UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI TRIESTE Dipartimento di Scienze Mediche Chirurgiche e della Salute CORSO DI LAUREA IN TECNICHE DI RADIOLOGIA MEDICA, PER IMMAGINI E RADIOTERAPIA Presidente di Corso: Chiar.mo Prof. Emilio Quaia Tesi di Laurea STUDIO DI FATTIBILITÀ PER TOMO-MAMMOGRAFIA CLINICA CON LUCE DI SINCROTRONE Laureanda: Relatore: Laura Burin Dott. Luigi Rigon Anno Accademico 2013 - 2014 1 Ai miei genitori, Carlo e Daniela, ai miei fratelli, Luigi e Marta e al mio fidanzato Michele 2 Indice Introduzione............................................................................................... 5 1 2 La mammella....................................................................................... 7 1.1 Anatomia..................................................................................... 7 1.2 Patologia..................................................................................... 12 1.3 Tecniche diagnostiche................................................................. 1.3.1 Mammografia................................................................. 1.3.1.1 L'esame mammografico.................................. 1.3.1.2 Limiti della mammografia................................ 1.3.2 Ecografia........................................................................ 1.3.3 Risonanza Magnetica Nucleare..................................... 1.3.4 Tecniche di imaging in Medicina Nucleare..................... 1.3.4.1 Mammoscintigrafia.......................................... 1.3.4.2 Linfoscintigrafia per la ricerca del linfonodo sentinella......................................................... 1.3.4.3 PET e PET-CT................................................. 1.3.5 Biopsia e agoaspirato.................................................... 17 18 19 21 22 23 24 24 25 26 27 Dalla mammografia alla breast-CT..................................................... 28 2.1 Il mammografo........................................................................... 2.1.1 Generatore..................................................................... 2.1.2 Anodo e filtri................................................................... 2.1.3 AEC................................................................................ 2.1.4 Compressore................................................................. 2.1.5 Griglia antidiffusione...................................................... 2.1.6 Sistemi di rivelazione..................................................... 2.1.6.1 Rivelatore analogico....................................... 2.1.6.2 Rivelatori digitali.............................................. 28 29 30 31 32 33 33 33 34 2.2 Tomosintesi................................................................................ 38 2.3 Tomografia Computerizzata....................................................... 2.3.1 Principi fisici della Tomografia Computerizzata.............. 2.3.2 L'apparecchiatura TC..................................................... 2.3.3 Componenti.................................................................... 2.3.4 La ricostruzione delle immagini...................................... 2.3.5 La rappresentazione delle immagini.............................. 41 41 45 48 50 53 3 2.3.6 2.4 3 4 Considerazioni dosimetriche.......................................... 59 Breast-CT................................................................................... 2.4.1 Nascita ed evoluzione della tecnica.............................. 2.4.2 Stato dell'arte................................................................ 2.4.3 Primi studi clinici............................................................ 64 64 70 72 Il sincrotrone....................................................................................... 74 3.1 La luce di sincrotrone................................................................. 74 3.2 La beamline SYRMEP................................................................ 76 3.3 Mammografia con luce di sincrotrone: la prima sperimentazione clinica............................................... 3.3.1 Protocollo di acquisizione.............................................. 3.3.2 Parametri di esposizione................................................ 3.3.3 La tecnica del contrasto di fase..................................... 3.3.4 La dose ghiandolare media............................................ 3.3.5 Risultati.......................................................................... 79 80 82 83 84 86 Breast-CT con luce di sincrotrone.................................................... 88 4.1 Breast-CT con luce di sincrotrone: studi preliminari................... 88 4.2 Il progetto SYRMA-CT................................................................. 89 4.3 PIXIRAD..................................................................................... 90 4.4 Fantocci utilizzati......................................................................... 4.4.1 ELLE_cil......................................................................... 4.4.2 Triple Modality Biopsy Training Phantom....................... 4.4.3 Fantocci con tessuto biologico....................................... 4.5 Set-up......................................................................................... 96 4.5.1 Parametri di acquisizione............................................... 97 4.6 Ricostruzione delle immagini...................................................... 4.6.1 Metodi di ricostruzione................................................... 4.6.2 Parametri di ricostruzione.............................................. 4.6.3 Rielaborazione delle immagini....................................... 4.7 Considerazioni dosimetriche....................................................... 105 4.8 Valutazione delle immagini......................................................... 107 93 93 95 96 98 98 100 102 Conclusioni............................................................................................... 113 Bibliografia................................................................................................ 115 4 Introduzione Il cancro al seno, secondo i dati dell'AIRC (Associazione Italiana per la Ricerca sul Cancro), rappresenta la prima causa di morte per tumore nel sesso femminile, colpendo circa 1 donna su 8 nell'arco della vita [AIRC]. La diagnosi precoce è diventata pertanto un fattore molto importante nella prevenzione di tale patologia e ciò è dovuto sopratutto a tecniche di imaging quali la mammografia e l'ecografia, largamente diffuse sul territorio e accessibili a tutte le donne. Tuttavia, l'evoluzione tecnologica ha portato alcuni gruppi di ricerca a considerare anche altre metodiche di investigazione al fine di ottimizzare sensibilità e la specificità dell'indagine in modo da permettere una diagnosi il più possibile precisa e sicura. Si sono sviluppate così, nel corso degli ultimi 15 anni, prototipi di apparecchiature dedicate al seno che, sfruttando lo stesso principio di funzionamento delle moderne Tomografie Computerizzate (TC o CT, Computed Tomography), permettono un'imaging tridimensionale a dosi paragonabili a quelle di una qualsiasi mammografia eseguita in ospedale. Tale tecnica viene chiamata tomo-mammografia o, in inglese, Breast-CT (Breast Computed Tomography). Questo lavoro di tesi, svolto presso la facility ELETTRA di Trieste, propone uno studio di fattibilità per tomo-mammografia clinica con luce di sincrotrone. La tesi si inserisce nell'ambito del progetto di ricerca SYRMA-CT, finanziato per il biennio 2014-2015 dall'Istituto Nazionale di Fisica Nucleare, e si propone di esplorare i primi risultati di tale progetto con lo scopo di considerare un futuro possibile impiego della tecnica di tomo-mammografia su pazienti. Al fine di comprendere al meglio tutti gli aspetti su cui si fonda la tecnica di Breast-CT in generale, e quella con luce di sincrotrone in particolare, sono state impiegate alcune pagine introduttive allo scopo di avvicinarsi all'argomento con la piena conoscenza delle 5 nozioni fondamentali. Nel capitolo 1 viene descritta brevemente l'anatomia della mammella e la patologia ad essa associata, presentando poi una carrellata delle varie tecniche diagnostiche utilizzate per la diagnosi. Il capitolo 2 si presenta come un excursus tecnologico che va dalla mammografia convenzionale alla Breast-CT. In particolare, in primo luogo viene descritto il mammografo in tutte le sue componenti, poi si passa alla tecnica della tomosintesi per giungere alla Tomografia Computerizzata. La descrizione di quest'ultima, nei suoi principi fisici, nelle sue parti e nel suo funzionamento, fa da preambolo alla Breast-CT, della quale vengono quindi illustrate la nascita, lo stato dell'arte ed i primi studi clinici condotti. Nel capitolo 3 viene presnetato il sincrotrone ELETTRA di Trieste, con particolare riguardo alla linea di luce SYRMEP, dedicata agli studi di mammografia e tomografia alla mammella. Viene inoltre descritto il primo studio di mammografia eseguito su pazienti con luce di sincrotrone, ponendo attenzione in particolare alla dose erogata e ai risultati ottenuti. Il capitolo 4, infine, presenta il progetto SYRMA-CT di cui questa tesi fa parte, descrivendo i materiali e i metodi utilizzati per la raccolta dei primi dati e fornendo un'analisi preliminare delle immagini ottenute alla luce dei metodi di ricostruzione utilizzati e della dose impartita. 6 Capitolo 1 LA MAMMELLA In questo capitolo verranno brevemente descritte l'anatomia della mammella femminile e la patologia ad essa associata, il carcinoma mammario, fornendone una classificazione e i principali fattori di rischio. In seguito, verranno trattate le tecniche diagnostiche più comunemente usate per la diagnosi del tumore alla mammella a partire dalla mammografia e dall'ecografia, fino a giungere a metodiche più particolari e meno frequenti come la Risonanza Magnetica o le tecniche di Medicina Nucleare. Infine verrà data una breve spiegazione delle pratiche di biopsia e di agoaspirato. 1.1 ANATOMIA La mammella è un organo ghiandolare pari e simmetrico che occupa la regione anteriore del torace. È situato ai lati della linea mediana, localizzato tra il terzo e il sesto spazio intercostale. In larghezza si estende tra la linea parasternale e la linea ascellare media; caudalmente è delimitato dal solco mammario [http://medicinapertutti.altervista.org]. La mammella poggia in particolare su due strutture muscolari: una più esterna, il muscolo grande pettorale, ed una profonda, il muscolo piccolo pettorale. L'organo femminile è costituito principalmente da una 7 componente ghiandolare, che secerne il latte durante la sua fase funzionale, e da una componente adiposa, che separa la prima dal muscolo grande pettorale. Più nel dettaglio, il cosiddetto tessuto mammario è formato da: tessuto ghiandolare, tessuto fibroso e tessuto adiposo. Il parenchima ghiandolare è diviso in lobi che sono in numero di 15 - 20 circa; ciascun lobo è a sua volta suddiviso in tanti lobuli, dalle cui cellule, durante la fase funzionale, viene secreto il latte. Dai lobuli si dipartono i dotti lobulari che convergono a formare un dotto maggiore chiamato dotto galattoforo. I dotti galattofori, detti anche dotti lobari, convergono rapidamente verso il capezzolo e prima di sfociare indipendenti all’esterno, assumono una breve dilatazione allungata detta seno galattoforo [Martini, 2010]. Il tessuto fibroso è un tipo di tessuto connettivo che formando dei setti tra lobuli e lobi, costituisce l’impalcatura dell’organo. Queste bande di tessuto connettivo sono note come legamenti sospensori della mammella e hanno origine nel derma della cute sovrastante. Il tessuto adiposo riempie gli interstizi tra il tessuto fibroso e ghiandolare, ma soprattutto si sviluppa alla periferia della mammella, nel sottocute e posteriormente (tra muscolo pettorale e parenchima) concorrendo prevalentemente a dare la forma e dimensione all’organo. La ghiandola mammaria (figura 1.1), ha forma discoidale con superficie anteriore convessa e superficie posteriore piatta. La mammella termina anteriormente con una superficie pigmentata rotondeggiante, l’areola, di colorito rosa scuro e di aspetto granulare per la presenza delle grosse ghiandole sebacee poste a livello del derma. Nella porzione centrale dell’areola si innalza una sporgenza conica chiamata capezzolo, che rappresenta il punto in cui i dotti ghiandolari confluiscono per aprirsi alla superficie 8 corporea. Le dimensioni dell’areola sono variabili, con un diametro medio di 3 - 5 cm [http://medicinapertutti.altervista.org]. Figura 1.1 - Rappresentazione schematica della ghiandola mammaria. La vascolarizzazione della mammella è duplice. Infatti ci sono: una vascolarizzazione superficiale destinata alla cute, e una vascolarizzazione profonda destinata alla ghiandola mammaria. Le arterie che portano il sangue all'organo sono: rami dell'arteria ascellare e l'arteria mammaria interna. Più in particolare i rami dell’arteria ascellare portano sangue alla porzione supero-laterale della ghiandola, diventando sempre più superficiali e avvicinandosi al capezzolo; l’arteria mammaria interna, ramo della succlavia, rifornisce l’estremità mediale con le corrispondenti arterie perforanti che attraversano i muscoli intercostali ed il muscolo grande pettorale. Le vene accompagnano le rispettive arterie e assicurano in senso inverso, dalla mammella verso i tronchi maggiori, il deflusso del sangue. I tre gruppi di vene profonde che drenano la mammella sono: le vene intercostali, che attraversano la faccia posteriore 9 dell'organo si ramificano per poi entrare nella vena azygos e terminare nella vena cava superiore, la vena ascellare, che ha diverse tributarie drenanti la parete toracica, i muscoli pettorali e la mammella e le vene perforanti della mammaria interna che rappresentano il plesso venoso più cospicuo drenante la mammella [Vaira, http://www.uniss.it] L’innervazione è assicurata dai nervi intercostali, dal nervo toracico e da rami derivanti dal plesso cervicale e brachiale. I vasi linfatici della regione mammaria costituiscono una rete a larghe maglie che avvolge il corpo ghiandolare e presenta diversi linfonodi intercalati. Come si può notare dalla figura 1.2, la rete linfatica della mammella è riccamente sviluppata; sono presenti vaste comunicazioni tra i linfatici superficiali della cute, che costituiscono una rete linfatica cutanea o superficiale, e il sistema più profondo che drena il parenchima mammario. La rete cutanea appare più fitta nella zona areolare, da dove i vasi linfatici superficiali si dirigono verso la periferia ed in profondità a connettersi con la rete periareolare e subdermica [Martini, 2010]. Figura 1.2 - Schematizzazione del drenaggio linfatico mammario. Si possono distinguere vasi linfatici laterali, mediali e retromammari. Dal plesso subdermico si dipartono i vasi linfatici laterali che seguono il margine inferiore del muscolo grande pettorale e raggiungono i linfonodi ascellari. I vasi linfatici mediali, 10 attraversato il muscolo grande pettorale, scorrono negli spazi intercostali sino a terminare nei linfonodi della catena mammaria interna. I linfatici retromammari derivano dalla parete profonda e posteriore della ghiandola, decorrono sotto la fascia del gran pettorale e si portano fino al gruppo sottoclavicolare dei linfonodi ascellari. I linfonodi dell’ascella vengono suddivisi in tre gruppi a seconda del loro rapporto con il muscolo piccolo pettorale: primo livello (ascella inferiore), lateralmente all’inserzione del muscolo pettorale; secondo livello (ascella media), tra i margini mediale e laterale; terzo livello (apice dell'ascella), medialmente al muscolo [Wikipedia]. La mammella femminile può essere idealmente suddivisa in quattro quadranti, costituiti da due linee perpendicolari che si intersecano a livello del capezzolo. Con riferimento alla figura 1.3 possiamo individuare il quadrante supero-esterno (QSE), il quadrante supero-interno (QSI), il quadrante infero-interno (QII) e il quadrante infero-esterno (QIE) Questa suddivisione facilita la localizzazione delle eventuali lesioni. Figura 1.3 - La mammella viene divisa in quattro quadranti da due linee perpendicolari passanti per il capezzolo. Il volume, il grado di sviluppo e la forma delle mammelle variano in rapporto al momento funzionale e all’età. Tale variabilità è legata principalmente alla diversa quantità di tessuto adiposo che circonda il parenchima ghiandolare. 11 La percentuale di tessuto ghiandolare diminuisce con l’avanzare dell’età, infatti, nella donna giovane si osserva di norma un addensamento diffuso del tessuto ghiandolare (seno denso) mentre in quella anziana è comune la quasi totale sostituzione del tessuto ghiandolare con il tessuto adiposo (seno adiposo) [http://www.senologia.net]. 1.2 PATOLOGIA Il carcinoma mammario rappresenta la lesione più importante di tale organo ed è una delle neoplasie più diffuse nel mondo con un’incidenza elevata nei paesi nord-americani e nell’Europa nordoccidentale [Fondazione ANT, 2009]. Il carcinoma della mammella, secondo i dati AIRTUM (Associazione Italiana Registri Tumori) di uno studio condotto nel 2006, occupa tra le donne il primo posto in termini di frequenza, rappresentando il 29% di tutte le nuove diagnosi tumorali; inoltre, come riportato in figura 1.4, non solo è il tumore più frequente, ma è anche il più frequente in ogni classe di età. Figura 1.4 - Grafico rappresentate i dati di incidenza e mortalità specifici per ogni classe di età. 12 Il numero dei casi, infatti, è aumentato in modo significativo a partire dagli anni Settanta, con il cambiamento dello stile di vita nelle aree geografiche sopra citate e con l'introduzione della mammografia che ha permesso di scoprire tumori che prima non erano evidenti. I tassi di mortalità, al contrario, sono in costante riduzione grazie a metodi di diagnosi precoce, tecniche diagnostiche avanzate e alla miglior risposta alla terapia di questi tumori [AIRC]. Nel caso di tumore alla mammella, l'American Cancer Society ha pubblicato le linee guida per lo screening per le donne con rischio di cancro al seno. Lo screening prevede l’esecuzione periodica, con cadenza biennale, dell’esame mammografico per le donne in età peri o post-menopausale [American Cancer Society]. La causa del tumore della mammella è sconosciuta, tuttavia sono stati identificati numerosi fattori di rischio che possono più o meno incidere sulla comparsa della patologia. Di seguito vengono riportati i fattori più importanti: ➢ Pregressa prognosi di carcinoma mammario. Le donne che hanno già avuto una diagnosi di tumore al seno hanno un rischio maggiore di poter sviluppare un nuovo tumore nella mammella contro laterale. ➢ Familiarità e genetica. Una storia familiare di carcinoma mammario (in particolar modo riguardante parenti di primo grado), determina un aumento notevole del rischio di ammalarsi rispetto alla popolazione generale. È possibile, infatti, ereditare alcuni geni particolari, i cui nomi tecnici sono BRCA1 e BRCA2, la cui mutazione predispone allo sviluppo di questo tipo di tumore. ➢ Età. Più del 75% dei casi di tumore al seno colpisce donne sopra i 13 50 anni [AIRC], quindi donne attorno al periodo della menopausa, mentre più raramente la malattia compare al di sotto dei 40 anni (4-5% di probabilità). ➢ Fattori ormonali. Gli estrogeni giocano un ruolo fondamentale nello sviluppo e nella progressione del cancro alla mammella, infatti più elevati sono i livelli di estrogeni circolanti, maggiore è la durata di esposizione dell’epitelio ghiandolare mammario a tali ormoni e maggiore è il rischio di sviluppare la neoplasia. Per molto tempo si è ritenuto che gli ormoni progestinici fossero un fattore protettivo per lo sviluppo della neoplasia, ma studi più recenti hanno dimostrato che anche questi ormoni costituiscono un fattore di rischio [Chlebowski, 2003]. Per quanto riguarda l’utilizzo dei contraccettivi orali, negli ultimi anni il rischio si è ridotto grazie alle nuove formulazioni a basso contenuto di estrogeni, tuttavia l’incremento del rischio sembra essere maggiore per assunzioni prolungate in età molto giovane. Lo stesso dicasi per la terapia ormonale sostitutiva in menopausa, spesso prescritta per controllare i sintomi della menopausa; gli studi hanno dimostrato che l’uso di tale terapia ormonale è associato ad un aumento del rischio di insorgenza del cancro al seno [Fondazione ANT, 2009]. ➢ Fattori riproduttivi e mestruali. La nulliparità è considerata una fattore di rischio [AIOM, 2013]. Tuttavia, anche nelle donne che hanno figli ci sono dei fattori da considerare, come il numero di figli e l'età in cui sono stati