università degli studi di trieste - Istituto Nazionale di Fisica Nucleare

UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI TRIESTE
Dipartimento di Scienze Mediche Chirurgiche e della Salute
CORSO DI LAUREA IN TECNICHE DI RADIOLOGIA MEDICA,
PER IMMAGINI E RADIOTERAPIA
Presidente di Corso: Chiar.mo Prof. Emilio Quaia
Tesi di Laurea
STUDIO DI FATTIBILITÀ PER
TOMO-MAMMOGRAFIA CLINICA
CON LUCE DI SINCROTRONE
Laureanda:
Relatore:
Laura Burin
Dott. Luigi Rigon
Anno Accademico 2013 - 2014
1
Ai miei genitori, Carlo e Daniela,
ai miei fratelli, Luigi e Marta
e al mio fidanzato Michele
2
Indice
Introduzione............................................................................................... 5
1
2
La mammella....................................................................................... 7
1.1
Anatomia..................................................................................... 7
1.2
Patologia..................................................................................... 12
1.3
Tecniche diagnostiche.................................................................
1.3.1 Mammografia.................................................................
1.3.1.1 L'esame mammografico..................................
1.3.1.2 Limiti della mammografia................................
1.3.2 Ecografia........................................................................
1.3.3 Risonanza Magnetica Nucleare.....................................
1.3.4 Tecniche di imaging in Medicina Nucleare.....................
1.3.4.1 Mammoscintigrafia..........................................
1.3.4.2 Linfoscintigrafia per la ricerca del linfonodo
sentinella.........................................................
1.3.4.3 PET e PET-CT.................................................
1.3.5 Biopsia e agoaspirato....................................................
17
18
19
21
22
23
24
24
25
26
27
Dalla mammografia alla breast-CT..................................................... 28
2.1
Il mammografo...........................................................................
2.1.1 Generatore.....................................................................
2.1.2 Anodo e filtri...................................................................
2.1.3 AEC................................................................................
2.1.4 Compressore.................................................................
2.1.5 Griglia antidiffusione......................................................
2.1.6 Sistemi di rivelazione.....................................................
2.1.6.1 Rivelatore analogico.......................................
2.1.6.2 Rivelatori digitali..............................................
28
29
30
31
32
33
33
33
34
2.2
Tomosintesi................................................................................ 38
2.3
Tomografia Computerizzata.......................................................
2.3.1 Principi fisici della Tomografia Computerizzata..............
2.3.2 L'apparecchiatura TC.....................................................
2.3.3 Componenti....................................................................
2.3.4 La ricostruzione delle immagini......................................
2.3.5 La rappresentazione delle immagini..............................
41
41
45
48
50
53
3
2.3.6
2.4
3
4
Considerazioni dosimetriche.......................................... 59
Breast-CT...................................................................................
2.4.1 Nascita ed evoluzione della tecnica..............................
2.4.2 Stato dell'arte................................................................
2.4.3 Primi studi clinici............................................................
64
64
70
72
Il sincrotrone....................................................................................... 74
3.1
La luce di sincrotrone................................................................. 74
3.2
La beamline SYRMEP................................................................ 76
3.3
Mammografia con luce di sincrotrone:
la prima sperimentazione clinica...............................................
3.3.1 Protocollo di acquisizione..............................................
3.3.2 Parametri di esposizione................................................
3.3.3 La tecnica del contrasto di fase.....................................
3.3.4 La dose ghiandolare media............................................
3.3.5 Risultati..........................................................................
79
80
82
83
84
86
Breast-CT con luce di sincrotrone.................................................... 88
4.1
Breast-CT con luce di sincrotrone: studi preliminari................... 88
4.2
Il progetto SYRMA-CT................................................................. 89
4.3
PIXIRAD..................................................................................... 90
4.4
Fantocci utilizzati.........................................................................
4.4.1 ELLE_cil.........................................................................
4.4.2 Triple Modality Biopsy Training Phantom.......................
4.4.3 Fantocci con tessuto biologico.......................................
4.5
Set-up......................................................................................... 96
4.5.1 Parametri di acquisizione............................................... 97
4.6
Ricostruzione delle immagini......................................................
4.6.1 Metodi di ricostruzione...................................................
4.6.2 Parametri di ricostruzione..............................................
4.6.3 Rielaborazione delle immagini.......................................
4.7
Considerazioni dosimetriche....................................................... 105
4.8
Valutazione delle immagini......................................................... 107
93
93
95
96
98
98
100
102
Conclusioni............................................................................................... 113
Bibliografia................................................................................................ 115
4
Introduzione
Il cancro al seno, secondo i dati dell'AIRC (Associazione Italiana
per la Ricerca sul Cancro), rappresenta la prima causa di morte per
tumore nel sesso femminile, colpendo circa 1 donna su 8 nell'arco
della vita [AIRC]. La diagnosi precoce è diventata pertanto un
fattore molto importante nella prevenzione di tale patologia e ciò è
dovuto sopratutto a tecniche di imaging quali la mammografia e
l'ecografia, largamente diffuse sul territorio e accessibili a tutte le
donne. Tuttavia, l'evoluzione tecnologica ha portato alcuni gruppi di
ricerca a considerare anche altre metodiche di investigazione al fine
di ottimizzare sensibilità e la specificità dell'indagine in modo da
permettere una diagnosi il più possibile precisa e sicura.
Si sono sviluppate così, nel corso degli ultimi 15 anni, prototipi di
apparecchiature dedicate al seno che, sfruttando lo stesso principio
di funzionamento delle moderne Tomografie Computerizzate (TC o
CT,
Computed
Tomography),
permettono
un'imaging
tridimensionale a dosi paragonabili a quelle di una qualsiasi
mammografia eseguita in ospedale. Tale tecnica viene chiamata
tomo-mammografia o, in inglese, Breast-CT (Breast Computed
Tomography).
Questo lavoro di tesi, svolto presso la facility ELETTRA di
Trieste, propone uno studio di fattibilità per tomo-mammografia
clinica con luce di sincrotrone. La tesi si inserisce nell'ambito del
progetto di ricerca SYRMA-CT, finanziato per il biennio 2014-2015
dall'Istituto Nazionale di Fisica Nucleare, e si propone di esplorare i
primi risultati di tale progetto con lo scopo di considerare un futuro
possibile impiego della tecnica di tomo-mammografia su pazienti.
Al fine di comprendere al meglio tutti gli aspetti su cui si fonda la
tecnica di Breast-CT in generale, e quella con luce di sincrotrone in
particolare, sono state impiegate alcune pagine introduttive allo
scopo di avvicinarsi all'argomento con la piena conoscenza delle
5
nozioni fondamentali.
Nel capitolo 1 viene descritta brevemente l'anatomia della
mammella e la patologia ad essa associata, presentando poi una
carrellata delle varie tecniche diagnostiche utilizzate per la diagnosi.
Il capitolo 2 si presenta come un excursus tecnologico che va
dalla mammografia convenzionale alla Breast-CT. In particolare, in
primo luogo viene descritto il mammografo in tutte le sue
componenti, poi si passa alla tecnica della tomosintesi per giungere
alla Tomografia Computerizzata. La descrizione di quest'ultima, nei
suoi principi fisici, nelle sue parti e nel suo funzionamento, fa da
preambolo alla Breast-CT, della quale vengono quindi illustrate la
nascita, lo stato dell'arte ed i primi studi clinici condotti.
Nel capitolo 3 viene presnetato il sincrotrone ELETTRA di
Trieste, con particolare riguardo alla linea di luce SYRMEP,
dedicata agli studi di mammografia e tomografia alla mammella.
Viene inoltre descritto il primo studio di mammografia eseguito su
pazienti con luce di sincrotrone, ponendo attenzione in particolare
alla dose erogata e ai risultati ottenuti.
Il capitolo 4, infine, presenta il progetto SYRMA-CT di cui questa
tesi fa parte, descrivendo i materiali e i metodi utilizzati per la
raccolta dei primi dati e fornendo un'analisi preliminare delle
immagini ottenute alla luce dei metodi di ricostruzione utilizzati e
della dose impartita.
6
Capitolo 1
LA MAMMELLA
In questo capitolo verranno brevemente descritte l'anatomia
della mammella femminile e la patologia ad essa associata, il
carcinoma mammario, fornendone una classificazione e i principali
fattori di rischio. In seguito, verranno trattate le tecniche
diagnostiche più comunemente usate per la diagnosi del tumore
alla mammella a partire dalla mammografia e dall'ecografia, fino a
giungere a metodiche più particolari e meno frequenti come la
Risonanza Magnetica o le tecniche di Medicina Nucleare. Infine
verrà data una breve spiegazione delle pratiche di biopsia e di
agoaspirato.
1.1 ANATOMIA
La mammella è un organo ghiandolare pari e simmetrico che
occupa la regione anteriore del torace. È situato ai lati della linea
mediana, localizzato tra il terzo e il sesto spazio intercostale. In
larghezza si estende tra la linea parasternale e la linea ascellare
media; caudalmente è delimitato dal solco mammario
[http://medicinapertutti.altervista.org].
La mammella poggia in particolare su due strutture muscolari:
una più esterna, il muscolo grande pettorale, ed una profonda, il
muscolo piccolo pettorale.
L'organo
femminile
è
costituito
principalmente
da
una
7
componente ghiandolare, che secerne il latte durante la sua fase
funzionale, e da una componente adiposa, che separa la prima dal
muscolo grande pettorale. Più nel dettaglio, il cosiddetto tessuto
mammario è formato da: tessuto ghiandolare, tessuto fibroso e
tessuto adiposo.
Il parenchima ghiandolare è diviso in lobi che sono in numero di
15 - 20 circa; ciascun lobo è a sua volta suddiviso in tanti lobuli,
dalle cui cellule, durante la fase funzionale, viene secreto il latte.
Dai lobuli si dipartono i dotti lobulari che convergono a formare un
dotto maggiore chiamato dotto galattoforo. I dotti galattofori, detti
anche dotti lobari, convergono rapidamente verso il capezzolo e
prima di sfociare indipendenti all’esterno, assumono una breve
dilatazione allungata detta seno galattoforo [Martini, 2010].
Il tessuto fibroso è un tipo di tessuto connettivo che formando dei
setti tra lobuli e lobi, costituisce l’impalcatura dell’organo. Queste
bande di tessuto connettivo sono note come legamenti sospensori
della mammella e hanno origine nel derma della cute sovrastante.
Il tessuto adiposo riempie gli interstizi tra il tessuto fibroso e
ghiandolare, ma soprattutto si sviluppa alla periferia della
mammella, nel sottocute e posteriormente (tra muscolo pettorale e
parenchima) concorrendo prevalentemente a dare la forma e
dimensione all’organo.
La ghiandola mammaria (figura 1.1), ha forma discoidale con
superficie anteriore convessa e superficie posteriore piatta. La
mammella termina anteriormente con una superficie pigmentata
rotondeggiante, l’areola, di colorito rosa scuro e di aspetto
granulare per la presenza delle grosse ghiandole sebacee poste a
livello del derma. Nella porzione centrale dell’areola si innalza una
sporgenza conica chiamata capezzolo, che rappresenta il punto in
cui i dotti ghiandolari confluiscono per aprirsi alla superficie
8
corporea. Le dimensioni dell’areola sono variabili, con un diametro
medio di 3 - 5 cm [http://medicinapertutti.altervista.org].
Figura 1.1 - Rappresentazione schematica della ghiandola mammaria.
La vascolarizzazione della mammella è duplice. Infatti ci sono:
una vascolarizzazione superficiale destinata alla cute, e una
vascolarizzazione profonda destinata alla ghiandola mammaria. Le
arterie che portano il sangue all'organo sono: rami dell'arteria
ascellare e l'arteria mammaria interna. Più in particolare i rami
dell’arteria ascellare portano sangue alla porzione supero-laterale
della ghiandola, diventando sempre più superficiali e avvicinandosi
al capezzolo; l’arteria mammaria interna, ramo della succlavia,
rifornisce l’estremità mediale con le corrispondenti arterie perforanti
che attraversano i muscoli intercostali ed il muscolo grande
pettorale.
Le vene accompagnano le rispettive arterie e assicurano in
senso inverso, dalla mammella verso i tronchi maggiori, il deflusso
del sangue. I tre gruppi di vene profonde che drenano la mammella
sono: le vene intercostali, che attraversano la faccia posteriore
9
dell'organo si ramificano per poi entrare nella vena azygos e
terminare nella vena cava superiore, la vena ascellare, che ha
diverse tributarie drenanti la parete toracica, i muscoli pettorali e la
mammella e le vene perforanti della mammaria interna che
rappresentano il plesso venoso più cospicuo drenante la mammella
[Vaira, http://www.uniss.it]
L’innervazione è assicurata dai nervi intercostali, dal nervo
toracico e da rami derivanti dal plesso cervicale e brachiale.
I vasi linfatici della regione mammaria costituiscono una rete a
larghe maglie che avvolge il corpo ghiandolare e presenta diversi
linfonodi intercalati. Come si può notare dalla figura 1.2, la rete
linfatica della mammella è riccamente sviluppata; sono presenti
vaste comunicazioni tra i linfatici superficiali della cute, che
costituiscono una rete linfatica cutanea o superficiale, e il sistema
più profondo che drena il parenchima mammario. La rete cutanea
appare più fitta nella zona areolare, da dove i vasi linfatici
superficiali si dirigono verso la periferia ed in profondità a
connettersi con la rete periareolare e subdermica [Martini, 2010].
Figura 1.2 - Schematizzazione del drenaggio linfatico mammario.
Si possono distinguere vasi linfatici laterali, mediali e
retromammari. Dal plesso subdermico si dipartono i vasi linfatici
laterali che seguono il margine inferiore del muscolo grande
pettorale e raggiungono i linfonodi ascellari. I vasi linfatici mediali,
10
attraversato il muscolo grande pettorale, scorrono negli spazi
intercostali sino a terminare nei linfonodi della catena mammaria
interna. I linfatici retromammari derivano dalla parete profonda e
posteriore della ghiandola, decorrono sotto la fascia del gran
pettorale e si portano fino al gruppo sottoclavicolare dei linfonodi
ascellari. I linfonodi dell’ascella vengono suddivisi in tre gruppi a
seconda del loro rapporto con il muscolo piccolo pettorale: primo
livello (ascella inferiore), lateralmente all’inserzione del muscolo
pettorale; secondo livello (ascella media), tra i margini mediale e
laterale; terzo livello (apice dell'ascella), medialmente al muscolo
[Wikipedia].
La mammella femminile può essere idealmente suddivisa in
quattro quadranti, costituiti da due linee perpendicolari che si
intersecano a livello del capezzolo. Con riferimento alla figura 1.3
possiamo individuare il quadrante supero-esterno (QSE), il
quadrante supero-interno (QSI), il quadrante infero-interno (QII) e il
quadrante infero-esterno (QIE)
Questa suddivisione facilita la localizzazione delle eventuali lesioni.
Figura 1.3 - La mammella viene divisa in quattro quadranti da due linee
perpendicolari passanti per il capezzolo.
Il volume, il grado di sviluppo e la forma delle mammelle variano
in rapporto al momento funzionale e all’età. Tale variabilità è legata
principalmente alla diversa quantità di tessuto adiposo che circonda
il parenchima ghiandolare.
11
La percentuale di tessuto ghiandolare diminuisce con l’avanzare
dell’età, infatti, nella donna giovane si osserva di norma un
addensamento diffuso del tessuto ghiandolare (seno denso) mentre
in quella anziana è comune la quasi totale sostituzione del tessuto
ghiandolare
con
il
tessuto
adiposo
(seno
adiposo)
[http://www.senologia.net].
1.2 PATOLOGIA
Il carcinoma mammario rappresenta la lesione più importante di
tale organo ed è una delle neoplasie più diffuse nel mondo con
un’incidenza elevata nei paesi nord-americani e nell’Europa nordoccidentale [Fondazione ANT, 2009].
Il carcinoma della mammella, secondo i dati AIRTUM
(Associazione Italiana Registri Tumori) di uno studio condotto nel
2006, occupa tra le donne il primo posto in termini di frequenza,
rappresentando il 29% di tutte le nuove diagnosi tumorali; inoltre,
come riportato in figura 1.4, non solo è il tumore più frequente, ma è
anche il più frequente in ogni classe di età.
Figura 1.4 - Grafico rappresentate i dati di incidenza e mortalità specifici per
ogni classe di età.
12
Il numero dei casi, infatti, è aumentato in modo significativo a
partire dagli anni Settanta, con il cambiamento dello stile di vita
nelle aree geografiche sopra citate e con l'introduzione della
mammografia che ha permesso di scoprire tumori che prima non
erano evidenti. I tassi di mortalità, al contrario, sono in costante
riduzione grazie a metodi di diagnosi precoce, tecniche
diagnostiche avanzate e alla miglior risposta alla terapia di questi
tumori [AIRC].
Nel caso di tumore alla mammella, l'American Cancer Society ha
pubblicato le linee guida per lo screening per le donne con rischio di
cancro al seno. Lo screening prevede l’esecuzione periodica, con
cadenza biennale, dell’esame mammografico per le donne in età
peri o post-menopausale [American Cancer Society].
La causa del tumore della mammella è sconosciuta, tuttavia
sono stati identificati numerosi fattori di rischio che possono più o
meno incidere sulla comparsa della patologia. Di seguito vengono
riportati i fattori più importanti:
➢
Pregressa prognosi di carcinoma mammario.
Le donne che hanno già avuto una diagnosi di tumore al
seno hanno un rischio maggiore di poter sviluppare un nuovo
tumore nella mammella contro laterale.
➢
Familiarità e genetica.
