Il neoplatonismo
Iniziamo il nostro percorso partendo non da Agostino, bensì dall’ultimo grande filosofo
pagano, Plotino, fondatore di una delle correnti filosofiche più importanti dell’antichità, il
neoplatonismo. Le ragioni di questo apparentemente anomalo modo di introdurre Agostino stanno
nel fatto che l’adesione del santo al neoplatonismo è essenziale per comprendere le motivazioni che
lo portarono a convertirsi al cristianesimo, senza le quali il suo grande pensiero non sarebbe sorto.
Dal punto di vista della nostra comprensione – oserei dire, dunque, per ragioni didattiche –
questa esposizione è indispensabile per quanti di voi si accostino alla disciplina non da addetti ai
lavori ma con un interesse sostanzialmente amatoriale, che non consente di padroneggiare tutte le
correnti della filosofia. Chi ha frequentato i corsi dello scorso anno accademico, ricorderà come,
nelle prima lezione, abbiamo introdotto, a grandi linee, la struttura metafisica dei pensieri di Platone
e Aristotele, senza le quali era impossibile confrontare le rispettive riflessioni etiche e politiche. Si
trattava di sintesi sufficienti ma sommarie, forse non proponibili neppure durante la comunicazione
scolastica; erano esperimenti anche per me, che tuttavia giudico positivamente, in quanto hanno poi
permesso una riflessione approfondita in merito a tematiche importanti.
Anche quest’anno dobbiamo seguire un procedimento analogo; sintetizzare, nel corso di una
conversazione, una complessa concezione metafisica quale il neoplatonismo – in maniera
evidentemente schematica e lacunosa - che ci permetta però di comprendere in modo chiaro le
argomentazioni cui è specificatamente dedicato il corso. (Quest’anno, inoltre, il neoplatonismo è la
principale dottrina di riferimento anche per il corso del secondo trimestre, per cui, quanto diremo
ora, ci consentirà una adeguata padronanza anche dei successivi pensieri che andremo ad
esaminare).
Per comprendere, nel modo più sintetico possibile, i principi fondamentali su cui poggia la
costruzione speculativa neoplatonica, dobbiamo rifarci a Platone. D’altra parte, e il nome di questa
tradizione filosofica lo dichiara esplicitamente, Plotino, il fondatore del neoplatonismo, si
richiamava direttamente al grande maestro dell’Atene del V secolo. Egli anzi riteneva di non essere
un filosofo originale, bensì un divulgatore ed esegeta delle teorie di Platone e di Aristotele, da lui
considerate per molti versi coincidenti. In realtà Plotino, in questa opera di diffusione culturale, si
distacca sensibilmente dal platonismo e dall’aristotelismo classici, sino a fondare una nuova
concezione metafisica, destinata ad avere un seguito addirittura più imponente di quello dei suoi
predecessori.
Caratteristica fondamentale del platonismo –lo ricorderete -, era la netta distinzione fra il
mondo sensibile e il mondo intelligibile; il primo coincideva con la nostra realtà sensibile,
caratterizzata dal divenire e, quindi, dalla mutabilità e corruttibilità. Il mondo intelligibile era invece
quello delle idee, entità supreme, eternamente uguali a loro stesse. Le idee, in ragione della loro
incorruttibilità, sono l’autentico essere mentre il nostro mondo, dove i vari fenomeni non sono mai
uguali a se stessi, perché costretti a mutare in ogni momento, rappresentano una realtà inferiore,
copia precaria del mondo ideale.
Platone era giunto a questa concezione dualistica in seguito agli insuccessi che i filosofi
precedenti avevano incontrato nello spiegare la natura. Secondo Platone, la verità dei fenomeni
deve essere qualcosa di non soggetto a mutamento, perché la verità – è quasi una conseguenza
logica – se è vera non può mai mutare; deve avere dunque le caratteristiche dell’intelligibile.