partoriti. Il carcinoma mammario è inversamente correlato con l’età della prima gravidanza e con il numero di parti a termine e ciò può essere spiegato dalla produzione di ormoni con effetti anti-estrogeni che fungono da difesa. Infatti, Il tumore al seno è meno frequente nelle donne che hanno il 14 primo figlio prima dei 21 anni, mentre avere figli dopo i 30 anni aumenta il rischio di avere la malattia. Anche un menarca precoce e una menopausa tardiva fanno crescere il rischio di sviluppare il carcinoma perché aumenta il tempo per il quale l’epitelio ghiandolare della mammella è esposto a estrogeni. ➢ Fattori antropometrici. Un noto fattore di rischio per il cancro della mammella è l’obesità e ciò è dovuto al fatto che il tessuto adiposo è la maggior fonte di estrogeni nella donna in post-menopausa [Andreoletti, 2005]. Il tumore al seno può essere classificato in due modi: a partire dall'istologia (categoria di cellule coinvolte) o a partire dal grado di infiltrazione (quanto il tumore si espande nel tessuto circostante). Per quanto riguarda la classificazione istologica, si possono distinguere due tipi di tumori: il carcinoma duttale e il carcinoma lobulare [La Repubblica, 2012]. Il carcinoma duttale coinvolge le cellule dei dotti lattiferi, che portano il latte dal lobulo al capezzolo; il carcinoma lobulare coinvolge le cellule dei lobuli, ghiandole deputate alla produzione del latte. Per quanto riguarda l'espansione della malattia nel tessuto circostante, le tipologie di cancro al seno sono classificate ancora una volta in due categorie: carcinoma in situ e carcinoma invasivo. Il primo, da come suggerisce il termine latino “in situ” è un cancro che rimane confinato nell'area in cui sorge e quindi non si espande; il secondo, invece, ha la capacità di diffondere in altre regioni del corpo e quindi di provocare altre neoplasie distanti dall'origine. In definitiva, da queste due classificazioni, possiamo distinguere quattro tipi di cancri al seno: • carcinoma duttale in situ (CDIS): è una forma iniziale di 15 cancro al seno, limitata ai dotti lattiferi, che può essere rilevata tramite una mammografia. Solitamente produce un nodulo. Se non viene curata può diventare invasiva; • il carcinoma lobulare in situ (CLIS): è una forma di cancro che coinvolge i lobuli. Sebbene questo tipo di tumore non passi alla forma invasiva, è considerato un segnale di aumentato rischio di formare tumori in ambedue i seni. Il carcinoma lobulare in situ è più comunemente riscontrato nella periodo pre-menopausa, nelle donne di età compresa tra 40 e 50 anni. Questo tipo di tumore solitamente non produce noduli e spesso, a differenza del CDIS, non viene rilevato con una mammografia. Tuttavia può essere trattabile con terapia a base di ormoni [http://senologiadiagnostica.it]; • il carcinoma duttale infiltrante (IDC): è un tipo comune di cancro mammario, responsabile del 70-80% dei casi [AIOM, 2013]. È una forma di cancro che ha la maggiore insorgenza nelle donne sopra i 40 anni. Si sviluppa come un nodulo duro a bordi irregolari che compare come massa sulla mammografia e si espande col passare del tempo sul tessuto circostante. Può arrivare a diffondere, attraverso i vasi linfatici (via linfatica) o sanguigni (via ematica), in altre aree del corpo, come il sistema scheletrico, il cervello, il fegato e i polmoni; • il carcinoma lobulare infiltrante (ILC): è un tumore che supera la parete del lobulo. ILC rappresenta il 10-15% di tutti i cancri del seno [AIRC]. Può colpire contemporaneamente entrambi i seni o comparire in più punti nello stesso seno. Come il IDC ha la capacità di diffondere e raggiungere altre zone dell'organismo. 16 Il segno clinico che porta più frequentemente alla diagnosi del carcinoma della mammella è un nodulo duro, non dolente, con margini irregolari. Altri segni clinici importanti, utili per la diagnosi sono anche la modifica della forma e dell’aspetto (retrazione) del capezzolo, l'ispessimento della mammella, l'arrossamento o irritazione della cute, le secrezioni siero-ematiche dal capezzolo (che possono essere il primo segno della neoplasia), e la presenza di adenopatie ascellari, che sono associate però ad una cattiva prognosi. Se invece il carcinoma si associa ad un'infiammazione della pelle si parla di carcinoma mammario infiammatorio. 1.3 TECNICHE DIAGNOSTICHE Nel tumore alla mammella, come in ogni altra neoplasia, la diagnosi precoce gioca un ruolo fondamentale per determinare le possibilità di guarigione e la prognosi della paziente. Alcuni studi ritengono che la crescita tumorale, infatti, abbia un andamento esponenziale iniziale: man mano che il tumore aumenta, aumenta anche la sua velocità di crescita [IMPACT Working Group, 2011]. Le tecniche per determinare la diagnosi di cancro al seno sono principalmente due: la mammografia e l'ecografia. A queste due tecniche si aggiungono spesso, in caso di diagnosi dubbia o per determinare in maniera più precisa il quadro clinico, la Risonanza Magnetica Nucleare, la mammoscintigrafia, la linfoscintigrafia, la PET e/o PET-TC, la biopsia e/o l'agoaspirato. Altre due tecniche diagnostiche, poco diffuse, ma innovative sono la tomosintesi e la Breast CT, tecniche che verranno approfondite nel capitolo 2. Non di minor importanza, infine, sono le visite senologiche periodiche (almeno una volta l'anno indipendentemente dall'età) e l'autopalpazione, che, se fatta correttamente (nello stesso periodo ormonale, una volta al mese) può essere uno strumento utile per la 17 prevenzione e la diagnosi precoce. 1.3.1 Mammografia La mammografia è attualmente il metodo più efficace per la diagnosi precoce. L'osservatorio nazionale di screening, dipendente dal Ministero, suggerisce una mammografia ogni due anni per quelle donne di età compresa tra i 50 e i 69 anni. La cadenza può tuttavia variare a seconda delle considerazioni del medico sulla storia personale di ogni paziente. Infatti, nelle donne che hanno avuto una parente di primo grado (madre o sorella) malata, si comincia già attorno ai 40 anni di età a eseguire controlli mammografici periodici [Andreoletti, 2005]. La mammografia è una tecnica radiologica che consente di rilevare precocemente lesioni mammarie. Lo studio accurato delle mammelle permette di individuare, infatti, sia anomalie di piccole dimensioni, come le microcalcificazioni, sia masse voluminose. La mammella, essendo formata da tessuti molli di densità simili tra loro, non è studiabile con apparecchi radiologici tradizionali, ma necessita di appositi mammografi che hanno caratteristiche funzionali e costruttive particolari al fine di ottenere un'immagine dell'organo diagnostica e di qualità. È un esame semplice e di rapida esecuzione che utilizza però radiazioni ionizzanti e per questo comporta un certo rischio correlato alla dose alla paziente. Inoltre essa provoca un lieve dolore temporaneo dovuto alla compressione del seno durante la sua esecuzione. Negli ultimi decenni lo sviluppo tecnologico delle unità mammografiche è stato molto intenso. L'utilizzo di soluzioni costruttive sempre più sofisticate ed affidabili hanno permesso il 18 miglioramento delle apparecchiature utilizzate e della tecnica di esecuzione dell’esame al fine di garantire una mammografia di elevata qualità [Passariello, 2012]. I dettagli anatomici di maggior interesse clinico sono costituiti da noduli di dimensioni variabili e a basso contrasto intrinseco, e microcalcificazioni aventi, invece, un alto contrasto, ma dimensioni estremamente piccole, dell'ordine di poche centinaia di micron. Infatti, le differenze di assorbimento dei raggi X tra tessuto adiposo, parenchima ghiandolare e tessuto fibroso, sono molto piccole: i coefficienti di attenuazione della radiazione di ogni tessuto, sono molto vicini tra loro e per questo motivo un requisito essenziale per ottenere sensibilità e specificità elevate è la produzione di immagini radiografiche ad alta risoluzione spaziale e alto contrasto. La risoluzione spaziale è la possibilità di percepire come separati due punti distinti e si misura in paia di linee per millimetro (pl/mm); la risoluzione di contrasto è la capacità di registrare le differenze di assorbimento fotonico, sotto forma di tonalità diverse di una scala di grigi [Passariello, 2012]. Finora l’esame che soddisfa maggiormente le richieste di alta risoluzione di contrasto e spaziale è quello mammografico, che viene eseguito mediante un’apparecchiatura appositamente progettata detta mammografo e il cui funzionamento verrà trattato più dettagliatamente in seguito. 1.3.1.1 L'esame mammografico L'esame mammografico viene generalmente eseguito in stazione eretta, a torace scoperto, appoggiando un seno alla volta su un apposito ripiano radiotrasparente ad altezza regolabile. Per la corretta esecuzione del mammogramma il tecnico posiziona la mammella sul piano orizzontale del mammografo, applicando una graduale compressione con l'apposito dispositivo azionato a pedale 19 [Passariello, 2012]. Le proiezioni fondamentali sono due, eseguite su entrambe le mammelle (figura 1.5): • Proiezione cranio-caudale o assiale (a 0°). In tale proiezione lo scopo è quello di riuscire a privilegiare la visualizzazione dei quadranti mediali, perchè sono quelli che con più difficoltà vengono rappresentati nelle altre proiezioni. Come criterio di correttezza è importante visualizzare adeguatamente il tessuto adiposo retro-ghiandolare sino al muscolo grande pettorale. Questa proiezione permette di vedere la maggior parte dell’organo, soprattutto le regioni areolare e centrale. • Proiezione obliqua medio-laterale (a 45°). In questa proiezione vengono svolti molto bene il quadrante superoesterno, che è frequente sede di processi patologici, e i piani profondi. Il principale criterio di correttezza per questa proiezione è la visualizzazione del margine del muscolo pettorale, ma anche un'adeguata rappresentazione della regione ascellare e dell'angolo sotto-mammario (che deve risultare ben disteso) sono elementi importanti nell'immagine mammografica. Oltre a queste due proiezioni, solitamente sufficienti in un esame mammografico, se ne può aggiungere una terza: la proiezione laterale (a 90°). L'impiego di questa proiezione è indicato in tutti i casi di approfondimento diagnostico e sarebbe utile anche in tutte le pazienti che si sottopongono alla mammografia per la prima volta o che sono state mastectomizzate (come terza proiezione sulla mammella residua) [Mazzuccato, 2009]. 20 Figura 1.5 - Tipiche proiezioni mammografiche cranio-caudale e obliqua. In caso di approfondimento diagnostico sono poi possibili ulteriori proiezioni con diversa incidenza o compressione mirata. Per esempio, per esaminare particolari porzioni della mammella, si può ricorrere all’ingrandimento diretto, con cui si ottiene un’immagine ingrandita riducendo la distanza tra la mammella e la sorgente di radiazioni (avvicinando la mammella al tubo radiogeno). Oppure, per determinare se una lesione è reale o un artefatto, si può ricorrere alla compressione mirata, con un compressore di piccole dimensioni posizionato sopra la zona sospetta, che distende meglio le componenti fibroghiandolari della mammella [Mazzuccato, 2009]. 1.3.1.2 Limiti della mammografia La mammografia è l'esame più efficace, attualmente disponibile, per diagnosticare precocemente il tumore alla mammella ed è utilizzata come unico test di 1° livello nei programmi di screening. Sebbene questi programmi abbiano dimostrato che la diagnosi in tempo utile permette di ridurre la mortalità, le casistiche più recenti riportano che il 10 - 20% dei tumori non vengono evidenziati (“falsi negativi”) e che per circa il 5 - 10% dei casi è necessario un approfondimento diagnostico, il quale spesso non conferma la 21 diagnosi di positività (“falsi positivi”) [ASL Roma C, 2011]. Gli errori diagnostici possono essere legati alla qualità della tecnica, ma anche all'età della paziente: dopo i 50 anni, infatti, con l'aumentare dell'età, il test diventa sempre più sensibile e più specifico, e diminuiscono così sia i “falsi negativi, sia i “falsi positivi”. Le cause di una mancata diagnosi possono essere varie, ma le più frequenti sono: tumore troppo piccolo o poco definibile a causa di un basso contrasto nella regione indagata, o struttura della ghiandola mammaria troppo densa, come avviene per esempio nelle donne giovani o in quelle che fanno terapia ormonale sostitutiva della menopausa. 1.3.2 Ecografia L’ecografia è un tipo di indagine, che come la mammografia, è ritenuto fondamentale per lo studio della patologia mammaria. Pur essendo infatti complessivamente meno specifico della mammografia, ha il vantaggio di essere particolarmente sensibile proprio nelle mammelle ad alto contenuto di tessuto ghiandolare, in cui la mammografia vede ridotto il proprio potere diagnostico. L'ecografia risulta quindi l'indagine di prima istanza nei seni giovanili (donne di età inferiore a i 35 anni) e utile completamento della mammografia in tutti gli altri casi di seno “mammograficamente denso” o di riscontro della patologia all'indagine mammografica [Mazzuccato, 2009]. Altro vantaggio dell'ecografia è l'utilizzo di ultrasuoni che a differenza delle radiazioni ionizzanti sono innocue; inoltre non è invasivo ed è di facile esecuzione per il medico radiologo. Una differenza importante tra ecografia e mammografia sta nella capacità da parte della prima di fornire informazioni morfo-strutturali della ghiandola mammaria e in particolare di formulare una precisa diagnosi differenziale tra lesioni cistiche e solide della mammella; 22 per contro, la mammografia è in grado di evidenziare un maggior numero di lesioni [http://www.radiologyinfo.org/]. L'esame viene eseguito a paziente supina su un lettino, con l'arto superiore omolaterale abdotto sopra la testa. L'operatore, tramite una sonda a ultrasuoni, deve esercitare una leggera pressione ed eseguire una serie di scansioni su vari piani dello spazio (orizzontale e verticale) e scansioni radiali (dal capezzolo verso la periferia). 1.3.3 Risonanza Magnetica Nucleare La Risonanza Magnetica della mammella si sta sviluppando sempre di più nel corso degli anni. Essa non è in grado di sostituire la mammografia e l'ecografia, ma può essere utilizzata come importante approfondimento per numerose situazioni, e in alcune particolati indicazioni può essere considerata come indagine di prima istanza [Mazzuccato, 2009]. La RM mammaria viene impiegata come procedura di supporto a quelle già descritte in precedenza, sia perché non utilizza radiazioni ionizzanti, e quindi non rilascia dose alla paziente, sia perché fornisce un’immagine tridimensionale. Le principali indicazioni all'esame sono: il monitoraggio di pazienti con alto rischio di tumore al seno (generalmente per familiarità), la stadiazione preoperatoria del carcinoma, lo studio di alterazioni dubbie in pazienti recentemente operate (diagnosi differenziale fra esiti cicatriziali dopo chirurgia conservativa e recidive), il sospetto di infiltrazione della parete toracica, il controllo dell’efficacia della chemioterapia neoadiuvante per cancro al seno localmente avanzato e lo studio delle protesi (sia per valutarne l'integrità sia per ricercare recidive) [AIRC]. Attualmente la RM viene eseguita con paziente prona, mediante l’utilizzo di una bobina per il seno bilaterale che presenta 23 un’apertura nella quale accogliere le mammelle senza compressione. Inoltre l’esame viene eseguito quasi sempre con mezzo di contrasto al Gadolinio che sfrutta l’ipervascolarizzazione del tumore [Mazzuccato, 2009]. 1.3.4 Tecniche di imaging in Medicina Nucleare Le indagini di Medicina Nucleare si differenziano dalle tecniche di Radiologia Diagnostica per il fatto che si basano su caratteristiche di evidenza o differenziazione di attività funzionali. Si possono considerare pertanto indicatori di funzione o attività metabolica di tessuti o organi, mentre raramente hanno riferimenti puramente anatomici. 1.3.4.1 Mammoscintigrafia La mammoscintigrafia è una tecnica invasiva che prevede la somministrazione al paziente, per via endovenosa, di una piccola quantità di radiofarmaco, cioè un farmaco contenente un radionuclide che emette radiazione gamma a una data energia. In particolare in questo esame si usa il 99mTc-Sestamibi (o la 99mTcTetrafosmina che è un suo analogo), che viene captato dalle neoplasie sulla base di due fattori principali: l'aumentata perfusione tissutale nel tumore e la tendenza a fissarsi nei mitocondri, che sono molto numerosi nelle cellule tumorali [Volterrani, 2010]. L'energia del radioisotopo in esso contenuto (il 99mTc), viene rilevata da un’apparecchiatura chiamata Gamma Camera e l'elettronica dell'apparecchiatura permette la ricostruzione delle immagini planari. La visualizzazione delle lesioni è condizionata dalle dimensioni, dal grado di crescita tumorale e relativo fabbisogno energetico, dal grado di differenziazione e dalle condizioni di vascolarizzazione. Ne consegue che la mammoscintigrafia ha 24 sensibilità e specificità minori rispetto alla mammografia, pertanto l'utilizzo di tale indagine diagnostica va attualmente limitato solo a casi selezionati dopo uno studio integrato con le altre metodiche di radiodiagnostica che non sono in grado di risolvere il dubbio benignità/malignità di lesioni primarie [Mazzuccato, 2009]. 1.3.4.2 Linfoscintigrafia per la ricerca del linfonodo sentinella Il linfonodo sentinella è il primo linfonodo, o gruppo di linfonodi, che riceve la linfa direttamente dal tumore e la sua biopsia rappresenta un'efficace tecnica nella valutazione delle condizioni linfonodali ascellari. Numerosi studi, infatti, dimostrano come analizzando 21. questo linfonodo, che drena la linfa proveniente dall'area della sede del tumore primitivo, si possa ragionevolmente prevedere la presenza o assenza di metastasi nei restanti linfonodi [Mazzuccato, 2009]. La sua localizzazione, pertanto, è estremamente importante e viene eseguita tramite la linfoscintigrafia. La linfoscintigrafia si basa sull'uso di radiofarmaci ad attività linfopessica quali l'albumina umana colloidale marcata con 99mTc. Il radiotracciante viene iniettato in sede peritumorale e, grazie al diametro delle particelle colloidali (20 – 80 nm), migra dalla sede di iniezione lungo i dotti linfatici e raggiunge il linfonodo sentinella [AOUTS]. La ricerca e individuazione del linfonodo sentinella nasce dall’esigenza di evitare ogni volta che ve ne è la possibilità, interventi chirurgici eccessivamente demolitivi (tipicamente lo svuotamento ascellare, cioè l'asportazione di tutti i linfonodi ascellari) che causano complicazioni immediate e a distanza, quali linfedema, parestesie e limitazioni funzionali [Volterrani, 2010]. 25 1.3.4.3 PET e PET-TC La tomografia a emissione di positroni (PET) è una tecnica di imaging che fornisce immagini sfruttando la distribuzione di isotopi emittenti positroni contenuti nel radiofarmaco iniettato. Questa tecnica, a differenza delle altre metodiche già viste, si distingue per la sua capacità di studiare le caratteristiche funzionali del cancro mammario, come flusso ematico, metabolismo del glucosio e stato dei recettori. La PET per il carcinoma mammario è stata approvata negli USA sin dal 2003, con tre specifiche indicazioni: stadiazione pre-operatoria (con riferimento anche ai linfonodi ascellari), diagnosi di recidiva loco-regionale e/o delle metastasi a distanza in fase di ristadiazionie e valutazione della risposta alla terapia [Volterrani, 2010]. Il radiofarmaco utilizzato nella PET della mammella è il Fluorodesossi-glucosio marcato con 18F (FDG-18F), che è un tracciante che permette di valutare il metabolismo glucidico, che nelle cellule è aumentato, andando a determinare un maggiore accumulo dello stesso in sede tumorale. La sensibilità di questo esame è molto elevata, tuttavia presenta un limite legato alla risoluzione spaziale che rende difficoltoso lo studio delle lesioni inferiori al cm; inoltre i processi neoplastici ben differenziati possono dar luogo a falsi negativi, in quanto il loro metabolismo non è particolarmente aumentato. Per una miglior qualità delle immagini PET è possibile abbinare le immagini funzionali della PET le immagini morfologiche ottenute con una TC (Tomografia Computerizzata), che quindi non solo aiuta la localizzazione delle lesioni dando riferimenti anatomici, ma corregge anche l'attenuazione delle radiazioni causata dal corpo del paziente [Passariello, 2012]. 