Una storia familiare di carcinoma mammario (in particolar
modo riguardante parenti di primo grado), determina un
aumento notevole del rischio di ammalarsi rispetto alla
popolazione generale. È possibile, infatti, ereditare alcuni geni
particolari, i cui nomi tecnici sono BRCA1 e BRCA2, la cui
mutazione predispone allo sviluppo di questo tipo di tumore.
➢
Età.
Più del 75% dei casi di tumore al seno colpisce donne sopra i
13
50 anni [AIRC], quindi donne attorno al periodo della
menopausa, mentre più raramente la malattia compare al di
sotto dei 40 anni (4-5% di probabilità).
➢
Fattori ormonali.
Gli estrogeni giocano un ruolo fondamentale nello sviluppo e
nella progressione del cancro alla mammella, infatti più elevati
sono i livelli di estrogeni circolanti, maggiore è la durata di
esposizione dell’epitelio ghiandolare mammario a tali ormoni
e maggiore è il rischio di sviluppare la neoplasia. Per molto
tempo si è ritenuto che gli ormoni progestinici fossero un
fattore protettivo per lo sviluppo della neoplasia, ma studi più
recenti hanno dimostrato che anche questi ormoni
costituiscono un fattore di rischio [Chlebowski, 2003]. Per
quanto riguarda l’utilizzo dei contraccettivi orali, negli ultimi
anni il rischio si è ridotto grazie alle nuove formulazioni a
basso contenuto di estrogeni, tuttavia l’incremento del rischio
sembra essere maggiore per assunzioni prolungate in età
molto giovane. Lo stesso dicasi per la terapia ormonale
sostitutiva in menopausa, spesso prescritta per controllare i
sintomi della menopausa; gli studi hanno dimostrato che l’uso
di tale terapia ormonale è associato ad un aumento del rischio
di insorgenza del cancro al seno [Fondazione ANT, 2009].
➢
Fattori riproduttivi e mestruali.
La nulliparità è considerata una fattore di rischio [AIOM,
2013]. Tuttavia, anche nelle donne che hanno figli ci sono dei
fattori da considerare, come il numero di figli e l'età in cui
sono stati partoriti. Il carcinoma mammario è inversamente
correlato con l’età della prima gravidanza e con il numero di
parti a termine e ciò può essere spiegato dalla produzione di
ormoni con effetti anti-estrogeni che fungono da difesa. Infatti,
Il tumore al seno è meno frequente nelle donne che hanno il
14
primo figlio prima dei 21 anni, mentre avere figli dopo i 30
anni aumenta il rischio di avere la malattia. Anche un menarca
precoce e una menopausa tardiva fanno crescere il rischio di
sviluppare il carcinoma perché aumenta il tempo per il quale
l’epitelio ghiandolare della mammella è esposto a estrogeni.
➢
Fattori antropometrici.
Un noto fattore di rischio per il cancro della mammella è
l’obesità e ciò è dovuto al fatto che il tessuto adiposo è la
maggior fonte di estrogeni nella donna in post-menopausa
[Andreoletti, 2005].
Il tumore al seno può essere classificato in due modi: a partire
dall'istologia (categoria di cellule coinvolte) o a partire dal grado di
infiltrazione (quanto il tumore si espande nel tessuto circostante).
Per quanto riguarda la classificazione istologica, si possono
distinguere due tipi di tumori: il carcinoma duttale e il carcinoma
lobulare [La Repubblica, 2012].
Il carcinoma duttale coinvolge le cellule dei dotti lattiferi, che
portano il latte dal lobulo al capezzolo; il carcinoma lobulare
coinvolge le cellule dei lobuli, ghiandole deputate alla produzione
del latte.
Per quanto riguarda l'espansione della malattia nel tessuto
circostante, le tipologie di cancro al seno sono classificate ancora
una volta in due categorie: carcinoma in situ e carcinoma invasivo.
Il primo, da come suggerisce il termine latino “in situ” è un cancro
che rimane confinato nell'area in cui sorge e quindi non si espande;
il secondo, invece, ha la capacità di diffondere in altre regioni del
corpo e quindi di provocare altre neoplasie distanti dall'origine.
In definitiva, da queste due classificazioni, possiamo distinguere
quattro tipi di cancri al seno:
• carcinoma duttale in situ (CDIS): è una forma iniziale di
15
cancro al seno, limitata ai dotti lattiferi, che può essere
rilevata tramite una mammografia. Solitamente produce un
nodulo. Se non viene curata può diventare invasiva;
• il carcinoma lobulare in situ (CLIS): è una forma di cancro
che coinvolge i lobuli. Sebbene questo tipo di tumore non
passi alla forma invasiva, è considerato un segnale di
aumentato rischio di formare tumori in ambedue i seni. Il
carcinoma lobulare in situ è più comunemente riscontrato
nella periodo pre-menopausa, nelle donne di età compresa
tra 40 e 50 anni. Questo tipo di tumore solitamente non
produce noduli e spesso, a differenza del CDIS, non viene
rilevato con una mammografia. Tuttavia può essere
trattabile
con
terapia
a
base
di
ormoni
[http://senologiadiagnostica.it];
• il carcinoma duttale infiltrante (IDC): è un tipo comune di
cancro mammario, responsabile del 70-80% dei casi
[AIOM, 2013]. È una forma di cancro che ha la maggiore
insorgenza nelle donne sopra i 40 anni. Si sviluppa come
un nodulo duro a bordi irregolari che compare come massa
sulla mammografia e si espande col passare del tempo sul
tessuto circostante. Può arrivare a diffondere, attraverso i
vasi linfatici (via linfatica) o sanguigni (via ematica), in altre
aree del corpo, come il sistema scheletrico, il cervello, il
fegato e i polmoni;
• il carcinoma lobulare infiltrante (ILC): è un tumore che
supera la parete del lobulo. ILC rappresenta il 10-15% di
tutti i cancri del seno [AIRC]. Può colpire
contemporaneamente entrambi i seni o comparire in più
punti nello stesso seno. Come il IDC ha la capacità di
diffondere e raggiungere altre zone dell'organismo.
16
Il segno clinico che porta più frequentemente alla diagnosi del
carcinoma della mammella è un nodulo duro, non dolente, con
margini irregolari. Altri segni clinici importanti, utili per la diagnosi
sono anche la modifica della forma e dell’aspetto (retrazione) del
capezzolo, l'ispessimento della mammella, l'arrossamento o
irritazione della cute, le secrezioni siero-ematiche dal capezzolo
(che possono essere il primo segno della neoplasia), e la presenza
di adenopatie ascellari, che sono associate però ad una cattiva
prognosi. Se invece il carcinoma si associa ad un'infiammazione
della pelle si parla di carcinoma mammario infiammatorio.
1.3 TECNICHE DIAGNOSTICHE
Nel tumore alla mammella, come in ogni altra neoplasia, la
diagnosi precoce gioca un ruolo fondamentale per determinare le
possibilità di guarigione e la prognosi della paziente. Alcuni studi
ritengono che la crescita tumorale, infatti, abbia un andamento
esponenziale iniziale: man mano che il tumore aumenta, aumenta
anche la sua velocità di crescita [IMPACT Working Group, 2011].
Le tecniche per determinare la diagnosi di cancro al seno sono
principalmente due: la mammografia e l'ecografia. A queste due
tecniche si aggiungono spesso, in caso di diagnosi dubbia o per
determinare in maniera più precisa il quadro clinico, la Risonanza
Magnetica Nucleare, la mammoscintigrafia, la linfoscintigrafia, la
PET e/o PET-TC, la biopsia e/o l'agoaspirato.
Altre due tecniche diagnostiche, poco diffuse, ma innovative
sono la tomosintesi e la Breast CT, tecniche che verranno
approfondite nel capitolo 2.
Non di minor importanza, infine, sono le visite senologiche
periodiche (almeno una volta l'anno indipendentemente dall'età) e
l'autopalpazione, che, se fatta correttamente (nello stesso periodo
ormonale, una volta al mese) può essere uno strumento utile per la
17
prevenzione e la diagnosi precoce.
1.3.1 Mammografia
La mammografia è attualmente il metodo più efficace per la
diagnosi precoce.
L'osservatorio nazionale di screening, dipendente dal Ministero,
suggerisce una mammografia ogni due anni per quelle donne di età
compresa tra i 50 e i 69 anni. La cadenza può tuttavia variare a
seconda delle considerazioni del medico sulla storia personale di
ogni paziente. Infatti, nelle donne che hanno avuto una parente di
primo grado (madre o sorella) malata, si comincia già attorno ai 40
anni di età a eseguire controlli mammografici periodici [Andreoletti,
2005].
La mammografia è una tecnica radiologica che consente di
rilevare precocemente lesioni mammarie. Lo studio accurato delle
mammelle permette di individuare, infatti, sia anomalie di piccole
dimensioni, come le microcalcificazioni, sia masse voluminose.
La mammella, essendo formata da tessuti molli di densità simili
tra loro, non è studiabile con apparecchi radiologici tradizionali, ma
necessita di appositi mammografi che hanno caratteristiche
funzionali e costruttive particolari al fine di ottenere un'immagine
dell'organo diagnostica e di qualità.
È un esame semplice e di rapida esecuzione che utilizza però
radiazioni ionizzanti e per questo comporta un certo rischio
correlato alla dose alla paziente. Inoltre essa provoca un lieve
dolore temporaneo dovuto alla compressione del seno durante la
sua esecuzione.
Negli ultimi decenni lo sviluppo tecnologico delle unità
mammografiche è stato molto intenso. L'utilizzo di soluzioni
costruttive sempre più sofisticate ed affidabili hanno permesso il
18
miglioramento delle apparecchiature utilizzate e della tecnica di
esecuzione dell’esame al fine di garantire una mammografia di
elevata qualità [Passariello, 2012].
I dettagli anatomici di maggior interesse clinico sono costituiti da
noduli di dimensioni variabili e a basso contrasto intrinseco, e
microcalcificazioni aventi, invece, un alto contrasto, ma dimensioni
estremamente piccole, dell'ordine di poche centinaia di micron.
Infatti, le differenze di assorbimento dei raggi X tra tessuto
adiposo, parenchima ghiandolare e tessuto fibroso, sono molto
piccole: i coefficienti di attenuazione della radiazione di ogni
tessuto, sono molto vicini tra loro e per questo motivo un requisito
essenziale per ottenere sensibilità e specificità elevate è la
produzione di immagini radiografiche ad alta risoluzione spaziale e
alto contrasto.
La risoluzione spaziale è la possibilità di percepire come separati
due punti distinti e si misura in paia di linee per millimetro (pl/mm);
la risoluzione di contrasto è la capacità di registrare le differenze di
assorbimento fotonico, sotto forma di tonalità diverse di una scala di
grigi [Passariello, 2012]. Finora l’esame che soddisfa maggiormente
le richieste di alta risoluzione di contrasto e spaziale è quello
mammografico, che viene eseguito mediante un’apparecchiatura
appositamente progettata detta mammografo e il cui funzionamento
verrà trattato più dettagliatamente in seguito.
1.3.1.1 L'esame mammografico
L'esame mammografico viene generalmente eseguito in
stazione eretta, a torace scoperto, appoggiando un seno alla volta
su un apposito ripiano radiotrasparente ad altezza regolabile. Per la
corretta esecuzione del mammogramma il tecnico posiziona la
mammella sul piano orizzontale del mammografo, applicando una
graduale compressione con l'apposito dispositivo azionato a pedale
19
[Passariello, 2012].
Le proiezioni fondamentali sono due, eseguite su entrambe le
mammelle (figura 1.5):
• Proiezione cranio-caudale o assiale (a 0°). In tale proiezione
lo scopo è quello di riuscire a privilegiare la visualizzazione
dei quadranti mediali, perchè sono quelli che con più difficoltà
vengono rappresentati nelle altre proiezioni. Come criterio di
correttezza è importante visualizzare adeguatamente il
tessuto adiposo retro-ghiandolare sino al muscolo grande
pettorale. Questa proiezione permette di vedere la maggior
parte dell’organo, soprattutto le regioni areolare e centrale.
• Proiezione obliqua medio-laterale (a 45°). In questa
proiezione vengono svolti molto bene il quadrante superoesterno, che è frequente sede di processi patologici, e i piani
profondi. Il principale criterio di correttezza per questa
proiezione è la visualizzazione del margine del muscolo
pettorale, ma anche un'adeguata rappresentazione della
regione ascellare e dell'angolo sotto-mammario (che deve
risultare ben disteso) sono elementi importanti nell'immagine
mammografica.
Oltre a queste due proiezioni, solitamente sufficienti in un esame
mammografico, se ne può aggiungere una terza: la proiezione
laterale (a 90°). L'impiego di questa proiezione è indicato in tutti i
casi di approfondimento diagnostico e sarebbe utile anche in tutte
le pazienti che si sottopongono alla mammografia per la prima volta
o che sono state mastectomizzate (come terza proiezione sulla
mammella residua) [Mazzuccato, 2009].
20
Figura 1.5 - Tipiche proiezioni mammografiche cranio-caudale e obliqua.
In caso di approfondimento diagnostico sono poi possibili
ulteriori proiezioni con diversa incidenza o compressione mirata.
Per esempio, per esaminare particolari porzioni della mammella, si
può ricorrere all’ingrandimento diretto, con cui si ottiene
un’immagine ingrandita riducendo la distanza tra la mammella e la
sorgente di radiazioni (avvicinando la mammella al tubo radiogeno).
Oppure, per determinare se una lesione è reale o un artefatto, si
può ricorrere alla compressione mirata, con un compressore di
piccole dimensioni posizionato sopra la zona sospetta, che distende
meglio le componenti fibroghiandolari della mammella [Mazzuccato,
2009].
1.3.1.2 Limiti della mammografia
La mammografia è l'esame più efficace, attualmente disponibile,
per diagnosticare precocemente il tumore alla mammella ed è
utilizzata come unico test di 1° livello nei programmi di screening.
Sebbene questi programmi abbiano dimostrato che la diagnosi in
tempo utile permette di ridurre la mortalità, le casistiche più recenti
riportano che il 10 - 20% dei tumori non vengono evidenziati (“falsi
negativi”) e che per circa il 5 - 10% dei casi è necessario un
approfondimento diagnostico, il quale spesso non conferma la
21
diagnosi di positività (“falsi positivi”) [ASL Roma C, 2011].
Gli errori diagnostici possono essere legati alla qualità della
tecnica, ma anche all'età della paziente: dopo i 50 anni, infatti, con
l'aumentare dell'età, il test diventa sempre più sensibile e più
specifico, e diminuiscono così sia i “falsi negativi, sia i “falsi positivi”.
Le cause di una mancata diagnosi possono essere varie, ma le più
frequenti sono: tumore troppo piccolo o poco definibile a causa di
un basso contrasto nella regione indagata, o struttura della
ghiandola mammaria troppo densa, come avviene per esempio
nelle donne giovani o in quelle che fanno terapia ormonale
sostitutiva della menopausa.
1.3.2 Ecografia
L’ecografia è un tipo di indagine, che come la mammografia, è
ritenuto fondamentale per lo studio della patologia mammaria. Pur
essendo infatti complessivamente meno specifico della
mammografia, ha il vantaggio di essere particolarmente sensibile
proprio nelle mammelle ad alto contenuto di tessuto ghiandolare, in
cui la mammografia vede ridotto il proprio potere diagnostico.
L'ecografia risulta quindi l'indagine di prima istanza nei seni
giovanili (donne di età inferiore a i 35 anni) e utile completamento
della
mammografia
in
tutti
gli
altri
casi
di
seno
“mammograficamente denso” o di riscontro della patologia
all'indagine mammografica [Mazzuccato, 2009]. Altro vantaggio
dell'ecografia è l'utilizzo di ultrasuoni che a differenza delle
radiazioni ionizzanti sono innocue; inoltre non è invasivo ed è di
facile esecuzione per il medico radiologo.
Una differenza importante tra ecografia e mammografia sta nella
capacità da parte della prima di fornire informazioni morfo-strutturali
della ghiandola mammaria e in particolare di formulare una precisa
diagnosi differenziale tra lesioni cistiche e solide della mammella;
22
per contro, la mammografia è in grado di evidenziare un maggior
numero di lesioni [http://www.radiologyinfo.org/].
L'esame viene eseguito a paziente supina su un lettino, con
l'arto superiore omolaterale abdotto sopra la testa. L'operatore,
tramite una sonda a ultrasuoni, deve esercitare una leggera
pressione ed eseguire una serie di scansioni su vari piani dello
spazio (orizzontale e verticale) e scansioni radiali (dal capezzolo
verso la periferia).
1.3.3 Risonanza Magnetica Nucleare
La Risonanza Magnetica della mammella si sta sviluppando
sempre di più nel corso degli anni. Essa non è in grado di sostituire
la mammografia e l'ecografia, ma può essere utilizzata come
importante approfondimento per numerose situazioni, e in alcune
particolati indicazioni può essere considerata come indagine di
prima istanza [Mazzuccato, 2009]. La RM mammaria viene
impiegata come procedura di supporto a quelle già descritte in
precedenza, sia perché non utilizza radiazioni ionizzanti, e quindi
non rilascia dose alla paziente, sia perché fornisce un’immagine
tridimensionale.
Le principali indicazioni all'esame sono: il monitoraggio di
pazienti con alto rischio di tumore al seno (generalmente per
familiarità), la stadiazione preoperatoria del carcinoma, lo studio di
alterazioni dubbie in pazienti recentemente operate (diagnosi
differenziale fra esiti cicatriziali dopo chirurgia conservativa e
recidive), il sospetto di infiltrazione della parete toracica, il controllo
dell’efficacia della chemioterapia neoadiuvante per cancro al seno
localmente avanzato e lo studio delle protesi (sia per valutarne
l'integrità sia per ricercare recidive) [AIRC].