Platone ne deduceva allora l’esistenza di un mondo ideale, coincidente con la verità, composto da
entità eterne e immutabili; il mondo sensibile, invece, era solo una copia di quello delle idee e,
proprio per questo, soggetto a mutamento e decomposizione. Ciò che di vero si poteva intuire nel
mondo sensibile, era tale solo perché derivava dalle idee; anzi, la verità del sensibile era il
rispecchiamento in esso delle idee.
Secondo Platone, il mondo intelligibile e il mondo sensibile, proprio perché radicalmente
diversi per natura, sono assolutamente separati. Anzi, è proprio Platone a introdurre in filosofia la
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dimensione della trascendenza, cioè una dimensione d’esperienza radicalmente diversa e separata
da quella del mondo in cui viviamo, un “al di là” che, proprio perché si contrappone alla necessità
di questo mondo, è sicuramente più perfetto, eterno, impermeabile ad ogni mutamento. Certo, se il
mondo contiene parte della verità delle idee (sia pure in modo imperfetto), le idee in qualche modo
devono essere presenti anche nel mondo; e Platone ha molta difficoltà nel risolvere questo
problema, proponendo varie soluzioni (partecipazione, comunanza, presenza, ecc…) che in questa
sede non ci interessa approfondire.
Veniamo ora al neoplatonismo, e vi prego di seguire lo schema riportato nella pagina
seguente: Plotino accoglie dal platonismo la radicale differenza fra mondo intelligibile e
mondo sensibile; il vero essere si identifica con la realtà intelligibile, mentre la materia è come un
essere scaduto, imperfetto, vero solo parzialmente. Come potete vedere nello schema, il mondo
intelligibile si dispiega in varie forme (che Plotino chiama ipostasi), le quali però non sono
indipendenti le une dalle altre, ma derivano tutte dal principio primo, l’Uno. All’origine, secondo
Plotino, esiste esclusivamente l’Uno il quale, per un’attività interna, produce tutte le cose, secondo
un ordine discendente di imperfezione. Per fare un esempio, l’anima non è qualcosa di diverso
dallo spirito, ma è una sua ulteriore trasformazione: lo spirito, nella sua attività, produce l’anima
che, ovviamente, essendo un derivato, avrà caratteri di minore perfezione.
Ricorderete come Platone faceva coincidere il mondo intelligibile con le idee, distinte poi in
idee matematiche (uguaglianza, differenza, maggiore, minore, ecc.) e idee valore (bellezza,
santità, ecc.). “Idea delle idee” era l’idea del bene la quale, rappresentando la positività o bontà di
tutto ciò che esiste, permeava di se tutte le altre. In ogni caso, secondo Platone, il mondo
intelligibile – che egli considerava il fondamento e la spiegazione dello stesso mondo
sensibile – era composto da una pluralità di enti, fra loro irriducibili, anche se accomunati da una
bontà intrinseca dei loro esseri.
Plotino ritiene di dovere correggere e perfezionare ulteriormente la concezione platonica,
che pure egli condivide nella sua struttura fondamentale: non può esserci a fondamento di tutto una
pluralità di idee, perché ciò che sta al principio – per semplice coerenza logica – deve essere uno,
altrimenti questi molti dovrebbero anch’essi derivare da qualcosa d’altro. Quindi, il fondamento di
tutto deve essere l’Uno e le idee saranno solo un derivato di esso, contenute nell’ipostasi chiamata
spirito o intelletto. Comprendiamo bene questo concetto dal seguente passo, tratto dalla raccolta
delle opere di Plotino, le Enneadi, in realtà una ricostruzione dei suoi pensieri effettuata dal
discepolo – e altro grande filosofo neoplatonico – Porfirio:
Da Plotino, Enneadi, V, 3, 16:
“Non certo dal molto deriva il molto, ma questo nostro molto deriva dal non molto. Se, infatti,
anch’esso fosse molto, non sarebbe principio questo molto, ma vi sarebbe un altro principio
prima di questo molto. Occorre dunque concentrarsi in ciò che è realmente uno scevro da
qualsiasi molteplicità.”
