andiamo con ordine.
Sullo scorcio del diciannovesimo secolo lo scacchiere
politico europeo era composto per la maggior parte da grandi
imperi: quello inglese, quello austro-ungarico e quello russo, i
cui regnanti erano tutti imparentati tra loro, eccezione fatta per
l’impero ottomano e quello nipponico.
Prendiamo lo zar di Russia, Nicola II. Quest’uomo mite,
incapace di grandi decisioni, amante della quiete, aveva
sposato Alessandra d’Assia, nipote della regina Vittoria, la
quale, preso atto delle debolezze del marito, aveva impugnato
le redini della casa imperiale e aveva cercato di barcamenare
il consorte nel difficile compito che gli competeva. Era di origini
tedesche, poiché il padre era il granduca d’Assia, mentre sua
madre una delle figlie della regina Vittoria e fino alla fine
avrebbe sempre supportato il marito nelle questioni di stato. La
zarina Alessandra era, a ragion veduta, cugina del re inglese,
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Giorgio V, e del kaiser tedesco, Guglielmo II. Pertanto,
Inghilterra, Germania e Russia intrattenevano rapporti
amichevoli, almeno a livello personale, e i rispettivi coronati
erano certi che non si sarebbero mai fatti guerra, a dispetto del
carattere bellicoso di Guglielmo II, poco amato dalla zarina.
Questi, infatti, si sentiva molto più legato all’Austria di
Francesco Giuseppe I che non al panslavismo russo, e
intratteneva cordiali rapporti di amicizia con l’erede al trono
austro-ungarico, Francesco Ferdinando d’Asburgo d’Este. Lo
spirito degli avi, guerrieri teutonici fin nel midollo, lo animava e
lo spingeva a superare in ogni modo la menomazione fisica
che lo affliggeva, ossia l’atrofia al braccio sinistro, rendendolo
scontroso, duro e inflessibile.
Francesco Giuseppe I, al contrario del kaiser e dello zar,
non era più giovane, avendo compiuto ottantaquattro anni e,
come lui stesso disse, nulla gli era stato risparmiato dalla vita,
dall’assassinio dell’amata moglie, l’imperatrice Sissi, al suicidio
del primogenito Rodolfo a Mayerling e guardava con occhi più
critici e cinici lo scacchiere politico. Il fardello di esperienze che
gravava sulle sue spalle lo rendeva molto cauto, più simile al
morigerato Giorgio V d’Inghilterra che non al bellicoso
Guglielmo II; eppure aveva preferito come alleata la Germania,
molto più simile come lingua, usi e costumi.
Il fatto che la Gran Bretagna possedesse un impero vasto
come il Commonwealth, che fruisse di una flotta da fare
invidia, aveva spinto il kaiser a intensificare gli sforzi bellici per
poter gareggiare con il cugino Giorgio V. Questi, al contrario,
lasciava correre, da perfetto gentleman inglese, pago del suo
status e si godeva la tranquilla eredità della nonna, la regina
Vittoria.
All’inizio del ventesimo secolo molti erano gli appetiti di vari
stati: da quelli che sognavano un proprio impero, a quelli che,
in piccolo, aspiravano a un’autodeterminazione. Chi, più di
tutti, soffriva tumulti intestini, era il vasto impero austroungarico di Francesco Giuseppe I. Le troppe minoranze
etniche che lo formavano erano sempre sul piede della rivolta,
tra cui la parte del nord Italia, mentre ruteni, polacchi e ucraini
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guardavano alla Russia come loro protettrice. A suo tempo
l’impero ottomano aveva concesso l’autonomia all’Albania,
sotto la poderosa pressione dell’Austria che sperava, in tal
modo, di poter incamerare la Serbia. Ma questa, bellicosa e
facinorosa, convinta che il predominio austro-ungarico sulla
Bosnia valesse a impedirle uno sbocco al mare, per nulla
intimorita dal vasto impero, aveva pensato bene di invadere
l’Albania, libera dalla sfera ottomana, per poter godere di
quello sbocco sul mare.