Attualmente la RM viene eseguita con paziente prona, mediante
l’utilizzo di una bobina per il seno bilaterale che presenta
23
un’apertura nella quale accogliere le mammelle senza
compressione. Inoltre l’esame viene eseguito quasi sempre con
mezzo di contrasto al Gadolinio che sfrutta l’ipervascolarizzazione
del tumore [Mazzuccato, 2009].
1.3.4 Tecniche di imaging in Medicina Nucleare
Le indagini di Medicina Nucleare si differenziano dalle tecniche
di Radiologia Diagnostica per il fatto che si basano su
caratteristiche di evidenza o differenziazione di attività funzionali. Si
possono considerare pertanto indicatori di funzione o attività
metabolica di tessuti o organi, mentre raramente hanno riferimenti
puramente anatomici.
1.3.4.1 Mammoscintigrafia
La mammoscintigrafia è una tecnica invasiva che prevede la
somministrazione al paziente, per via endovenosa, di una piccola
quantità di radiofarmaco, cioè un farmaco contenente un
radionuclide che emette radiazione gamma a una data energia. In
particolare in questo esame si usa il 99mTc-Sestamibi (o la 99mTcTetrafosmina che è un suo analogo), che viene captato dalle
neoplasie sulla base di due fattori principali: l'aumentata perfusione
tissutale nel tumore e la tendenza a fissarsi nei mitocondri, che
sono molto numerosi nelle cellule tumorali [Volterrani, 2010].
L'energia del radioisotopo in esso contenuto (il 99mTc), viene rilevata
da un’apparecchiatura chiamata Gamma Camera e l'elettronica
dell'apparecchiatura permette la ricostruzione delle immagini
planari. La visualizzazione delle lesioni è condizionata dalle
dimensioni, dal grado di crescita tumorale e relativo fabbisogno
energetico, dal grado di differenziazione e dalle condizioni di
vascolarizzazione. Ne consegue che la mammoscintigrafia ha
24
sensibilità e specificità minori rispetto alla mammografia, pertanto
l'utilizzo di tale indagine diagnostica va attualmente limitato solo a
casi selezionati dopo uno studio integrato con le altre metodiche di
radiodiagnostica che non sono in grado di risolvere il dubbio
benignità/malignità di lesioni primarie [Mazzuccato, 2009].
1.3.4.2 Linfoscintigrafia per la ricerca del linfonodo sentinella
Il linfonodo sentinella è il primo linfonodo, o gruppo di linfonodi,
che riceve la linfa direttamente dal tumore e la sua biopsia
rappresenta un'efficace tecnica nella valutazione delle condizioni
linfonodali ascellari. Numerosi studi, infatti, dimostrano come
analizzando 21. questo linfonodo, che drena la linfa proveniente
dall'area della sede del tumore primitivo, si possa ragionevolmente
prevedere la presenza o assenza di metastasi nei restanti linfonodi
[Mazzuccato, 2009]. La sua localizzazione, pertanto, è
estremamente importante e viene eseguita tramite la
linfoscintigrafia.
La linfoscintigrafia si basa sull'uso di radiofarmaci ad attività
linfopessica quali l'albumina umana colloidale marcata con 99mTc. Il
radiotracciante viene iniettato in sede peritumorale e, grazie al
diametro delle particelle colloidali (20 – 80 nm), migra dalla sede di
iniezione lungo i dotti linfatici e raggiunge il linfonodo sentinella
[AOUTS].
La ricerca e individuazione del linfonodo sentinella nasce
dall’esigenza di evitare ogni volta che ve ne è la possibilità,
interventi chirurgici eccessivamente demolitivi (tipicamente lo
svuotamento ascellare, cioè l'asportazione di tutti i linfonodi
ascellari) che causano complicazioni immediate e a distanza, quali
linfedema, parestesie e limitazioni funzionali [Volterrani, 2010].
25
1.3.4.3 PET e PET-TC
La tomografia a emissione di positroni (PET) è una tecnica di
imaging che fornisce immagini sfruttando la distribuzione di isotopi
emittenti positroni contenuti nel radiofarmaco iniettato. Questa
tecnica, a differenza delle altre metodiche già viste, si distingue per
la sua capacità di studiare le caratteristiche funzionali del cancro
mammario, come flusso ematico, metabolismo del glucosio e stato
dei recettori. La PET per il carcinoma mammario è stata approvata
negli USA sin dal 2003, con tre specifiche indicazioni: stadiazione
pre-operatoria (con riferimento anche ai linfonodi ascellari),
diagnosi di recidiva loco-regionale e/o delle metastasi a distanza in
fase di ristadiazionie e valutazione della risposta alla terapia
[Volterrani, 2010].
Il radiofarmaco utilizzato nella PET della mammella è il Fluorodesossi-glucosio marcato con 18F (FDG-18F), che è un tracciante
che permette di valutare il metabolismo glucidico, che nelle cellule è
aumentato, andando a determinare un maggiore accumulo dello
stesso in sede tumorale. La sensibilità di questo esame è molto
elevata, tuttavia presenta un limite legato alla risoluzione spaziale
che rende difficoltoso lo studio delle lesioni inferiori al cm; inoltre i
processi neoplastici ben differenziati possono dar luogo a falsi
negativi, in quanto il loro metabolismo non è particolarmente
aumentato. Per una miglior qualità delle immagini PET è possibile
abbinare le immagini funzionali della PET le immagini morfologiche
ottenute con una TC (Tomografia Computerizzata), che quindi non
solo aiuta la localizzazione delle lesioni dando riferimenti anatomici,
ma corregge anche l'attenuazione delle radiazioni causata dal
corpo del paziente [Passariello, 2012].
26
1.3.5 Biopsia e agoaspirato
Nel caso in cui la mammografia e/o l’ecografia non siano in
grado di formulare con certezza la diagnosi riguardo la natura di un
reperto dubbio o sospetto, si rende necessario ricorrere ad un
prelievo di cellule o di un frammento di tessuto mammario, con
successiva analisi anatomopatologica del materiale prelevato.
Le metodiche con cui si eseguono questi prelievi sono
principalmente la biopsia e l'agoaspirato e si distinguono a seconda
della grandezza dell'ago utilizzato. La prima, chiamata anche NCB
(Needle Core Biopsy) consiste nella raccolta di frustoli di tessuto,
tramite un ago di grosso calibro, che verranno in seguito analizzati
istologicamente, permettendo la conoscenza della sua eventuale
invasività e parametri relativi alla sua aggressività. La procedura
prevede alcuni accorgimenti particolari come l'utilizzo di un
anestetico locale, un'incisione cutanea con un bisturi per facilitare il
passaggio dell'ago, la compressione manuale per 10-15 min dopo
l'estrazione dell'ago e la radiografia dei campioni. Al giorno d'oggi
sono disponibili diverse metodologie di NCB, tra cui: prelievi multipli
con aghi a ghigliottina di calibro compreso tra i 14 e 20 G (Gauge) e
pistola automatica o semiautomatica e prelievo con aspirazione
(Mammotome o Vacuflash). Generalmente la biopsia viene eseguita
sotto guida ecografica ma può essere eseguita anche sotto guida
mammografica [Mazzuccato, 2009].
L'agoaspirato, chiamato anche FNAC (Fine Needle Aspiration
Citology), è eseguito invece con un ago sottile, dal calibro
compreso tra 21 e 27 G, montato su una siringa apposita e consiste
nel prelievo di alcune cellule che verranno analizzate con un esame
citologico. A differenza del NCB, questa metodica meno indaginosa,
indolore e non richiede accorgimenti particolari [http://medicalgroupdiagnostica.it].
27
Capitolo 2
DALLA MAMMOGRAFIA
ALLA BREAST-CT
In questo capitolo verrà evidenziata l'evoluzione tecnologica che
sta alla base delle tecniche di imaging applicate alla mammella. In
primo luogo verrà illustrato il mammografo, descrivendone i
componenti e in particolar modo i sistemi di formazione
dell'immagine con particolare riguardo al passaggio dall'analogico
al digitale. In seguito verrà brevemente descritta la tecnica di
tomosintesi digitale; si giugerà quindi all'approfondimento di
numerosi aspetti della tomografia computerizzata (o TC, in inglese
Computed Tomography, CT), soprattutto quelli riguardanti la
formazione delle immagini. Infine verrà illustrata la breast-CT e gli
studi eseguiti con questa recente tecnica.
2.1 IL MAMMOGRAFO
Il mammografo è un’apparecchiatura a raggi X dedicata in cui
l’immagine viene catturata da una pellicola radiografica o da
rivelatori digitali. Le apparecchiature per mammografia, la maggior
parte ormai digitali e di cui un esempio è illustrato in figura 2.1,
sono costituite da [Passariello, 2012]:
•
un generatore;
•
un tubo radiogeno con anodo rotante generalmente in
Molibdeno (Mo) o Rodio (Rh);
28
•
filtri in Mo o Rh accoppiati all'anodo;
•
un dispositivo di controllo
(Automatic Exposure Control);
•
un dispositivo per la compressione della mammella;
•
una griglia antidiffusione;
•
un rivelatore.
automatico
dell’esposizione
Figura 2.1 - Mammografo GE Senographe DS.
Nel seguito viene fornita una descrizione dei componenti e delle
loro principali funzioni all’interno dell’apparecchiatura radiologica.
2.1.1. Generatore
Il generatore più utilizzato e con le migliori prestazioni è un
generatore ad alta frequenza ed a potenziale costante. Questo tipo
di generatori consente un basso tempo di esposizione con
conseguente minore probabilità di avere nell'immagine artefatti da
movimento e una migliore tollerabilità del dolore dovuto alla
compressione da parte della paziente. Le differenze di potenziale
29
che vengono utilizzate per la produzione della radiazione vanno da
20 a 35 kV e possono essere impostati a step di 1 kV. La corrente
anodica, invece, può essere regolata da 91 mA fino a 120 mA, con
fuoco fine, e da 21 mA a 42 mA con il fuoco ultrafine.
Le dimensione dei due fuochi, fine ed ultrafine, devono essere le
più piccole possibili per aumentare la nitidezza dell'immagine e
ridurre la sfocature dell'immagine. Le loro dimensioni, infatti, sono di
0,3 x 0,3 mm (fine) e di 0,1 x 0,1 mm (ultrafine). Tali dimensioni
sono rese possibili anche i virtù delle elevate velocità di rotazione
raggiunte dall'anodo (fino a 10000 giri/min circa), che hanno
consentito correnti elevate nel tubo e di conseguenza, tempi di
esposizione ridotti [Passariello 2012].
2.1.2. Anodo e filtri
Essendo la mammella un organo costituito da tessuti molli,
risulta estremamente importante ottimizzare la qualità della
radiazione al fine di evidenziare le diversità di contrasto tra le varie
strutture. Un ruolo fondamentale a questo scopo viene giocato
dall'anodo.
I mammografi utilizzano due tipi diversi di anodo, uno di
Molibdeno (Mo) e uno di Rodio (Rh), in combinazione con due
diversi tipi di filtro, anch'essi in Molibdeno o Rodio. Questi materiali,
per l'anodo e per la filtrazione, influenzano sia il contrasto
dell'immagine che la quantità della dose somministrata alla
mammella e sono scelti in base alla densità della mammella.
L'anodo in Molibdeno produce raggi X caratteristici con energie
di 17.4 e 19.6 keV, adatti a produrre raggi X a ridotta energia e
ottimizzati per l’utilizzo in mammografia (figura 2.2). All'anodo in
Molibdeno possono essere associati sia il filtro dello stesso
materiale, sia quello in Rodio. Il filtro in Molibdeno, di 0,03 mm, è
normalmente utilizzato sotto i 30 kV, nel caso di mammelle non
30
particolarmente dense o poco spesse; il filtro in Rodio, invece,
permette di avere una maggiore energia media della radiazione (22
keV) e viene utilizzato per mammelle più dense [Passariello, 2012]
L'anodo in Rodio, invece, viene accoppiato ad un filtro dello
stesso materiale al fine di produrre raggi X caratteristici con energie
pari a 20,2 e 23,3 keV, adatte per mammelle particolarmente dense
o spesse.
Figura 2.2 - Spettri caratteristici di un tubo radiogeno con anodo in Molibdeno e
filtro in Mo a 26 kV(a); anodo in Rodio e filtro in Rh (b).
In generale bassi valori dalla differenza di potenziale consentono
un elevato contrasto, ma possono determinare lunghi tempi di
esposizione ed un’elevata dose impartita.
2.1.3. AEC
Nei moderni mammografi l'accoppiata anodo/filtro più idonea può
essere selezionata automaticamente dall'apparecchiatura grazie ai
sistemi AEC (Automatic Exposure Control) e AOP ( Automatic
Optimization Parameter).
Questi sistemi permettono un controllo dell'esposizione
automatico, che regola la durata di un'esposizione in base allo
31
spessore e alla struttura della mammella, e un'ottimizzazione dei
parametri di esposizione (differenza di potenziale - kV, corrente mA e tempo di esposizione - s), al fine di assicurare il miglior
compromesso tra dose e qualità dell'immagine.
2.1.4 Compressore
L'esame mammografico si svolge praticando una compressione
sulla mammella con il ricorso ad un dispositivo detto compressore.
Tale compressore è di materiale radiotrasparente, presenta una
superficie piatta, un profilo rettilineo dalla parte della parete toracica
e solitamente è motorizzato in modo tale che l'operatore possa
controllarlo tramite un pedale che lascia quindi le mani dello stesso
libere per il posizionamento della paziente. La compressione della
mammella è importante e necessaria perchè presenta una serie di
vantaggi come:
•
migliore qualità dell’immagine in quanto vengono ridotti gli
artefatti da movimento e vi è maggiore uniformità dello
spessore un generatore;
• abbassamento del livello energetico della radiazione e del
tempo di esposizione, con conseguente riduzione della dose
rilasciata;
• miglioramento del contrasto perché si riduce la radiazione
diffusa;
• distensione dei tessuti limitando le sovrapposizioni.
32
2.1.5 Griglia antidiffusione
L’influenza della radiazione diffusa, che degrada la risoluzione di
contrasto, può essere ulteriormente ridotta grazie alla presenza di
una griglia antidiffusione, che entra in movimento durante
l’esposizione. Le griglie sono costituite da sottili lamelle di Piombo,
dall'elevato potere assorbente, alternate a materiale organico, che
invece è radiotrasparente, e contenute in un rivestimento di fibra di
carbonio, anch'esso radiotrasparente. Il numero delle lamelle va da
80 a 100 lamelle/cm (frequenza di griglia) e il rapporto tra l'altezza
della lamelle e la loro distanza (ratio di griglia) è di 5:1. Il compito
principale di una griglia è quello di selezionare la radiazione in
entrata, lasciando passare solo quella che ha la direzione del fascio
primario e scartando i fotoni che costituiscono radiazione diffusa.
L'utilizzo di questo sistema per ridurre la radiazione diffusa ha come
svantaggio l’incremento della dose depositata all’organo, perchè
costringe l’operatore ad aumentare la corrente al tubo, e quindi la
quantità di fotoni X prodotti, in quanto una parte del fascio viene
bloccata.
Tuttavia, esami senza l'utilizzo della griglia sono eseguiti nelle
tecniche con ingrandimento [Mazzuccato, 2009].
2.1.6 Sistemi di rivelazione
Per quanto concerne il sistema di rilevazione, ne esistono di due
tipi: quello analogico, ormai superato, e quello digitale, largamente
diffuso, che a sua volta si suddivide in digitale indiretto e digitale
diretto.
2.1.6.1 Rivelatore analogico
Il sistema di rilevazione analogico è costituito dall'accoppiamento
di una pellicola radiografica con uno schermo di rinforzo costruiti
33
appositamente per la mammografia, al fine di ottenere immagini
con un adeguato contrasto, una buona risoluzione spaziale e minor
rumore possibile. La pellicola radiografica per mammografia, a
differenza di quella tradizionale per le radiografie dello scheletro, è
costituita da una singola emulsione dello spessore di alcuni micron
posta anteriormente ad uno schermo di rinforzo. Questa struttura
del sistema di rilevazione permette di ridurre al minimo il cosiddetto
effetto “cross-over” che invece si ha con le pellicole a doppia
emulsione e doppio schermo di rinforzo [Passariello, 2012]. La
pellicola e lo schermo di rinforzo sono contenuti all'interno di
apposite cassette radiografiche che hanno la funzione di proteggere
il sistema dalla luce esterna. L'immagine che si viene a creare nella
pellicola a seguito di un'esposizione è detta “latente”, in quanto non
è ancora visibile. Per renderla tale, infatti, dopo l'esposizione il film
viene immerso in un opportuno liquido di sviluppo che la
trasformerà in un immagine visibile e utilizzabile per l'analisi
medica.
2.1.6.2 Rivelatori digitali
Nel sistema di rilevazione digitale la pellicola radiografica è
sostituita da un detettore che assorbe i raggi X trasmessi attraverso
la mammella e converte la loro energia in segnali elettronici, i quali
vengono digitalizzati o nell'immediato (sistema digitale diretto) o in
un secondo momento (sistema digitale indiretto). Dall'insieme di
questi dati viene quindi ricavata un'immagine che compare su un
monitor ad alta definizione e può essere, se necessario, elaborata
con appositi algoritmi.