Notate come in questo passo Plotino non faccia alcun riferimento all’esperienza concreta,
ma offra ai suoi interlocutori un ragionamento impostato unicamente sulla coerenza logica: al
principio vi deve essere una unità, poiché ogni molteplice è la somma di più unità; di conseguenza,
se ponessimo all’origine i molti, dovrebbe poi sempre esserci un uno che li comprende. Per
necessità, dunque, l’origine deve coincidere con l’Uno.
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SCHEDA CRITICA
Alcuni studiosi non sono d’accordo nell’individuare una così netta differenza fra Platone e
Plotino; rifacendosi alle cosiddette dottrine non scritte, ossia a quelle lezioni che Platone teneva a
un gruppo ristretto e selezionato di allievi - poiché riteneva che il loro contenuto non potesse essere
messo a disposizione delle persone comuni – e, quindi, non riportate negli scritti, questi interpreti
affermano che Platone identificava l’idea del Bene con l’Uno e, di conseguenza, anticipava le
considerazioni di Plotino. D’altra parte – come abbiamo già ricordato – Plotino si considerava un
semplice divulgatore delle dottrine platoniche; anche se, evidentemente, egli non poteva avere
conoscenza del contenuto delle “dottrine non scritte” di Platone.
Continuiamo nell’esaminare alcuni passi di Plotino, che possono ulteriormente illuminarci in
merito:
Da Plotino, Enneadi, V, 5, 10:
“…appunto perché è uno, dico, egli non rientra né in una misura né in un numero. Così,
egli, non incontra il confine né in altrui né in se stesso; ché, in tal caso, egli cadrebbe già nella
dualità. Niente figura, dunque – poiché non ha neppure parti -; niente forma.”
Plotino si richiama qui a una vecchia concezione dei pitagorici: l’uno non è un numero
come gli altri, anzi sfugge al criterio di misurabilità; è però il principio della serie numerica ed è
quell’entità che, aggiunta di volta in volta, dà a questa serie la possibilità di proseguire. E’, dunque,
il principio unico da cui ha origine tutta la molteplicità, l’origine del tutto.
Per Plotino dunque è facile attribuire all’Uno tutte quelle qualità che la tradizione ha sa
sempre associato alle realtà intelligibili: non ha confini, parti, forma.
Plotino affronta un problema classico della metafisica e della filosofia: quello dell’origine,
dell’inizio, che ancora oggi suscita straordinario interesse. Sicuramente, però, Plotino è colui che lo
affronta con maggiore radicalità rispetto agli stessi Platone e Aristotele; il suo principio, infatti,
deve essere qualcosa di cui non sia possibile assolutamente concepire un prima e, quindi, deve
identificarsi con un concetto ai limiti della pensabilità e dell’esprimibilità. Ecco dunque tutta una
serie di espressioni metaforiche, un uso continuo del superlativo e di immagini al limite del
rappresentabile, proprio per comunicare – senza pretendere una comprensione piena di questo
concetto, impossibile da raggiungere – la radicalità del principio. Leggiamo a proposito il seguente
passo:
Da Plotino, Enneadi, V, 4, 1:
“…deve essere di una semplicità anteriore a ogni altra, questo nostro Primo e, precisamente,
egli è diverso da tutto ciò che è dopo di lui, esistente in sé, non mescolato con le cose da lui
derivanti e capace tuttavia di star dentro alla sua volta, in un modo tutto suo, nelle altre cose, uno
che è veramente Uno (…), uno, insomma, di cui già l’espressione è uno suona falsa… Infatti, se
non fosse semplice, scevro di ogni causalità e composizione e veramente e propriamente uno, egli
non sarebbe principio; poiché il non-primo ha bisogno di ciò che lo precede e il non-semplice ha
bisogno degli elementi semplici contenuti in lui, a che ne sia costituito.”