26 1.3.5 Biopsia e agoaspirato Nel caso in cui la mammografia e/o l’ecografia non siano in grado di formulare con certezza la diagnosi riguardo la natura di un reperto dubbio o sospetto, si rende necessario ricorrere ad un prelievo di cellule o di un frammento di tessuto mammario, con successiva analisi anatomopatologica del materiale prelevato. Le metodiche con cui si eseguono questi prelievi sono principalmente la biopsia e l'agoaspirato e si distinguono a seconda della grandezza dell'ago utilizzato. La prima, chiamata anche NCB (Needle Core Biopsy) consiste nella raccolta di frustoli di tessuto, tramite un ago di grosso calibro, che verranno in seguito analizzati istologicamente, permettendo la conoscenza della sua eventuale invasività e parametri relativi alla sua aggressività. La procedura prevede alcuni accorgimenti particolari come l'utilizzo di un anestetico locale, un'incisione cutanea con un bisturi per facilitare il passaggio dell'ago, la compressione manuale per 10-15 min dopo l'estrazione dell'ago e la radiografia dei campioni. Al giorno d'oggi sono disponibili diverse metodologie di NCB, tra cui: prelievi multipli con aghi a ghigliottina di calibro compreso tra i 14 e 20 G (Gauge) e pistola automatica o semiautomatica e prelievo con aspirazione (Mammotome o Vacuflash). Generalmente la biopsia viene eseguita sotto guida ecografica ma può essere eseguita anche sotto guida mammografica [Mazzuccato, 2009]. L'agoaspirato, chiamato anche FNAC (Fine Needle Aspiration Citology), è eseguito invece con un ago sottile, dal calibro compreso tra 21 e 27 G, montato su una siringa apposita e consiste nel prelievo di alcune cellule che verranno analizzate con un esame citologico. A differenza del NCB, questa metodica meno indaginosa, indolore e non richiede accorgimenti particolari [http://medicalgroupdiagnostica.it]. 27 Capitolo 2 DALLA MAMMOGRAFIA ALLA BREAST-CT In questo capitolo verrà evidenziata l'evoluzione tecnologica che sta alla base delle tecniche di imaging applicate alla mammella. In primo luogo verrà illustrato il mammografo, descrivendone i componenti e in particolar modo i sistemi di formazione dell'immagine con particolare riguardo al passaggio dall'analogico al digitale. In seguito verrà brevemente descritta la tecnica di tomosintesi digitale; si giugerà quindi all'approfondimento di numerosi aspetti della tomografia computerizzata (o TC, in inglese Computed Tomography, CT), soprattutto quelli riguardanti la formazione delle immagini. Infine verrà illustrata la breast-CT e gli studi eseguiti con questa recente tecnica. 2.1 IL MAMMOGRAFO Il mammografo è un’apparecchiatura a raggi X dedicata in cui l’immagine viene catturata da una pellicola radiografica o da rivelatori digitali. Le apparecchiature per mammografia, la maggior parte ormai digitali e di cui un esempio è illustrato in figura 2.1, sono costituite da [Passariello, 2012]: • un generatore; • un tubo radiogeno con anodo rotante generalmente in Molibdeno (Mo) o Rodio (Rh); 28 • filtri in Mo o Rh accoppiati all'anodo; • un dispositivo di controllo (Automatic Exposure Control); • un dispositivo per la compressione della mammella; • una griglia antidiffusione; • un rivelatore. automatico dell’esposizione Figura 2.1 - Mammografo GE Senographe DS. Nel seguito viene fornita una descrizione dei componenti e delle loro principali funzioni all’interno dell’apparecchiatura radiologica. 2.1.1. Generatore Il generatore più utilizzato e con le migliori prestazioni è un generatore ad alta frequenza ed a potenziale costante. Questo tipo di generatori consente un basso tempo di esposizione con conseguente minore probabilità di avere nell'immagine artefatti da movimento e una migliore tollerabilità del dolore dovuto alla compressione da parte della paziente. Le differenze di potenziale 29 che vengono utilizzate per la produzione della radiazione vanno da 20 a 35 kV e possono essere impostati a step di 1 kV. La corrente anodica, invece, può essere regolata da 91 mA fino a 120 mA, con fuoco fine, e da 21 mA a 42 mA con il fuoco ultrafine. Le dimensione dei due fuochi, fine ed ultrafine, devono essere le più piccole possibili per aumentare la nitidezza dell'immagine e ridurre la sfocature dell'immagine. Le loro dimensioni, infatti, sono di 0,3 x 0,3 mm (fine) e di 0,1 x 0,1 mm (ultrafine). Tali dimensioni sono rese possibili anche i virtù delle elevate velocità di rotazione raggiunte dall'anodo (fino a 10000 giri/min circa), che hanno consentito correnti elevate nel tubo e di conseguenza, tempi di esposizione ridotti [Passariello 2012]. 2.1.2. Anodo e filtri Essendo la mammella un organo costituito da tessuti molli, risulta estremamente importante ottimizzare la qualità della radiazione al fine di evidenziare le diversità di contrasto tra le varie strutture. Un ruolo fondamentale a questo scopo viene giocato dall'anodo. I mammografi utilizzano due tipi diversi di anodo, uno di Molibdeno (Mo) e uno di Rodio (Rh), in combinazione con due diversi tipi di filtro, anch'essi in Molibdeno o Rodio. Questi materiali, per l'anodo e per la filtrazione, influenzano sia il contrasto dell'immagine che la quantità della dose somministrata alla mammella e sono scelti in base alla densità della mammella. L'anodo in Molibdeno produce raggi X caratteristici con energie di 17.4 e 19.6 keV, adatti a produrre raggi X a ridotta energia e ottimizzati per l’utilizzo in mammografia (figura 2.2). All'anodo in Molibdeno possono essere associati sia il filtro dello stesso materiale, sia quello in Rodio. Il filtro in Molibdeno, di 0,03 mm, è normalmente utilizzato sotto i 30 kV, nel caso di mammelle non 30 particolarmente dense o poco spesse; il filtro in Rodio, invece, permette di avere una maggiore energia media della radiazione (22 keV) e viene utilizzato per mammelle più dense [Passariello, 2012] L'anodo in Rodio, invece, viene accoppiato ad un filtro dello stesso materiale al fine di produrre raggi X caratteristici con energie pari a 20,2 e 23,3 keV, adatte per mammelle particolarmente dense o spesse. Figura 2.2 - Spettri caratteristici di un tubo radiogeno con anodo in Molibdeno e filtro in Mo a 26 kV(a); anodo in Rodio e filtro in Rh (b). In generale bassi valori dalla differenza di potenziale consentono un elevato contrasto, ma possono determinare lunghi tempi di esposizione ed un’elevata dose impartita. 2.1.3. AEC Nei moderni mammografi l'accoppiata anodo/filtro più idonea può essere selezionata automaticamente dall'apparecchiatura grazie ai sistemi AEC (Automatic Exposure Control) e AOP ( Automatic Optimization Parameter). Questi sistemi permettono un controllo dell'esposizione automatico, che regola la durata di un'esposizione in base allo 31 spessore e alla struttura della mammella, e un'ottimizzazione dei parametri di esposizione (differenza di potenziale - kV, corrente mA e tempo di esposizione - s), al fine di assicurare il miglior compromesso tra dose e qualità dell'immagine. 2.1.4 Compressore L'esame mammografico si svolge praticando una compressione sulla mammella con il ricorso ad un dispositivo detto compressore. Tale compressore è di materiale radiotrasparente, presenta una superficie piatta, un profilo rettilineo dalla parte della parete toracica e solitamente è motorizzato in modo tale che l'operatore possa controllarlo tramite un pedale che lascia quindi le mani dello stesso libere per il posizionamento della paziente. La compressione della mammella è importante e necessaria perchè presenta una serie di vantaggi come: • migliore qualità dell’immagine in quanto vengono ridotti gli artefatti da movimento e vi è maggiore uniformità dello spessore un generatore; • abbassamento del livello energetico della radiazione e del tempo di esposizione, con conseguente riduzione della dose rilasciata; • miglioramento del contrasto perché si riduce la radiazione diffusa; • distensione dei tessuti limitando le sovrapposizioni. 32 2.1.5 Griglia antidiffusione L’influenza della radiazione diffusa, che degrada la risoluzione di contrasto, può essere ulteriormente ridotta grazie alla presenza di una griglia antidiffusione, che entra in movimento durante l’esposizione. Le griglie sono costituite da sottili lamelle di Piombo, dall'elevato potere assorbente, alternate a materiale organico, che invece è radiotrasparente, e contenute in un rivestimento di fibra di carbonio, anch'esso radiotrasparente. Il numero delle lamelle va da 80 a 100 lamelle/cm (frequenza di griglia) e il rapporto tra l'altezza della lamelle e la loro distanza (ratio di griglia) è di 5:1. Il compito principale di una griglia è quello di selezionare la radiazione in entrata, lasciando passare solo quella che ha la direzione del fascio primario e scartando i fotoni che costituiscono radiazione diffusa. L'utilizzo di questo sistema per ridurre la radiazione diffusa ha come svantaggio l’incremento della dose depositata all’organo, perchè costringe l’operatore ad aumentare la corrente al tubo, e quindi la quantità di fotoni X prodotti, in quanto una parte del fascio viene bloccata. Tuttavia, esami senza l'utilizzo della griglia sono eseguiti nelle tecniche con ingrandimento [Mazzuccato, 2009]. 2.1.6 Sistemi di rivelazione Per quanto concerne il sistema di rilevazione, ne esistono di due tipi: quello analogico, ormai superato, e quello digitale, largamente diffuso, che a sua volta si suddivide in digitale indiretto e digitale diretto. 2.1.6.1 Rivelatore analogico Il sistema di rilevazione analogico è costituito dall'accoppiamento di una pellicola radiografica con uno schermo di rinforzo costruiti 33 appositamente per la mammografia, al fine di ottenere immagini con un adeguato contrasto, una buona risoluzione spaziale e minor rumore possibile. La pellicola radiografica per mammografia, a differenza di quella tradizionale per le radiografie dello scheletro, è costituita da una singola emulsione dello spessore di alcuni micron posta anteriormente ad uno schermo di rinforzo. Questa struttura del sistema di rilevazione permette di ridurre al minimo il cosiddetto effetto “cross-over” che invece si ha con le pellicole a doppia emulsione e doppio schermo di rinforzo [Passariello, 2012]. La pellicola e lo schermo di rinforzo sono contenuti all'interno di apposite cassette radiografiche che hanno la funzione di proteggere il sistema dalla luce esterna. L'immagine che si viene a creare nella pellicola a seguito di un'esposizione è detta “latente”, in quanto non è ancora visibile. Per renderla tale, infatti, dopo l'esposizione il film viene immerso in un opportuno liquido di sviluppo che la trasformerà in un immagine visibile e utilizzabile per l'analisi medica. 2.1.6.2 Rivelatori digitali Nel sistema di rilevazione digitale la pellicola radiografica è sostituita da un detettore che assorbe i raggi X trasmessi attraverso la mammella e converte la loro energia in segnali elettronici, i quali vengono digitalizzati o nell'immediato (sistema digitale diretto) o in un secondo momento (sistema digitale indiretto). Dall'insieme di questi dati viene quindi ricavata un'immagine che compare su un monitor ad alta definizione e può essere, se necessario, elaborata con appositi algoritmi. Il detettore digitale indiretto, o sistema CR (Computed Radiography), utilizza uno schermo fluorescente, detto “Imaging Plate” (IP), formato da fosfori, contenuto all'interno di una cassetta radiografica simile a quella tradizionale. I fosfori convertono i fotoni 34 X incidenti in fotoni luminosi dall'intensità proporzionale all'energia depositata dalla radiazione che li ha generati. I fotoni X vengono infatti assorbiti dal fosforo fornendogli energia e portandolo di conseguenza ad uno stato di eccitazione. In questo stato il fosforo rimane, conservando sia la sua posizione nel plate, sia l'entità dell'energia che ha assorbito, fino a quando non viene stimolato e reso instabile. Tale stimolazione, che avviene in fase di lettura del plate, consiste nel colpire il fosforo con un raggio laser che lo porta ad uno stato instabile dal quale decade spontaneamente emettendo luce e tornando quindi allo stato di partenza (figura 2.3). La luce rilasciata dal fosforo viene poi raccolta da un fotomoltiplicatore che la converte in un segnale elettrico proporzionale alla sua intensità. L'insieme dei segnali viene quindi campionato e digitalizzato tramite un convertitore analogico-digitale e registrato su un computer. Come risultato finale si ottiene un'immagine digitale in cui ogni pixel (Picture Element, cioè ogni unità che compone l'immagine digitale) è rappresentato da un numero digitale, risultato del campionamento del segnale, associato a un determinato livello di grigio. Figura 2.3 - Bande energetiche di un sistema CR. Il laser fa ricombinare nuche ed elettroni con seguente emissione di luce, che rappresenta il segnale. Il detettore digitale diretto, o sistema DR (Direct Radiography), può essere di vario tipo: ci sono, infatti, sistemi che convertono l'energia della radiazione in un tempo immediato (diretti) e sistemi che la convertono in un tempo differito (indiretti). 35 La prima modalità necessita di un materiale fotoconduttore che converta i fotoni X in cariche elettriche; la seconda introduce un passaggio intermedio, ovvero necessita di un cristallo scintillatore che emetta luce (visibile) quando colpito dalla radiazione, luce che viene successivamente raccolta e convertita in segnale elettrico. I primi sistemi ad esser stati impiegati in radiologia digitale sono stati i sistemi indiretti. In particolare i sistemi CCD sono stati le prime soluzioni tecnologiche impiegate nei rivelatori DR. Un sensore CCD è un dispositivo ad accoppiamento di carica (dall'inglese ChargeCoupled Device) che consiste in un circuito integrato formato da una riga, o da una griglia, di elementi semiconduttori in grado di accumulare un a carica elettrica proporzionale all'intensità della radiazione elettromagnetica che li colpisce [wikipedia]. La radiazione elettromagnetica in questione, nel caso di sistemi di rivelazione digitali, è luce visibile e proviene da un cristallo scintillatore, tipicamente lo Ioduro di Cesio attivato al Tallio (CsI:Tl). Questo materiale presenta un'altissima efficienza di conversione della radiazione X in radiazione luminosa grazie alla tipica struttura colonnare dei cristalli che convogliano la luce prodotta ad una fibra ottica ad esso accoppiata. La fibra ottica ha il compito di trasferire la luce derivante dal cristallo a una stringa rettangolare di sensori CCD che la convertono in una carica elettrica. Tale carica elettrica viene poi trasferita ad un amplificatore e letta da un convertitore analogico-digitale che si occupa quindi di rielaborare il segnale elettrico in una matrice di numeri che andrà a costituire l'immagine digitale. Attualmente questo tipo di detettore è in commercio con dimensioni di circa 1x24cm, quindi non copre tutto il campo di acquisizione dell'immagine [Bick, 2010]. La soluzione è quella di rendere il fascio di raggi X molto collimato, in modo tale che abbia circa la stessa dimensione del detettore. Per acquisire l'immagine, dunque, il fascio di fotoni X e il rivelatore si muovono in sincronia 36 per tutta la lunghezza del campo di acquisizione come uno “scanner” (figura 2.4). Figura 2.4 - Modalità di acquisizione dell'immagine nei sistemi CCD. Dopo i sistemi CCD vennero sviluppati dei detettori molto simili nel funzionamento, ma che al posto dei CCD usano dei semiconduttori al Silicio amorfo (a-Si). Anche in questi detettori, infatti, il sistema di rivelazione è costituito dallo Ioduro di Cesio attivato al Tallio e la luce emessa viene convogliata verso dei dispositivi che la convertono in un segnale elettrico. In particolare il segnale luminoso viene catturato da una matrice di semiconduttori in Silicio amorfo (a-Si), ovvero dei fotodiodi, disposti sulla superficie posteriore del cristallo (figura 2.5). Il segnale elettrico raccolto da ciascun fotodiodo viene poi campionato mediante un convertitore analogico-digitale, e trasformato nell'immagine digitale [Passariello, 2012]. Figura 2.5 - Struttura di un rivelatore DR a conversione indiretta. 37 I sistemi DR più diffusi e tecnologici, invece, sono quelli diretti. Alcuni di questi utilizzano una piastra di Selenio amorfo (a-Se) che quando viene colpita dai fotoni X genera coppie elettrone/lacuna. Sotto l'influsso di un campo elettrico esterno, applicato tra le due superfici della piastra, gli elettroni vengono convogliati verso una matrice di transistors a film sottile (TFTs) posta a contatto col Selenio. Per ogni singolo fotone incidente si ha la raccolta di segnale (elettroni) solo sul TFT che si trova perpendicolare al punto di impatto. Questa tecnologia, permette quindi di individuare già dal punto di vista “fisico”, tramite i TFTs, i pixel che andranno a costituire l'immagine digitale (figura 2.6). Una volta terminata l'esposizione, l'elettronica del sensore si occupa di far uscire, riga per riga, i valori di carica corrispondenti ad ogni pixel e successivamente i dati vengono inviati al computer che ricostruisce l'immagine su un monitor [Bick, 2010]. Figura 2.6 - Schematizzazione di un sistema DR a conversione diretta. 2.2 TOMOSINTESI La tomosintesi digitale (DBT = Digital Breast Tomosynthesis), è una tecnica di imaging tridimensionale che permette di ricostruire immagini volumetriche della mammella a partire da un numero finito di proiezioni bidimensionali a bassa dose, ottenute con angolazioni diverse del tubo radiogeno. 38 La DBT permette quindi il superamento di uno dei limiti più grandi della mammografia, ovvero la sovrapposizione nell'immagine, a causa di un fatto proiettivo, delle strutture ghiandolari alle lesioni, che vengono pertanto mascherate e non riconosciute, permettendo un'analisi più accurata della mammella e una riduzione dei falsi negativi e dei falsi positivi [Pescarini, 2008]. La DBT si basa sullo stesso concetto della tomografia a piano focale, della zonografia (tomografia ad angolo limitato) e della stratigrafia: le immagini vengono acquisite da differenti angoli, attraverso la pendolazione del tubo e successivamente sommate insieme così che solo un piano risulta a fuoco (figura 2.7). Grazie al movimento correlato del tubo radiogeno e del sistema di rivelazione, dettagli anatomici che si trovano su un determinato piano del paziente vengono messi in risalto dalla cancellazione per sfumatura di quelli che giacciono nei piani sopra e sottostanti. Figura 2.7 - Geometria di acquisizione in Tomosintesi. Tuttavia, mentre le tecniche tradizionali richiedevano l'acquisizione di esposizioni multiple per ciascuno strato che si voleva “mettere a fuoco”, la tomosintesi digitale permette di ricostruire un numero arbitrario di piani a partire dalla stessa sequenza di proiezioni. Ciò è reso possibile dalla separazione tra il processo di acquisizione e quello di visualizzazione (figura 2.8), consentita dall'impiego di rilevatori digitali diretti per cui le stesse 39 proiezioni grezze possono essere processate per ricostruire piani diversi. Figura 2.8 - Modalità di acquisizione e visualizzazione in Tomosintesi. L'apparecchiatura con cui si esegue la tomosintesi non è altro che un mammografo con sistema di rilevazione digitale, dotato della meccanica e del protocollo necessari per acquisire l'esame. Per l'esecuzione della tomosintesi la paziente viene posizionata come nell'esame mammografico: in ortostasi, frontalmente all'apparecchiatura e con il seno in compressione appoggiato sul piano orizzontale del mammografo. L'acquisizione delle immagini dura circa 19 secondi e comprende tipicamente 11 esposizioni a bassa dose con un movimento del tubo radiogeno secondo un arco di circonferenza ampio circa 28° [Poplack, 2007]. I dati grezzi raccolti a seguito dell'esposizione vengono poi rielaborati da un computer che, applicando particolari algoritmi, fornisce una serie di immagini corrispondenti a piani di 1mm di spessore e senza gap tra essi, così chw una mammella spessa 5cm, viene rappresentata da 50 immagini [Passariello, 2012]. Questo tipo di indagine non sostituisce la mammografia digitale, ma può essere utilizzata per chiarire una diagnosi dubbia. Inoltre, 40 se utilizzata in uno screening sulla popolazione in aggiunta alla mammografia, può far diminuire sensibilmente i tassi di richiamo [Gur, 2007]. 