Il detettore digitale indiretto, o sistema CR (Computed
Radiography), utilizza uno schermo fluorescente, detto “Imaging
Plate” (IP), formato da fosfori, contenuto all'interno di una cassetta
radiografica simile a quella tradizionale. I fosfori convertono i fotoni
34
X incidenti in fotoni luminosi dall'intensità proporzionale all'energia
depositata dalla radiazione che li ha generati. I fotoni X vengono
infatti assorbiti dal fosforo fornendogli energia e portandolo di
conseguenza ad uno stato di eccitazione. In questo stato il fosforo
rimane, conservando sia la sua posizione nel plate, sia l'entità
dell'energia che ha assorbito, fino a quando non viene stimolato e
reso instabile. Tale stimolazione, che avviene in fase di lettura del
plate, consiste nel colpire il fosforo con un raggio laser che lo porta
ad uno stato instabile dal quale decade spontaneamente emettendo
luce e tornando quindi allo stato di partenza (figura 2.3). La luce
rilasciata dal fosforo viene poi raccolta da un fotomoltiplicatore che
la converte in un segnale elettrico proporzionale alla sua intensità.
L'insieme dei segnali viene quindi campionato e digitalizzato tramite
un convertitore analogico-digitale e registrato su un computer.
Come risultato finale si ottiene un'immagine digitale in cui ogni pixel
(Picture Element, cioè ogni unità che compone l'immagine digitale)
è rappresentato da un numero digitale, risultato del campionamento
del segnale, associato a un determinato livello di grigio.
Figura 2.3 - Bande energetiche di un sistema CR. Il laser fa ricombinare nuche
ed elettroni con seguente emissione di luce, che rappresenta il segnale.
Il detettore digitale diretto, o sistema DR (Direct Radiography),
può essere di vario tipo: ci sono, infatti, sistemi che convertono
l'energia della radiazione in un tempo immediato (diretti) e sistemi
che la convertono in un tempo differito (indiretti).
35
La prima modalità necessita di un materiale fotoconduttore che
converta i fotoni X in cariche elettriche; la seconda introduce un
passaggio intermedio, ovvero necessita di un cristallo scintillatore
che emetta luce (visibile) quando colpito dalla radiazione, luce che
viene successivamente raccolta e convertita in segnale elettrico.
I primi sistemi ad esser stati impiegati in radiologia digitale sono
stati i sistemi indiretti.
In particolare i sistemi CCD sono stati le prime soluzioni
tecnologiche impiegate nei rivelatori DR. Un sensore CCD è un
dispositivo ad accoppiamento di carica (dall'inglese ChargeCoupled Device) che consiste in un circuito integrato formato da
una riga, o da una griglia, di elementi semiconduttori in grado di
accumulare un a carica elettrica proporzionale all'intensità della
radiazione elettromagnetica che li colpisce [wikipedia]. La
radiazione elettromagnetica in questione, nel caso di sistemi di
rivelazione digitali, è luce visibile e proviene da un cristallo
scintillatore, tipicamente lo Ioduro di Cesio attivato al Tallio (CsI:Tl).
Questo materiale presenta un'altissima efficienza di conversione
della radiazione X in radiazione luminosa grazie alla tipica struttura
colonnare dei cristalli che convogliano la luce prodotta ad una fibra
ottica ad esso accoppiata. La fibra ottica ha il compito di trasferire la
luce derivante dal cristallo a una stringa rettangolare di sensori
CCD che la convertono in una carica elettrica. Tale carica elettrica
viene poi trasferita ad un amplificatore e letta da un convertitore
analogico-digitale che si occupa quindi di rielaborare il segnale
elettrico in una matrice di numeri che andrà a costituire l'immagine
digitale. Attualmente questo tipo di detettore è in commercio con
dimensioni di circa 1x24cm, quindi non copre tutto il campo di
acquisizione dell'immagine [Bick, 2010]. La soluzione è quella di
rendere il fascio di raggi X molto collimato, in modo tale che abbia
circa la stessa dimensione del detettore. Per acquisire l'immagine,
dunque, il fascio di fotoni X e il rivelatore si muovono in sincronia
36
per tutta la lunghezza del campo di acquisizione come uno
“scanner” (figura 2.4).
Figura 2.4 - Modalità di acquisizione dell'immagine nei sistemi CCD.
Dopo i sistemi CCD vennero sviluppati dei detettori molto simili
nel funzionamento, ma che al posto dei CCD usano dei
semiconduttori al Silicio amorfo (a-Si). Anche in questi detettori,
infatti, il sistema di rivelazione è costituito dallo Ioduro di Cesio
attivato al Tallio e la luce emessa viene convogliata verso dei
dispositivi che la convertono in un segnale elettrico. In particolare il
segnale luminoso viene catturato da una matrice di semiconduttori
in Silicio amorfo (a-Si), ovvero dei fotodiodi, disposti sulla superficie
posteriore del cristallo (figura 2.5). Il segnale elettrico raccolto da
ciascun fotodiodo viene poi campionato mediante un convertitore
analogico-digitale, e trasformato nell'immagine digitale [Passariello,
2012].
Figura 2.5 - Struttura di un rivelatore DR a conversione indiretta.
37
I sistemi DR più diffusi e tecnologici, invece, sono quelli diretti.
Alcuni di questi utilizzano una piastra di Selenio amorfo (a-Se) che
quando viene colpita dai fotoni X genera coppie elettrone/lacuna.
Sotto l'influsso di un campo elettrico esterno, applicato tra le due
superfici della piastra, gli elettroni vengono convogliati verso una
matrice di transistors a film sottile (TFTs) posta a contatto col
Selenio. Per ogni singolo fotone incidente si ha la raccolta di
segnale (elettroni) solo sul TFT che si trova perpendicolare al punto
di impatto. Questa tecnologia, permette quindi di individuare già dal
punto di vista “fisico”, tramite i TFTs, i pixel che andranno a
costituire l'immagine digitale (figura 2.6).
Una volta terminata l'esposizione, l'elettronica del sensore si
occupa di far uscire, riga per riga, i valori di carica corrispondenti ad
ogni pixel e successivamente i dati vengono inviati al computer che
ricostruisce l'immagine su un monitor [Bick, 2010].
Figura 2.6 - Schematizzazione di un sistema DR a conversione diretta.
2.2 TOMOSINTESI
La tomosintesi digitale (DBT = Digital Breast Tomosynthesis), è
una tecnica di imaging tridimensionale che permette di ricostruire
immagini volumetriche della mammella a partire da un numero finito
di proiezioni bidimensionali a bassa dose, ottenute con angolazioni
diverse del tubo radiogeno.
38
La DBT permette quindi il superamento di uno dei limiti più
grandi
della
mammografia,
ovvero
la
sovrapposizione
nell'immagine, a causa di un fatto proiettivo, delle strutture
ghiandolari alle lesioni, che vengono pertanto mascherate e non
riconosciute, permettendo un'analisi più accurata della mammella e
una riduzione dei falsi negativi e dei falsi positivi [Pescarini, 2008].
La DBT si basa sullo stesso concetto della tomografia a piano
focale, della zonografia (tomografia ad angolo limitato) e della
stratigrafia: le immagini vengono acquisite da differenti angoli,
attraverso la pendolazione del tubo e successivamente sommate
insieme così che solo un piano risulta a fuoco (figura 2.7). Grazie al
movimento correlato del tubo radiogeno e del sistema di
rivelazione, dettagli anatomici che si trovano su un determinato
piano del paziente vengono messi in risalto dalla cancellazione per
sfumatura di quelli che giacciono nei piani sopra e sottostanti.
Figura 2.7 - Geometria di acquisizione in Tomosintesi.
Tuttavia, mentre le tecniche tradizionali richiedevano
l'acquisizione di esposizioni multiple per ciascuno strato che si
voleva “mettere a fuoco”, la tomosintesi digitale permette di
ricostruire un numero arbitrario di piani a partire dalla stessa
sequenza di proiezioni. Ciò è reso possibile dalla separazione tra il
processo di acquisizione e quello di visualizzazione (figura 2.8),
consentita dall'impiego di rilevatori digitali diretti per cui le stesse
39
proiezioni grezze possono essere processate per ricostruire piani
diversi.
Figura 2.8 - Modalità di acquisizione e visualizzazione in Tomosintesi.
L'apparecchiatura con cui si esegue la tomosintesi non è altro
che un mammografo con sistema di rilevazione digitale, dotato della
meccanica e del protocollo necessari per acquisire l'esame.
Per l'esecuzione della tomosintesi la paziente viene posizionata
come nell'esame mammografico: in ortostasi, frontalmente
all'apparecchiatura e con il seno in compressione appoggiato sul
piano orizzontale del mammografo.
L'acquisizione delle immagini dura circa 19 secondi e
comprende tipicamente 11 esposizioni a bassa dose con un
movimento del tubo radiogeno secondo un arco di circonferenza
ampio circa 28° [Poplack, 2007]. I dati grezzi raccolti a seguito
dell'esposizione vengono poi rielaborati da un computer che,
applicando particolari algoritmi, fornisce una serie di immagini
corrispondenti a piani di 1mm di spessore e senza gap tra essi, così
chw una mammella spessa 5cm, viene rappresentata da 50
immagini [Passariello, 2012].
Questo tipo di indagine non sostituisce la mammografia digitale,
ma può essere utilizzata per chiarire una diagnosi dubbia. Inoltre,
40
se utilizzata in uno screening sulla popolazione in aggiunta alla
mammografia, può far diminuire sensibilmente i tassi di richiamo
[Gur, 2007].
2.3 TOMOGRAFIA COMPUTERIZZATA
La Tomografia Computerizzata (dall'inglese Computed
Tomography) è una tecnica di imaging in cui si fa ruotare attorno al
corpo del paziente un fascio di raggi X strettamente collimato e si
misura la radiazione trasmessa con un sistema di rilevazione ad
ogni piccolo grado di rotazione. Si ottiene così una serie di profili di
attenuazione dei raggi X del soggetto esaminato a differenti angoli.
Successivamente l'elaborazione delle misure mediante speciali
algoritmi matematici ricostruisce immagini assiali (da qui il nome
iniziale di Tomografia Assiale Computerizzata, ovvero TAC) libere
da sovrapposizioni, ciascuna delle quali rappresenta una “fetta”
corporea del soggetto [Mazzuccato, 2009]. Convenzionalmente,
l'asse della rotazione viene indicato come asse z, mentre le sezioni
assiali risultano definite sul piano xy.
2.3.1 Principi fisici della Tomografia Computerizzata
Come per la radiologia tradizionale, anche per la TC alla base
della formazione dell'immagine ci sono le differenti proprietà dei vari
tessuti nell'attenuare le radiazioni X. È proprio per questo motivo
che la TC è una tecnica ad elevata sensibilità di contrasto, perchè
riesce a distinguere chiaramente le diverse strutture anatomiche in
base alla loro densità (attenuazione).
Le immagini TC sono, quindi, una ricostruzione della
distribuzione bidimensionale dei coefficienti di attenuazione lineare
dei raggi X secondo il piano assiale. L'insieme dei dati che viene
41
usato per la ricostruzione delle immagini è formato dalle
informazioni provenienti da migliaia di “raggi”, che rappresentano
un singolo fascio lineare di fotoni X, i quali, dopo essere attenuati
dal paziente, arrivano ad un detettore. L'intensità della radiazione
che colpisce i detettori in un singolo istante per una data direzione
incidente costituisce una proiezione o profilo. L'insieme delle
proiezioni ottenute da differenti angoli di rotazione si chiama,
invece, scansione [Faggioni, 2011].
Quale sia il sistema di scansione adottato, l'obiettivo di
ricostruire i coefficienti di attenuazione in una sezione piana viene
raggiunto attraverso due passi distinti: l'ottenimento di un numero
sufficiente di profili di attenuazione di un fascio di raggi X, e la
ricostruzione computerizzata della sezione dai dati di assorbimento
dei profili.
Come già detto sopra, nell'attraversare la materia, l'intensità di
un fascio diminuisce perchè parte dell'energia radiante viene
assorbita interagendo con essa. La legge di attenuazione delle
radiazioni da parte della materia (legge di Beer) stabilisce che:
I=I 0 e−μ Δ x
in cui
I
è l'intensità di un fascio emergente (assunto
monocromatico), I0 è l'intensità del fascio incidente, e è una
costante (la base del logaritmo naturale e vale circa 2,718), µ è il
coefficiente di attenuazione lineare per una determinata energia del
fascio incidente e Δx lo spessore del materiale attraversato
[Mazzuccato, 2009]
Tale relazione può essere così espressa in termini logaritmici:
ln (
I
)=−μ Δ x
I0
Pertanto, noti i valori di I e I0 e lo spessore Δx, risolvendo
42
l'equazione si può risalire al valore del coefficiente di attenuazione
lineare μ che costituisce il parametro di misura della TC.
Dall'equazione è chiaro che i tessuti con più elevato coefficiente
di attenuazione lineare (più densi) assorbono più fotoni X rispetto a
tessuti con coefficiente di attenuazione lineare inferiore (meno
densi).
Immaginiamo ora, come mostrato in figura 2.9, di suddividere un
oggetto in tanti piccoli volumetti elementari di spessore x, detti voxel
(unità di volume corrispondenti ai pixel nelle immagini digitali
bidimensionali).
Figura 2.9 - Rappresentazione del voxel e del pixel.
Se un raggio passa, come avviene generalmente, attraverso
voxel di materiali con diversi μ, la legge dell'attenuazione richiede
che i contributi individuali di ciascuno di essi si sommino per
raggiungere l'attenuazione risultante.
Dalla relazione sopra citata si passa dunque alla seguente:
−ln(
I
)=∫L μ (x)dx
I0
L'equazione stabilisce che il rapporto dell'intensità del fascio
incidente I sull'intensità del fascio emergente I0, dopo operazione
logaritmica, rappresenta l'integrale di linea dei diversi coefficienti di
attenuazione dei materiali lungo il raggio [Mazzuccato, 2009].
43
Nelle immagini TC ad ogni pixel è associato un numero, detto
“numero TC”, che è correlato matematicamente al coefficiente di
attenuazione lineare del tessuto contenuto nel voxel
corrispondente. I numeri TC sono comunemente espressi in “Unità
Hounsfield” e sono a loro volta correlati al coefficiente di
attenuazione dell'acqua in base alla relazione:
μ
−μacqua
n° TC =k⋅ tessuto
μacqua
dove k è una costante uguale a 1000.
In base a questa relazione, all'acqua vengono attribuite 0 HU
(Hounsfield Unit), mentre all'aria -1000 HU. Perciò, tessuti con
densità inferiore a quella dell'acqua presentano numeri TC negativi,
mentre quelli con densità superiore hanno numeri positivi: per
esempio, la struttura più densa del corpo umano, rappresentata
dalla rocca petrosa dell'osso temporale, arriva fino a +3000 HU [Del
Favero, 1992]. Per comprendere meglio la distribuzione delle
densità dei vari tessuti nella scala Hounsfield, si può fare
riferimento alla figura 2.10 di seguito riportata.
Figura 2.10 - Scala Hounsfield.
Nelle immagini TC i valori di densità sono perciò distribuiti su
44
oltre 4000 livelli numerici, che però, a causa del limitato potere
visivo dell'occhio umano, non possono essere convertiti
direttamente in 4000 diversi livelli di grigio. Nella visualizzazione
delle immagini TC su monitor è possibile, infatti, selezionare un
campo ristretto di interesse (finestra) della completa scala dei valori
di assorbimento, rappresentandola con tutta l'estensione di tonalità
dei grigi del monitor. In tal modo l'occhio umano è in grado di
sfruttare meglio la sensibilità contrastografica della TC [Del Favero,
1992]. La finestra è selezionabile liberamente, sia come ampiezza
(Window Width), cioè quante unità Hounsfield convertire in livelli di
grigio, sia come livello (Window Level), cioè quali di queste
convertire, impostandone il valore centrale.
Tuttavia, per comprendere al meglio come avviene la produzione
delle immagini in TC, analizzeremo ora l'evoluzione tecnologica, la
struttura e il funzionamento che stanno alla base di un moderno
tomografo.
2.3.2 L'apparecchiatura TC
La prima apparecchiatura TC ad uso medico venne realizzata
nel 1970 da Hounsfield sulla base di un suo precedente prototipo;
la prima scansione di un cervello umano venne effettuata con la
stessa apparecchiatura nel 1971 suscitando da subito enorme
interesse presso la comunità scientifica [Mazzuccato, 2009].
Da quell'evento in poi il progresso tecnologico della TC è
avanzato lungo le seguenti principali direttrici:
• sviluppo di nuovi sistemi, fondati su differenti principi di
scansione, nell'intento prioritario di abbreviare il tempo di
raccolta delle misure;
• sviluppo ed utilizzo di nuovi e più perfezionati componenti
45
d'impianto, al fine di migliorare la qualità dell'immagine ed allo
stesso tempo di aumentare l'efficienza operativa ed il comfort;
• sviluppo di sistemi di calcolo più efficienti, al fine di ridurre il
tempo di attesa dell'immagine, migliorare la qualità della
stessa ed aumentare il flusso degli esami;
• sviluppo di software applicativi per l'esecuzione di esami
funzionali, e incremento delle possibilità di post-processing.
A partire dagli anni Settanta in poi sono state sviluppate quattro
generazioni di tomografi, con soluzioni costruttive e tecnologiche
sempre più sofisticate. Si è passati, infatti, da un fascio di raggi X
collimatissimo detto pencil-beam e l'utilizzo di un unico detettore
(prima generazione), a un fascio a ventaglio fan-beam e l'impiego di
una corona circolare di detettori (quarta generazione) [Passariello,
2012].
Tra queste quattro generazioni, quella che ebbe maggior
successo e dalla quale vennero sviluppate le TC successive, fu la
terza. La sua evoluzione, chiamata TC spirale a singolo strato
(1989), introduceva una tecnologia a contatti striscianti (slip-rings)
che permetteva la rotazione continua del tubo senza i tempi morti
dovuti al cambio di senso di rotazione, da orario a antiorario e
viceversa, a causa dell'attorcigliamento dei cavi di alimentazione.