Consiglio, per cercare di intendere meglio il complesso argomentare plotiniano, di pensare,
seguendo le riflessioni del filosofo, alla serie numerica e al ruolo che in essa riveste l’unità; è
l’unica visualizzazione possibile che può renderci più accessibili i concetti.
L’Uno è di una “semplicità anteriore a ogni altra” proprio perché l’unità deve essere
semplice; la complessità, infatti, si ha solo dove c’è molteplicità, dove ci sono più cose e la nostra
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capacità di distinguere diventa precaria. L’Uno è “esistente in sé”, nel senso che non ha bisogno di
nulla al di fuori di lui, poiché se ne avesse ci sarebbe già un due. Già l’espressione “è uno suona
falsa” poiché l’Uno, essendo principio e quindi unicità, non può essere predicabile di alcunché
(ancora una regola logica e non empirica!).
Dall’Uno al divenire
Dall’Uno, secondo Plotino, derivano tutte le cose poiché l’Uno, in quanto concentrazione
d’essere e di vitalità, è come se strabordasse da se stesso o, per usare una metafora plotiniana, esso
trabocca d’essere e si moltiplica. Il filosofo ci offre anche altre metafore: il fuoco, che concentra in
sé il calore ma lo espande all’esterno, o il profumo che si diffonde. Gli studiosi discutono sulle
modalità attraverso cui si realizza questa produzione: di sicuro non si tratta di un processo
creazionistico, in quanto i fenomeni si originano dall’Uno e non dal nulla. La manualistica propone
due possibili concetti: quello di emanazione oppure quello di processione, leggermente dissimili
l’uno dall’altro. Non è questa la sede per discutere questo aspetto interpretativo: ci interessa notare
come, per Plotino, le creature o i fenomeni sono qualcosa di essenzialmente diverso dall’Uno ma,
nello stesso tempo, derivano da esso e, quindi, è come se ne portassero dentro l’impronta. D’altra
parte, ogni molteplicità è la somma di più unità e, quindi, in ogni molteplice è presente l’uno
come elemento costitutivo.
Leggiamo un passo in cui si introduce l’idea di produzione e di attività dell’Uno:
Da Plotino, Enneadi, VI, 8, 13:
“insomma, non è dato concepire un Bene che sia spoglio della volontà di essere, di per
se stesso, quello che è; ond’egli è buon compagno di viaggio a se stesso giacché vuole essere quello
che è ed è proprio quello che vuole e la volontà sua e il suo essere sono unità e, nondimeno, la sua
unità non viene a scapitarne per questo, poiché tra quello che si trovava ad essere e quello che
eventualmente voleva essere non passa differenza di sorta. … Infatti, che cosa mai avrebbe
potuto volere se non quello che è? …
In verità, la natura del Bene consiste sostanzialmente nella volontà di lui, di un essere, cioè,
che non è corrotto né istigato dalla sua stessa indole ma elegge con libertà se stesso, tanto più che
non c’è nient’altro tale che egli possa venire adescato.”
Innanzitutto, per potere teorizzare la produzione dall’Uno Plotino ha dovuto – riprendendo
la lezione di Platone – identificarlo con il Bene. Poiché l’Uno è l’inizio di tutto, l’origine di ogni
cosa che accade, ha in sé il bene dell’essere, nel senso che rappresenta la positività del mondo, il
suo venire alla luce. L’Uno è bene proprio perché contiene in sé tutto il mondo possibile; egli si
riconosce come l’origine di tutto il mondo e, proprio per questo, desidera realizzare questa sua
possibilità e potenzialità. Ecco perché l’Uno, come è spiegato nel passo che abbiamo appena letto,
intende dare luogo a tutto il processo che è racchiuso in Lui.