Il vecchio imperatore si era visto costretto a mandare un
ultimatum alla Serbia, intimandole il ritiro delle truppe entro
otto giorni o le parole avrebbero lasciato spazio alle armi. Il
kaiser aveva plaudito l’ultimatum, sussurrando a denti stretti
che la Serbia andava in qualche modo rimessa in riga. Ora,
visto il panslavismo russo, era logico supporre che lo zar
Nicola II, essendo paladino della regione balcanica, avrebbe
risposto a tono all’ultimatum austriaco. Invece rimase in
silenzio e la Serbia si vide costretta a chinare la testa e a
ritirarsi di mala voglia, rinunciando allo sbocco sul mare. Tutto
questo accadeva nel 1913, nello stesso momento in cui la
Bulgaria si conquistava uno sbocco sul Mar Egeo e l’accesso
al Mediterraneo, e un anno dopo che l’Italia si era annessa la
Libia, e la Grecia si era annessa la Tracia, a spese dell’impero
della Mezzaluna.
È facile supporre come le diplomazie fossero impegnate a
reggere le sorti di ogni paese nel migliore dei modi e come si
industriassero per abbracciare la volontà dei regnanti e
sostenere l’opinione pubblica. Perché in tutto questo contesto
di affanno diplomatico, di annessioni e focolai di ribellioni,
aveva iniziato a soffiare un vento di libertà che i popoli
anelavano e che non facevano dormire sogni sereni ai
governanti. La vecchia aristocrazia aveva un bel da fare nel
mostrarsi ai ricevimenti con lustrini e ottoni lucidati a dovere:
fuori dei palazzi signorili si ingrossava sempre più la tempesta
della rivolta.
Cosa assai strana, questa ondata di libertà che tanto faceva
impensierire i potentati, sarebbe stata alimentata dalla
Germania per costringere la Russia a una pace separata nel
1917. Chi finanziava e sosteneva Lenin, altri non era che la
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Germania di Guglielmo II per chiudere uno dei due fronti di
guerra che la dilaniavano. Che poi tutti avversassero Lenin era
un mero cavillo: al momento serviva per porre termine alla
guerra e tutti chiudevano un occhio.
Ma questo è ciò che accadde in seguito.
Agli inizi del secolo, dunque, si auspicava una guerra allo
stesso modo in cui la si paventava, sebbene al momento
l’ultimatum alla Serbia fosse finito con un nulla di fatto.
Le alleanze reggevano e questo era ciò che contava.
Eppure il semplice gesto della Serbia aveva mostrato
chiaramente come queste fossero fragili e posate su basi
d’argilla.
Sin dal 1882 la Germania, l’Austria e l’Italia si erano unite in
una Triplice Alleanza. Di conseguenza, giacché la Germania
gettava con troppa insistenza l’occhio verso est per cercare di
annettersi la Polonia, la Lituania e la costa Baltica, Gran
Bretagna, Francia e Russia si erano a loro volta unite nella
Triplice Intesa per contrastare qualsiasi azione perpetrata dai
paesi alleati centrali. Era un’evoluzione della Cordiale Intesa
stipulata a suo tempo tra Gran Bretagna e Francia per
comporre dispute su Egitto e Marocco. Inoltre, nel 1907 la
Gran Bretagna aveva siglato un patto con la Russia per
dirimere le dispute in Persia e Afghanistan, cosa questa che
non era piaciuta alla Germania, la quale aveva da lunga data
relazioni con la Turchia. Dal canto suo, però, la Germania fin
dal 1899 aveva iniziato la costruzione di una ferrovia che
andava da Berlino fino a Baghdad e questo aveva fatto
storcere il naso agli inglesi. Insomma, ci si divertiva a tirare un
po’ troppo la corda da tutte le parti, confidando che la corda
fosse in realtà un elastico che difficilmente si sarebbe
strappato.
Tutto sommato, la pace persisteva e i regnanti godevano di
quel periodo prospero, illudendosi che sarebbe durato a lungo.
Gli attempati regimi erano duri a morire, eppure l’ottuagenario
imperatore aveva subodorato qualcosa di grave quando si era
reso conto che il suo erede, l’arciduca Francesco Ferdinando,
patteggiava per quei paesi slavi che lui sognava di
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assoggettare da una vita. Già il semplice fatto che l’erede al
trono avesse deciso di convolare a nozze morganatiche la
diceva lunga, ma l’idea che aveva di far divenire l’AustriaUngheria un impero a tre, concedendo diritti anche agli stati
slavi, faceva preoccupare non poco Francesco Giuseppe I.