Durante l'acquisizione il lettino del paziente si muoveva a velocità
costante attraverso il campo di scansione. Come mostrato in figura
2.11, la traiettoria risultante è perciò quella di una spirale, da cui il
nome, e l'insieme dei dati acquisiti in modo continuo sono relativi ad
un intero volume corporeo (acquisizione volumetrica).
46
Figura 2.11 - Schema dell'acquisizione con TC spirale.
Il principale limite della TC spirale a singolo strato era costituito
dall'impossibilità di esaminare grandi volumi corporei con strati
molto sottili e dalla scarsa risoluzione spaziale delle immagini lungo
l'asse z (asse longitudinale). Per migliorare questi difetti è stata
sviluppata un'ulteriore evoluzione tecnologica della TC spirale, in
cui il fascio di raggi X è ampliato in senso longitudinale e il sistema
di rivelazione è composto da una matrice di detettori ed è perciò
capace di acquisire simultaneamente i dati da più strati. Si parla
quindi di TC multistrato o TC multidetettore (figura 2.12). Il primo
tomografo a più strati è stato realizzato dalla General Electric nel
1998 e prevedeva 4 file di detettori. Tuttavia, la ricerca costante di
nuove soluzioni sempre più sofisticate ha portato nel 2009 alla
realizzazione di un'apparecchiatura a 320 strati [Faggioni, 2011].
Figura 2.12 - Schema dell'evoluzione tecnologica nell'acquisizione con TC
multistrato.
47
2.3.3 Componenti
Le prestazioni globali di un sistema TC dipendono dalle
caratteristiche di tutte le sue diverse componenti, che sono
fondamentalmente le stesse in tutte le generazioni sopra descritte.
Le principali sono:
• una sorgente radiogena;
• un generatore;
• detettori che possono essere, a seconda della tecnologia,
disposti su più file, di varie dimensioni e di diverso
funzionamento;
• sistemi di acquisizione (DAS) e di trasmissione dei dati;
• un computer per l'elaborazione dei dati.
Alcuni di questi componenti, come il tubo radiogeno, il
generatore, i detettori e gran parte dell'elettronica, sono contenuti
all'interno del cosiddetto gantry. Il gantry non è altro che un
contenitore, rettangolare o circolare, con un'apertura al centro,
sempre circolare, dentro la quale può scorrere il lettino
portapaziente durante l'acquisizione. Il diametro di apertura del
gantry varia a seconda del tipo di scanner, ma tipicamente si aggira
attorno ai 70 cm; inoltre può essere inclinato in senso craniocaudale e viceversa con angolazioni che arrivano fino a 30° circa a
seconda del tipo di scanner [Mazzuccato, 2009].
Il tubo radiogeno costituisce una della componenti critiche del
sistema TC. Infatti, per ottenere risultati ottimali in termini di
risoluzione spaziale e di contrasto, è necessario l'utilizzo di elevati
parametri di esposizione per lunghi periodi di tempo. Ciò determina
un elevato riscaldamento e quindi l'utilizzo di anodi e di sistemi di
48
raffreddamento in grado di sopportare tale carico termico. Il
generatore, ad alta frequenza, infatti, fornisce livelli di tensione che
variano generalmente da 80 kV a 140 kV ed un ampia scala di
selezione dell'intensità di corrente [Passariello, 2012]. Per far fronte
a queste potenze sono stati realizzati, per esempio anodi rivestiti di
grafite, o con liquido refrigerante posto direttamente a contatto con
essi e isolanti ceramici. Il tubo radiogeno prevede inoltre la
possibilità di scegliere tra due macchie focali di diverse dimensioni,
per ridurre al minimo l'effetto penombra nelle immagini.
All'uscita del tubo la radiazione viene poi filtrata con filtri di vario
materiale (grafite, alluminio, rame, ecc...) e di spessore variabile e
un doppio sistema di collimatori fa sì che la dose al paziente venga
ridotta eliminando buona parte della radiazione diffusa a livello dei
detettori e predeterminando lo spessore di strato.
Sempre all'interno del gantry troviamo i detettori che hanno il
compito di rilevare l'intensità della radiazione trasmessa e
trasformarla in segnale. Le loro caratteristiche influenzano
significativamente sia la qualità dell'immagine sia la dose al
paziente.
Le macchine moderne utilizzano detettori allo stato solido
costituiti da materiali scintillatori di varia natura (i più utilizzati
attualmente sono ceramici) abbinati ad una matrice di fotodiodi; il
loro funzionamento, come già descritto in precedenza, consiste nel
trasformare la radiazione X in radiazione luminosa di intensità
proporzionale, che viene poi misurata e convertita in segnale
elettrico da fotodiodi.
I segnali elettrici provenienti dai detettori vengono prima
amplificati e poi trasformati in dati numerici dai convertitori
analogico-digitali. L'insieme dei componenti elettronici che raccoglie
i segnali dal sistema di rilevazione viene denominato sistema di
49
acquisizione dei dai ovvero DAS (Data Acquisition System). I valori
numerici relativi ad ogni scansione che il DAS trasferisce al
computer per l'elaborazione rappresentano i dati grezzi.
Il computer è posto al di fuori del gantry e deve rispondere a due
diversi tipi di esigenze. Per prima cosa deve controllare l'intero
sistema di acquisizione, la gestione delle immagini e il dialogo con
tutte le componenti dell'apparecchiatura. In secondo luogo si deve
occupare della ricostruzione delle immagini, che richiede tempi e
processi di calcolo estesi e ad alta velocità.
2.3.4 La ricostruzione delle immagini
Come già accennato nel paragrafo 2.3.1 la ricostruzione delle
immagini TC permette di conoscere i coefficienti di attenuazione e
la loro distribuzione nello spazio. A tale scopo esistono
principalmente due metodi: la ricostruzione iterativa e la
retroproiezione filtrata.
La ricostruzione iterativa è un metodo ancora poco usato in
clinica, perchè richiede una notevole potenza di calcolo, ma che
recentemente, con l'aumento delle prestazioni dei calcolatori, sta
trovando maggiore diffusione.
Consideriamo un oggetto semplice, come quello in figura 2.13,
formato solo da quattro voxel i cui coefficienti di attenuazione sono
μ1, μ2, μ3 e μ4. Se misuriamo le integrali di linea in direzione
verticale, orizzontale e diagonale per un totale di cinque proiezioni,
otteniamo le seguenti cinque equazioni:
A 1=μ1 +μ2
A 2=μ3 +μ 4
A 3=μ1 +μ3
A 4 =μ 2+μ4
A 5=μ1 +μ 4
50
Figura 2.13 - Rappresentazione di un oggetto e delle sue proiezioni.
Per risolvere questo sistema di equazioni il metodo iterativo
propone una soluzione iniziale, calcola poi l'errore (cioè la distanza
tra la soluzione proposta e quella misurata) e la corregge sulla base
di questo errore, riproponendo quindi una nuova soluzione, e così
via, fino a quando la differenza tra valore proposto e valore
misurato non è talmente piccola da considerarsi trascurabile.
L'approccio iniziale di questo algoritmo è quello di ricavare un
valore medio dei coefficienti di attenuazione, dividendo il valore
misurato per il numero di voxel attraversati dal fascio in ogni
proiezione; da qui si calcola l'errore.
Semplificando possiamo di che ci sono due tipi di ricostruzione
iterativa: quella additiva e quella moltiplicativa.
La prima somma il valore medio dell'errore alla soluzione
proposta per ricavarne un'altra più vicina alla misura; nella seconda
l'errore viene invece moltiplicato.
Per capire meglio vengono riportate di seguito le due equazioni
su cui si basano le due ricostruzioni:
Nk
1) iterazione additiva:
f qij +1=f ijq +
2) iterazione moltiplicativa:
A k −∑ f qij
1
Nk
f qij +1=f ijq⋅ N
Ak
k
∑ f ijq
1
51
Nelle quali: f qij +1 indica la nuova soluzione proposta (passo q+1),
f qij indica la soluzione proposta in precedenza (al passo q), il
termine Ak è il valore misurato con il quale confrontare le proposte di
soluzione, Nk è il numero dei voxel lungo la proiezione considerata
Nk
(k) e la sommatoria
∑f
q
ij
è la somma delle stime dei coefficienti di
1
attenuazione.
Pertanto nel primo caso, l'errore medio è rappresentato dal
termine frazionario, per cui quando esso tende a 0, il valore
proposto tenderà al valore misurato e pertanto verrà considerato
valido. Mentre nel secondo caso, essendo l'errore rappresentato dal
rapporto tra i valori misurati e la sommatoria di quelli stimati,
l'iterazione sarà conclusa quando esso tenderà a 1 [Bruno, 2012].
La retroproiezione filtrata o FBP (Filtered Back Projection) è
invece il metodo maggiormente diffuso e sfrutta i profili di
attenuazione ottenuti in fase di acquisizione. Per capire meglio
prendiamo come esempio un oggetto cilindrico; esso avrà tanti
profili di attenuazione quanti sono le proiezioni acquisite. Per
ricostruire la sua posizione nello spazio i profili vengono attribuiti a
tutta la matrice dell'immagine digitale lungo la proiezione di
appartenenza, come mostrato in figura 2.14. L'immagine che si
ottiene è sfumata e l'oggetto non è ben definito e questa è quella
che si chiama retroproiezione “semplice”.
Figura 2.14 - Immagine ottenuta con la retroproiezione semplice.
52
Per superare questo problema si applicano dei filtri, detti di
convoluzione, ai profili, in modo tale che essi vengano alterati
facendo sì che l'algoritmo eviti lo sparpagliamento dei dati e l'effetto
sfumatura in fase di ricostruzione (figura 2.15). Il tipo di filtro di
convoluzione è selezionabile in base al risultato desiderato, a
seconda che si voglia privilegiare la risoluzione spaziale o di
contrasto dei tessuti [Rampado, 2010].
Figura 2.15 - Differenze tra retroproiezione semplice e retroproiezione filtrata.
Il processo di calcolo della retroproiezione filtrata può avvenire
anche tramite trasformata di Fourier, secondo il teorema della
sezione centrale di Fourier [Bushberg, 2011].
2.3.5 La rappresentazione delle immagini
La ricostruzione delle immagini TC dell'oggetto esaminato
genera un insieme di numeri che va a costituire una mappa
numerica bidimensionale chiamata matrice. La matrice è un
insieme di pixel (picture elements) a cui vengono assegnati questi
valori numerici. Le dimensioni della matrice sono di solito espresse
53
in pixel per lato (256x256, 512x512, 1024x1024). Attualmente la
matrice più comunemente usata è la 512x512 [Mazzuccato, 2009].
Il FOV (Fied Of View), o campo di vista, invece, corrisponde
all'area (supposta circolare) rappresentata dalla matrice. Pertanto
matrice e FOV determinano la risoluzione spaziale dell'immagine,
perchè determinano la dimensione dei pixel. Infatti, a parità di
matrice, l'immagine con risoluzione spaziale migliore sarà quella
che ha un FOV più piccolo, perchè le dimensioni dei pixel saranno
ridotte.
Questa relazione è ben dimostrabile con un semplice esempio
numerico. Si prenda in considerazione una matrice da 512x512
pixel: con un FOV di 35 cm di diametro, un singolo pixel avrà
dimensione 35 : 512 ovvero 0,068 cm (0,68 mm), mentre con FOV
di 70 cm la dimensione del pixel raddoppia, infatti 70 : 512 = 0,136
(1,36 mm).
Analogamente, a parità di FOV, l'immagine con risoluzione
spaziale migliore sarà quella con matrice più grande, perchè avrà
un maggior numero di pixel e quindi un maggior dettaglio (figura
2.16).
Figura 2.16 - Immagini TC di un encefalo con stesso FOV, ma matrici diverse:
l'immagine a ha una matrice che è la metà di quella dell'immagine b, la quale,
infatti, ha una risoluzione spaziale sensibilmente migliore.
Tuttavia la qualità dell'immagine non si basa solo sulla
risoluzione spaziale, ma anche sulla presenza di eventuali artefatti,
54
che sono una degradazione dell'immagine dovuta a una
discrepanza tra i numeri TC dell'immagine ricostruita e i veri
coefficienti di attenuazione del soggetto esaminato. La conoscenza
dei vari tipi di artefatti e della loro causa può aiutare il tecnico a
impostare l'esame in modo tale che essi siano minimi.
Vi sono infatti artefatti dovuti a cause fisiche, artefatti che
originano dal paziente e artefatti dovuti a difetti di funzionamento
dell'apparecchiatura [Del Favero, 1992].
Tra gli artefatti di natura fisica i più importanti sono: l'indurimento
del fascio, l'effetto volume parziale, l'artefatto da fotopenia e gli
artefatti detti “da aliasing”. L'indurimento del fascio si verifica in
quelle zone particolarmente dense (ad esempio le rocche petrose)
in cui i fotoni X meno energetici vengono maggiormente assorbiti,
perciò l'energia media del fascio in uscita dalla struttura attraverata
aumenta. Questo fatto viene interpretato dall'apparecchiatura come
una minore attenuazione complessiva e quindi una minore densità
dell'oggetto in esame sottostimando il suo numero TC.
Sull'immagine questo effetto si traduce con la presenza di strisce o
bande ipodense che si dipartono dalla struttura attraversata.
L'effetto volume parziale si verifica quando in uno stesso voxel
sono presenti due tessuti di densità diverse. Poiché nel pixel
dell'immagine digitale è rappresentata una media pesata dei
coefficienti di attenuazione dei tessuti, il numero TC associato a
quel voxel sarà sottostimato o sovrastimato. Così un margine netto
fra due strutture adiacenti diventa nell'immagine TC meno definito e
le piccole strutture vengono comprese solo in parte o non comprese
affatto. Questo effetto è legato ai limiti di risoluzione spaziale
dell'apparecchiatura, infatti più piccoli sono i voxel, minore sarà
l'effetto [Mazzuccato, 2009].
L'artefatto da fotopenia si verifica in presenza di strutture dense
quando un numero insufficiente di fotoni raggiunge i detettori
55
alterando una parte delle singole proiezioni con molto rumore. Nelle
attuali apparecchiature questo artefatto può essere ridotto grazie a
dei sistemi che modulano i dati di esposizione automaticamente in
base agli spessori e alle strutture attraversate.
Infine, negli artefatti di natura fisica, ci sono gli artefatti da
aliasing che sono legati ai convertitori analogico-digitali. Un errato
campionamento dei dati, infatti, può portare ad un'errata
rappresentazione nell'immagine TC di determinate frequenze
spaziali, in particolare quelle elevate corrispondenti a zone di
interfaccia tra strutture diverse. Infatti il teorema del
campionamento di Nyquist afferma che la frequenza di
campionamento deve essere almeno doppia della massima
frequenza spaziale dell'oggetto in esame; se così non fosse
nell'immagine comparirebbero delle sottili strisce che si diffondono
dai margini delle strutture.
Gli artefatti legati al paziente sono i più frequenti, in particolare
quelli dati dal movimento dello stesso. Ad esempio una mancata o
errata apnea può dar luogo ad un'errata registrazione dei dati
nell'immagine ricostruita e quindi possono comparire doppi contorni,
sfumature e cancellazioni di strutture. Per minimizzare tali artefatti è
bene istruire il paziente a mantenere la posizione, a eseguire le
istruzioni che il tecnico gli fornisce e ridurre i tempi di acquisizione
[Del Favero, 1992].
Altri artefatti abbastanza comuni sono quelli causati da protesi
metalliche, clips chirurgiche o altri oggetti molto densi contenuti
all'interno del corpo del paziente che danno quindi luogo ad un
indurimento del fascio. Per questo motivo è importante far
rimuovere sempre ai pazienti tutti gli oggetti metallici mobili prima
dell'acquisizione.
Invece, la presenza di un qualsiasi materiale al di fuori del
56
campo di scansione crea caratteristici artefatti detti “out-of-field”.
Infatti, un qualsiasi oggetto ad alta densità al di fuori del FOV di
acquisizione (come per esempio le braccia del paziente o il tubicino
di raccordo del mezzo di contrasto), altera la lettura da parte dei
detettori, i quali ipotizzano che tutti i dati raccolti arrivino dal campo
di scansione. Nell'immagine tutto ciò si traduce con delle zone
d'ombra.
Per finire, i tipici artefatti dovuti all'apparecchiatura sono
provocati dal malfunzionamento dei detettori e sono detti anche
artefatti ad anello per la comparsa di linee circolari concentriche
sull'immagine.
Come tutte le immagini digitali, anche quelle TC possono essere
rielaborate dopo la loro ricostruzione, per permettere una
visualizzazione delle strutture in esame sempre più approfondita. A
proposito sono stati sviluppati numerosi software: il post-processing
delle immagini può comprendere ricostruzioni 2D e ricostruzioni 3D
[Passariello, 2012].
In particolare le cosiddette MPR (ricostruzioni multiplanari,
dall'inglese MultiPlanar Recostruction) sfruttano le sezioni assiali
acquisite in partenza per creare immagini rappresentative di altri
piani scelti arbitrariamente, come quello coronale, sagittale, obliquo
o anche piani curvi (CPR ovvero Curved Planar Recostruction).
Queste ricostruzioni possono avere la stessa risoluzione spaziale
delle immagini assiali di partenza, perchè l'avanzamento
tecnologico consente spessori di strato talmente sottili da riuscire
ad avere voxel isotropici, cioè cubici (le cui dimensioni dei lati sono
tutte uguali).
La tecnica MIP (Maximum Intesity Projection) è invece una
ricostruzione 3D. Essa prende in considerazione solo quelle
57
strutture, che all'interno di un pacchetto di immagini scelto
arbitrariamente, hanno la massima intensità. Le immagini MIP
possono essere create in un qualsiasi piano (assiale, sagittale o
coronale) e con uno spessore a scelta. Molto simile a questa
tecnica e la MinIP (Minimum Intesity Projection) che, al contrario
della MIP, prende in considerazione solo quei voxel che hanno il
numero TC più piccolo [Passariello, 2012].