2.3 TOMOGRAFIA COMPUTERIZZATA La Tomografia Computerizzata (dall'inglese Computed Tomography) è una tecnica di imaging in cui si fa ruotare attorno al corpo del paziente un fascio di raggi X strettamente collimato e si misura la radiazione trasmessa con un sistema di rilevazione ad ogni piccolo grado di rotazione. Si ottiene così una serie di profili di attenuazione dei raggi X del soggetto esaminato a differenti angoli. Successivamente l'elaborazione delle misure mediante speciali algoritmi matematici ricostruisce immagini assiali (da qui il nome iniziale di Tomografia Assiale Computerizzata, ovvero TAC) libere da sovrapposizioni, ciascuna delle quali rappresenta una “fetta” corporea del soggetto [Mazzuccato, 2009]. Convenzionalmente, l'asse della rotazione viene indicato come asse z, mentre le sezioni assiali risultano definite sul piano xy. 2.3.1 Principi fisici della Tomografia Computerizzata Come per la radiologia tradizionale, anche per la TC alla base della formazione dell'immagine ci sono le differenti proprietà dei vari tessuti nell'attenuare le radiazioni X. È proprio per questo motivo che la TC è una tecnica ad elevata sensibilità di contrasto, perchè riesce a distinguere chiaramente le diverse strutture anatomiche in base alla loro densità (attenuazione). Le immagini TC sono, quindi, una ricostruzione della distribuzione bidimensionale dei coefficienti di attenuazione lineare dei raggi X secondo il piano assiale. L'insieme dei dati che viene 41 usato per la ricostruzione delle immagini è formato dalle informazioni provenienti da migliaia di “raggi”, che rappresentano un singolo fascio lineare di fotoni X, i quali, dopo essere attenuati dal paziente, arrivano ad un detettore. L'intensità della radiazione che colpisce i detettori in un singolo istante per una data direzione incidente costituisce una proiezione o profilo. L'insieme delle proiezioni ottenute da differenti angoli di rotazione si chiama, invece, scansione [Faggioni, 2011]. Quale sia il sistema di scansione adottato, l'obiettivo di ricostruire i coefficienti di attenuazione in una sezione piana viene raggiunto attraverso due passi distinti: l'ottenimento di un numero sufficiente di profili di attenuazione di un fascio di raggi X, e la ricostruzione computerizzata della sezione dai dati di assorbimento dei profili. Come già detto sopra, nell'attraversare la materia, l'intensità di un fascio diminuisce perchè parte dell'energia radiante viene assorbita interagendo con essa. La legge di attenuazione delle radiazioni da parte della materia (legge di Beer) stabilisce che: I=I 0 e−μ Δ x in cui I è l'intensità di un fascio emergente (assunto monocromatico), I0 è l'intensità del fascio incidente, e è una costante (la base del logaritmo naturale e vale circa 2,718), µ è il coefficiente di attenuazione lineare per una determinata energia del fascio incidente e Δx lo spessore del materiale attraversato [Mazzuccato, 2009] Tale relazione può essere così espressa in termini logaritmici: ln ( I )=−μ Δ x I0 Pertanto, noti i valori di I e I0 e lo spessore Δx, risolvendo 42 l'equazione si può risalire al valore del coefficiente di attenuazione lineare μ che costituisce il parametro di misura della TC. Dall'equazione è chiaro che i tessuti con più elevato coefficiente di attenuazione lineare (più densi) assorbono più fotoni X rispetto a tessuti con coefficiente di attenuazione lineare inferiore (meno densi). Immaginiamo ora, come mostrato in figura 2.9, di suddividere un oggetto in tanti piccoli volumetti elementari di spessore x, detti voxel (unità di volume corrispondenti ai pixel nelle immagini digitali bidimensionali). Figura 2.9 - Rappresentazione del voxel e del pixel. Se un raggio passa, come avviene generalmente, attraverso voxel di materiali con diversi μ, la legge dell'attenuazione richiede che i contributi individuali di ciascuno di essi si sommino per raggiungere l'attenuazione risultante. Dalla relazione sopra citata si passa dunque alla seguente: −ln( I )=∫L μ (x)dx I0 L'equazione stabilisce che il rapporto dell'intensità del fascio incidente I sull'intensità del fascio emergente I0, dopo operazione logaritmica, rappresenta l'integrale di linea dei diversi coefficienti di attenuazione dei materiali lungo il raggio [Mazzuccato, 2009]. 43 Nelle immagini TC ad ogni pixel è associato un numero, detto “numero TC”, che è correlato matematicamente al coefficiente di attenuazione lineare del tessuto contenuto nel voxel corrispondente. I numeri TC sono comunemente espressi in “Unità Hounsfield” e sono a loro volta correlati al coefficiente di attenuazione dell'acqua in base alla relazione: μ −μacqua n° TC =k⋅ tessuto μacqua dove k è una costante uguale a 1000. In base a questa relazione, all'acqua vengono attribuite 0 HU (Hounsfield Unit), mentre all'aria -1000 HU. Perciò, tessuti con densità inferiore a quella dell'acqua presentano numeri TC negativi, mentre quelli con densità superiore hanno numeri positivi: per esempio, la struttura più densa del corpo umano, rappresentata dalla rocca petrosa dell'osso temporale, arriva fino a +3000 HU [Del Favero, 1992]. Per comprendere meglio la distribuzione delle densità dei vari tessuti nella scala Hounsfield, si può fare riferimento alla figura 2.10 di seguito riportata. Figura 2.10 - Scala Hounsfield. Nelle immagini TC i valori di densità sono perciò distribuiti su 44 oltre 4000 livelli numerici, che però, a causa del limitato potere visivo dell'occhio umano, non possono essere convertiti direttamente in 4000 diversi livelli di grigio. Nella visualizzazione delle immagini TC su monitor è possibile, infatti, selezionare un campo ristretto di interesse (finestra) della completa scala dei valori di assorbimento, rappresentandola con tutta l'estensione di tonalità dei grigi del monitor. In tal modo l'occhio umano è in grado di sfruttare meglio la sensibilità contrastografica della TC [Del Favero, 1992]. La finestra è selezionabile liberamente, sia come ampiezza (Window Width), cioè quante unità Hounsfield convertire in livelli di grigio, sia come livello (Window Level), cioè quali di queste convertire, impostandone il valore centrale. Tuttavia, per comprendere al meglio come avviene la produzione delle immagini in TC, analizzeremo ora l'evoluzione tecnologica, la struttura e il funzionamento che stanno alla base di un moderno tomografo. 2.3.2 L'apparecchiatura TC La prima apparecchiatura TC ad uso medico venne realizzata nel 1970 da Hounsfield sulla base di un suo precedente prototipo; la prima scansione di un cervello umano venne effettuata con la stessa apparecchiatura nel 1971 suscitando da subito enorme interesse presso la comunità scientifica [Mazzuccato, 2009]. Da quell'evento in poi il progresso tecnologico della TC è avanzato lungo le seguenti principali direttrici: • sviluppo di nuovi sistemi, fondati su differenti principi di scansione, nell'intento prioritario di abbreviare il tempo di raccolta delle misure; • sviluppo ed utilizzo di nuovi e più perfezionati componenti 45 d'impianto, al fine di migliorare la qualità dell'immagine ed allo stesso tempo di aumentare l'efficienza operativa ed il comfort; • sviluppo di sistemi di calcolo più efficienti, al fine di ridurre il tempo di attesa dell'immagine, migliorare la qualità della stessa ed aumentare il flusso degli esami; • sviluppo di software applicativi per l'esecuzione di esami funzionali, e incremento delle possibilità di post-processing. A partire dagli anni Settanta in poi sono state sviluppate quattro generazioni di tomografi, con soluzioni costruttive e tecnologiche sempre più sofisticate. Si è passati, infatti, da un fascio di raggi X collimatissimo detto pencil-beam e l'utilizzo di un unico detettore (prima generazione), a un fascio a ventaglio fan-beam e l'impiego di una corona circolare di detettori (quarta generazione) [Passariello, 2012]. Tra queste quattro generazioni, quella che ebbe maggior successo e dalla quale vennero sviluppate le TC successive, fu la terza. La sua evoluzione, chiamata TC spirale a singolo strato (1989), introduceva una tecnologia a contatti striscianti (slip-rings) che permetteva la rotazione continua del tubo senza i tempi morti dovuti al cambio di senso di rotazione, da orario a antiorario e viceversa, a causa dell'attorcigliamento dei cavi di alimentazione. Durante l'acquisizione il lettino del paziente si muoveva a velocità costante attraverso il campo di scansione. Come mostrato in figura 2.11, la traiettoria risultante è perciò quella di una spirale, da cui il nome, e l'insieme dei dati acquisiti in modo continuo sono relativi ad un intero volume corporeo (acquisizione volumetrica). 46 Figura 2.11 - Schema dell'acquisizione con TC spirale. Il principale limite della TC spirale a singolo strato era costituito dall'impossibilità di esaminare grandi volumi corporei con strati molto sottili e dalla scarsa risoluzione spaziale delle immagini lungo l'asse z (asse longitudinale). Per migliorare questi difetti è stata sviluppata un'ulteriore evoluzione tecnologica della TC spirale, in cui il fascio di raggi X è ampliato in senso longitudinale e il sistema di rivelazione è composto da una matrice di detettori ed è perciò capace di acquisire simultaneamente i dati da più strati. Si parla quindi di TC multistrato o TC multidetettore (figura 2.12). Il primo tomografo a più strati è stato realizzato dalla General Electric nel 1998 e prevedeva 4 file di detettori. Tuttavia, la ricerca costante di nuove soluzioni sempre più sofisticate ha portato nel 2009 alla realizzazione di un'apparecchiatura a 320 strati [Faggioni, 2011]. Figura 2.12 - Schema dell'evoluzione tecnologica nell'acquisizione con TC multistrato. 47 2.3.3 Componenti Le prestazioni globali di un sistema TC dipendono dalle caratteristiche di tutte le sue diverse componenti, che sono fondamentalmente le stesse in tutte le generazioni sopra descritte. Le principali sono: • una sorgente radiogena; • un generatore; • detettori che possono essere, a seconda della tecnologia, disposti su più file, di varie dimensioni e di diverso funzionamento; • sistemi di acquisizione (DAS) e di trasmissione dei dati; • un computer per l'elaborazione dei dati. Alcuni di questi componenti, come il tubo radiogeno, il generatore, i detettori e gran parte dell'elettronica, sono contenuti all'interno del cosiddetto gantry. Il gantry non è altro che un contenitore, rettangolare o circolare, con un'apertura al centro, sempre circolare, dentro la quale può scorrere il lettino portapaziente durante l'acquisizione. Il diametro di apertura del gantry varia a seconda del tipo di scanner, ma tipicamente si aggira attorno ai 70 cm; inoltre può essere inclinato in senso craniocaudale e viceversa con angolazioni che arrivano fino a 30° circa a seconda del tipo di scanner [Mazzuccato, 2009]. Il tubo radiogeno costituisce una della componenti critiche del sistema TC. Infatti, per ottenere risultati ottimali in termini di risoluzione spaziale e di contrasto, è necessario l'utilizzo di elevati parametri di esposizione per lunghi periodi di tempo. Ciò determina un elevato riscaldamento e quindi l'utilizzo di anodi e di sistemi di 48 raffreddamento in grado di sopportare tale carico termico. Il generatore, ad alta frequenza, infatti, fornisce livelli di tensione che variano generalmente da 80 kV a 140 kV ed un ampia scala di selezione dell'intensità di corrente [Passariello, 2012]. Per far fronte a queste potenze sono stati realizzati, per esempio anodi rivestiti di grafite, o con liquido refrigerante posto direttamente a contatto con essi e isolanti ceramici. Il tubo radiogeno prevede inoltre la possibilità di scegliere tra due macchie focali di diverse dimensioni, per ridurre al minimo l'effetto penombra nelle immagini. All'uscita del tubo la radiazione viene poi filtrata con filtri di vario materiale (grafite, alluminio, rame, ecc...) e di spessore variabile e un doppio sistema di collimatori fa sì che la dose al paziente venga ridotta eliminando buona parte della radiazione diffusa a livello dei detettori e predeterminando lo spessore di strato. Sempre all'interno del gantry troviamo i detettori che hanno il compito di rilevare l'intensità della radiazione trasmessa e trasformarla in segnale. Le loro caratteristiche influenzano significativamente sia la qualità dell'immagine sia la dose al paziente. Le macchine moderne utilizzano detettori allo stato solido costituiti da materiali scintillatori di varia natura (i più utilizzati attualmente sono ceramici) abbinati ad una matrice di fotodiodi; il loro funzionamento, come già descritto in precedenza, consiste nel trasformare la radiazione X in radiazione luminosa di intensità proporzionale, che viene poi misurata e convertita in segnale elettrico da fotodiodi. I segnali elettrici provenienti dai detettori vengono prima amplificati e poi trasformati in dati numerici dai convertitori analogico-digitali. L'insieme dei componenti elettronici che raccoglie i segnali dal sistema di rilevazione viene denominato sistema di 49 acquisizione dei dai ovvero DAS (Data Acquisition System). I valori numerici relativi ad ogni scansione che il DAS trasferisce al computer per l'elaborazione rappresentano i dati grezzi. Il computer è posto al di fuori del gantry e deve rispondere a due diversi tipi di esigenze. Per prima cosa deve controllare l'intero sistema di acquisizione, la gestione delle immagini e il dialogo con tutte le componenti dell'apparecchiatura. In secondo luogo si deve occupare della ricostruzione delle immagini, che richiede tempi e processi di calcolo estesi e ad alta velocità. 2.3.4 La ricostruzione delle immagini Come già accennato nel paragrafo 2.3.1 la ricostruzione delle immagini TC permette di conoscere i coefficienti di attenuazione e la loro distribuzione nello spazio. A tale scopo esistono principalmente due metodi: la ricostruzione iterativa e la retroproiezione filtrata. La ricostruzione iterativa è un metodo ancora poco usato in clinica, perchè richiede una notevole potenza di calcolo, ma che recentemente, con l'aumento delle prestazioni dei calcolatori, sta trovando maggiore diffusione. Consideriamo un oggetto semplice, come quello in figura 2.13, formato solo da quattro voxel i cui coefficienti di attenuazione sono μ1, μ2, μ3 e μ4. Se misuriamo le integrali di linea in direzione verticale, orizzontale e diagonale per un totale di cinque proiezioni, otteniamo le seguenti cinque equazioni: A 1=μ1 +μ2 A 2=μ3 +μ 4 A 3=μ1 +μ3 A 4 =μ 2+μ4 A 5=μ1 +μ 4 50 Figura 2.13 - Rappresentazione di un oggetto e delle sue proiezioni. Per risolvere questo sistema di equazioni il metodo iterativo propone una soluzione iniziale, calcola poi l'errore (cioè la distanza tra la soluzione proposta e quella misurata) e la corregge sulla base di questo errore, riproponendo quindi una nuova soluzione, e così via, fino a quando la differenza tra valore proposto e valore misurato non è talmente piccola da considerarsi trascurabile. L'approccio iniziale di questo algoritmo è quello di ricavare un valore medio dei coefficienti di attenuazione, dividendo il valore misurato per il numero di voxel attraversati dal fascio in ogni proiezione; da qui si calcola l'errore. Semplificando possiamo di che ci sono due tipi di ricostruzione iterativa: quella additiva e quella moltiplicativa. La prima somma il valore medio dell'errore alla soluzione proposta per ricavarne un'altra più vicina alla misura; nella seconda l'errore viene invece moltiplicato. Per capire meglio vengono riportate di seguito le due equazioni su cui si basano le due ricostruzioni: Nk 1) iterazione additiva: f qij +1=f ijq + 2) iterazione moltiplicativa: A k −∑ f qij 1 Nk f qij +1=f ijq⋅ N Ak k ∑ f ijq 1 51 Nelle quali: f qij +1 indica la nuova soluzione proposta (passo q+1), f qij indica la soluzione proposta in precedenza (al passo q), il termine Ak è il valore misurato con il quale confrontare le proposte di soluzione, Nk è il numero dei voxel lungo la proiezione considerata Nk (k) e la sommatoria ∑f q ij è la somma delle stime dei coefficienti di 1 attenuazione. Pertanto nel primo caso, l'errore medio è rappresentato dal termine frazionario, per cui quando esso tende a 0, il valore proposto tenderà al valore misurato e pertanto verrà considerato valido. Mentre nel secondo caso, essendo l'errore rappresentato dal rapporto tra i valori misurati e la sommatoria di quelli stimati, l'iterazione sarà conclusa quando esso tenderà a 1 [Bruno, 2012]. La retroproiezione filtrata o FBP (Filtered Back Projection) è invece il metodo maggiormente diffuso e sfrutta i profili di attenuazione ottenuti in fase di acquisizione. Per capire meglio prendiamo come esempio un oggetto cilindrico; esso avrà tanti profili di attenuazione quanti sono le proiezioni acquisite. Per ricostruire la sua posizione nello spazio i profili vengono attribuiti a tutta la matrice dell'immagine digitale lungo la proiezione di appartenenza, come mostrato in figura 2.14. L'immagine che si ottiene è sfumata e l'oggetto non è ben definito e questa è quella che si chiama retroproiezione “semplice”. Figura 2.14 - Immagine ottenuta con la retroproiezione semplice. 52 Per superare questo problema si applicano dei filtri, detti di convoluzione, ai profili, in modo tale che essi vengano alterati facendo sì che l'algoritmo eviti lo sparpagliamento dei dati e l'effetto sfumatura in fase di ricostruzione (figura 2.15). Il tipo di filtro di convoluzione è selezionabile in base al risultato desiderato, a seconda che si voglia privilegiare la risoluzione spaziale o di contrasto dei tessuti [Rampado, 2010]. Figura 2.15 - Differenze tra retroproiezione semplice e retroproiezione filtrata. Il processo di calcolo della retroproiezione filtrata può avvenire anche tramite trasformata di Fourier, secondo il teorema della sezione centrale di Fourier [Bushberg, 2011]. 2.3.5 La rappresentazione delle immagini La ricostruzione delle immagini TC dell'oggetto esaminato genera un insieme di numeri che va a costituire una mappa numerica bidimensionale chiamata matrice. La matrice è un insieme di pixel (picture elements) a cui vengono assegnati questi valori numerici. Le dimensioni della matrice sono di solito espresse 53 in pixel per lato (256x256, 512x512, 1024x1024). Attualmente la matrice più comunemente usata è la 512x512 [Mazzuccato, 2009]. Il FOV (Fied Of View), o campo di vista, invece, corrisponde all'area (supposta circolare) rappresentata dalla matrice. Pertanto matrice e FOV determinano la risoluzione spaziale dell'immagine, perchè determinano la dimensione dei pixel. Infatti, a parità di matrice, l'immagine con risoluzione spaziale migliore sarà quella che ha un FOV più piccolo, perchè le dimensioni dei pixel saranno ridotte. Questa relazione è ben dimostrabile con un semplice esempio numerico. Si prenda in considerazione una matrice da 512x512 pixel: con un FOV di 35 cm di diametro, un singolo pixel avrà dimensione 35 : 512 ovvero 0,068 cm (0,68 mm), mentre con FOV di 70 cm la dimensione del pixel raddoppia, infatti 70 : 512 = 0,136 (1,36 mm). Analogamente, a parità di FOV, l'immagine con risoluzione spaziale migliore sarà quella con matrice più grande, perchè avrà un maggior numero di pixel e quindi un maggior dettaglio (figura 2.16). Figura 2.16 - Immagini TC di un encefalo con stesso FOV, ma matrici diverse: l'immagine a ha una matrice che è la metà di quella dell'immagine b, la quale, infatti, ha una risoluzione spaziale sensibilmente migliore. Tuttavia la qualità dell'immagine non si basa solo sulla risoluzione spaziale, ma anche sulla presenza di eventuali artefatti, 54 che sono una degradazione dell'immagine dovuta a una discrepanza tra i numeri TC dell'immagine ricostruita e i veri coefficienti di attenuazione del soggetto esaminato. La conoscenza dei vari tipi di artefatti e della loro causa può aiutare il tecnico a impostare l'esame in modo tale che essi siano minimi. Vi sono infatti artefatti dovuti a cause fisiche, artefatti che originano dal paziente e artefatti dovuti a difetti di funzionamento dell'apparecchiatura [Del Favero, 1992]. Tra gli artefatti di natura fisica i più importanti sono: l'indurimento del fascio, l'effetto volume parziale, l'artefatto da fotopenia e gli artefatti detti “da aliasing”. L'indurimento del fascio si verifica in quelle zone particolarmente dense (ad esempio le rocche petrose) in cui i fotoni X meno energetici vengono maggiormente assorbiti, perciò l'energia media del fascio in uscita dalla struttura attraverata aumenta. Questo fatto viene interpretato dall'apparecchiatura come una minore attenuazione complessiva e quindi una minore densità dell'oggetto in esame sottostimando il suo numero TC. Sull'immagine questo effetto si traduce con la presenza di strisce o bande ipodense che si dipartono dalla struttura attraversata. L'effetto volume parziale si verifica quando in uno stesso voxel sono presenti due tessuti di densità diverse. Poiché nel pixel dell'immagine digitale è rappresentata una media pesata dei coefficienti di attenuazione dei tessuti, il numero TC associato a quel voxel sarà sottostimato o sovrastimato. Così un margine netto fra due strutture adiacenti diventa nell'immagine TC meno definito e le piccole strutture vengono comprese solo in parte o non comprese affatto. Questo effetto è legato ai limiti di risoluzione spaziale dell'apparecchiatura, infatti più piccoli sono i voxel, minore sarà l'effetto [Mazzuccato, 2009]. L'artefatto da fotopenia si verifica in presenza di strutture dense quando un numero insufficiente di fotoni raggiunge i detettori 55 alterando una parte delle singole proiezioni con molto rumore. Nelle attuali apparecchiature