Dobbiamo immaginare, a questo punto, l’Uno come un centro di energia che – ricordate
l’esempio del calore o del profumo – diffonde a partire da sé l’essere, che si compie nelle diverse
possibilità e molteplicità. Leggiamo un passo che dovrebbe esaurientemente spiegare quanto sino a
qui esposto e che, dunque, non ha bisogno di ulteriori commenti:
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Da Plotino, Enneadi, V, 4, 2:
“Ma come – lui fermo – si svolge il divenire? In virtù della forza operante. La quale è
duplice: l’una è chiusa nell’essere; l’altra sgorga al di fuori dell’essere particolare di ciascuna
cosa; e, precisamente, quella che appartiene all’essere è proprio quella singola cosa in atto; quella
che sgorga fuori, da esso, è che deve necessariamente tener dietro ad ogni singola cosa, è diversa da
quella singola cosa. Tant’è, per esempio, nel fuoco: vi è, da un canto, il calore che entra di pieno
diritto nella sua essenza; e v’è, d’altro canto, il calore che nasce già come derivato dell’essenza,
allora che il fuoco, in quel semplice perseverare come fuoco, esercita la forza operante chiusa
nativamente nel suo essere.”
Nel passo Plotino accenna a due forze o, meglio, a una doppia azione della stessa forza; da
una parte essa ha una direzione centripeta, tende a raccogliersi su di sé e a conservarsi, mostrando le
sue qualità al grado massimo; dall’altra essa si diffonde verso l’esterno e, con una gradualità via via
ridotta, estende se stessa nell’ambiente a lei contiguo. L’Uno, quindi, da una parte è concentrato su
di sé, rappresentando l’essere nella sua assoluta pienezza, dall’altra deve diffondere l’essere stesso
e, quindi, moltiplicarlo nelle sue innumerevoli possibilità formali.
I fenomeni particolari
Una volta comprese le motivazioni per cui, dall’Uno, si originano i diversi molteplici,
possiamo evitare di soffermarci sulle varie ipostasi. Ricordate che a noi interessa giungere al
pensiero di Agostino, dobbiamo unicamente saper riconoscere nella sua filosofia il riferimento al
neoplatonismo; una volta che vedremo in Agostino la teorizzazione di un rapporto tra Dio e le
creature analogo a quello fra l’Uno e i molti in Plotino, ciò risulterà sufficiente per la nostra
comprensione.
E’ importante però notare un’ultima cosa e, a questo proposito, vi prego di guardare ancora
una volta lo schema. Raffiguratevi l’Uno come un centro propulsore di energia: questa energia si
diffonde sempre più e si moltiplica, fino a disperdersi ed esaurirsi. Finché questa energia mantiene
una certa intensità, essa dà origine a forme diverse che pure fanno tutte parte del mondo intelligibile
e, quindi, hanno le caratteristiche dell'’immutabilità e dell'’incorruttibilità. Quando però questa
energia tende a disperdersi ed essa non ha più la forza per riconoscersi in un insieme unitario, allora
si origina il mondo sensibile. Il mondo sensibile è pura negatività, dispersione di energia che non
sa ricondursi ad unità; ecco allora che in esso domina il divenire, la corruzione, la morte e la
trasformazione. Ciò impedisce al mondo sensibile di essere autenticamente vero, di assumere cioè
una forma stabile che non ammette mutamenti.
Nonostante questo giudizio negativo, pure il mondo sensibile è, secondo Plotino, un
prodotto – seppure estremo – dell’attività dell’Uno e mantiene, anche se a un livello infimo, un
barlume di verità e di realtà originaria. A differenza di Platone, dunque, la sensibilità non è
assolutamente separata dalla realtà intelligibile, in quanto proviene da essa, è il momento
estremo ed ultimo della sua incessante attività. In Platone invece la materia era preesistente,
indifferente e separata dall’intelligibile; quest’ultimo, penetrandola e plasmandola, riusciva poi a
darle una forma razionale. Secondo Plotino, invece, la realtà, essendo una, non può essere
caratterizzata da un dualismo insanabile; la sensibilità, allora, è essa stessa una forma, seppure
deietta e negativa, dell’intelligibile.