Suo nipote era un coacervo di sangue reale, così come
l’impero che avrebbe ereditato. Nelle sue vene scorreva il
sangue di Federico II di Svevia, di Carlomagno, di Carlo V, di
Maria Teresa d’Austria, di Filippo di Spagna, di Luigi XII di
Francia, di Eleonora d’Aquitania, di Maria Stuarda e altri,
compresi gli Este di cui portava il nome e questo macigno di
responsabilità gli pesava. Era l’uomo nuovo che con le sue
idee progressiste avrebbe potuto fare la differenza e fu a
causa di ciò che lo zio imperatore gli aveva fatto solennemente
giurare che i figli avuti da quel matrimonio non avrebbero mai
campato diritti al trono. E lui aveva giurato, preferendo di gran
lunga sposare la donna amata anziché una imposta per
ragioni di stato.
Il guaio è che Gavrilo Princip e i suoi complici non lo
sapevano e quel 28 giugno del 1914 innescarono una bomba
ad orologeria che sarebbe sfociata nella Prima Guerra
Mondiale.
Il 28 giugno 1914 Guglielmo II era a Kiel per l’annuale
kermesse di giochi, gare e rappresentazioni e stava lui
medesimo gareggiando con il suo yacht, quando gli
consegnarono un messaggio urgente: Francesco Ferdinando
era stato assassinato a Sarajevo insieme alla moglie, dal
diciannovenne Gavrilo Princip, un reazionario anarchico.
Il kaiser abbandonò la regata e rientrò immediatamente a
Berlino e da quel giorno l’Europa diplomatica rimase con il
fiato sospeso in attesa della reazione inevitabile dell’Austria.
Era logico supporre che l’imperatore avrebbe dichiarato guerra
alla Serbia per punire quell’atto inconsulto, e alleati di una e
dell’altra parte rimasero con le orecchie dritte per capire come
sarebbero evolute le cose.
Ciò nonostante Francesco Giuseppe I, a dispetto
dell’assassinio, che riteneva una giusta raddrizzata al timone
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dell’impero da parte di Dio, non pensò a dichiarare guerra
come il kaiser si aspettava. Il vecchio imperatore, in realtà,
temeva, al pari del primo ministro ungherese, conte Tisza, che
una guerra contro la Serbia avrebbe messo in moto un
meccanismo più grande di loro, perché la Russia non sarebbe
rimasta a guardare. E la Russia era alleata di Francia e
Inghilterra e il solo potenziale di uomini che aveva era
spaventosamente alto.
Guglielmo II, invece, aveva inveito contro i serbi, giungendo
a dire che occorreva sistemarli una volta per tutte e soffriva
come sui carboni ardenti l’indecisione di Francesco Giuseppe
I. Era incline a pensarla come il ministro degli esteri austriaco,
conte Berchtold e il capo di stato maggiore austriaco barone
Conrad von Hötzendorf, i quali vedevano nell’assassinio
l’occasione che attendevano da anni per annettersi la Serbia.
Pur tuttavia l’imperatore nicchiava, l’opinione pubblica
manifestava violentemente contro lo stato balcanico e le
diplomazie avevano il fiato corto a forza di correre per portare
notizie lungo tutta l’Europa.
A distanza di una settimana dall’assassinio, il kaiser,
convinto che l’Austria dovesse dichiarare guerra prima che la
Russia si fortificasse, se ne andò in crociera nelle acque
norvegesi, certo, in realtà, che non ci sarebbe stato nessun
conflitto.
E mentre lui si godeva il riposo, a Vienna si lavorava
alacremente per decidere il da farsi. La maggioranza dei
ministri era favorevole a dare una dimostrazione di forza alla
Serbia, mentre il conte Tisza scongiurava l’imperatore di
pensarci bene prima di prendere qualsiasi decisione,
ventilando l’ipotesi che, di fianco alla Russia, sarebbe scesa in
campo anche la Romania. Francesco Giuseppe I nicchiava,
consapevole del pericolo e deciso a evitarlo senza perdere la
faccia.