questo artefatto può essere ridotto grazie a dei sistemi che modulano i dati di esposizione automaticamente in base agli spessori e alle strutture attraversate. Infine, negli artefatti di natura fisica, ci sono gli artefatti da aliasing che sono legati ai convertitori analogico-digitali. Un errato campionamento dei dati, infatti, può portare ad un'errata rappresentazione nell'immagine TC di determinate frequenze spaziali, in particolare quelle elevate corrispondenti a zone di interfaccia tra strutture diverse. Infatti il teorema del campionamento di Nyquist afferma che la frequenza di campionamento deve essere almeno doppia della massima frequenza spaziale dell'oggetto in esame; se così non fosse nell'immagine comparirebbero delle sottili strisce che si diffondono dai margini delle strutture. Gli artefatti legati al paziente sono i più frequenti, in particolare quelli dati dal movimento dello stesso. Ad esempio una mancata o errata apnea può dar luogo ad un'errata registrazione dei dati nell'immagine ricostruita e quindi possono comparire doppi contorni, sfumature e cancellazioni di strutture. Per minimizzare tali artefatti è bene istruire il paziente a mantenere la posizione, a eseguire le istruzioni che il tecnico gli fornisce e ridurre i tempi di acquisizione [Del Favero, 1992]. Altri artefatti abbastanza comuni sono quelli causati da protesi metalliche, clips chirurgiche o altri oggetti molto densi contenuti all'interno del corpo del paziente che danno quindi luogo ad un indurimento del fascio. Per questo motivo è importante far rimuovere sempre ai pazienti tutti gli oggetti metallici mobili prima dell'acquisizione. Invece, la presenza di un qualsiasi materiale al di fuori del 56 campo di scansione crea caratteristici artefatti detti “out-of-field”. Infatti, un qualsiasi oggetto ad alta densità al di fuori del FOV di acquisizione (come per esempio le braccia del paziente o il tubicino di raccordo del mezzo di contrasto), altera la lettura da parte dei detettori, i quali ipotizzano che tutti i dati raccolti arrivino dal campo di scansione. Nell'immagine tutto ciò si traduce con delle zone d'ombra. Per finire, i tipici artefatti dovuti all'apparecchiatura sono provocati dal malfunzionamento dei detettori e sono detti anche artefatti ad anello per la comparsa di linee circolari concentriche sull'immagine. Come tutte le immagini digitali, anche quelle TC possono essere rielaborate dopo la loro ricostruzione, per permettere una visualizzazione delle strutture in esame sempre più approfondita. A proposito sono stati sviluppati numerosi software: il post-processing delle immagini può comprendere ricostruzioni 2D e ricostruzioni 3D [Passariello, 2012]. In particolare le cosiddette MPR (ricostruzioni multiplanari, dall'inglese MultiPlanar Recostruction) sfruttano le sezioni assiali acquisite in partenza per creare immagini rappresentative di altri piani scelti arbitrariamente, come quello coronale, sagittale, obliquo o anche piani curvi (CPR ovvero Curved Planar Recostruction). Queste ricostruzioni possono avere la stessa risoluzione spaziale delle immagini assiali di partenza, perchè l'avanzamento tecnologico consente spessori di strato talmente sottili da riuscire ad avere voxel isotropici, cioè cubici (le cui dimensioni dei lati sono tutte uguali). La tecnica MIP (Maximum Intesity Projection) è invece una ricostruzione 3D. Essa prende in considerazione solo quelle 57 strutture, che all'interno di un pacchetto di immagini scelto arbitrariamente, hanno la massima intensità. Le immagini MIP possono essere create in un qualsiasi piano (assiale, sagittale o coronale) e con uno spessore a scelta. Molto simile a questa tecnica e la MinIP (Minimum Intesity Projection) che, al contrario della MIP, prende in considerazione solo quei voxel che hanno il numero TC più piccolo [Passariello, 2012]. Un'altra tecnica di ricostruzione 3D e la Shaded Surface Display (SSD) che permette di visualizzare le superfici delle strutture comprese all'interno di un volume di dati definito. Tale rappresentazione avviene selezionando un determinato valore di densità come soglia di riferimento in modo tale che solo quei pixel che superano tale soglia vengano visualizzati. Il proggramma genera un solido separato dalle altre strutture anatomiche che è possibile ruotare su vari piani [Rampado, 2010]. Infine c'è la tecnica 3D Volume Rendering (VR) che assegna diverse opacità e colori ai differenti tessuti in base alla loro attenuazione. I numeri TC che costituiscono l'immagine possono quindi essere resi visibili o invisibili a seconda del grado di trasparenza che si intende loro assegnare [Mazzuccato, 2009]. Un esempio di questa ricostruzione è riportato in figura 2.17. Figura 2.17 - Immagine di un addome rielaborata con tecnica 3D Volume Rendering per permettere lo studio dell'aorta addominale e dei reni. In questo esempio tutte le strutture al di fuori di quelle visualizzate, dalla cute del paziente agli organi limitrofi, sono state rese trasparenti. 58 2.3.6 Considerazioni dosimetriche La qualità dell'immagine di un sistema TC dipende da molti fattori, uno dei quali è il rumore. Come si può notare dalla legge di seguito riportata, rumore e dose sono inversamente proporzionali: N (σ)≈ 1 √ n ° fotoni in cui N(σ) è il rumore medio [Mazzuccato, 2009]. Ciò significa che per dimezzare il rumore è necessaria una dose quattro volte superiore. Ci sono vari parametri che descrivono la dose, tra cui il più importante per la valutazione dell'effetto biologico dell'esposizione alle radiazioni è la dose efficace. La dose efficace dipende dalla lunghezza del volume di acquisizione lungo l'asse di rotazione z ed è relativa ad un determinato tessuto biologico o distretto anatomico. In TC, tuttavia, non è possibile misurare in modo preciso questo parametro, ma è possibile stimare la dose assorbita. La dose assorbita rappresenta l'energia assorbita per unità di massa e non dipende né dalla lunghezza del volume di acquisizione né ad un particolare distretto anatomico o tessuto biologico; la dose assorbita è proporzionale all'intensità del fascio. Questo indice, a differenza di quello di dose efficace, può essere stimato tramite dei calcoli effettuati con fantocci particolari che simulano, sia per densità che per dimensioni, il corpo di un paziente, e nei quali è possibile inserire un dosimetro (tipicamente una camera a ionizzazione). La grandezza dosimetrica fondamentale misurata con questi fantocci è il CTDI (Computed Tomography Dose Index). Esso corrisponde all'area compresa sotto il profilo di dose di una singola scansione divisa per lo spessore nominale di strato e viene definito: 59 Z2 1 CTDI= ∫ D (z)dz nT Z 1 dove Z1 e Z2 sono i limiti di integrazione, ovvero i punti sull'asse di rotazione z corrispondenti ai limiti della scansione, D(z) è il profilo di dose lungo una singola scansione assiale, n è il numero degli strati acquisiti simultaneamente (n=1 per i tomografi a singolo strato, n=4 per i tomografi a 4 strati, ecc...) e T è lo spessore nominale dello strato o l'ampiezza del gruppo di rivelatori nel caso di TC multistrato. Il CTDI può essere facilmente misurato usando una camera a ionizzazione a stilo lunga 10 cm. In tal caso la formula ha dei precisi limiti di integrazione in quanto Z1 e Z2 sono uguali a ±5 cm coprendo una lunghezza totale di appunto 10 cm e abitualmente viene scritto come CTDI100 dove il pedice indica l'estensione su cui è stata effettuata l'integrazione [AIFM, 2007]. Questo parametro però non è quello più appropriato per la stima di dose efficace, perchè non tiene conto della divergenza del fascio e della radiazione diffusa. Si introduce quindi un CTDI pesato (CTDIw) che rappresenta una media della dose rilasciata nella singola scansione, pesando in modo differente il CTDI misurato al centro (CTDIc) della scansione e quello rilasciato in periferia (CTDIp): 1 2 CTDI w = CTDI 100, c + CTDI 100, p 3 3 Tuttavia anche questo parametro non viene generalmente preso in considerazione, perchè è definito per una singola scansione assiale e non prevede alcuna correzione per il valore del pitch utilizzato nella scansione spirale (il pitch è un parametro che nelle scansioni spirali esprime il rapporto tra l'avanzamento del lettino e lo spessore di strato). Per questo motivo è stato introdotto il CTDI vol 60 definito come: CTDI vol = CTDI w pitch Quest'ultimo valore di CTDI viene anche riportato come indicatore di dose sul monitor della consolle di comando al termine di una scansione (secondo la norma IEC 60601), però si riferisce a scansioni effettuate in modalità assiale, pertanto non può essere applicato strettamente alle scansioni spirali, in particolare a quelle volumetriche con TC multistrato. Nelle TC multistrato, per stimare la dose assorbita tenendo conto dell'energia totale assorbita dal paziente, bisogna utilizzale il DLP (Dose Lenght Product) che si ricava dal CTDI vol tramite un fattore correttivo, cioè la lunghezza L della scansione e quindi: DLP=CTDI vol⋅L Anche il DLP viene riportato nel monitor della consolle di comando (sempre secondo la norma sopra citata) e da esso, utilizzando appositi fattori di conversione, è possibile ricavare la dose efficace per le diverse aree anatomiche [Huda, 2008]. Tuttavia questo non è l'unico metodo per ricavare la dose efficace. È possibile infatti utilizzare dei modelli matematici, chiamati metodi di Monte Carlo, che simulano l'interazione di un fascio di raggi X con un fantoccio matematico, utilizzando informazioni sullo spettro del fascio e la filtrazione fornite dal costruttore dell'apparecchiatura. Questi metodi, che si basano su modelli ideali di una data dimensione, possono essere utilizzati solo per una valutazione approssimativa della dose agli organi, per cui possono risultare imprecisi [AIFM, 2007]. La crescente innovazione e complessità delle tecniche 61 radiologiche sta portando molti vantaggi diagnostici e terapeutici per i pazienti, ma inevitabilmente, anche la necessità di avere delle informazioni da fonte competente per la valutazione di aspetti come l'efficacia della tecnica e il rapporto rischio-beneficio. Nonostante la sua imprecisione, la stima della dose efficace è comunque utilizzata per valutare il rischio radiologico, spesso paragonata con radiogrammi standard del torace per facilitarne la comprensione (figura 2.18), sia per i lavoratori sia per la popolazione in generale, ed è un parametro considerato valido per confrontare le diverse procedure diagnostiche e per paragonare le diverse metodologie di lavoro nei vari ospedali. Figura 2.18 - Tabella di equivalenza tra la dose efficace nelle indagini TC di vari distretti anatomici e numero di radiogrammi del torace. Nell'ultimo ventennio il contributo sempre più preponderante della diagnostica per immagini ha aumentato, per la popolazione, la dose annuale pro-capite di radiazioni, con un incremento stimato di circa 6 volte nella popolazione americana [FIRR, 2014]. Tale aumento si è verificato anche in Italia per una maggior accessibilità alle prestazione radiologiche e per un'ampia disponibilità sul territorio delle moderno TC multistrato, tuttavia con un impatto dosimetrico meno rilevante rispetto agli USA e ad altri paesi 62 europei. Nasce quindi la necessità da parte delle case produttrici di apparecchiature elettromedicali di studiare e introdurre nel mercato macchine atte al risparmio di dose e nel corso degli anni, queste tecniche di riduzione di dose si sono sempre più affinate. Tra le tecniche di uso clinico, la più importante è rappresentata dalla possibilità di modulare la corrente al tubo (e quindi la quantità di fotoni erogati, perciò la dose) in funzione del profilo del paziente (figura 2.19). Figura 2.19 - Grafico della modulazione della corrente anodica in funzione del profilo del paziente. A seconda del tipo di apparecchiatura la regolazione automatica della corrente anodica nel piano assiale può avvenire sia in modo programmato, in base alle immagini preliminari di centratura, sia in tempo reale ad ogni rotazione con un meccanismo di feedback, cioè utilizzando le informazioni rilevate dai detettori durante la rotazione precedente. Ci sono poi dei sistemi, più sofisticati, che sono in grado di modificare la dose anche in direzione longitudinale, per mantenerla costante nell'esame di regioni corporee di spessore diverso, come il torace e l'addome. Questi sistemi di modulazione automatica dell'esposizione consentono di mantenere costante la qualità dell'immagine con dosi notevolmente inferiori, preservando la capacità termica della 63 sorgente radiogena e fornendo un segnale più costante ai detettori [Passariello, 2012]. 2.4 BREAST-CT La Breast-CT (BCT) è una tecnica diagnostica di recente introduzione e sotto alcuni aspetti ancora in fase di studio. Essa non è altro che una tomografia computerizzata, con fascio conico (cone-beam) anziché a ventaglio (fan-beam), della mammella. Grazie allo sviluppo di rivelatori digitali sempre più sofisticati, il progetto di una CT dedicata al seno è stato ripreso negli ultimi anni e vari gruppi di ricerca si sono dedicati allo studio approfondito delle possibilità che questa nuova tecnica può offrire. 2.4.1 Nascita ed evoluzione della tecnica Il primo documento che descrive una CT del seno è stato pubblicato nel 1976 e si riferiva a esami condotti su campioni di tessuto mammario ricavati a seguito di mastectomia [Gisvold, 1979]. I risultati ottenuti da questi primissimi studi motivarono la General Elctric (GE) a fabbricare un primo prototipo di breast-CT (1975), chiamata CTM (Computed Tomographic Mammography). Questo prototipo utilizzava una un fascio fan-beam, come le comuni CT, e per acquisire 1 cm di spessore impiegava circa 10 s. La paziente veniva fatta accomodare prona in un lettino incavato e nel quale era praticato un foro per far passare il seno, il quale veniva poi tenuto in posizione da un contenitore con all'interno dell'acqua riscaldata. I dati grezzi delle proiezioni venivano ricostruiti in matrici da 127x127 e con uno spessore di fetta di 1 cm. Nonostante i risultati sembrassero promettenti, la GE decise in ultima analisi di non procedere ad un ulteriore sviluppo dell'apparecchiatura a causa 64 dell'alta dose impartita al seno, della limitata risoluzione spaziale (1,56 mm) e dei costi elevati [Shaw, 2014]. Dopo vari anni di progresso tecnologico, un nuovo prototipo di breast-CT venne realizzato nel 2001 da un gruppo di ricercatori americani dell'università della California, sotto la guida del Prof. J.M. Boone, con l'intento di realizzare un'apparecchiatura dedicata allo screening del cancro al seno [Boone, 2001]. Il prototipo realizzato da Boone prevedeva l'utilizzo di un tubo radiogeno con anodo in tungsteno con una macchia focale di 0,4x0,4 mm e una filtrazione aggiuntiva in rame di 0,3 mm. I parametri di esposizione prevedevano l'utilizzo quasi esclusivo di una tensione di circa 80 kVp, un prodotto corrente-tempo di esposizione variabile da 50 a 120 mAs (dipendente dallo spessore della mammella) e un'energia media del fascio più alta di quella di un mammografo convenzionale. Il detettore digitale era costituito da un flat-panel allo Ioduro di Cesio delle dimensioni di 30 cm di altezza e 40 cm di larghezza [Lindfors et al., 2008]. Come nelle più comuni CT, la scansione avviene facendo ruotare il sistema tubodetettori attorno all'oggetto in esame, in questo caso, attorno alla mammella. Per questo motivo la geometria di acquisizione richiede un preciso posizionamento della paziente, che infatti viene fatta accomodare prona nel lettino, e con la mammella in esame pendula, senza compressione (figura 2.20). Figura 2.20 - Posizione della paziente durante l'acquisizione in BCT. 65 Ogni mammella viene acquisita individualmente con un FOV di 21 cm di diametro, ottenendo alla fine, per 360° di rotazione, un totale di 500 proiezioni, ovvero 30 immagini al secondo per un tempo di 16,6 secondi. La tecnica della BCT è stata studiata al fine di fornire alla ghiandola la stessa dose di radiazioni delle due proiezioni mammografiche standard, sulla base di dati ricavati da uno studio dosimetrico condotto con il metodo di Monte Carlo [Boone, 2001]. Anche altri gruppi di ricerca negli stessi anni, e nei seguenti, maturarono interesse per questa nuova tecnica introdotta da Boone. All'università di Rochester, NY, il prof Ruola Ning propose un suo modello di BCT, chiamata “cone-beam volume CT” (CBVCT) e grazie a dei fantocci matematici di varie dimensioni, condusse degli studi di fattibilità simulando un esame di breast-CT. L'intento era quello di dimostrare la visibilità di masse molto piccole (pochi millimetri) e microcalcificazioni con un livello di dose clinicamente accettabile in modo da poter condurre in futuro uno studio clinico con pazienti [Chen, 2002]. Alcuni studi sulla BCT iniziarono anche da alcuni gruppi accademici come quelli alla Duke University (Durham, North Carolina) guidato dal Prof. Martin Tornai [Madhav et al., 2009], all'ospedale statunitense University of Texas M.D. Anderson Cancer Center del Dr. Chris Shaw [Yang et al., 2007] e alla University of Massachussetts School del Dr. Stephen Glick [Glick et al., 2007]. Per quanto riguarda l'Unione Europea, un progetto del FP7 (Seventh Research Framework Programme) chiamato “Dedicated CT of female breast”, lanciato nel 2008 e terminato nel 2010, è stato condotto dall'Università di Erlangen-Nümberg, Germania, ma non è stato ancora riportato alcuno sviluppo di scanner dedicato [Kalender et al., 2011]. Anche in questo caso, lo studio è stato 66 condotto tramite la simulazione di un esame di breast-CT e lo scopo era quello di ottenere immagini dall'elevata risoluzione spaziale limitando la dose ghiandolare media. L'aspetto interessante di questo studio è la geometria del fascio scelta per l'apparecchiatura virtuale. Il gruppo di ricerca tedesco ha infatti preferito una CT spirale al posto della Cone-Beam CT utilizzata in tutti gli altri prototipi americani [Kalender et al., 2011]. Questa nuova tecnologia ha destato interesse anche in Italia, prima al sincrotrone ELETTRA di Trieste, che nel 2004 ha avviato il primo studio di fattibilità per tomografia alla mammella con luce di sincrotrone [Pani et al., 2004], poi all'Istituto Nazionale di Fisica Nucleare (INFN), che nel 2007 ha realizzato a Napoli un prototipo sulla base di quello costruito da Boone [INFN Napoli, 2007]. L'apparecchiatura realizzata a Napoli aveva come obiettivo a lungo termine quello di superare il limite di sensibilità clinica nella rivelazione di tumori di piccole dimensioni e come obiettivo più immediato quello di confrontare due tipologie di rilevatori, uno ad integrazione di carica, CMOS (Complementary Metal Oxyde Semiconductor) e uno a semiconduttore con capacità single photon counting, in termini di capacità di imaging, impatto diagnostico e dose impartita al tessuto mammario fissando la risoluzione spaziale in fase di ricostruzione delle immagini a 0,5 mm [INFN Napoli, 2007]. Il set-up che è stato utilizzato per queste misure è riportato in figura 2.21, in cui è possibile distinguere in geometria verticale il tubo radiogeno, un fantoccio di cera di piccole dimensioni agganciato ad un rotatore meccanico ed il rivelatore montato su un traslatore. 67 Figura 2.21 - Foto del set-up utilizzato per i test tomografici all'INFN di Napoli. Prima di effettuare i test tomografici vennero effettuate diverse misure di caratterizzazione dei rivelatori, tramite dei fantocci di cera con vari inserti di materiali e dimensioni diverse. Dopo di che, le misure tomografiche sono state eseguite utilizzando un tubo a raggi X con microfocus da 80 kVp di tensione e 0,25 mAs e altri fantocci che simulassero la geometria, le dimensioni e la densità della mammella e dentro i quali sono stati inseriti elementi che potessero avere caratteristiche simili a masse tumorali (figura 2.22) [INFN Napoli, 2007]. Figura 2.22 - Fotografia del fantoccio mammografico, con gli inserti da inserire al suo interno, utilizzato nelle misure tomografiche dell'INFN di Napoli. A Trieste, invece, il sistema per la tomografia alla mammella con 68 un fascio X monocromatico è stato progettato e realizzato utilizzando la radiazione di sincrotrone presso la facility ELETTRA; le caratteristiche di tale sistema e gli studi già eseguiti verranno approfonditi nei capitoli seguenti. Per quanto riguarda le ultime frontiere nel campo della BCT, un nuovo suo utilizzo è stato sperimentato da un gruppo di ricercatori dell'Università della California ed è stato chiamato Photon Counting Spectral CT System. Tale sistema impiega una CT in grado di fornire informazioni sullo spettro dell'oggetto irradiato grazie un detettore di tipo photon counting al Tellururo di Cadmio drogato con Zinco (CdZnTe, spesso indicato semplicemente come CadmioZinco-Tellurio, CZT [Ding et al., 2014]. Lo studio condotto dal gruppo di ricercatori californiani aveva come scopo la caratterizzazione del tessuto mammario in termini di quantità di acqua, grasso e proteine e al fine sono state esaminate 19 paia di mammelle post-mortem con un tubo con anodo di tungsteno impostato a 100 kVp e una dose ghiandolare media nel range di 1,8 – 2,2 mGy. Alcuni studi precedentemente eseguiti, infatti, utilizzando la tecnica della spettroscopia, hanno individuato una correlazione tra la quantità di acqua presente nel tumore maligno e la sua crescita tumorale: l'acqua risulta aumentata di circa il 50% nelle cellule tumorali rispetto alle cellule sane, mentre il grasso si riduce di circa il 20% [Chung et al., 2008]. Tuttavia le convenzionali tecniche di imaging a raggi X non sono in grado di caratterizzare le lesioni con queste tre componenti per cui si è cercato un progresso in direzione della Tomografia Computerizzata sfruttando i più innovativi sistemi di rivelazione [Ding et al., 2014]. 