Un'altra tecnica di ricostruzione 3D e la Shaded Surface Display
(SSD) che permette di visualizzare le superfici delle strutture
comprese all'interno di un volume di dati definito. Tale
rappresentazione avviene selezionando un determinato valore di
densità come soglia di riferimento in modo tale che solo quei pixel
che superano tale soglia vengano visualizzati. Il proggramma
genera un solido separato dalle altre strutture anatomiche che è
possibile ruotare su vari piani [Rampado, 2010].
Infine c'è la tecnica 3D Volume Rendering (VR) che assegna
diverse opacità e colori ai differenti tessuti in base alla loro
attenuazione. I numeri TC che costituiscono l'immagine possono
quindi essere resi visibili o invisibili a seconda del grado di
trasparenza che si intende loro assegnare [Mazzuccato, 2009]. Un
esempio di questa ricostruzione è riportato in figura 2.17.
Figura 2.17 - Immagine di un addome rielaborata con tecnica 3D Volume
Rendering per permettere lo studio dell'aorta addominale e dei reni. In questo
esempio tutte le strutture al di fuori di quelle visualizzate, dalla cute del
paziente agli organi limitrofi, sono state rese trasparenti.
58
2.3.6 Considerazioni dosimetriche
La qualità dell'immagine di un sistema TC dipende da molti
fattori, uno dei quali è il rumore. Come si può notare dalla legge di
seguito riportata, rumore e dose sono inversamente proporzionali:
N (σ)≈
1
√ n ° fotoni
in cui N(σ) è il rumore medio [Mazzuccato, 2009].
Ciò significa che per dimezzare il rumore è necessaria una dose
quattro volte superiore.
Ci sono vari parametri che descrivono la dose, tra cui il più
importante per la valutazione dell'effetto biologico dell'esposizione
alle radiazioni è la dose efficace. La dose efficace dipende dalla
lunghezza del volume di acquisizione lungo l'asse di rotazione z ed
è relativa ad un determinato tessuto biologico o distretto anatomico.
In TC, tuttavia, non è possibile misurare in modo preciso questo
parametro, ma è possibile stimare la dose assorbita. La dose
assorbita rappresenta l'energia assorbita per unità di massa e non
dipende né dalla lunghezza del volume di acquisizione né ad un
particolare distretto anatomico o tessuto biologico; la dose assorbita
è proporzionale all'intensità del fascio.
Questo indice, a differenza di quello di dose efficace, può essere
stimato tramite dei calcoli effettuati con fantocci particolari che
simulano, sia per densità che per dimensioni, il corpo di un
paziente, e nei quali è possibile inserire un dosimetro (tipicamente
una camera a ionizzazione).
La grandezza dosimetrica fondamentale misurata con questi
fantocci è il CTDI (Computed Tomography Dose Index). Esso
corrisponde all'area compresa sotto il profilo di dose di una singola
scansione divisa per lo spessore nominale di strato e viene definito:
59
Z2
1
CTDI= ∫ D (z)dz
nT Z
1
dove Z1 e Z2 sono i limiti di integrazione, ovvero i punti sull'asse di
rotazione z corrispondenti ai limiti della scansione, D(z) è il profilo di
dose lungo una singola scansione assiale, n è il numero degli strati
acquisiti simultaneamente (n=1 per i tomografi a singolo strato, n=4
per i tomografi a 4 strati, ecc...) e T è lo spessore nominale dello
strato o l'ampiezza del gruppo di rivelatori nel caso di TC
multistrato. Il CTDI può essere facilmente misurato usando una
camera a ionizzazione a stilo lunga 10 cm. In tal caso la formula ha
dei precisi limiti di integrazione in quanto Z1 e Z2 sono uguali a ±5
cm coprendo una lunghezza totale di appunto 10 cm e abitualmente
viene scritto come CTDI100 dove il pedice indica l'estensione su cui
è stata effettuata l'integrazione [AIFM, 2007].
Questo parametro però non è quello più appropriato per la stima
di dose efficace, perchè non tiene conto della divergenza del fascio
e della radiazione diffusa. Si introduce quindi un CTDI pesato
(CTDIw) che rappresenta una media della dose rilasciata nella
singola scansione, pesando in modo differente il CTDI misurato al
centro (CTDIc) della scansione e quello rilasciato in periferia
(CTDIp):
1
2
CTDI w = CTDI 100, c + CTDI 100, p
3
3
Tuttavia anche questo parametro non viene generalmente preso
in considerazione, perchè è definito per una singola scansione
assiale e non prevede alcuna correzione per il valore del pitch
utilizzato nella scansione spirale (il pitch è un parametro che nelle
scansioni spirali esprime il rapporto tra l'avanzamento del lettino e
lo spessore di strato). Per questo motivo è stato introdotto il CTDI vol
60
definito come:
CTDI vol =
CTDI w
pitch
Quest'ultimo valore di CTDI viene anche riportato come
indicatore di dose sul monitor della consolle di comando al termine
di una scansione (secondo la norma IEC 60601), però si riferisce a
scansioni effettuate in modalità assiale, pertanto non può essere
applicato strettamente alle scansioni spirali, in particolare a quelle
volumetriche con TC multistrato.
Nelle TC multistrato, per stimare la dose assorbita tenendo conto
dell'energia totale assorbita dal paziente, bisogna utilizzale il DLP
(Dose Lenght Product) che si ricava dal CTDI vol tramite un fattore
correttivo, cioè la lunghezza L della scansione e quindi:
DLP=CTDI vol⋅L
Anche il DLP viene riportato nel monitor della consolle di
comando (sempre secondo la norma sopra citata) e da esso,
utilizzando appositi fattori di conversione, è possibile ricavare la
dose efficace per le diverse aree anatomiche [Huda, 2008].
Tuttavia questo non è l'unico metodo per ricavare la dose
efficace. È possibile infatti utilizzare dei modelli matematici,
chiamati metodi di Monte Carlo, che simulano l'interazione di un
fascio di raggi X con un fantoccio matematico, utilizzando
informazioni sullo spettro del fascio e la filtrazione fornite dal
costruttore dell'apparecchiatura. Questi metodi, che si basano su
modelli ideali di una data dimensione, possono essere utilizzati solo
per una valutazione approssimativa della dose agli organi, per cui
possono risultare imprecisi [AIFM, 2007].
La
crescente
innovazione
e
complessità
delle
tecniche
61
radiologiche sta portando molti vantaggi diagnostici e terapeutici
per i pazienti, ma inevitabilmente, anche la necessità di avere delle
informazioni da fonte competente per la valutazione di aspetti come
l'efficacia della tecnica e il rapporto rischio-beneficio. Nonostante la
sua imprecisione, la stima della dose efficace è comunque utilizzata
per valutare il rischio radiologico, spesso paragonata con
radiogrammi standard del torace per facilitarne la comprensione
(figura 2.18), sia per i lavoratori sia per la popolazione in generale,
ed è un parametro considerato valido per confrontare le diverse
procedure diagnostiche e per paragonare le diverse metodologie di
lavoro nei vari ospedali.
Figura 2.18 - Tabella di equivalenza tra la dose efficace nelle indagini TC di vari
distretti anatomici e numero di radiogrammi del torace.
Nell'ultimo ventennio il contributo sempre più preponderante
della diagnostica per immagini ha aumentato, per la popolazione, la
dose annuale pro-capite di radiazioni, con un incremento stimato di
circa 6 volte nella popolazione americana [FIRR, 2014]. Tale
aumento si è verificato anche in Italia per una maggior accessibilità
alle prestazione radiologiche e per un'ampia disponibilità sul
territorio delle moderno TC multistrato, tuttavia con un impatto
dosimetrico meno rilevante rispetto agli USA e ad altri paesi
62
europei.
Nasce quindi la necessità da parte delle case produttrici di
apparecchiature elettromedicali di studiare e introdurre nel mercato
macchine atte al risparmio di dose e nel corso degli anni, queste
tecniche di riduzione di dose si sono sempre più affinate.
Tra le tecniche di uso clinico, la più importante è rappresentata
dalla possibilità di modulare la corrente al tubo (e quindi la quantità
di fotoni erogati, perciò la dose) in funzione del profilo del paziente
(figura 2.19).
Figura 2.19 - Grafico della modulazione della corrente anodica in funzione del
profilo del paziente.
A seconda del tipo di apparecchiatura la regolazione automatica
della corrente anodica nel piano assiale può avvenire sia in modo
programmato, in base alle immagini preliminari di centratura, sia in
tempo reale ad ogni rotazione con un meccanismo di feedback,
cioè utilizzando le informazioni rilevate dai detettori durante la
rotazione precedente. Ci sono poi dei sistemi, più sofisticati, che
sono in grado di modificare la dose anche in direzione longitudinale,
per mantenerla costante nell'esame di regioni corporee di spessore
diverso, come il torace e l'addome.
Questi sistemi di modulazione automatica dell'esposizione
consentono di mantenere costante la qualità dell'immagine con dosi
notevolmente inferiori, preservando la capacità termica della
63
sorgente radiogena e fornendo un segnale più costante ai detettori
[Passariello, 2012].
2.4 BREAST-CT
La Breast-CT (BCT) è una tecnica diagnostica di recente
introduzione e sotto alcuni aspetti ancora in fase di studio. Essa
non è altro che una tomografia computerizzata, con fascio conico
(cone-beam) anziché a ventaglio (fan-beam), della mammella.
Grazie allo sviluppo di rivelatori digitali sempre più sofisticati, il
progetto di una CT dedicata al seno è stato ripreso negli ultimi anni
e vari gruppi di ricerca si sono dedicati allo studio approfondito delle
possibilità che questa nuova tecnica può offrire.
2.4.1 Nascita ed evoluzione della tecnica
Il primo documento che descrive una CT del seno è stato
pubblicato nel 1976 e si riferiva a esami condotti su campioni di
tessuto mammario ricavati a seguito di mastectomia [Gisvold,
1979]. I risultati ottenuti da questi primissimi studi motivarono la
General Elctric (GE) a fabbricare un primo prototipo di breast-CT
(1975), chiamata CTM (Computed Tomographic Mammography).
Questo prototipo utilizzava una un fascio fan-beam, come le comuni
CT, e per acquisire 1 cm di spessore impiegava circa 10 s. La
paziente veniva fatta accomodare prona in un lettino incavato e nel
quale era praticato un foro per far passare il seno, il quale veniva
poi tenuto in posizione da un contenitore con all'interno dell'acqua
riscaldata. I dati grezzi delle proiezioni venivano ricostruiti in matrici
da 127x127 e con uno spessore di fetta di 1 cm. Nonostante i
risultati sembrassero promettenti, la GE decise in ultima analisi di
non procedere ad un ulteriore sviluppo dell'apparecchiatura a causa
64
dell'alta dose impartita al seno, della limitata risoluzione spaziale
(1,56 mm) e dei costi elevati [Shaw, 2014].
Dopo vari anni di progresso tecnologico, un nuovo prototipo di
breast-CT venne realizzato nel 2001 da un gruppo di ricercatori
americani dell'università della California, sotto la guida del Prof.
J.M. Boone, con l'intento di realizzare un'apparecchiatura dedicata
allo screening del cancro al seno [Boone, 2001].
Il prototipo realizzato da Boone prevedeva l'utilizzo di un tubo
radiogeno con anodo in tungsteno con una macchia focale di
0,4x0,4 mm e una filtrazione aggiuntiva in rame di 0,3 mm. I
parametri di esposizione prevedevano l'utilizzo quasi esclusivo di
una tensione di circa 80 kVp, un prodotto corrente-tempo di
esposizione variabile da 50 a 120 mAs (dipendente dallo spessore
della mammella) e un'energia media del fascio più alta di quella di
un mammografo convenzionale. Il detettore digitale era costituito
da un flat-panel allo Ioduro di Cesio delle dimensioni di 30 cm di
altezza e 40 cm di larghezza [Lindfors et al., 2008]. Come nelle più
comuni CT, la scansione avviene facendo ruotare il sistema tubodetettori attorno all'oggetto in esame, in questo caso, attorno alla
mammella. Per questo motivo la geometria di acquisizione richiede
un preciso posizionamento della paziente, che infatti viene fatta
accomodare prona nel lettino, e con la mammella in esame
pendula, senza compressione (figura 2.20).
Figura 2.20 - Posizione della paziente durante l'acquisizione in BCT.
65
Ogni mammella viene acquisita individualmente con un FOV di
21 cm di diametro, ottenendo alla fine, per 360° di rotazione, un
totale di 500 proiezioni, ovvero 30 immagini al secondo per un
tempo di 16,6 secondi.
La tecnica della BCT è stata studiata al fine di fornire alla
ghiandola la stessa dose di radiazioni delle due proiezioni
mammografiche standard, sulla base di dati ricavati da uno studio
dosimetrico condotto con il metodo di Monte Carlo [Boone, 2001].
Anche altri gruppi di ricerca negli stessi anni, e nei seguenti,
maturarono interesse per questa nuova tecnica introdotta da
Boone.
All'università di Rochester, NY, il prof Ruola Ning propose un suo
modello di BCT, chiamata “cone-beam volume CT” (CBVCT) e
grazie a dei fantocci matematici di varie dimensioni, condusse degli
studi di fattibilità simulando un esame di breast-CT. L'intento era
quello di dimostrare la visibilità di masse molto piccole (pochi
millimetri) e microcalcificazioni con un livello di dose clinicamente
accettabile in modo da poter condurre in futuro uno studio clinico
con pazienti [Chen, 2002].
Alcuni studi sulla BCT iniziarono anche da alcuni gruppi
accademici come quelli alla Duke University (Durham, North
Carolina) guidato dal Prof. Martin Tornai [Madhav et al., 2009],
all'ospedale statunitense University of Texas M.D. Anderson Cancer
Center del Dr. Chris Shaw [Yang et al., 2007] e alla University of
Massachussetts School del Dr. Stephen Glick [Glick et al., 2007].
Per quanto riguarda l'Unione Europea, un progetto del FP7
(Seventh Research Framework Programme) chiamato “Dedicated
CT of female breast”, lanciato nel 2008 e terminato nel 2010, è
stato condotto dall'Università di Erlangen-Nümberg, Germania, ma
non è stato ancora riportato alcuno sviluppo di scanner dedicato
[Kalender et al., 2011]. Anche in questo caso, lo studio è stato
66
condotto tramite la simulazione di un esame di breast-CT e lo scopo
era quello di ottenere immagini dall'elevata risoluzione spaziale
limitando la dose ghiandolare media. L'aspetto interessante di
questo studio è la geometria del fascio scelta per l'apparecchiatura
virtuale. Il gruppo di ricerca tedesco ha infatti preferito una CT
spirale al posto della Cone-Beam CT utilizzata in tutti gli altri
prototipi americani [Kalender et al., 2011].
Questa nuova tecnologia ha destato interesse anche in Italia,
prima al sincrotrone ELETTRA di Trieste, che nel 2004 ha avviato il
primo studio di fattibilità per tomografia alla mammella con luce di
sincrotrone [Pani et al., 2004], poi all'Istituto Nazionale di Fisica
Nucleare (INFN), che nel 2007 ha realizzato a Napoli un prototipo
sulla base di quello costruito da Boone [INFN Napoli, 2007].
L'apparecchiatura realizzata a Napoli aveva come obiettivo a
lungo termine quello di superare il limite di sensibilità clinica nella
rivelazione di tumori di piccole dimensioni e come obiettivo più
immediato quello di confrontare due tipologie di rilevatori, uno ad
integrazione di carica, CMOS (Complementary Metal Oxyde
Semiconductor) e uno a semiconduttore con capacità single photon
counting, in termini di capacità di imaging, impatto diagnostico e
dose impartita al tessuto mammario fissando la risoluzione spaziale
in fase di ricostruzione delle immagini a 0,5 mm [INFN Napoli,
2007]. Il set-up che è stato utilizzato per queste misure è riportato in
figura 2.21, in cui è possibile distinguere in geometria verticale il
tubo radiogeno, un fantoccio di cera di piccole dimensioni
agganciato ad un rotatore meccanico ed il rivelatore montato su un
traslatore.
67
Figura 2.21 - Foto del set-up utilizzato per i test tomografici all'INFN di Napoli.
Prima di effettuare i test tomografici vennero effettuate diverse
misure di caratterizzazione dei rivelatori, tramite dei fantocci di cera
con vari inserti di materiali e dimensioni diverse.
Dopo di che, le misure tomografiche sono state eseguite
utilizzando un tubo a raggi X con microfocus da 80 kVp di tensione
e 0,25 mAs e altri fantocci che simulassero la geometria, le
dimensioni e la densità della mammella e dentro i quali sono stati
inseriti elementi che potessero avere caratteristiche simili a masse
tumorali (figura 2.22) [INFN Napoli, 2007].
Figura 2.22 - Fotografia del fantoccio mammografico, con gli inserti da inserire
al suo interno, utilizzato nelle misure tomografiche dell'INFN di Napoli.
A Trieste, invece, il sistema per la tomografia alla mammella con
68
un fascio X monocromatico è stato progettato e realizzato
utilizzando la radiazione di sincrotrone presso la facility ELETTRA;
le caratteristiche di tale sistema e gli studi già eseguiti verranno
approfonditi nei capitoli seguenti.