Allo stesso modo del governo austriaco, anche il resto del
mondo era diviso in due, tra coloro che erano convinti non ci
sarebbe stata una guerra e coloro che la chiedevano a gran
voce. Gli stessi diplomatici, a distanza di tempo
dall’assassinio, iniziavano ad aver dubbi sull’intenzione
dell’Austria di muovere guerra. In effetti, c’erano da tener
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presenti diversi fattori: la stretta parentela tra regnanti, le
economie, le alleanze, la sensazione che nessuno nelle alte
sfere avesse intenzioni ostili e, non per ultima, la dichiarazione
serba in cui si diceva, prima ancora che tutto accadesse, che
la visita dell’arciduca a Sarajevo era poco opportuna visti i
tumulti. E soprattutto questa dichiarazione, che Francesco
Giuseppe I conosceva, lo lasciava propenso a non prendere
nessuna iniziativa, come se si sentisse in colpa per aver
concesso al nipote di andare comunque in visita a Sarajevo.
Per circa una ventina di giorni l’Europa visse in una sorta di
limbo e la gente comune, dopo i primi attimi in cui i cuori
avevano palpitato furiosamente, ricominciò a vivere senza più
timore dello spettro di una guerra dalle fatali conseguenze.
Venti giorni che parvero rispecchiare in piccolo la fatua pace
che vigeva dal lontano 1870; venti giorni in cui tutti credevano
a tutto e a nulla; venti giorni di febbrile e intenso lavoro
diplomatico, con i regnanti che continuavano a scambiarsi
lettere affettuose rassicurandosi reciprocamente; venti giorni in
cui i militari saggiavano le proprie forze e quelle contrarie,
mostrando i muscoli come palestrati.
Venti giorni che fecero la differenza tra il vecchio e il nuovo
mondo.
Il 19 luglio 1914 il governo di Vienna stilò l’ultimatum, tutti i
ministri certi che la Serbia avrebbe respinto le aspre condizioni
poste in atto. Ormai aveva vinto la fazione bellicosa e il velo
della diplomazia stava per cadere.
Il 21 luglio Francesco Giuseppe I, dopo aver letto
l’ultimatum, lo autorizzò e due giorni dopo l’intero mondo
prendeva atto “del documento più duro che uno stato abbia
indirizzato a un altro stato”, come si espresse sir Edward Gray,
ministro degli esteri inglese. La Serbia aveva solo ventiquattro
ore per rispondere.
Per precauzione, il 24 luglio la Russia decise di mobilitare
tredici corpi d’armata in gran segreto, solo una parte
dell’esercito, mentre il giorno seguente la prima corazzata
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tedesca salpava dal canale di Kiel verso il Mare del Nord.
Anche l’Austria aveva iniziato a mobilitare, ma il suo
farraginoso meccanismo le avrebbe consentito di giungere a
una mobilitazione completa non prima di venti giorni. In parole
povere, con la lettura al mondo dell’ultimatum, i paesi si
sentirono in dovere di armare, seppure in silenzio, sicuri che
l’ultimatum sarebbe stato totalmente respinto e nessuno
voleva trovarsi impreparato.
Il 25 luglio, vista l’aria che tirava, anche la Serbia mobilitò.
Eppure, a grande sorpresa, accettò parte dell’ultimatum,
consapevole di mostrarsi, in questo modo, sotto una luce
conciliante e rimetteva la disputa sulla clausola più dura di
tutte, quella che prevedeva la partecipazione dell’Austria
all’inchiesta giudiziaria contro i colpevoli dell’assassinio, al
Tribunale Internazionale dell’Aja.
L’accettazione remissiva della Serbia lasciò il mondo in
sospeso, laddove tutti avevano pensato che solo un miracolo
avrebbe potuto bloccare il lento meccanismo messosi in moto.
E il miracolo era giunto: l’ultimatum veniva in gran parte
accettato e tutti, ora, erano convinti che mostrare le piume
come pavoni era solo una prova di forza destinata a rimanere
tale. Lo stesso zar, che colse al volo l’occasione per dirimere
la cosa in modo pacifico, chiese all’Austria di aprire negoziati
con la Serbia, che furono prontamente respinti dal governo.
Il 27 luglio, al pari dello zar che auspicava negoziati, Londra
tentò di convocare una conferenza delle quattro potenze,
Germania, Gran Bretagna, Francia e Italia allo scopo di trovare
una via di uscita diplomatica a quella situazione di prossimo
collasso. La Germania, come l’Austria con lo zar, non accettò
e il vertice non si fece.