69 2.4.2 Stato dell'arte La Breast-CT con fascio conico, nonostante i numerosi studi di fattibilità e studi clinici che ne dimostrano le potenzialità, non è ancora stata accolta dalle case produttrici di apparecchiature elettromedicali, pertanto non esiste attualmente un'apparecchiatura “tipo” che possa riassumere le caratteristiche e le funzionalità della tecnica. Tuttavia, nei vari gruppi di ricerca sopra citati, è possibile riconoscere un filo conduttore che accomuna i vari prototipi fino ad ora costruiti e utilizzati sperimentalmente: primo fra tutti le caratteristiche del gantry. Il gantry, infatti, deve: • fornire una buona copertura del bersaglio per minimizzare gli artefatti della cone-beam CT; • massimizzare la copertura del tessuto mammario vicino alla parete toracica; • consentire un'acquisizione delle immagini veloce, preferibilmente in apnea, per ridurre gli artefatti da movimento [Shaw, 2014]. Un altro elemento centrale dell'apparecchiatura è il tubo radiogeno che deve essere di dimensioni compatte per fare in modo che si adatti allo spazio sottostante il tavolo portapaziente e deve avere una potenza adeguata per permettere l'esecuzione di numerose proiezioni in breve tempo. I gruppi di ricerca hanno utilizzato nei loro prototipi vari tipi di tubo radiogeno, che vanno dall'anodo fisso raffreddato ad acqua, come quello impiegato dall'Università della California, a quello tipico mammografico utilizzato invece dall'Università di Rochester [Shaw, 2014]. Anche la filtrazione del fascio in uscita dal tubo radiogeno è un fattore che è stato considerato importante. Filtrazioni esterne, 70 infatti, sono spesso applicate con lo scopo di modificare lo spettro energetico del fascio X in modo da ottenere una radiazione il più possibile monocromatica e di conseguenza un miglior rapporto segnale-rumore. Studi condotti a riguardo hanno concluso che l'anodo ottimale dovrebbe essere in Tungsteno (W), con un range di valori di tensione che va dai 50 ai 70 kVp, abbinato ad una filtrazione di materiale con un numero atomico tra 57 e 63 [Glick, 2007; Prionars et al., 2011]. In generale, si tratta quindi di un fascio con energia media sensibilmente più alta di quelli comunemente usati per la mammografia planare, descritti nella sezione 2.1. Per quanto riguarda i detettori, essi devono rispondere a requisiti come: • un'alta risoluzione spaziale per permettere la visualizzazione delle microcalcificazioni e dei sottili margini delle masse tumorali; • una potenza elevata per permettere la raccolta dei dati grezzi delle molte proiezioni in un ridotto periodo di tempo; • un ridotto rumore elettronico in modo da poter ottenere immagini a bassa dose mantenendo un buon rapporto segnale-rumore [Shaw, 2014]. I detettori più utilizzati nei prototipi sono flat-panel digitali a conversione indiretta, costituiti da uno strato di materiale scintillatore (Ioduro di Cesio) accoppiato a una matrice di TFT e di fotodiodi su un substrato di Silicio amorfo. Le dimensioni tipiche sono di 30x40 cm e le immagini ottenute hanno una matrice di 1024x768 pixel (la dimensione di un singolo pixel è 0,38 mm 2) [Kwan, 2007; O'Connel, 2010]. Oltre a questo tipo di detettori, in alcuni prototipi è stato utilizzato un rivelatore con tecnologia CMOS o in Tellurio di Cadmio (CdTe), come il detettore denominato PIXIRAD, utilizzato nel progetto 71 SYRMA-CT al sincrotrone di Trieste e di cui verrà fornita una descrizione nel capitolo 4, o in Tellururo di Cadmio drogato con Zinco (CZT), come quello utilizzato dai ricercatori dell'Università della California [Bellazzini et al., 2013; Ding et al., 2014]. Infine ci sono gli algoritmi di ricostruzione delle immagini. Dagli studi condotti è stato dimostrato che i metodi più efficaci e che più rispondono alle esigenze della tecnica sono i metodi iterativi. Il principale vantaggio di questi sistemi, rispetto alla tradizione Filtered Back Projection, è la bassa quantità di rumore a parità di risoluzione spaziale. Questo vantaggio può essere sfruttato per eseguire esami di BCT a bassa dose [Nuyts et al., 2013]. 2.4.3 Primi studi clinici Il primo studio condotto su pazienti è stato approvato nel 2004 e condotto dal gruppo di ricerca dell'Università della California, con 10 pazienti volontarie sane e di età compresa tra i 40 e i 67 anni, per valutare la qualità delle immagini CT [Lindfors et al., 2008]. Dati gli eccellenti risultati di questo studio pilota, vennero esaminate 69 pazienti, sia sintomatiche che asintomatiche, dai 36 agli 82 anni di età, con la presenza già documentata di lesioni. Le immagini ottenute con la BCT sono state poi confrontate con quelle ottenute in precedenza dalla mammografia. I risultati ottenuti hanno evidenziato una miglior visualizzazione delle masse con l'esame di BCT, ma la mammografia tradizionale si è dimostrata più sensibile nell'individuare microcalcificazioni. Inoltre, le donne sottoposte a questo primo studio hanno manifestato una miglior compliance per quanto riguarda la BCT, data dal posizionamento più agevole [Lindfors et al., 2008]. Successivamente (dal 2006 al 2008) un secondo studio clinico è stato condotto dal gruppo dell'Università di Rochester. In questo 72 studio sono state esaminate 23 pazienti con diagnosi dubbia a seguito di una mammografia convenzionale eseguita 6 mesi prima. Anche in questo caso gli obiettivi dello studio erano principalmente valutare la qualità delle immagini ottenute, confrontandole con quelle della mammografia convenzionale, mantenendo la dose di radiazioni impartita alla mammella a livelli confrontabili con quelli tipici della mammografia. In particolare la dose somministrata nell'esame di BCT si è attestata si valori variabili da 4 a 12,8 mGy, e quindi paragonabili a quelli riscontrati in un esame mammografico, il cui range è stato calcolato andare da circa 2,2 a 15 mGy. Per quanto riguarda la qualità delle immagini è stato verificato che molte microcalicificazioni e tutte le masse viste con la mammografia risultavano osservabili anche nelle immagini di breast-CT [O' Connell et al., 2010]. 73 Capitolo 3 IL SINCROTRONE Il progetto di collaborazione SYRMEP (SYnchrotron Radiation for MEdical Physics) conduce da tempo ricerche nel campo dell’imaging medico diagnostico utilizzando la radiazione di sincrotrone come sorgente di raggi X. L’obbiettivo principale è l’ottimizzazione degli esami in mammografia con il proposito di migliorare la qualità delle immagini riducendo al tempo stesso la dose di radiazione. A tale scopo è stata costruita una linea di luce presso il sincrotrone ELETTRA di Trieste che sfrutta le caratteristiche peculiari della radiazione di sincrotrone e che verrà descritta in questo capitolo [Abrami 2005]. 3.1 LA LUCE DI SINCROTRONE Il sincrotrone è un tipo di acceleratore circolare e ciclico in grado di accelerare particelle all'interno di un tubo vuoto e con velocità prossima a quella della luce [wikipedia]. La radiazione elettromagnetica che viene emessa, chiamata luce di sincrotrone, viene prodotta quando queste particelle subiscono delle deflessioni nella loro traiettoria a causa di campi magnetici. Il sincrotrone ELETTRA di Trieste utilizza come particelle elettroni di energia pari a 2,0-2,4 GeV che percorrono un condotto quasi circolare di 260 m di circonferenza [http://www.elettra.trieste.it/]. 74 La sorgente della linea SYRMEP è uno dei 12 magneti curvanti di Elettra. Il fascio di radiazioni che ne scaturisce ha le caratteristiche di essere molto intenso, collimato e con forma a ventaglio, alto qualche millimetro e largo qualche decina di centimetri, aperto nel piano dell'orbita, come mostrato in figura 3.1. Figura 3.1 - Rappresentazione grafica della geometria di un fascio di luce di sincrotrone. Tuttavia, la geometria del fascio può essere variata mediante l'uso di determinate ottiche e inoltre, grazie a opportuni cristalli detti monocromatori, è possibile ottenere fasci praticamente monocromatici (monoenergetici) di energia selezionabile a piacere in un ampio spettro energetico [Astolfo, 2006]. Facendo incidere, infatti, un fascio collimato di raggi X su di un cristallo si osservano fenomeni di diffrazione causati dall'interazione del fascio con il reticolo cristallino. Tali fenomeni possono essere utilizzati per isolare una componente monocromatica dal fascio incidente. Il monocromatore è quindi un dispositivo in grado di estrarre da un fascio di luce policromatica un fascio di luce monocromatica facendo variare l'angolo di incidenza del fascio stesso su reticolo cristallino. 75 I principali vantaggi di avere un fascio monocromatico sono una migliore qualità dell'immagine e una riduzione della dose di radiazione [Longo, 2011]. In particolare, l'energia di ogni singolo esame radiografico può essere ottimizzata a seconda delle caratteristiche del paziente. La radiazione emessa dal magnete curvante viene trasportata nelle postazioni di sperimentazione per mezzo di linee di luce o linee di fascio (beamline). Tipicamente, la beamline può essere lunga qualche decina di metri. Questo, unito alle ridotte dimensioni della sorgente (determinate dalle dimensioni del pacchetto di elettroni che circola all'interno dell'anello), implica una geometria molto diversa dalla geometria dei tubi radiogeni. È proprio questa geometria, caratterizzata da una elevata coerenza spaziale, che premette di applicare la tecnica del contrasto di fase (si veda la sezione 3.3.3) [Rigon, 2014]. La linea SYRMEP, ad esempio, è lunga circa 30 m e le dimensioni della sorgente sono dell'ordine di qualche centinaio di micron [Tromba et al., 2010]. 3.2 LA BEAMLINE SYRMEP La linea di luce SYRMEP, che ha preso il nome dal sopra citato progetto di ricerca, è stata negli ultimi anni protagonista di vari studi sperimentali di imaging. La beamline ha la funzione di portare il fascio di luce prodotto dalla sorgente (uno dei magneti curvanti dell'anello) alla postazione di sperimentazione, adibita all'esecuzione dell'esame mammografico e posta all'esterno della circonferenza, ma prima di arrivare a tale postazione il fascio passa attraverso una serie di sale, in cui viene appositamente modificato in modo tale da poter essere utilizzato [Abrami, 2005]. 76 Una rappresentazione schematica della linea di luce SYRMEP è visibile in figura 3.2. Figura 3.2 - Schema dei vari passaggi che linea di luce SYRMEP attraversa nel suo percorso. Il fascio prima di tutto entra nella sala ottica, dedicata alla sua preparazione e prima parte della linea, viaggiando in un ambiente di ultra-alto vuoto. Qui una finestra in berillio, spessa 2 mm, filtra il fascio attenuando la parte di radiazione con energia inferiore a 8 keV [Astolfo, 2006]. Successivamente un primo sistema di fenditure in rame (slits), movimentate con precisione micrometrica da appositi motori, determina la sezione del fascio incidente sul monocromatore. La selezione energetica viene effettuata ruotando i cristalli del monocromatore in modo da variare l'angolo di incidenza del fascio e permettendo la disponibilità di energie comprese tra circa gli 8 e i 40 keV, range che contiene ampiamente l'energia utile per la mammografia [Castelli, http://www.lns.infn.it]. Dopo una seconda finestra di berillio, il fascio prosegue il suo cammino in aria, subisce un'eventuale filtrazione di alluminio (per ridurre l'intensità della radiazione) ed infine entra nella sala sperimentale grazie ad un'apposita fenditura situata nella parete. Questa sala contiene un altro sistema di controllo e di preparazione 77 del fascio che consiste in un secondo dispositivo di sagomatura del fascio detto “slit paziente”, due camere a ionizzazione per il controllo della dose e tre otturatori detti “shutters” che hanno la funzione di aprire e chiudere il fascio di raggi X molto velocemente per garantire la sicurezza della paziente [Longo, 2007]. Il fascio di luce esce quindi dalla sala sperimentale ed entra nella sala paziente dove avviene l'esame. Questa sala è quindi dotata di lettino, sistema di rivelazione ed esposimetro [Tromba, 2010]. Inoltre vi è anche un sistema che permette di visualizzare il campo di radiazione e la posizione del fascio in modo da consentire i corretto centraggio della mammella. Il lettino, mostrato in figura 3.3, è stato progettato appositamente per lo studio mammografico e tomografico. Infatti, essendo il fascio di radiazione laminare e situato ad un'altezza fissa, è necessario che l'oggetto in esame e il sistema di rivelazione traslino verticalmente durante l'esposizione. La meccanica che sta alla base della sua progettazione, infatti, consente un movimento a tre gradi di libertà: movimenti di traslazione verticale, orizzontale e movimenti di rotazione, per eventuali proiezioni oblique e per proiezioni tomografiche [Abrami, 2005 – Dreossi, 2008]. Figura 3.3 - Lettino portapaziente nella sala paziente della linea SYRMEP. 78 Infine vi sono altre due sale: la sala radiologo e la sala di controllo. La prima è situata adiacente a quella paziente e vi si trovano il medico radiologo e il tecnico radiologo che gestiscono l'esame tramite una consolle; la sala di controllo, invece, situata al piano superiore della postazione viene utilizzata durante le altre attività di ricerca e vi sono situati varie strumentazioni e sistemi di controllo [Abrami, 2005]. 3.3 MAMMOGRAFIA CON LUCE DI SINCROTRONE: LA PRIMA SPERIMENTAZIONE CLINICA Alla linea SYRMEP gli studi di mammografia vengono eseguiti con appositi fantocci e tessuti in vitro fin dal 1996, per esplorare le potenzialità della luce di sincrotrone, con particolare riguardo alla tecnica a contrasto di fase [Arfelli, 1998]. I risultati di questi studi furono così soddisfacenti che nel 2000 iniziò il primo progetto in vivo, denominato SYRMA (Synchrotron Radiation Mammography), con l'intento di risolvere quei casi che con una mammografia convenzionale ottengono una diagnosi dubbia; a questo scopo la beamline dedicata venne profondamente modificata per permettere lo studio su pazienti [Abrami, 2005]. L'inizio della sperimentazione clinica arrivò alla fine di un lungo iter di autorizzazioni, partito nel 2004, quando il Comitato etico dell'Azienda Ospedaliero-Universitaria di Trieste si è espresso a favore della ricerca, con il relativo protocollo di arruolamento delle pazienti [AIOM, 2006]. Nel 2006 venne eseguita la prima mammografia al mondo con luce di sincrotrone. Nei quattro anni successivi sono state sottoposte alla procedura 71 pazienti di età compresa tra i 41 e i 82 anni scelte con i seguenti criteri: 79 • diagnosi negativa alla mammografia, ma presenza di un nodulo palpabile e non ben dimostrabile agli ultrasuoni; • asimmetria nella densità tissutale tra i due seni rilevata nelle immagini mammografiche, non chiarita agli ultrasuoni; • evidenza di distorsioni parenchimali nelle mammografiche, non chiarite agli ultrasuoni; immagini • presenza sospetta di una massa nelle immagini mammografiche, ma non confermata in ecografia [Castelli et al., 2011 – Fedon, 2014]. In sostanza si trattava quindi di pazienti che avevano ricevuto una diagnosi dubbia o sospetta alla mammografia digitale in ospedale, e che necessitavano quindi di ulteriori approfondimenti, per cui si poteva ritenere che potessero beneficiare dall’esame al sincrotrone. 3.3.1 Protocollo di acquisizione La paziente viene posizionata prona nel lettino con la mammella lasciata pendula attraverso un foro di forma e geometria adattate all'anatomia del seno. La mammella, analogamente a ciò che avviene in un esame mammografico convenzionale, viene compressa tramite un compressore formato da due piastre, una in fibra di carbonio e l'altra in policarbonato. La compressione è necessaria per fare in modo che lo spessore della mammella sia uniforme e che le fibre del tessuto mammario vengano distese [Dreossi, 2008]. La mammella viene poi centrata nel campo di acquisizione per la scansione grazie ai movimenti del lettino. Il sistema di rilevazione è posto a 2 m di distanza dal seno in 80 esame, distanza considerata ottimale per sfruttare al meglio la tecnica a contrasto di fase. In questa prima sperimentazione clinica il tipo di rivelatore utilizzato riguarda un sistema tradizionale a schermo-pellicola Kodak (modello) con FOV di 180 x 240 mm2 [Tromba, 2010]. L'acquisizione dell'immagine, come già accennato in precedenza, avviene grazie al movimento di traslazione verticale a velocità costante sia del lettino, sia del detettore (figura 3.4). Figura 3.4 - Schema dell'acquisizione in BCT con luce di sincrotrone. a) fascio di raggi X, b) lettino portapaziente, c) compressore in posizione aperta, d) detettore, e) movimento di traslazione verticale, f) movimento di rotazione. Una coppia di camere a ionizzazione, appositamente progettate per soddisfare in modo efficiente la geometria del fascio e dotate di un elettronica di lettura personalizzata, agiscono controllando il flusso di radiazioni. Esse rappresentano il sistema chiave per la sicurezza radiologica delle pazienti e per la corretta esecuzione di un esame efficace. Queste camere, infatti, vengono utilizzate insieme ad un esposimetro a stato solido (formato da quattro diodi semiconduttori) posto a valle della paziente per determinare i parametri di esposizione calcolati dopo una breve pre-esposizione a bassa dose [Dreossi, 2008]. 81 Le proiezioni che vengono acquisite sono le stesse di un esame mammografico convenzionale: la proiezione cranio-caudale e la proiezione obliqua medio-laterale. La durata dell'esame è di circa 10 secondi per ogni immagine [Castelli et al., 2011]. 3.3.2 Parametri di esposizione Il parametro più importante da selezionare per la mammografia con luce di sincrotrone è il livello energetico della radiazione, che può avere un range compreso tra 17 e 22 keV, in accordo con lo spessore e densità della mammella. Il livello energetico è scelto in modo tale che sia il più basso possibile per aumentare il contrasto nel parenchima mammario, ma facendo attenzione alla dose ghiandolare media (MGD dall'inglese Mean Glandular Dose, si veda la sezione 3.3.4), che deve essere paragonabile o inferiore a quella stimata in un esame convenzionale eseguito in ospedale [Castelli et al., 2011]. In pratica, questi criteri si concretizzano scegliendo l’energia facendo riferimento alla seguente tabella (tabella 1) [Fedon, 2014]. Energy (keV) Thickness class (cm) 2 3 4 5 6 7 Low 17,5 18,5 18,5 18,5 19 20 Glandularity Medium 18 18,5 19 19,5 20 20,5 High 18 18,5 19 19,5 20,5 21 Tabella 1. Energie del fascio per diversi spessori e ghiandolarità. 82 3.3.3 La tecnica del contrasto di fase Come abbiamo già detto, nelle immagini radiologiche il contrasto è dato dall'assorbimento differenziale delle radiazioni da parte del tessuto irradiato. Il grosso limite nello sfruttare questo principio è che se ci sono strutture a basso contrasto, cioè con densità simili, queste possono non essere viste come distinte nell'immagine inficiando la risoluzione spaziale. Questo problema viene superato con la luce di sincrotrone grazie alla tecnica “phase contrast”. In questa tecnica, quando il fascio X (considerato nella sua natura ondulatoria) attraversa un oggetto, subisce una variazione di fase del fronte d'onda [Arfelli et al., 1998; 2003]. Pertanto i fotoni X che attraversano un dettaglio avranno una fase diversa da quelli che invece non lo attraversano e perciò risulteranno sfasati rispetto agli altri (figura 3.4). Figura 3.4 - Rappresentazione grafica della tecnica a contrasto di fase. Le onde sfasate interferiscono tra loro e ciò comporta la produzione di frange di interferenza. Il notevole vantaggio di ciò è dato dal fatto che se l'oggetto attraversato ha lo stesso indice di assorbimento del materiale in cui è immerso, il contrasto di fase permette comunque la sua visibilità evidenziandone i bordi, cosa che in radiologia tradizionale non sarebbe possibile [Arfelli et al., 83 2000]. In figura 3.5 è riportato un esempio di quanto appena detto. Figura 3.5 - Confronto tra due mammografie dello stesso seno. a) immagine ottenuta con mammografia digitale tradizionale. b) immagine ottenuta con luce di sincrotrone tramite la tecnica del contrasto di fase [Dreossi, 2008]. Tuttavia, dato che l'effetto di questa interferenza viene a crearsi lungo il bordo del dettaglio entro una regione angolare molto piccola, di circa 10 μrad, esso potrebbe non essere rivelato. Per superare questo problema è indispensabile ottimizzare la distanza oggetto-rivelatore in base alla risoluzione spaziale del rivelatore: questo porta a forti interferenze dell'intensità rilevata lungo i bordi dei dettagli, pertanto la loro visibilità sarà altamente migliorata [Arfelli et al., 2000]. 