Leggiamo un passo molto chiaro a proposito; a dire il vero, in esso non si tratta
esplicitamente della sensibilità, ma aiuta comunque a comprendere lo stretto rapporto fra i molti e
l’Uno; l’Uno è all’origine dei molti e questi, proprio in virtù del processo produttivo, fanno parte
dell’Uno. Anche la sensibilità, dunque, non può concepirsi come separata:
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Da Plotino, Enneadi, VI, 5, 6:
“E, invero, gli esseri dello Spirito, pur essendo molti sono uno; e, pur essendo uno, sono,
altresì, molti in virtù della loro natura che non ha limiti. E, così, molti in uno; uno in molti; e tutti
esistono simultaneamente.”
La stessa identità fra principio primo e il prodotto della sua attività si trova in un altro passo,
assai significativo:
Da Plotino, Enneadi, VI, 4, 14:
“Ecco: l’Essere basta di per sé anche per ogni singolo individuo e serra in sé tutte le anime e
tutti gli spiriti. Infatti, egli è uno ma d’altro canto pure infinito: è tutta a un tempo e reca in sé il
singolo, distinto, e, nondimeno, non-distinto per via di separazione. In quale altro senso, infatti,
l’Essere potrebbe dirsi infinito se non in questo che possiede tutto a un tempo, vale a dire ogni
vita e ogni anima e ogni spirito?"
L’uomo
Questo particolare carattere del mondo sensibile attribuisce una specifica valenza alla realtà
umana; l’uomo, dal punto di vista ontologico (ossia per quanto riguarda la costituzione del suo
essere) è un’individualità particolare; egli, infatti, appartiene alla realtà sensibile, poiché è corpo,
ma, contemporaneamente, pure alla realtà intelligibile, in quanto anima (vita psichica). Trovandosi
a metà fra i due mondi l’uomo può, per un verso, lasciarsi sedurre e attrarre dai falsi desideri
sensibili e, quindi, perdersi definitivamente; oppure, percependo in lui la realtà intelligibile e
l’unitarietà della sua anima, avvertire la nostalgia dell’Uno e desiderare di ricongiungersi ad esso.
Leggiamo un passo in cui Plotino descrive questo dilemma in cui si trova l’anima umana:
Da Plotino, Enneadi, VI, 9, 11:
“L’anima, è vero, non può mai e poi mai pervenire a un assoluto non-essere; ma, se va in
basso, scende al male e, così, verso il non-essere, ma non proprio il completo non-essere; invece,
correndo sulla via opposta, ella giunge non a un altro ma a se stessa…”
L’antropologia (il modo di concepire la natura umana) di Plotino è analoga a quella
platonica; l’uomo che si lascia attrarre dalla sensibilità è come un essere in balia degli eventi, non
padrone di se stesso; solamente se coglie la realtà sempre identica che è in lui –ossia quel nucleo
psichico cui tutte le passioni si riferiscono – riuscirà a dominarsi e a cogliere la verità dell’essere.
L’uomo ha così una grande responsabilità: egli può riscattare tutta la sfera sensibile e ricondurla alla
sua iniziale purezza, rendendola consapevole della sua origine.
Ecco allora che Plotino, dopo averci descritto la gerarchia dell’essere, che dall’Uno conduce
al mondo sensibile, ci ripropone un percorso, analogo ma inverso, di ritorno all’Uno, in seguito al
quale la molteplicità dispersa può riappropriarsi della verità e ritornare al principio originario.
Nella scuola di Plotino si trasmetteva soprattutto questo rigore disciplinare, coerentemente
perseguito dallo stesso maestro. La filosofia di Plotino – come la sua scuola – ha dunque una
finalità essenzialmente mistico-religiosa, laddove l’individuo cerca, rinunciando al mondo, di
ricongiungersi al principio divino che percepisce dentro di sé. L’uomo è in grado allora di
percepire nella sua interiorità il principio divino dell’Uno e, con una decisione radicale, decide di
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dedicare l’intera sua esistenza al tentativo di ricongiungersi con esso, attraverso una pratica ascetica
di rinuncia che lo condurrà all’assoluta verità e imperturbabilità.