Dal canto suo, il kaiser era convinto che la guerra tra
Austria e Serbia sarebbe rimasta un conflitto circoscritto ai due
paesi belligeranti e riteneva che la Germania non sarebbe mai
scesa in campo se l’Austria avesse dato una raddrizzata a
quel popolo irrequieto. Ad un amico, poi, aveva confidato che
non voleva neppur sentir parlare di guerra, che l’avrebbe
evitata in tutti i modi. Ma la condizione era che l’Austria
colpisse duramente la Serbia in modo da liquidare la faccenda
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in modo definitivo nel giro di poco tempo. In questo il suo
sangue teutonico traspariva a chiare lettere.
Di contro, se il kaiser premeva per una spedizione punitiva,
la Gran Bretagna premeva per scongiurare tale azione,
soprattutto dopo aver saggiato la voglia di entrare in guerra
degli austriaci. Il 28 luglio, dopo che ebbe preso visione
dell’ultimatum, il kaiser cambiò radicalmente opinione e liquidò
la faccenda annotando sul foglio che l’Austria sarebbe stata
pazza a muovere guerra dopo aver già moralmente vinto con
un simile documento. Ma neppure un’ora dopo che Guglielmo
II aveva commentato l’ultimatum, patteggiando per vie più
diplomatiche, l’Austria dichiarò guerra alla Serbia, confidando
nell’appoggio tedesco.
Quel 28 luglio 1914 alle ore 12, a un mese esatto
dall’assassinio di Sarajevo, il mondo conosciuto fino allora
cessò di esistere, sebbene nessuno in quel momento colse la
portata di quella svolta epocale.
La conseguenza fu che la marina inglese mobilitò per
occupare posizioni strategiche nel Mare del Nord, onde
trovarsi in buona posizione qualora la Germania avesse deciso
di scendere in guerra al fianco dell’alleato austriaco. Si parava
le spalle, per così dire, nonostante i moniti del ministro della
marina inglese, sir Winston Churchill. La Germania storse il
naso, ma Giorgio V aveva espressamente dichiarato al cugino
tedesco che la Gran Bretagna sarebbe rimasta neutrale,
anche perché nessuno in Inghilterra capiva la smania di
scendere in campo per colpa della Serbia. E questa
rassicurazione al kaiser fu sufficiente, perché credeva
ciecamente nella parola data da un re.
Dalla fredda Russia, intanto, giungevano dispacci dove si
veniva a sapere che lo zar aveva mobilitato in parte, appena
sei milioni di uomini, e li aveva mandati lungo la frontiera con
l’Austria, senza dichiarare guerra, bensì solo a scopo
precauzionale. La richiesta dei ministri di mobilitazione
generale era stata rifiutata da Nicola II, il quale sperava ancora
di evitare il conflitto. Assieme alla Francia, premeva sulla
traballante Gran Bretagna, affinché dichiarasse che, se la
Germania avesse attaccato la Francia come tutti
sospettavano, sarebbe stata costretta a scendere in campo al
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fianco dell’alleata. Al coro si era unita anche l’Italia,
sostenendo che tale dichiarazione avrebbe evitato una guerra
di proporzioni immani; tuttavia la Gran Bretagna nicchiava, si
crogiolava nella sua rinomata flemma e preferiva rimanere a
guardare.
La Germania di Guglielmo II, dal canto suo, invitava la Gran
Bretagna di Giorgio V a rimanere neutrale, promettendo come
contropartita che non avrebbe sottratto territori alla Francia, se
non alle colonie. E già questo, di per sé, la diceva lunga.
Nel frattempo lo zar e il kaiser si scambiavano telegrammi
nei quali ognuno asseriva di voler a tutti i costi impedire una
guerra che andasse oltre le due belligeranti e, nel loro intimo,
erano sicuri di riuscire a non espandere il pericolo, soprattutto
Nicola II. Il kaiser, allora, consapevole dell’assurdità di una
guerra, si fece promotore di un’intesa tra Austria e Russia per
evitare una catastrofe mondiale e sull’onda di quella mano
tesa lo zar intimò ai propri generali di bloccare la mobilitazione
parziale. Purtroppo per lui, il meccanismo era ormai in moto in
tutto il vasto impero e fermarlo per tempo sarebbe stato
impossibile. Al che lo zar telegrafò nuovamente al kaiser,
sollecitandolo a intervenire il prima possibile presso l’Austria
affinché intraprendesse i negoziati. Ma l’Austria fece orecchie
da mercante e neppure il kaiser, per quanto si affannasse,
riuscì a trattenere la mobilitazione indetta dal proprio stato
maggiore per contrapporsi a quella russa.