3.3.4 La dose ghiandolare media La dose ghiandolare media (MGD o AGD – Average Glandular Dose) è un parametro riconosciuto a livello internazionale come indicativo del rischio radiologico associato all'esame mammografico [Rossetti – Peruzzo Cornetto, 2008]. Questo parametro, la cui unità di misura è il Gray (Gy) è una grandezza non direttamente misurabile, perciò va calcolato secondo la seguente formula: 84 MGD= ESAK⋅g⋅c⋅s in cui ESAK (dall'inglese Entrance Surface Air Kerma) è la dose incidente sulla superficie della mammella (senza tener conto della radiazione diffusa), g è un fattore di conversione tra la dose incidente e la dose ghiandolare media (supponendo una ghiandolarità del 50% e uno spettro a raggi X standard, cioè con accoppiamento anodo-filtro Mo-Mo), c è un fattore di correzione che corregge per differenti composizioni della mammella e s è un fattore di correzione per spettri energetici differenti da quello standard [Golinelli, 2010]. Nella prima sperimentazione clinica con luce di sincrotrone (MSR, Mammography with Synchrotron Radiation), sopra descritta, il parametro MGD e il parametro ESAK sono stati stimati e confrontati con quelli ricavati dagli esami mammografici convenzionali eseguiti in ospedale (DM, Digital Mammography). I risultati di tale confronto sono riassunti in figura 3.6 in cui vengono rappresentati i valori di ESAK in funzione dello spessore della mammella compressa per le due tecniche di esame e per entrambe le proiezioni (cranio-caudale e obliqua medio-laterale). Figura 3.6 - Grafici dei valori ESAK per mammografia digitale (in blu) e mammografia con luce di sincrotrone (in verde). A sinistra: proiezione craniocaudale. A destra: proiezione obliqua medio-laterale [Fedon, 2014]. 85 Come si può notare dai grafici in figura 3.6, il parametro ESAK nella MSR è circa costante per ogni spessore della mammella compressa, mentre nella DM il parametro è proporzionale allo spessore del seno. Questo implica un'importante riduzione della dose in cute per mammelle spesse [Fedon, 2014]. Anche il valori di MGD ricavati dalla MSR sono risultati sensibilmente inferiori (in media del 42%) rispetto a quelli calcolati dalla DM. Una spiegazione di questo risultato è data dal fatto che il fascio di SR, monocromatico, è privo di fotoni a bassa energia, che invece sono presenti negli spettri a raggi X di una mammografia convenzionale. Le basse energie, infatti, interagiscono con la materia depositando dose per effetto fotoelettrico e non danno alcun contributo all'immagine mammografica perchè si fermano a livello del tessuto mammario. Pertanto, con un fascio monocromatico come quello del sincrotrone, aumentando l'energia l'effetto fotoelettrico va diminuendo e di conseguenza anche la dose. Pertanto, le MGD calcolate negli esami convenzionali sono risultate superiori a quelle calcolate nell'indagine al sincrotrone. La riduzione di entrambi i parametri, ESAK e MGD, con fascio monocromatico, mantenendo una qualità relativamente alta dell'immagine, potrebbe essere ulteriormente migliorata utilizzando rivelatori digitali invece del sistema schermo-pellicola [Fedon, 2014]. 3.3.5 Risultati Il principale risultato di questo studio è stato un aumentato numero di veri-negativi. Le pazienti con questo risultato, infatti, hanno sicuramente beneficiato dell'esecuzione della mammografia con luce di sincrotrone, perchè essa ha evitato procedure invasive di accertamento della diagnosi. In quattro delle 71 pazienti esaminate entrambe le tecniche 86 mammografiche, convenzionale e con luce di sincrotrone, hanno dato una diagnosi errata dovuta all'elevata densità del tessuto mammario. L'elevata densità dell'organo si è quindi dimostrata un limite per entrambe le metodiche perchè il tessuto mammario sano nasconde possibili alterazioni. È stata fatta anche una valutazione della qualità delle immagini paragonando le immagini ottenute con il mammografo in ospedale con quelle ottenute al sincrotrone, e che contenessero sia tessuto normale che tessuto alterato. A tale scopo è stato adottato un sistema a punteggio e i risultati furono che le immagini provenienti dalla mammografia con luce di sincrotrone raffiguravano con un'elevata precisione sia le strutture anatomiche normali, come ghiandola e grasso, sia quelle anomale come masse e microcalcificaizioni. La futura introduzione della mammografia con luce di sincrotrone come esame di secondo livello nella pratica clinica sembra essere al momento discutibile a causa della limitata disponibilità della tecnica. Tuttavia eventuali ulteriori soluzioni al problema includono lo sviluppo di unità mammografiche portatili in grado di produrre un fascio di raggi X con caratteristiche simili, ma non identiche, alla luce di sincrotrone e unità con set-up che permettono un certo grado di contrasto di fase [Castelli et al., 2011 – Rigon, 2014]. 87 Capitolo 4 BREAST-CT CON LUCE DI SINCROTRONE La diagnostica senologica si sta muovendo con forza verso la tomografia, tecnica che, come già visto nel capitolo 2, è ancora in fase di sviluppo. Alcuni studi preliminari di Breast-CT sono già stati svolti presso la beamline SYRMEP con risultati interessanti, sia dal punto di vista dosimetrico sia dal punto di vista della qualità delle immagini. In questo capitolo verranno descritti in breve gli studi preliminari di fattibilità precedentemente condotti e il progetto SYRMA-CT, di recente approvazione. 4.1 BREAST-CT CON LUCE DI SINCROTRONE: STUDI PRELIMINARI Dati gli eccellenti risultati ottenuti in mammografia con SYRMA, la sperimentazione con luce di sincrotrone si è volta in seguito verso la breast-CT. Sono stati infatti condotti degli studi di fattibilità con un detettore digitale denominato PICASSO (Phase Imaging for Clinical Application with Silicon detector and Synchrotron radiatiOn), un prototipo in grado di sfruttare a pieno le caratteristiche peculiari della luce di sincrotrone e utilizzabile per effettuare immagini 3D come appunto quelle tomografiche o di tomosintesi [Lopez et al., 2014]. Lo studio è stato condotto su tre fantocci creati appositamente allo scopo di studiare sia la risoluzione spaziale e di contrasto del 88 detettore, sia la dose erogata [Tapete, 2008; Rigon et al., 2011]. L'energia considerata ottimale e che è stata utilizzata in questo studio era di circa 26,5 keV. La valutazione della risoluzione di contrasto con il fantoccio apposito ha evidenziato la possibilità di rivelare differenze piuttosto piccole tra strutture simili impartendo però una dose significativa, calcolata in aria all'ingresso del fantoccio, dell'ordine di 10mGy. Invece, nell'analisi della risoluzione spaziale, la dose è risultata sensibilmente ridotta, mostrando dettagli ad alto contrasto (di circa 0,5 – 0,7 mm di diametro) con solo 3 mGy di dose. L'acquisizione delle immagini è avvenuta grazie alla possibilità di movimento rotatorio del lettino portapaziente attorno all'asse della mammella, in questo caso del fantoccio. Un problema che si è riscontrato, però, è l'impraticabilità dell'acquisizione di tutto l'oggetto: a causa della natura laminare del fascio di luce di sincrotrone una rotazione completa consentirebbe di acquisire una sezione assiale spessa solo qualche millimetro; tuttavia, si è pensato che la breast-CT potrebbe essere utilizzata in associazione alle immagini planari mammografiche, in modo da individuare una possibile anomalia prima e focalizzare lo studio tomografico solo su di un limitato numero di sezioni assiali [Tapete, 2008; Rigon et al., 2011]. Da questo presupposto è nato quest'anno il progetto SYRMACT, di seguito riportato. 4.2 IL PROGETTO SYRMA-CT L'obiettivo di SYRMA-CT è di mantenere la leadership italiana nella mammografia in contrasto di fase estendendo il programma clinico della linea SYRMEP alla tomografia della mammella, per ottenere immagini CT mammografiche che sfruttino al meglio gli effetti di fase che non sono osservabili con le attuali Cone-Beam 89 Breast-CT. Per questo progetto verrà utilizzato il detector Pixirad, un rivelatore photon counting dalle prestazioni ottimali in termini di efficienza e risoluzione, di cui verrà fornita una descrizione in seguito [Bellazzini et al., 2013]. Altro aspetto critico per il successo del progetto sarà l'ottimizzazione dosimetrica che implica un'opportuna scelta dell'energia (nel range 20-38 keV), della risoluzione spaziale del detector, della modalità e dei parametri di acquisizione tomografica. Nel primo anno di sperimentazione verrà studiata in particolare la geometria di acquisizione ottimale e l'applicazione di tecniche iterative di ricostruzione tomografica. 4.3 PIXIRAD PIXIRAD è un innovativo sistema di rivelazione a raggi X, con caratteristiche digitali intrinseche e di recente sviluppo. Esso si basa su una tecnologia chormatic photon-counting, cioè il detettore è un grado di contare individualmente i fotoni X incidenti separandoli in base alla loro energia. La selezione dei fotoni in base alla loro energia avviene in tempo reale, durante l'esposizione radiografica e la frequenza di conteggio globale è dell'ordine dei GHz [Bellazzini et al., 2013]. Questo detettore può essere formato da più blocchi. Una singola unità consiste in un sensore a stato solido, di semiconduttore al Tellurio di Cadmio (CdTe), collegato per la lettura ad un sistema ASIC (Application Specific Integrated Circuit) CMOS (Complementary Metal-Oxyde Semiconductor) tramite una tecnica chiamata “bump bonding”, cioè un sistema che permette di connettere un dispositivo semiconduttore a un circuito esterno [Wikipedia]. Il sistema ha quindi una architettura ibrida in cui il sensore e elettronica di lettura sono prodotti e trattati 90 separatamente [Bellazzini et al., 2013]. L'ASIC CMOS ha una superficie attiva di 30,7 x 24,8 mm 2, organizzato come una matrice esagonale di 512 x 476 pixel, che corrispondono ai pixel sul cristallo di CdTe, dello spessore di 650 micron. Esso si basa su una logica di discriminazione: particelle interagenti che soddisfano una data energia richiesta, producono un segnale nel pixel. In genere, la carica depositata in un sensore, a seguito dell'interazione con le radiazioni, è amplificata da un preamplificatore e da ciò viene prodotto un impulso. Successivamente questo impulso viene confrontato con due soglie tramite due discriminanatori. Ogni pixel infatti ha due contatori e due soglie. In modalità di lettura, i registri delle diverse colonne di pixel vengono serializzati e il loro contenuto viene estratto dal circuito sotto il controllo di un segnale di clock esterno [Bellazzini et al., 2013]. In figura 4.1 è riportato uno schema semplificato di quanto appena detto. Figura 4.1 - Schematizzazione del sistema PIXIRAD. Il detettore che verrà utilizzato nelle attività del progetto SYRMACT, è PIXIRAD-8 cioè con otto unità PIXIRAD accoppiate. 91 Questo sistema è particolarmente adatto a SYRMA-CT in quanto: • il sensore ha efficienza prossima al 100% nel range energetico di interesse; • il count-rate superiore a 30 GHz ne permette l'utilizzo con il fascio di ELETTRA; • la soglia minima impostabile a partire da 2 keV lo rende “noiseless”; • il frame-rate fino a 30 frames/s permette l'utilizzo anche con rotazione continua della paziente. L'efficacia di PIXIRAD-8 in tomografia è già stata dimostrata da uno studio condotto recentemente su una viola Amati del 1620. In questo studio sono state eseguite sia immagini planari sia immagini tomografiche e i risultati sono stati notevoli. Come si può notare dalle figure 4.2a e 4.2b le immagini sono estremamente nitide e rivelano la microstruttura del legno utilizzato, vernici, imperfezioni e una serie di altri dettagli [Bellazzini, http://indico.cern.ch]. 92 Figura 4.2 - Immagini di una viola Amati del 1620 irradiata con luce di sincrotrone e ottenute grazie al sistema di rivelazione PIXIRAD-8. a) Immagini planari. b) Immagini tomografiche. 4.4 FANTOCCI UTILIZZATI In questa prima fase del progetto SYRMA-CT sono stati utilizzati vari fantocci, ciascuno con un fine ben preciso. Di seguito varranno descritti in particolare tre tipi di oggetti-test, importanti per valutare in particolare la dose ghiandolare media correlata alla qualità delle immagini. 4.4.1 ELLE_cil ELLE_cil è un fantoccio cilindrico, in polimetilmetacrilato (PMMA), di 10 cm di diametro. All'interno di questo cilindro sono inserite 8 inclusioni del diametro di 1 cm, ciascuno dei quali simula componenti differenti all'interno della mammella, come illustrato nell'immagine (figura 4.3) e nella tabella 2 seguenti: 93 Figura 4.3 - Immagine di una sezione assiale del fantoccio ELLE_cil con inserti numerati. Numero inserto Materiale 1 Etanolo al 35% 2 Acqua (H2O) 3 Tessuto fibroso 4 Paraffina 5 Tessuto tumorale 6 Glicerolo 7 Tessuto adiposo 8 Cloruro di Calcio (CaCl2) Tabella 2. In riferimento alla figura 4.3, la tabella correla ogni inserto al materiale di cui è costituito. Come si può notare dalla tabella 2 vi è una grande varietà di materiali impiegati; in particolare gli inserti 3, 5 e 7, dalle forme irregolari, sono tessuti biologici, gli altri inserti (1, 2, 4, 6 e 8), invece, sono costituiti da materiale inorganico. Tutti gli inserti sono immersi in un gel di agarosio all'1%, un 94 materiale che ha la proprietà di attenuare le radiazioni X analogamente all'acqua, la quale, a sua volta, crea con il background di PMMA un contrasto pressochè nullo (basti vedere il dettaglio 2 nella figura 4.3); pertanto il gel di agarosio costituisce un valido background per valutare il diverso contrasto dato dai vari inserti. 4.4.2 Triple Modality Biopsy Training Phantom Triple Modality Biopsy Training Phantom (modello 051) è un fantoccio commerciale che solitamente viene utilizzato per simulare esami ecografici, mammografici e risonanze magnetiche nucleari. Questo oggetto-test può essere infatti compresso e presenta caratteristiche di densità e attenuazione dei raggi X simili a quelle di una mammella reale contenente in media il 50% di tessuto ghiandolare, inoltre, ha forma e consistenza anatomiche. Le dimensioni di tale fantoccio sono di 12 cm in lunghezza, 10 cm in larghezza e 9 cm in altezza, per un volume di circa di 500 cm2. Il materiale con cui è costituito è Zerdine, un materiale tessuto equivalente nel quale sono inserite 6 masse più dense dai 2 agli 8 mm di diametro e 6 masse dalla densità cistica (acquosa) dai 3 ai 10 mm di diametro. In figura 4.4 è riportato un disegno schematico del fantoccio [CIRS]. Figura 4.4 - Disegno schematico dell'interno del Triple Modality Biopsy Training Phantom, con inserti di varie dimensioni e densità (in bianco inserti densi, in nero inserti di densità cistica). 95 4.4.3 Fantocci con tessuto biologico Questi due particolari fantocci sono costituiti da una massa tumorale asportata da una paziente durante un intervento di quadrantectomia e sono stati chiamati T9762/1 e T9830/1. Il primo, la cui lesione presenta un diametro di circa 25 mm ed è classificata come un carcinoma poco differenziato (di grado 3), papillare solido e di tipo aggressivo, è stato utilizzato per acquisizioni in aria: il tessuto biologico durante l'acquisizione è stato conservato all'interno di una bustina sterile. Il secondo fantoccio, invece, con un carcinoma duttale infiltrante di circa 15 mm di grandezza, è stato realizzato con del gel di agarosio contenuto all'interno di una coppetta del diametro di circa 10 cm. All'interno della coppetta e circondato dal gel è stata, quindi, immersa la bustina sterile contenente il tessuto biologico, per rendere l'oggetto-test e l'acquisizione il più possibile vicini ad una condizione reale. 4.5 SET-UP Il set-up utilizzato nelle acquisizioni tomografiche dei fantocci prevede innanzitutto un preciso allineamento degli stessi con il fascio radiante e il detector, conseguenza soprattutto del fatto che la sorgente di radiazione è fissa ad una certa quota. Vengono pertanto eseguiti spostamenti di traslazione orizzontale e verticale del lettino portapaziente affinchè la sezione assiale di interesse giaccia sullo stesso piano del fascio radiante. Anche il rivelatore viene allineato rispetto al fascio mediante traslatori verticali ed orizzontali. Inoltre, il rivelatore e' dotato di un movimento di rotazione (il cui asse risulta parallelo al fascio stesso) che permette di far coincidere la direzione dell'asse di rotazione del campione (verticale) con la direzione delle colonne dei pixel del 96 rivelatore. In questo modo, ogni riga di pixel del rivelatore acquisirà una sezione assiale indipendente dalle altre. Un altro aspetto importante del set-up sono le distanze sorgentedetector e fantoccio-detector: la prima è di 31,8 m ed è fissa, la seconda invece si può regolare ed è stata considerata come ottimale una distanza pari a 1,7 m per permettere di sfruttare al meglio la tecnica del contrasto di fase. 4.5.1 Parametri di acquisizione Le acquisizioni tomografiche di tutti i fantocci sopra descritti sono state effettuate con energia del fascio X impostata a 38 keV e una filtrazione di 6 mm di alluminio, fatta eccezione per il fantoccio ELLE_cil che è stato acquisito senza alcuna filtrazione. Il fascio, come già accennato nel capitolo 3, ha una geometria laminare le cui dimensioni in sala paziente sono di 4 mm in altezza e 150 mm in larghezza [Arfelli et al., 2003]; le acquisizioni sono state effettuate in modalità step&shoot su un arco di circonferenza di 180°, ovvero le proiezioni vengono acquisite singolarmente con l'oggetto fermo per un tempo di 50 ms, intervallate da uno spostamento angolare dell'oggetto-test. La scelta di acquisire a 180° deriva dal fatto che, a differenza della tomografia tradizionale, la radiazione di sincrotrone prevede un fascio monocromatico e fortemente collimato che quindi, non risentendo di fenomeni di divergenza, porta ad una maggior precisione nella raccolta dei dati grezzi. Pertanto, un arco di 180° è sufficiente a permettere una ricostruzione di immagini di qualità. Ciò che differenzia i tre fantocci nell'acquisizione sono l'intervallo angolare tra una proiezione l'altra, quindi il numero totale di proiezioni acquisite e la dose ghiandolare media. Il set completo di immagini ottenute dal fantoccio ELLE_cil è di 97 1440 proiezioni acquisite con intervallo angolare di 0,125° e la dose ghiandolare media per tutte le proiezioni è risulatata di circa 60 mGy. Per quanto riguarda il Triple Modality Biopsy Training Phantom le proiezioni totali sono invece 1200 acquisite con intervalli angolari di 0,15°. La dose ghiandolare media è sensibilmente inferiore rispetto a ELLE_cil, infatti è di circa 20 mGy. Anche i fantocci contenenti i tessuti biologici sono stati acquisiti come il Triple Modality Biopsy Training Phantom, quindi constano di 1200 proiezioni totali sempre con una dose ghiandolare media che si aggira attorno ai 20 mGy. In particolare, dei fantocci T9762/1 e T9830/1 sono state acquisite anche delle immagini planari con il mammografo GE Senographe DS dell'Unità Complessa Operativa di Radiologia dell'Ospedale di Cattinara (Trieste), per permettere un confronto qualitativo tra le immagini planari e quelle tomografiche. 