Per quanto riguarda le ultime frontiere nel campo della BCT, un
nuovo suo utilizzo è stato sperimentato da un gruppo di ricercatori
dell'Università della California ed è stato chiamato Photon Counting
Spectral CT System. Tale sistema impiega una CT in grado di
fornire informazioni sullo spettro dell'oggetto irradiato grazie un
detettore di tipo photon counting al Tellururo di Cadmio drogato con
Zinco (CdZnTe, spesso indicato semplicemente come CadmioZinco-Tellurio, CZT [Ding et al., 2014]. Lo studio condotto dal
gruppo di ricercatori californiani aveva come scopo la
caratterizzazione del tessuto mammario in termini di quantità di
acqua, grasso e proteine e al fine sono state esaminate 19 paia di
mammelle post-mortem con un tubo con anodo di tungsteno
impostato a 100 kVp e una dose ghiandolare media nel range di 1,8
– 2,2 mGy.
Alcuni studi precedentemente eseguiti, infatti, utilizzando la
tecnica della spettroscopia, hanno individuato una correlazione tra
la quantità di acqua presente nel tumore maligno e la sua crescita
tumorale: l'acqua risulta aumentata di circa il 50% nelle cellule
tumorali rispetto alle cellule sane, mentre il grasso si riduce di circa
il 20% [Chung et al., 2008]. Tuttavia le convenzionali tecniche di
imaging a raggi X non sono in grado di caratterizzare le lesioni con
queste tre componenti per cui si è cercato un progresso in direzione
della Tomografia Computerizzata sfruttando i più innovativi sistemi
di rivelazione [Ding et al., 2014].
69
2.4.2 Stato dell'arte
La Breast-CT con fascio conico, nonostante i numerosi studi di
fattibilità e studi clinici che ne dimostrano le potenzialità, non è
ancora stata accolta dalle case produttrici di apparecchiature
elettromedicali, pertanto non esiste attualmente un'apparecchiatura
“tipo” che possa riassumere le caratteristiche e le funzionalità della
tecnica.
Tuttavia, nei vari gruppi di ricerca sopra citati, è possibile
riconoscere un filo conduttore che accomuna i vari prototipi fino ad
ora costruiti e utilizzati sperimentalmente: primo fra tutti le
caratteristiche del gantry. Il gantry, infatti, deve:
• fornire una buona copertura del bersaglio per minimizzare gli
artefatti della cone-beam CT;
• massimizzare la copertura del tessuto mammario vicino alla
parete toracica;
• consentire
un'acquisizione
delle
immagini
veloce,
preferibilmente in apnea, per ridurre gli artefatti da movimento
[Shaw, 2014].
Un altro elemento centrale dell'apparecchiatura è il tubo
radiogeno che deve essere di dimensioni compatte per fare in
modo che si adatti allo spazio sottostante il tavolo portapaziente e
deve avere una potenza adeguata per permettere l'esecuzione di
numerose proiezioni in breve tempo. I gruppi di ricerca hanno
utilizzato nei loro prototipi vari tipi di tubo radiogeno, che vanno
dall'anodo fisso raffreddato ad acqua, come quello impiegato
dall'Università della California, a quello tipico mammografico
utilizzato invece dall'Università di Rochester [Shaw, 2014].
Anche la filtrazione del fascio in uscita dal tubo radiogeno è un
fattore che è stato considerato importante. Filtrazioni esterne,
70
infatti, sono spesso applicate con lo scopo di modificare lo spettro
energetico del fascio X in modo da ottenere una radiazione il più
possibile monocromatica e di conseguenza un miglior rapporto
segnale-rumore. Studi condotti a riguardo hanno concluso che
l'anodo ottimale dovrebbe essere in Tungsteno (W), con un range di
valori di tensione che va dai 50 ai 70 kVp, abbinato ad una
filtrazione di materiale con un numero atomico tra 57 e 63 [Glick,
2007; Prionars et al., 2011]. In generale, si tratta quindi di un fascio
con energia media sensibilmente più alta di quelli comunemente
usati per la mammografia planare, descritti nella sezione 2.1.
Per quanto riguarda i detettori, essi devono rispondere a requisiti
come:
• un'alta risoluzione spaziale per permettere la visualizzazione
delle microcalcificazioni e dei sottili margini delle masse
tumorali;
• una potenza elevata per permettere la raccolta dei dati grezzi
delle molte proiezioni in un ridotto periodo di tempo;
• un ridotto rumore elettronico in modo da poter ottenere
immagini a bassa dose mantenendo un buon rapporto
segnale-rumore [Shaw, 2014].
I detettori più utilizzati nei prototipi sono flat-panel digitali a
conversione indiretta, costituiti da uno strato di materiale
scintillatore (Ioduro di Cesio) accoppiato a una matrice di TFT e di
fotodiodi su un substrato di Silicio amorfo. Le dimensioni tipiche
sono di 30x40 cm e le immagini ottenute hanno una matrice di
1024x768 pixel (la dimensione di un singolo pixel è 0,38 mm 2)
[Kwan, 2007; O'Connel, 2010].
Oltre a questo tipo di detettori, in alcuni prototipi è stato utilizzato
un rivelatore con tecnologia CMOS o in Tellurio di Cadmio (CdTe),
come il detettore denominato PIXIRAD, utilizzato nel progetto
71
SYRMA-CT al sincrotrone di Trieste e di cui verrà fornita una
descrizione nel capitolo 4, o in Tellururo di Cadmio drogato con
Zinco (CZT), come quello utilizzato dai ricercatori dell'Università
della California [Bellazzini et al., 2013; Ding et al., 2014].
Infine ci sono gli algoritmi di ricostruzione delle immagini. Dagli
studi condotti è stato dimostrato che i metodi più efficaci e che più
rispondono alle esigenze della tecnica sono i metodi iterativi. Il
principale vantaggio di questi sistemi, rispetto alla tradizione
Filtered Back Projection, è la bassa quantità di rumore a parità di
risoluzione spaziale. Questo vantaggio può essere sfruttato per
eseguire esami di BCT a bassa dose [Nuyts et al., 2013].
2.4.3 Primi studi clinici
Il primo studio condotto su pazienti è stato approvato nel 2004 e
condotto dal gruppo di ricerca dell'Università della California, con 10
pazienti volontarie sane e di età compresa tra i 40 e i 67 anni, per
valutare la qualità delle immagini CT [Lindfors et al., 2008]. Dati gli
eccellenti risultati di questo studio pilota, vennero esaminate 69
pazienti, sia sintomatiche che asintomatiche, dai 36 agli 82 anni di
età, con la presenza già documentata di lesioni. Le immagini
ottenute con la BCT sono state poi confrontate con quelle ottenute
in precedenza dalla mammografia. I risultati ottenuti hanno
evidenziato una miglior visualizzazione delle masse con l'esame di
BCT, ma la mammografia tradizionale si è dimostrata più sensibile
nell'individuare microcalcificazioni. Inoltre, le donne sottoposte a
questo primo studio hanno manifestato una miglior compliance per
quanto riguarda la BCT, data dal posizionamento più agevole
[Lindfors et al., 2008].
Successivamente (dal 2006 al 2008) un secondo studio clinico è
stato condotto dal gruppo dell'Università di Rochester. In questo
72
studio sono state esaminate 23 pazienti con diagnosi dubbia a
seguito di una mammografia convenzionale eseguita 6 mesi prima.
Anche in questo caso gli obiettivi dello studio erano principalmente
valutare la qualità delle immagini ottenute, confrontandole con
quelle della mammografia convenzionale, mantenendo la dose di
radiazioni impartita alla mammella a livelli confrontabili con quelli
tipici della mammografia. In particolare la dose somministrata
nell'esame di BCT si è attestata si valori variabili da 4 a 12,8 mGy, e
quindi paragonabili a quelli riscontrati in un esame mammografico, il
cui range è stato calcolato andare da circa 2,2 a 15 mGy. Per
quanto riguarda la qualità delle immagini è stato verificato che
molte microcalicificazioni e tutte le masse viste con la mammografia
risultavano osservabili anche nelle immagini di breast-CT [O'
Connell et al., 2010].
73
Capitolo 3
IL SINCROTRONE
Il progetto di collaborazione SYRMEP (SYnchrotron Radiation
for MEdical Physics) conduce da tempo ricerche nel campo
dell’imaging medico diagnostico utilizzando la radiazione di
sincrotrone come sorgente di raggi X. L’obbiettivo principale è
l’ottimizzazione degli esami in mammografia con il proposito di
migliorare la qualità delle immagini riducendo al tempo stesso la
dose di radiazione. A tale scopo è stata costruita una linea di luce
presso
il
sincrotrone
ELETTRA di
Trieste
che
sfrutta
le
caratteristiche peculiari della radiazione di sincrotrone e che verrà
descritta in questo capitolo [Abrami 2005].
3.1 LA LUCE DI SINCROTRONE
Il sincrotrone è un tipo di acceleratore circolare e ciclico in grado
di accelerare particelle all'interno di un tubo vuoto e con velocità
prossima a quella della luce [wikipedia]. La radiazione
elettromagnetica che viene emessa, chiamata luce di sincrotrone,
viene prodotta quando queste particelle subiscono delle deflessioni
nella loro traiettoria a causa di campi magnetici. Il sincrotrone
ELETTRA di Trieste utilizza come particelle elettroni di energia pari
a 2,0-2,4 GeV che percorrono un condotto quasi circolare di 260 m
di circonferenza [http://www.elettra.trieste.it/].
74
La sorgente della linea SYRMEP è uno dei 12 magneti curvanti
di Elettra. Il fascio di radiazioni che ne scaturisce ha le
caratteristiche di essere molto intenso, collimato e con forma a
ventaglio, alto qualche millimetro e largo qualche decina di
centimetri, aperto nel piano dell'orbita, come mostrato in figura 3.1.
Figura 3.1 - Rappresentazione grafica della geometria di un fascio di luce di
sincrotrone.
Tuttavia, la geometria del fascio può essere variata mediante
l'uso di determinate ottiche e inoltre, grazie a opportuni cristalli detti
monocromatori, è possibile ottenere fasci praticamente
monocromatici (monoenergetici) di energia selezionabile a piacere
in un ampio spettro energetico [Astolfo, 2006].
Facendo incidere, infatti, un fascio collimato di raggi X su di un
cristallo si osservano fenomeni di diffrazione causati dall'interazione
del fascio con il reticolo cristallino. Tali fenomeni possono essere
utilizzati per isolare una componente monocromatica dal fascio
incidente.
Il monocromatore è quindi un dispositivo in grado di estrarre da
un fascio di luce policromatica un fascio di luce monocromatica
facendo variare l'angolo di incidenza del fascio stesso su reticolo
cristallino.
75
I principali vantaggi di avere un fascio monocromatico sono una
migliore qualità dell'immagine e una riduzione della dose di
radiazione [Longo, 2011].
In particolare, l'energia di ogni singolo esame radiografico può
essere ottimizzata a seconda delle caratteristiche del paziente.
La radiazione emessa dal magnete curvante viene trasportata
nelle postazioni di sperimentazione per mezzo di linee di luce o
linee di fascio (beamline). Tipicamente, la beamline può essere
lunga qualche decina di metri. Questo, unito alle ridotte dimensioni
della sorgente (determinate dalle dimensioni del pacchetto di
elettroni che circola all'interno dell'anello), implica una geometria
molto diversa dalla geometria dei tubi radiogeni. È proprio questa
geometria, caratterizzata da una elevata coerenza spaziale, che
premette di applicare la tecnica del contrasto di fase (si veda la
sezione 3.3.3) [Rigon, 2014].
La linea SYRMEP, ad esempio, è lunga circa 30 m e le
dimensioni della sorgente sono dell'ordine di qualche centinaio di
micron [Tromba et al., 2010].
3.2 LA BEAMLINE SYRMEP
La linea di luce SYRMEP, che ha preso il nome dal sopra citato
progetto di ricerca, è stata negli ultimi anni protagonista di vari studi
sperimentali di imaging.
La beamline ha la funzione di portare il fascio di luce prodotto
dalla sorgente (uno dei magneti curvanti dell'anello) alla postazione
di
sperimentazione,
adibita
all'esecuzione
dell'esame
mammografico e posta all'esterno della circonferenza, ma prima di
arrivare a tale postazione il fascio passa attraverso una serie di
sale, in cui viene appositamente modificato in modo tale da poter
essere utilizzato [Abrami, 2005].
76
Una rappresentazione schematica della linea di luce SYRMEP è
visibile in figura 3.2.
Figura 3.2 - Schema dei vari passaggi che linea di luce SYRMEP attraversa nel
suo percorso.
Il fascio prima di tutto entra nella sala ottica, dedicata alla sua
preparazione e prima parte della linea, viaggiando in un ambiente di
ultra-alto vuoto. Qui una finestra in berillio, spessa 2 mm, filtra il
fascio attenuando la parte di radiazione con energia inferiore a 8
keV [Astolfo, 2006]. Successivamente un primo sistema di fenditure
in rame (slits), movimentate con precisione micrometrica da
appositi motori, determina la sezione del fascio incidente sul
monocromatore. La selezione energetica viene effettuata ruotando i
cristalli del monocromatore in modo da variare l'angolo di incidenza
del fascio e permettendo la disponibilità di energie comprese tra
circa gli 8 e i 40 keV, range che contiene ampiamente l'energia utile
per la mammografia [Castelli, http://www.lns.infn.it].
Dopo una seconda finestra di berillio, il fascio prosegue il suo
cammino in aria, subisce un'eventuale filtrazione di alluminio (per
ridurre l'intensità della radiazione) ed infine entra nella sala
sperimentale grazie ad un'apposita fenditura situata nella parete.
Questa sala contiene un altro sistema di controllo e di preparazione
77
del fascio che consiste in un secondo dispositivo di sagomatura del
fascio detto “slit paziente”, due camere a ionizzazione per il
controllo della dose e tre otturatori detti “shutters” che hanno la
funzione di aprire e chiudere il fascio di raggi X molto velocemente
per garantire la sicurezza della paziente [Longo, 2007].
Il fascio di luce esce quindi dalla sala sperimentale ed entra nella
sala paziente dove avviene l'esame. Questa sala è quindi dotata di
lettino, sistema di rivelazione ed esposimetro [Tromba, 2010].
Inoltre vi è anche un sistema che permette di visualizzare il campo
di radiazione e la posizione del fascio in modo da consentire i
corretto centraggio della mammella.
Il lettino, mostrato in figura 3.3, è stato progettato appositamente
per lo studio mammografico e tomografico. Infatti, essendo il fascio
di radiazione laminare e situato ad un'altezza fissa, è necessario
che l'oggetto in esame e il sistema di rivelazione traslino
verticalmente durante l'esposizione. La meccanica che sta alla base
della sua progettazione, infatti, consente un movimento a tre gradi
di libertà: movimenti di traslazione verticale, orizzontale e
movimenti di rotazione, per eventuali proiezioni oblique e per
proiezioni tomografiche [Abrami, 2005 – Dreossi, 2008].
Figura 3.3 - Lettino portapaziente nella sala paziente della linea SYRMEP.
78
Infine vi sono altre due sale: la sala radiologo e la sala di
controllo.
La prima è situata adiacente a quella paziente e vi si trovano il
medico radiologo e il tecnico radiologo che gestiscono l'esame
tramite una consolle; la sala di controllo, invece, situata al piano
superiore della postazione viene utilizzata durante le altre attività di
ricerca e vi sono situati varie strumentazioni e sistemi di controllo
[Abrami, 2005].
3.3
MAMMOGRAFIA CON LUCE DI SINCROTRONE:
LA PRIMA SPERIMENTAZIONE CLINICA
Alla linea SYRMEP gli studi di mammografia vengono eseguiti
con appositi fantocci e tessuti in vitro fin dal 1996, per esplorare le
potenzialità della luce di sincrotrone, con particolare riguardo alla
tecnica a contrasto di fase [Arfelli, 1998].
I risultati di questi studi furono così soddisfacenti che nel 2000
iniziò il primo progetto in vivo, denominato SYRMA (Synchrotron
Radiation Mammography), con l'intento di risolvere quei casi che
con una mammografia convenzionale ottengono una diagnosi
dubbia; a questo scopo la beamline dedicata venne profondamente
modificata per permettere lo studio su pazienti [Abrami, 2005].
L'inizio della sperimentazione clinica arrivò alla fine di un lungo iter
di autorizzazioni, partito nel 2004, quando il Comitato etico
dell'Azienda Ospedaliero-Universitaria di Trieste si è espresso a
favore della ricerca, con il relativo protocollo di arruolamento delle
pazienti [AIOM, 2006].
Nel 2006 venne eseguita la prima mammografia al mondo con
luce di sincrotrone. Nei quattro anni successivi sono state
sottoposte alla procedura 71 pazienti di età compresa tra i 41 e i 82
anni scelte con i seguenti criteri:
79
• diagnosi negativa alla mammografia, ma presenza di un
nodulo palpabile e non ben dimostrabile agli ultrasuoni;
• asimmetria nella densità tissutale tra i due seni rilevata nelle
immagini mammografiche, non chiarita agli ultrasuoni;
• evidenza di distorsioni parenchimali nelle
mammografiche, non chiarite agli ultrasuoni;
immagini
• presenza sospetta di una massa nelle immagini
mammografiche, ma non confermata in ecografia [Castelli et
al., 2011 – Fedon, 2014].
In sostanza si trattava quindi di pazienti che avevano ricevuto
una diagnosi dubbia o sospetta alla mammografia digitale in
ospedale, e che necessitavano quindi di ulteriori approfondimenti,
per cui si poteva ritenere che potessero beneficiare dall’esame al
sincrotrone.
3.3.1 Protocollo di acquisizione
La paziente viene posizionata prona nel lettino con la mammella
lasciata pendula attraverso un foro di forma e geometria adattate
all'anatomia del seno. La mammella, analogamente a ciò che
avviene in un esame mammografico convenzionale, viene
compressa tramite un compressore formato da due piastre, una in
fibra di carbonio e l'altra in policarbonato. La compressione è
necessaria per fare in modo che lo spessore della mammella sia
uniforme e che le fibre del tessuto mammario vengano distese
[Dreossi, 2008].