Si evidenzia qui una ulteriore presa di distanza dallo spirito del platonismo: per Platone
il fine proprio della disciplina filosofica era l’attualizzazione in ambito politico della verità; nel mito
della caverna il filosofo, una volta contemplato il sole e giunto in possesso del vero, doveva
ritornare dagli uomini ancora prigionieri per liberarli dalle false illusioni dell’apparenza, mettendo a
rischio eventualmente anche la propria vita. Per Plotino invece la liberazione è un traguardo
assolutamente individuale e, una volta raggiuntolo, il saggio non avrà più alcuna preoccupazione
per la sfera mondana.
Come potete vedere dallo schema, anche il ritorno all’Uno è scandito in una serie di tappe,
ciascuna delle quali emancipa dalla situazione precedente ma è ancora insufficiente per realizzare
una liberazione assoluta. Al grado più basso – a rimarcare la distanza da Platone -, ci sono le virtù
civili, le quali chiedono di rinunciare alle proprie esigenze egoistiche e di realizzare il bene della
comunità; quindi, attraverso la musica – intesa in senso mistico a partire dalla tradizione pitagorica
–, si percepiscono le regole dell’armonia che dominano tutto l’universo. L’amore è l’attrazione
erotica verso l’Uno, l’energia che ci spinge a rinunciare al mondo per abbracciare la verità. La
filosofia ci mostra su un piano intellettuale (esattamente come stiamo facendo noi adesso!) come
tutto il mondo derivi dall’Uno e si riconosca, pur nella sua variabilità, in una struttura unitaria. Ma
comprendere questa verità non è ancora sufficiente: bisogna viverla, realizzarla; l’estasi rappresenta
questo momento conclusivo, in cui il soggetto perde coscienza della propria individualità e si
ricongiunge all’origine. Non si tratta di un’abolizione della propria natura soggettiva, ma di un
definitivo riconoscere che questa è lo stesso Uno in una sua successiva trasformazione, un divenire
coscienti della propria natura originaria.
Come potete notare, secondo Plotino la verità va colta non all’esterno della propria
individualità, nell’apparente mondo naturale, ma nella propria interiorità, in quella parte di noi
stessi – ignorata dai più – dove persiste l’impronta creatrice dell’Uno. La collocazione della verità
nell’esperienza psichica sarà una delle convinzioni plotiniane più apprezzate da Agostino.
Leggiamo il passo in cui si descrive l’estasi, il traguardo supremo della vita umana:
da Plotino, Enneadi, VI, 7, 34:
“… ecco che l’anima scorge in sé colui che è apparso di repente, poiché tra l’anima e il Dio
non c’è più nulla, né essi sono più due, oramai, ma sono, l’una e l’Altro, una cosa sola: certo, tu
non riusciresti a distinguerli mai più, finché Egli è presente; per farvene un’idea, pensate pure agli
amanti e gli amati di quaggiù, nella loro brama di fusione! …
Frattanto, anche tutto il resto di cui prima si dilettava – primato o potenza o ricchezza o
bellezza o sapere – tutto questo ella lo guarda con superiorità e lo dice, mentre non lo direbbe se
non avesse incontrato qualcosa ch’è più forte di tutto questo; né poi teme che le capiti qualcosa, dal
momento che sta con Lui o lo guarda, semplicemente; ma se pure il restante mondo che la cinge
venisse sterminato, tanto di guadagnato; anzi ella lo vuole a che sia unicamente presso di Lui; così
grande è il benessere a cui è pervenuta!”