Appena a San Pietroburgo giunse la notizia che la
Germania aveva mobilitato, i ministri convinsero lo zar a
firmare la tanto agognata mobilitazione generale. Era il 30
luglio 1914. Appena due giorni prima l’Austria aveva dichiarato
guerra alla Serbia e già il terzo stato, la Russia, era stato
risucchiato nel vortice senza neppure rendersene conto, con la
scusa di dover scendere in campo per dare appoggio alla
protetta Serbia. L’Austria mobilitò contro la Russia il giorno
dopo e la Germania si vide costretta a mandare un ultimatum
alla Russia, ordinandole di sospendere le misure belliche
contro la sua alleata. San Pietroburgo respinse la richiesta.
A quel punto, visto il precipitare della situazione, Berlino,
per timore di un doppio fronte, chiese a Parigi di rimanere
neutrale, ma la Francia, alleata della Russia sin dal 1894,
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rispose picche e chiamò subito alle armi i propri uomini. I
francesi corsero a frotte, felici di credere di scendere in campo
per solidarietà tra classi lavoratrici, così come il socialismo
predicava da un decennio. Erano ignari, al pari di tutti i soldati
di altre parti schierate, di intraprendere un viaggio senza
ritorno, un viaggio che avrebbe avuto come meta la trincea e
la terra di nessuno.
Per impedire il pericolo di sempre, Alfred von Schlieffen,
capo di stato maggiore tedesco fino al 1905, aveva a suo
tempo elaborato un piano che prevedeva la disfatta della
Francia ad ovest per poter lasciare via libera alla Germania
verso est. Questo piano attendeva l’invasione del Belgio per
poter entrare in Francia e far capitolare Parigi, in modo da
liquidare la faccenda in pochi giorni.
La Gran Bretagna, subodorando qualcosa, chiese a Francia
e Germania di rispettare la neutralità del Belgio, ma alla pronta
accettazione della prima fece eco un assordante silenzio della
seconda.
Il 1 agosto 1914 la Germania dichiarò guerra alla Russia.
Eppure, quel medesimo giorno, Giorgio V aveva telegrafato
al cugino Nicola II per cercare di impedire un massacro senza
fine e lo zar era propenso a ogni trattativa, ben sapendo che il
suo popolo, checché se ne dicesse in giro, non era in grado di
sostenere uno sforzo bellico. La Russia era ampia e colma di
uomini, ciò nonostante del tutto impreparata a una
belligeranza. L’arrivo della dichiarazione di guerra della
Germania lasciò nello sconforto e nella disperazione il mite
zar.
Appena due giorni dopo, per coprirsi le spalle, la Germania
dichiarò guerra alla Francia e subito le truppe tedesche,
infischiandosene della neutralità, invasero il Belgio, come
prevedeva il piano Schlieffen.
Quella mossa costrinse la Gran Bretagna a dichiarare
guerra alla Germania e, come disse l’ammiraglio tedesco
Tirpiz in un attimo di sconforto, “tutto è perduto”. Era il 4
agosto 1914.
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L’escalation, costretto dalle alleanze intrecciate, fu come
una valanga, un effetto domino a cui nessuno poté sfuggire.
Nel giro di pochi giorni, facendosi beffe della diplomazia e dei
desideri dei coronati, i parlamentari e i ministri innescarono
una reazione a catena che condusse il mondo sul baratro,
spazzò via un’intera generazione di vite senza risolvere niente
e senza che i posteri imparassero nulla, altrimenti non ci
sarebbe stata una Seconda Guerra Mondiale a soli vent’anni
di distanza dalla prima.
Quel 28 giugno 1914, Gavrilo Princip non lo sapeva ma
avrebbe, con un colpo di pistola, cambiato la faccia e i destini
del mondo intero.
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