4.6 RICOSTRUZIONE DELLE IMMAGINI 4.6.1 Metodi di ricostruzione Per la ricostruzione delle immagini i metodi utilizzati in questo studio sono: la Filtered Back Projection (FPB) e i metodi iterativi, in particolare l'algoritmo SART. La scelta di impiegare entrambe queste metodiche è stata fatta per permettere il confronto tra di esse sia in termini di qualità dell'immagine sia di dose erogata. Dal momento che l'algoritmo di FBP è già stato ampiamente descritto nel capitolo 2, in questo paragrafo verranno approfonditi in particolare SART e il suo precursore SIRT, facente parte della stessa categoria di metodi iterativi. Queste tecniche sfruttano i principi base del metodo ART 98 (Algebraic Reconstruction Techniques) che indica una classe di algoritmi iterativi usati in Tomografia Computerizzata. Come già descritto nel capitolo 2, il metodo ART può essere considerato come un risolutore di un sistema di equazioni lineari (concetto valido per i metodi iterativi in generale). In linea generale esso si basa su: • applicazione dei termini di correzione dell'errore per tutti i raggi in una determinata proiezione; • ponderazione longitudinale redistribuiti lungo i raggi; dei termini di correzione • uso di elementi bilineari per l'approssimazione discreta del raggio di integrale di un'immagine continua [Anderson e Kak, 1984]. Queste ricostruzioni tuttavia presentano spesso problemi di rumore con effetto “sale-pepe” nell'immagine ricostruita, che è causato da delle incongruenze introdotte nelle equazioni iterate, dalle approssimazioni comunemente utilizzate. Il risultato è una serie di imprecisioni a cascata che si ripercuotono sul risultato finale con un'alterazione di alcuni pixel che ad ogni iterazione vengono “aggiornati” [Kak e Slaney, 1988]. Il termine SIRT sta per Simoultaneous Iterative Reconstruction Technique ed è molto simile al metodo ART. Il principio di funzionamento, di fatti, è lo stesso e anche SIRT presenta i problemi di imprecisione sopra descritti, ma al contempo propone un miglioramento del sistema eliminando l'aggiornamento continuo dei pixel e quindi conferendo loro maggiore uniformità e di conseguenza minor rumore nelle immagini [Kak e Slaney, 1988]. SART invece sta per Simoultaneous Algebraic Reconstruction Techinque e prende le qualità migliori dei metodi ART e SIRT e le combina al fine di ottimizzare l'iterazione. 99 Il metodo SART, infatti, produce ricostruzioni di buona qualità e precisione numerica con una sola iterazione: per ridurre notevolmente il rumore risultante dalle inevitabili incongruenze applica i termini di correzione per tutti i raggi di una proiezione simultaneamente [Kak e Slaney, 1988]. 4.6.2 Parametri di ricostruzione Le proiezioni acquisite con i vari fantocci sono state ricostruite con matrici da 900x900, 925x925 oppure 1000x1000 pixel. Le dimensioni dei pixel derivano da quelle dei voxel, che sono, come nelle moderne TC multristato, isotropici, per cui ogni sezione assiale è spessa quanto il loro lato e cioè 120 micron. Per quanto riguarda il fantoccio ELLE_cil sono stati ricostruiti set di immagini con diverso numero di proiezioni. Ci sono infatti set da 1440, da 720 e da 360 proiezioni, con rispettivamente 0,125°, 0,25° e 0,50° di intervallo angolare tra una proiezione e l'altra. Per la ricostruzione con 1440 proiezioni è stata utilizzata solo l'algoritmo di FBP, mentre per le altre ricostruzioni è stato utilizzato anche il metodo SART. Inoltre, per il set da 360 proiezioni sono stati applicati anche dei filtri di ricostruzione, uno “leggero” e uno “spinto”, sempre abbinati al metodo SART. Anche la ricostruzione del Triple Modality Biopsy Training Phantom è stata fatta variando il numero di proiezioni utilizzate, raddoppiando quindi l'intervallo angolare tra una proiezione e l'altra. Per questo fantoccio sono stati ricostruiti set di immagini da 1200, da 600 e da 300 proiezioni sempre utilizzando sia l'algoritmo di FBP sia l'algoritmo SART abbinato ai filtri “leggero” e “spinto” per il set da 300 proiezioni. Gli stessi parametri di quest'ultimo fantoccio valgono anche sia 100 per T9762/1 sia per T9830/1. Di seguito vengono riportate come esempio alcune immagini della stessa sezione assiale del fantoccio ELLE_cil, ricostruite con i due metodi sopra citati (FBP e SART) e con diverso numero di proiezioni (figura 4.6). 101 Figura 4.6 - Immagini di una precisa sezione assiale del fantoccio ELLE_cil. a) Ricostruzione con 1440 proiezioni e metodo FBP. b) Ricostruzione con 720 proiezioni e metodo FBP. c) Ricostruzione con 720 proiezioni e metodo iterativo SART abbinato ad un filtro “spinto”. d) Ricostruzione con 360 proiezioni e metodo FBP. e) Ricostruzione con 360 proiezioni e metodo iterativo SART abbinato ad un filtro “spinto”. f) Ricostruzione con 360 proiezioni e metodo iterativo SART abbinato ad un filtro “leggero”. 4.6.3 Rielaborazione delle immagini Al fine di studiare al meglio la qualità delle immagini, sono state rielaborate con il programma di elaborazione per immagini ImageJ [http://imagej.nih.gov/ij] alcune slice di tutti e quattro i fantocci. In particole l'attenzione è stata focalizzata sui set di immagini ricostruite con il minor numero di proiezioni, perchè sono quelle che, come già si può intuire dalla figura 4.6 e come si vedrà nel paragrafo 4.8, presentano maggior rumore quantico. L'elaborazione che è stata eseguita è una somma di immagini per studiare come, variando lo spessore della sezione di due, tre ed infine quattro volte, varino anche la risoluzione spaziale e di contrasto. Essendo infatti ogni slice ricostruita spessa 120 micron (spessore derivato dalla dimensione del voxel isotropico), le rielaborazioni mostrano immagini di sezioni corrispondenti a 102 spessori di 240, 360 e 480 micron. In figura 4.7, di seguito riportata, vengono mostrate queste rielaborazioni applicate su immagini del Triple Modality Biopsy Training Phantom ricostruite con 300 proiezioni e metodo iterativo SART con filtro “leggero”. Figura 4.7 - Immagini del fantoccio Triple Modality Biopsy Training rielaborate con il programma ImageJ. a) Immagine di una singola sezione spessa 120 micron. b) Immagine rappresentativa di due sezioni contigue (240 micron totali di spessore). c) Immagine rappresentativa di tre sezioni contigue, corrispondenti a 360 micron di spessore di fetta. d) Immagine rappresentativa di quattro sezioni contigue (480 micron di spessore). 103 Come si può osservare dalla figura 4.7, all'aumentare dello spessore diminuisce il rumore dell'immagine, con un complessivo miglioramento del rapporto segnale-rumore e della visibilità dei dettagli in questione. Il fantoccio, come descritto nel paragrafo 4.4, dovrebbe contenere sei dettagli, di dimensioni diverse e di densità maggiore rispetto al background (visualizzabili in bianco). Nelle immagini qui sopra riportate se ne possono notare tre, rispettivamente da 4, 6 e 8 mm. Inoltre, mentre tra l'immagine 4.7a e 4.7b si può apprezzare una significativa riduzione del rumore, per le immagini 4.7c e 4.7d il guadagno è meno evidente: probabilmente per poter osservare un ulteriore miglioramento della qualità dell'immagine bisognerebbe aumentare ancora lo spessore della sezione. Per il fantoccio T9762/1, sempre con il set di immagini ricostruite con 300 proiezioni e metodo SART con filtro “leggero”, si è anche provato a realizzare spessori di 7 volte maggiori, cioè di 840 micron. Di seguito, in figura 4.8, è riportata l'immagine risultante a confronto con quella da 120 (una singola sezione), 240 e 480 micron. 104 Figura 4.8 - Immagini del fantoccio T9762/1 rielaborate con il programma ImageJ. a) Immagine di una singola sezione spessa 120 micron. b) Immagine rappresentativa di due sezioni contigue (240 micron totali di spessore). c) Immagine rappresentativa di quattro sezioni contigue, corrispondenti a 480 micron di spessore di fetta. d) Immagine rappresentativa di sette sezioni contigue (840 micron di spessore). Analogamente a quanto avviene in figura 4.7, il rapporto segnalerumore migliora con l'aumentare dello spessore di sezione, conferendo alla lesione margini più netti e definiti. Tuttavia, un occhio attento potrebbe osservare una riduzione della risoluzione di contrasto nell'immagine d, rispetto alle immagini precedenti e, in generale, una lieve sfumatura dei bordi. 4.7 CONSIDERAZIONI DOSIMETRICHE Un aspetto molto importante dello studio condotto è la dosimetria. L'intento, infatti, è stato quello di ottenere immagini di qualità con livelli di dose paragonabili a quelli di una mammografia convenzionale. I fantocci, eccetto ELLE_cil che ha ricevuto una dose elevata (60 mGy), hanno ottenuto una dose di circa 20 mGy, che se messa a 105 confronto con la dose erogata ad una mammografia, risulta sensibilmente più alta. Si ricorda, infatti, che in mammografia la dose va da 2,2 a 15 mGy circa per l'intero esame, comprensivo di due proiezioni. Tuttavia, bisogna far presente che, sebbene queste dosi risultino elevate, sopratutto per quanto riguarda ELLE_cil, esse corrispondono al numero totale delle proiezioni acquisite per ogni sezione e quindi a 1440 per ELLE_cil e 1200 per gli altri fantocci. Pertanto, se si riducesse il numero di proiezioni della metà o di un quarto, anche la dose verrebbe ridotta dello stesso numero di volte. Per questo motivo è stato importante ricostruire e confrontare immagini con 720, o 600 e 360, o 300 proiezioni e con l'impiego di diversi metodi di ricostruzione: esse sarebbero ottenute con rispettivamente 30, o 10 mGy e 15, o 5 mGy e ciò rappresenterebbe un ottimo compromesso tra qualità dell'immagine e dose impartita. Altro parametro da considerare nelle valutazioni dosimetriche è il diametro del fantoccio. Con opportuni calcoli riportati di seguito si può apprendere che con diametri maggiori, a parità di parametri di esposizione, la dose da impartire per ottenere immagini di qualità omogenea risulta maggiore. In particolare, nel nostro caso, il fantoccio T9762/1 risulta avere un diametro medio di 6 cm, mentre il fantoccio T9830/1 ha un diametro di circa 9,6 cm. Per valutare la differenza di dose da erogare ai due fantocci si è innanzitutto calcolato il coefficiente di attenuazione dell'acqua, che, come già accennato, risulta essere molto simile a quello del gel di agarosio, per l'energia di 38 keV. Di seguito si riporta il calcolo: μ 2 ρ =0,282 cm / g e cioè: −1 μ=0,282 cm 106 nelle quali μ è il coefficiente di attenuazione dell'acqua e ρ e la densità, che vale 1 cm3/g.) [https://inis.iaea.org; https://wwwnds.iaea.org;]. Quindi, in riferimento alla legge di Beer, già illustrata nel capitolo 2, si ha che i fasci emergenti I1, per campione T9762/1 e I2, per il fantoccio T9830/1, sono dati rispettivamente da: I 1 =I 0 e −μ d 1 I 2 =I 0 e −μ d 2 in cui d1 e d2 sono i rispettivi diametri medi. Per cui, mettendo a rapporto le due equazioni si ottiene che: I 1 e−μ d = I 2 e−μ d 1 = 2 0,184 =2,76≈3 0,0667 Da ciò si ricava che il fantoccio T9830/1, che rispetto al fantoccio T9762/1 ha un diametro di circa 3,6 cm più grande, ha bisogno di una dose 3 volte maggiore per ottenere la stessa quantità di fotoni che arrivano al rivelatore e quindi lo stesso rapporto segnalerumore. In sostanza, l'immagine di una singola slice del campione T9762/1 ha la stessa qualità di un'immagine ottenuta con tre slice del campione T9830/1. 4.8 VALUTAZIONE DELLE IMMAGINI Osservando le immagini sopra riportate si può chiaramente notare che in tutte emerge un artefatto ad anelli che si espande a partire dal centro dell'immagine. Tuttavia, facendo riferimento alla figura 4.6, questo artefatto sembra venire meno col diminuire del numero di proiezioni utilizzate per la ricostruzione: il rumore 107 quantico, infatti, maschera parzialmente le linee concentriche dell'artefatto. Ad ogni modo tale disturbo al momento sembra essere inevitabile, perchè è causato da una non perfetta calibrazione del detettore che ancora non è stato possibile migliorare in quanto esso è un prototipo. Se da un lato le immagini ricostruite con minor numero di proiezioni riducono la visibilità dell'artefatto ad anelli e, come espresso nel paragrafo 4.7, possono essere ottenute con una dose ridotta, dall'altro lato sono immagini che presentano un rumore “sale e pepe” non trascurabile. Osservando la figura 4.6 sopra riportata, che mette a confronto le varie ricostruzioni, si può notare che nell'immagine d, ricostruita con 360 proiezioni, i margini dei vari inserti presenti nel fantoccio non sono ben visualizzabili, a differenza invece dell'immagine a, ricostruita con tutte le proiezioni. Un leggero miglioramento della risoluzione spaziale lo si può notare nelle immagini e ed f: sebbene siano state ricostruite sempre con 360 proiezioni, il metodo utilizzato è stato diverso ed ha portato ad un sensibile miglioramento. In riferimento alla stessa figura si può quindi affermare che l'algoritmo di ricostruzione FBP risulta più impreciso dell'algoritmo iterativo SART, che a parità di proiezioni utilizzate per la ricostruzione fornisce immagini meno rumorose e con risoluzione spaziale migliore. Anche per quanto riguarda la risoluzione in contrasto, il metodo iterativo sembra più efficace della FBP, in particolare se abbinato al filtro “spinto”. Per aggirare questo problema di qualità, le immagini ricostruite con poche proiezioni sono state rielaborate, quindi, per simulare uno spessore di fetta maggiore, ottenendo un voxel non isotropico. In riferimento alla figura 4.8 si può notare come aumentando lo spessore il problema del ridotto rapporto segnale-rumore viene 108 meno: l'immagine d presenta i margini della lesione del fantoccio T9762/1 più netti rispetto all'immagine a. Tuttavia, a conferma di quanto detto sopra, per avvicinarsi il più possibile ad una condizione reale, vengono riportate di seguito (figura 4.9) le immagini del fantoccio T9830/1 rielaborate secondo lo stesso schema del fantoccio T9762/1. Figura 4.9 - Immagini del fantoccio T9830/1 rielaborate con il programma ImageJ. a) Immagine di una singola sezione spessa 120 micron. b) Immagine rappresentativa di due sezioni contigue (240 micron totali di spessore). c) Immagine rappresentativa di quattro sezioni contigue, corrispondenti a 480 micron di spessore di fetta. d) Immagine rappresentativa di sette sezioni contigue (840 micron di spessore). 109 Al fine di osservare con maggiore attenzione il beneficio dato da uno spessore di sezione maggiore, in particolare tra le immagini c e d, dove la differenza sembra essere minima, viene riportato di seguito un ingrandimento di un particolare (figura 4.10). Figura 4.10 - Immagini del fantoccio T9830/1 con ingrandimento di un particolare corrispondente alla stessa area dell'immagine. a) Immagine rappresentativa di una sezione da 480 micron. b) Immagine rappresentativa di una sezione da 840 micron. Come si può notare da quest'ultima figura (figura 4.10), il dettaglio contenuto nel riquadro dell'immagine b, segnato con le frecce rosse, non è visibile nell'immagine a. Tuttavia, i margini dell'intera lesione sembrano essere più sfumati rendendoli, nel complesso, meno definiti. Si potrebbe quindi affermare che per una sezione assiale lo spessore di 840 micron sia un valore limite in cui nonostante sia possibile visualizzare dettagli interessanti, in generale, la risoluzione spaziale inizia a diminuire. Infine, come già accennato sopra, dei fantocci T9762/1 e T9830/1, sono state anche acquisite immagini planari, riportate di seguito (figura 4.11), con un apparecchio mammografico, per 110 permettere un confronto con la tecnica tomografica tramite luce di sincrotrone. Figura 4.11 - Immagini dei fantocci T9762/1 (a e b) e T9830/1, acquisito togliendo il tessuto biologico dalla coppetta contenente gel di agarosio (c) e con il tessuto biologico immerso nella coppetta contenente gel di agarosio (d). a,c) immagini planari acquisite tramite il mammografo GE Senogrpahe DS dell'Unità Complessa Operatica di Radiologia dell'ospedale di Cattinara (Trieste). b,d) immagini tomografiche acquisite con luce di sincrotrone e rielaborate con il programma ImageJ per simulare uno spessore di 840 micron. Come si può notare dalla figura 4.11a e 4.11c, i margini della lesione e dell'intero campione di tessuto risultano sfumati, a 111 differenza, invece, delle immagini tomografiche in figura 4.11b e 4.11d dove la risoluzione spaziale sembra essere maggiore, fornendo così maggior dettaglio e più informazioni. Anche la risoluzione di contrasto risulta diversa; nonostante sia possibile variare la finestra ed il livello per permettere la visualizzazione ottimale di tutte le strutture, la tecnica mammografica ha fornito un'immagine più contrastata, risaltando alcuni elementi, per esempio all'interno della lesione, che nell'immagine tomografica non si notano. È bene ricordare, tuttavia, che le immagini mammografiche sono state ottenute sull'intero campione in questione, dello spessore di 7,5 mm, per quanto il fantoccio T9762/1, e 9,8 mm, per quanto riguarda il fantoccio T9830, mentre le sezioni assiali nelle immagini sopra riportate sono spesse 840 micron. 112 Conclusioni Alla luce di quanto è emerso da questo studio si può affermare che la tecnica di Breast-CT con luce di sincrotrone, in questo primo approccio, deve ancora essere ottimizzata ed è stato anche compito di questo elaborato cercare di comprendere in che direzione può rivolgersi tale ottimizzazione. Come già visto, il rivelatore PIXIRAD-8, dispone di una tecnologia avanzata di tipo single photon counting, che permette, in linea di principio, di ottenere il massimo dell'informazione disponibile. Esso, però, al momento presenta della limitazioni dovute al fatto di essere un prototipo. Innanzitutto, riguardo alla velocità di acquisizione, c'è da specificare che, nonostante il detector permetta, in linea di principio, l'acquisizione di 30 frames/sec e quindi una rotazione continua dell'oggetto, appropriata per esami su pazienti, tale modalità di acquisizione non è stata ancora sperimentata, in quanto richiede un'elettronica di lettura che è ancora in fase di sviluppo. Un altro aspetto da migliorare riguardante il detector è la sua calibrazione: un'imprecisa calibrazione, infatti, porta ad avere nelle immagini degli artefatti ad anello che possono compromettere la visibilità di alcune caratteristiche ed una conseguente perdita d'informazione. Per quanto riguarda la ricostruzione delle immagini, come già visto nella discussione sopra, un sostanziale guadagno in termini di qualità può essere dato dall'utilizzo del metodo iterativo SART, al fine di ottenere immagini diagnostiche con un numero limitato di proiezioni in rispetto al principio di ottimizzazione e di risparmio di dose. La dose, infatti, è un fattore fondamentale che va tenuto sempre sotto controllo. Mammelle più grandi, o particolarmente dense, hanno la caratteristica di assorbire più radiazioni X rispetto a 113 mammelle piccole e meno dense: ciò significa che per avere nell'immagine lo stesso rapporto segnale-rumore la mammella grande deve ricevere una maggior quantità di radiazioni rispetto quella piccola, cioè più dose. Un esempio di quanto è stato appena detto è riportato nel paragrafo 4.7, in cui si dimostra che il fantoccio T9830/1, di diametro maggiore rispetto al fantoccio T9762/1, per ottenere la stessa qualità di immagine, per una singola sezione, dovrebbe ricevere una dose di circa tre volte maggiore. Un altro parametro da prendere in considerazione è lo spessore delle sezioni ricostruite: un voxel non isotropico può, infatti, portare ad una significativa riduzione del rumore quantico e, di conseguenza, ad un'immagine dai bordi più nitidi. Esiste però uno spessore limite, nel nostro caso stimato in circa 800 micron, oltre il quale, pur migliorando il rapporto segnale-rumore, non si guadagna risoluzione spaziale e così bordi e dettagli risulterebbero sfumati. É bene ricordare, poi, che la Breast-CT con luce di sincrotrone può acquisire sezioni contigue spesse al massimo 3 – 4 mm, per cui, se in un futuro studio clinico si dovesse acquisire un intervallo maggiore bisognerebbe far compiere più rotazioni alla paziente e ciò potrebbe risultare scomodo. Tuttavia, come si è già visto, l'inarrestabile progresso tecnologico, filo conduttore di questa tesi, negli anni ha portato alla creazione di apparecchiature sempre più sofisticate, performanti e agevoli sia per l'operatore sia il paziente. Pertanto, con l'avanzare delle scoperte tecnologiche, i problemi sopra descritti potranno essere probabilmente superati e anche la tecnica potrà essere ottimizzata sotto tutti gli aspetti. Per concludere, la Breast-CT con luce di sincrotrone ha delle potenzialità che vale la pena conoscere e approfondire con altri studi. Essa non può sostituire la mammografia convenzionale per la ricerca e la diagnosi precoce del cancro al seno, ma può contribuire significativamente, in determinati casi selezionati e con diagnosi dubbia, a chiarire il quadro clinico. 114 Bibliografia 1. Abrami A. et al., Medical application of synchrotron radiation at the SYRMEP beamline of ELETTRA – Nuclear Instruments and Methods in Physics Research, 548 (2005); 221-227 2. AIFM (Associazione Italiana Fisica Medica), Tomografia Computerizzata: descrizione e misura dei parametri caratteristici – Report AIFM, n. 4 (2007) 3. AIRC (Associazione http://www.airc.it Italiana per la Ricerca sul Cancro) – 4. AIOM (Associazione Italiana di Oncologia Medica), Linee guida. Neoplasia della mammella – (2003) - http://www.aiom.it 5. American Cancer Society, Cancer Facts & Figures 2014 – (2014) http://www.cancer.org 6. 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