Notate, all’inizio del passo, il riferimento alla logica numerica: l’estasi è il punto di arrivo
perché principio e creatura non sono più due (separati l’uno dall’altra), bensì una cosa sola, né è più
possibile distinguerli. Apprezzate, inoltre, quella splendido paragone con la passione degli amanti,
che si ricollega alla dottrina erotica di Platone ma che è verità ancora affermata dalla psicologia
moderna: la passione intellettuale, quando raggiunge i suoi vertici, non è altro che la sublimazione
della passione erotica, che ha sostituito il suo oggetto volubile con un altro intelligibile, in grado di
dare un piacere inesauribile.
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Nella seconda parte del passo è descritta l’indifferenza. raggiunta dal saggio che sperimenta
l’estasi, verso le preoccupazioni, ormai senza più significato, della sfera mondana.
Il problema del male
Concludiamo le nostre osservazioni sul neoplatonismo, accennando alla maniera originale in
cui Plotino risolve il problema del male; sarà tale cruciale questione a giustificare l’adesione di
Agostino alla metafisica neoplatonica.
Il male non può essere una caratteristica dell’Uno poiché questo, essendo perfezione, non ha
nulla in sé di negativo; la totalità dell’essere – l’abbiamo già detto – non può che coincidere con il
Bene. Il male in effetti – afferma Plotino – si configura essenzialmente come manchevolezza
dell’essere, come un’imperfezione esistente al suo interno. Prendiamo ad esempio tre esperienze
solitamente giudicate come mali: il dolore, la malattia e la morte. Tutte sono concepite in relazione
a una situazione di benessere: il dolore sconvolge uno stato di normalità in cui “si sta bene”, ossia si
gode del nostro essere che si manifesta e produce in conformità alla propria natura; la malattia è
l’alterazione della normalità del nostro esistere; la morte, infine, è l’aggressione più radicale alla
nostra esistenza, che porta addirittura alla scomparsa del nostro essere.
Come potete notare, quando l’essere si esplica serenamente in tutte le sue qualità positive,
non si ha il male; quindi l’Uno, essendo l’assoluta espressione dell’essere sempre eterno e
immutabile, non può contenere il male. Il male interviene solo là dove l’integrità dell’essere è
messa in forse, dove, cioè, l’essere non ha le caratteristiche della perfezione e, soprattutto
dell’immutabilità. Se l’essere non è eterno, infatti, esso dovrà mutare e la sua natura ideale, prima o
poi, dovrà corrompersi. Ecco dunque che il male appartiene solo al mondo sensibile (che è l’unico
non eterno e perciò condannato a mutare) e rappresenta l’imperfezione della natura che, non
essendo intelligibile, è condannata a dissolversi. Facciamo un altro esempio: noi siamo delle
creature sensibili e, quindi, condannate un giorno a dissolversi, a morire; il nostro essere manifesta
la sua positività quando esplica pienamente le sue caratteristiche, cioè quando siamo nel pieno del
vigore fisico e godiamo di un buon equilibrio psico-fisico. Noi però, proprio perché esseri sensibili
e mutabili, non possiamo mantenere in eterno questo stato di benessere; l’imperfezione del nostro
essere comporta l’alterazione del nostro benessere, l’aggressione del dolore, della malattia e della
morte. Il male, dunque, non è qualcosa di attivo che dall’esterno ci viene a prendere, ma è
connaturato all’imperfezione del nostro essere. Il male è ciò che ci manca per essere come
l’Uno, per essere perfetti.
Ma se il male è una mancanza, allora esso propriamente non esiste; esso non è un essere, ma
è il non essere che ci costituisce, ciò che ci manca per essere perfetti. Questa tesi possiamo
riassumerla con l’espressione “inconsistenza ontologica del male”: il male cioè non appartiene
all’essere, ma indica una mancanza che l’essere particolare della natura contiene. La malattia non ci
prende e tantomeno la morte; esse sono destini inevitabili per noi, sono necessarie in virtù della
precarietà che ci costituisce.
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