La mammella viene poi centrata nel campo di acquisizione per la
scansione grazie ai movimenti del lettino.
Il sistema di rilevazione è posto a 2 m di distanza dal seno in
80
esame, distanza considerata ottimale per sfruttare al meglio la
tecnica a contrasto di fase.
In questa prima sperimentazione clinica il tipo di rivelatore
utilizzato riguarda un sistema tradizionale a schermo-pellicola
Kodak (modello) con FOV di 180 x 240 mm2 [Tromba, 2010].
L'acquisizione dell'immagine, come già accennato in
precedenza, avviene grazie al movimento di traslazione verticale a
velocità costante sia del lettino, sia del detettore (figura 3.4).
Figura 3.4 - Schema dell'acquisizione in BCT con luce di sincrotrone. a) fascio
di raggi X, b) lettino portapaziente, c) compressore in posizione aperta, d)
detettore, e) movimento di traslazione verticale, f) movimento di rotazione.
Una coppia di camere a ionizzazione, appositamente progettate
per soddisfare in modo efficiente la geometria del fascio e dotate di
un elettronica di lettura personalizzata, agiscono controllando il
flusso di radiazioni. Esse rappresentano il sistema chiave per la
sicurezza radiologica delle pazienti e per la corretta esecuzione di
un esame efficace. Queste camere, infatti, vengono utilizzate
insieme ad un esposimetro a stato solido (formato da quattro diodi
semiconduttori) posto a valle della paziente per determinare i
parametri di esposizione calcolati dopo una breve pre-esposizione
a bassa dose [Dreossi, 2008].
81
Le proiezioni che vengono acquisite sono le stesse di un esame
mammografico convenzionale: la proiezione cranio-caudale e la
proiezione obliqua medio-laterale. La durata dell'esame è di circa
10 secondi per ogni immagine [Castelli et al., 2011].
3.3.2 Parametri di esposizione
Il parametro più importante da selezionare per la mammografia
con luce di sincrotrone è il livello energetico della radiazione, che
può avere un range compreso tra 17 e 22 keV, in accordo con lo
spessore e densità della mammella. Il livello energetico è scelto in
modo tale che sia il più basso possibile per aumentare il contrasto
nel parenchima mammario, ma facendo attenzione alla dose
ghiandolare media (MGD dall'inglese Mean Glandular Dose, si veda
la sezione 3.3.4), che deve essere paragonabile o inferiore a quella
stimata in un esame convenzionale eseguito in ospedale [Castelli et
al., 2011]. In pratica, questi criteri si concretizzano scegliendo
l’energia facendo riferimento alla seguente tabella (tabella 1)
[Fedon, 2014].
Energy
(keV)
Thickness class
(cm)
2
3
4
5
6
7
Low
17,5
18,5
18,5
18,5
19
20
Glandularity
Medium
18
18,5
19
19,5
20
20,5
High
18
18,5
19
19,5
20,5
21
Tabella 1. Energie del fascio per diversi spessori e ghiandolarità.
82
3.3.3 La tecnica del contrasto di fase
Come abbiamo già detto, nelle immagini radiologiche il contrasto
è dato dall'assorbimento differenziale delle radiazioni da parte del
tessuto irradiato. Il grosso limite nello sfruttare questo principio è
che se ci sono strutture a basso contrasto, cioè con densità simili,
queste possono non essere viste come distinte nell'immagine
inficiando la risoluzione spaziale.
Questo problema viene superato con la luce di sincrotrone
grazie alla tecnica “phase contrast”.
In questa tecnica, quando il fascio X (considerato nella sua
natura ondulatoria) attraversa un oggetto, subisce una variazione di
fase del fronte d'onda [Arfelli et al., 1998; 2003]. Pertanto i fotoni X
che attraversano un dettaglio avranno una fase diversa da quelli
che invece non lo attraversano e perciò risulteranno sfasati rispetto
agli altri (figura 3.4).
Figura 3.4 - Rappresentazione grafica della tecnica a contrasto di fase.
Le onde sfasate interferiscono tra loro e ciò comporta la
produzione di frange di interferenza. Il notevole vantaggio di ciò è
dato dal fatto che se l'oggetto attraversato ha lo stesso indice di
assorbimento del materiale in cui è immerso, il contrasto di fase
permette comunque la sua visibilità evidenziandone i bordi, cosa
che in radiologia tradizionale non sarebbe possibile [Arfelli et al.,
83
2000]. In figura 3.5 è riportato un esempio di quanto appena detto.
Figura 3.5 - Confronto tra due mammografie dello stesso seno. a) immagine
ottenuta con mammografia digitale tradizionale. b) immagine ottenuta con luce
di sincrotrone tramite la tecnica del contrasto di fase [Dreossi, 2008].
Tuttavia, dato che l'effetto di questa interferenza viene a crearsi
lungo il bordo del dettaglio entro una regione angolare molto
piccola, di circa 10 μrad, esso potrebbe non essere rivelato. Per
superare questo problema è indispensabile ottimizzare la distanza
oggetto-rivelatore in base alla risoluzione spaziale del rivelatore:
questo porta a forti interferenze dell'intensità rilevata lungo i bordi
dei dettagli, pertanto la loro visibilità sarà altamente migliorata
[Arfelli et al., 2000].
3.3.4 La dose ghiandolare media
La dose ghiandolare media (MGD o AGD – Average Glandular
Dose) è un parametro riconosciuto a livello internazionale come
indicativo del rischio radiologico associato all'esame mammografico
[Rossetti – Peruzzo Cornetto, 2008]. Questo parametro, la cui unità
di misura è il Gray (Gy) è una grandezza non direttamente
misurabile, perciò va calcolato secondo la seguente formula:
84
MGD= ESAK⋅g⋅c⋅s
in cui ESAK (dall'inglese Entrance Surface Air Kerma) è la dose
incidente sulla superficie della mammella (senza tener conto della
radiazione diffusa), g è un fattore di conversione tra la dose
incidente e la dose ghiandolare media (supponendo una
ghiandolarità del 50% e uno spettro a raggi X standard, cioè con
accoppiamento anodo-filtro Mo-Mo), c è un fattore di correzione che
corregge per differenti composizioni della mammella e s è un fattore
di correzione per spettri energetici differenti da quello standard
[Golinelli, 2010].
Nella prima sperimentazione clinica con luce di sincrotrone
(MSR, Mammography with Synchrotron Radiation), sopra descritta,
il parametro MGD e il parametro ESAK sono stati stimati e
confrontati con quelli ricavati dagli esami mammografici
convenzionali eseguiti in ospedale (DM, Digital Mammography).
I risultati di tale confronto sono riassunti in figura 3.6 in cui
vengono rappresentati i valori di ESAK in funzione dello spessore
della mammella compressa per le due tecniche di esame e per
entrambe le proiezioni (cranio-caudale e obliqua medio-laterale).
Figura 3.6 - Grafici dei valori ESAK per mammografia digitale (in blu) e
mammografia con luce di sincrotrone (in verde). A sinistra: proiezione craniocaudale. A destra: proiezione obliqua medio-laterale [Fedon, 2014].
85
Come si può notare dai grafici in figura 3.6, il parametro ESAK
nella MSR è circa costante per ogni spessore della mammella
compressa, mentre nella DM il parametro è proporzionale allo
spessore del seno. Questo implica un'importante riduzione della
dose in cute per mammelle spesse [Fedon, 2014].
Anche il valori di MGD ricavati dalla MSR sono risultati
sensibilmente inferiori (in media del 42%) rispetto a quelli calcolati
dalla DM. Una spiegazione di questo risultato è data dal fatto che il
fascio di SR, monocromatico, è privo di fotoni a bassa energia, che
invece sono presenti negli spettri a raggi X di una mammografia
convenzionale. Le basse energie, infatti, interagiscono con la
materia depositando dose per effetto fotoelettrico e non danno
alcun contributo all'immagine mammografica perchè si fermano a
livello del tessuto mammario. Pertanto, con un fascio
monocromatico come quello del sincrotrone, aumentando l'energia
l'effetto fotoelettrico va diminuendo e di conseguenza anche la
dose. Pertanto, le MGD calcolate negli esami convenzionali sono
risultate superiori a quelle calcolate nell'indagine al sincrotrone.
La riduzione di entrambi i parametri, ESAK e MGD, con fascio
monocromatico, mantenendo una qualità relativamente alta
dell'immagine, potrebbe essere ulteriormente migliorata utilizzando
rivelatori digitali invece del sistema schermo-pellicola [Fedon,
2014].
3.3.5 Risultati
Il principale risultato di questo studio è stato un aumentato
numero di veri-negativi. Le pazienti con questo risultato, infatti,
hanno sicuramente beneficiato dell'esecuzione della mammografia
con luce di sincrotrone, perchè essa ha evitato procedure invasive
di accertamento della diagnosi.
In quattro delle 71 pazienti esaminate entrambe le tecniche
86
mammografiche, convenzionale e con luce di sincrotrone, hanno
dato una diagnosi errata dovuta all'elevata densità del tessuto
mammario. L'elevata densità dell'organo si è quindi dimostrata un
limite per entrambe le metodiche perchè il tessuto mammario sano
nasconde possibili alterazioni.
È stata fatta anche una valutazione della qualità delle immagini
paragonando le immagini ottenute con il mammografo in ospedale
con quelle ottenute al sincrotrone, e che contenessero sia tessuto
normale che tessuto alterato. A tale scopo è stato adottato un
sistema a punteggio e i risultati furono che le immagini provenienti
dalla mammografia con luce di sincrotrone raffiguravano con
un'elevata precisione sia le strutture anatomiche normali, come
ghiandola e grasso, sia quelle anomale come masse e
microcalcificaizioni.
La futura introduzione della mammografia con luce di sincrotrone
come esame di secondo livello nella pratica clinica sembra essere
al momento discutibile a causa della limitata disponibilità della
tecnica.
Tuttavia eventuali ulteriori soluzioni al problema includono lo
sviluppo di unità mammografiche portatili in grado di produrre un
fascio di raggi X con caratteristiche simili, ma non identiche, alla
luce di sincrotrone e unità con set-up che permettono un certo
grado di contrasto di fase [Castelli et al., 2011 – Rigon, 2014].
87
Capitolo 4
BREAST-CT CON LUCE DI SINCROTRONE
La diagnostica senologica si sta muovendo con forza verso la
tomografia, tecnica che, come già visto nel capitolo 2, è ancora in
fase di sviluppo. Alcuni studi preliminari di Breast-CT sono già stati
svolti presso la beamline SYRMEP con risultati interessanti, sia dal
punto di vista dosimetrico sia dal punto di vista della qualità delle
immagini.
In questo capitolo verranno descritti in breve gli studi preliminari
di fattibilità precedentemente condotti e il progetto SYRMA-CT, di
recente approvazione.
4.1 BREAST-CT CON LUCE DI SINCROTRONE:
STUDI PRELIMINARI
Dati gli eccellenti risultati ottenuti in mammografia con SYRMA,
la sperimentazione con luce di sincrotrone si è volta in seguito
verso la breast-CT. Sono stati infatti condotti degli studi di fattibilità
con un detettore digitale denominato PICASSO (Phase Imaging for
Clinical Application with Silicon detector and Synchrotron radiatiOn),
un prototipo in grado di sfruttare a pieno le caratteristiche peculiari
della luce di sincrotrone e utilizzabile per effettuare immagini 3D
come appunto quelle tomografiche o di tomosintesi [Lopez et al.,
2014].
Lo studio è stato condotto su tre fantocci creati appositamente
allo scopo di studiare sia la risoluzione spaziale e di contrasto del
88
detettore, sia la dose erogata [Tapete, 2008; Rigon et al., 2011].
L'energia considerata ottimale e che è stata utilizzata in questo
studio era di circa 26,5 keV.
La valutazione della risoluzione di contrasto con il fantoccio
apposito ha evidenziato la possibilità di rivelare differenze piuttosto
piccole tra strutture simili impartendo però una dose significativa,
calcolata in aria all'ingresso del fantoccio, dell'ordine di 10mGy.
Invece, nell'analisi della risoluzione spaziale, la dose è risultata
sensibilmente ridotta, mostrando dettagli ad alto contrasto (di circa
0,5 – 0,7 mm di diametro) con solo 3 mGy di dose.
L'acquisizione delle immagini è avvenuta grazie alla possibilità di
movimento rotatorio del lettino portapaziente attorno all'asse della
mammella, in questo caso del fantoccio. Un problema che si è
riscontrato, però, è l'impraticabilità dell'acquisizione di tutto
l'oggetto: a causa della natura laminare del fascio di luce di
sincrotrone una rotazione completa consentirebbe di acquisire una
sezione assiale spessa solo qualche millimetro; tuttavia, si è
pensato che la breast-CT potrebbe essere utilizzata in associazione
alle immagini planari mammografiche, in modo da individuare una
possibile anomalia prima e focalizzare lo studio tomografico solo su
di un limitato numero di sezioni assiali [Tapete, 2008; Rigon et al.,
2011].
Da questo presupposto è nato quest'anno il progetto SYRMACT, di seguito riportato.
4.2 IL PROGETTO SYRMA-CT
L'obiettivo di SYRMA-CT è di mantenere la leadership italiana
nella mammografia in contrasto di fase estendendo il programma
clinico della linea SYRMEP alla tomografia della mammella, per
ottenere immagini CT mammografiche che sfruttino al meglio gli
effetti di fase che non sono osservabili con le attuali Cone-Beam
89
Breast-CT.
Per questo progetto verrà utilizzato il detector Pixirad, un
rivelatore photon counting dalle prestazioni ottimali in termini di
efficienza e risoluzione, di cui verrà fornita una descrizione in
seguito [Bellazzini et al., 2013].
Altro aspetto critico per il successo del progetto sarà
l'ottimizzazione dosimetrica che implica un'opportuna scelta
dell'energia (nel range 20-38 keV), della risoluzione spaziale del
detector, della modalità e dei parametri di acquisizione tomografica.
Nel primo anno di sperimentazione verrà studiata in particolare
la geometria di acquisizione ottimale e l'applicazione di tecniche
iterative di ricostruzione tomografica.
4.3 PIXIRAD
PIXIRAD è un innovativo sistema di rivelazione a raggi X, con
caratteristiche digitali intrinseche e di recente sviluppo. Esso si
basa su una tecnologia chormatic photon-counting, cioè il detettore
è un grado di contare individualmente i fotoni X incidenti
separandoli in base alla loro energia. La selezione dei fotoni in base
alla loro energia avviene in tempo reale, durante l'esposizione
radiografica e la frequenza di conteggio globale è dell'ordine dei
GHz [Bellazzini et al., 2013].
Questo detettore può essere formato da più blocchi. Una singola
unità consiste in un sensore a stato solido, di semiconduttore al
Tellurio di Cadmio (CdTe), collegato per la lettura ad un sistema
ASIC
(Application
Specific
Integrated
Circuit)
CMOS
(Complementary Metal-Oxyde Semiconductor) tramite una tecnica
chiamata “bump bonding”, cioè un sistema che permette di
connettere un dispositivo semiconduttore a un circuito esterno
[Wikipedia]. Il sistema ha quindi una architettura ibrida in cui il
sensore e elettronica di lettura sono prodotti e trattati
90
separatamente [Bellazzini et al., 2013].
L'ASIC CMOS ha una superficie attiva di 30,7 x 24,8 mm 2,
organizzato come una matrice esagonale di 512 x 476 pixel, che
corrispondono ai pixel sul cristallo di CdTe, dello spessore di 650
micron.
Esso si basa su una logica di discriminazione: particelle
interagenti che soddisfano una data energia richiesta, producono
un segnale nel pixel. In genere, la carica depositata in un sensore,
a seguito dell'interazione con le radiazioni, è amplificata da un
preamplificatore e da ciò viene prodotto un impulso.
Successivamente questo impulso viene confrontato con due soglie
tramite due discriminanatori. Ogni pixel infatti ha due contatori e
due soglie.
In modalità di lettura, i registri delle diverse colonne di pixel
vengono serializzati e il loro contenuto viene estratto dal circuito
sotto il controllo di un segnale di clock esterno [Bellazzini et al.,
2013].
In figura 4.1 è riportato uno schema semplificato di quanto appena
detto.
Figura 4.1 - Schematizzazione del sistema PIXIRAD.
Il detettore che verrà utilizzato nelle attività del progetto SYRMACT, è PIXIRAD-8 cioè con otto unità PIXIRAD accoppiate.
91
Questo sistema è particolarmente adatto a SYRMA-CT in
quanto:
• il sensore ha efficienza prossima al 100% nel range
energetico di interesse;
• il count-rate superiore a 30 GHz ne permette l'utilizzo con il
fascio di ELETTRA;
• la soglia minima impostabile a partire da 2 keV lo rende
“noiseless”;
• il frame-rate fino a 30 frames/s permette l'utilizzo anche con
rotazione continua della paziente.
L'efficacia di PIXIRAD-8 in tomografia è già stata dimostrata da
uno studio condotto recentemente su una viola Amati del 1620. In
questo studio sono state eseguite sia immagini planari sia immagini
tomografiche e i risultati sono stati notevoli.
Come si può notare dalle figure 4.2a e 4.2b le immagini sono
estremamente nitide e rivelano la microstruttura del legno utilizzato,
vernici, imperfezioni e una serie di altri dettagli [Bellazzini,
http://indico.cern.ch].
92
Figura 4.2 - Immagini di una viola Amati del 1620 irradiata con luce di
sincrotrone e ottenute grazie al sistema di rivelazione PIXIRAD-8. a) Immagini
planari. b) Immagini tomografiche.
4.4 FANTOCCI UTILIZZATI
In questa prima fase del progetto SYRMA-CT sono stati utilizzati
vari fantocci, ciascuno con un fine ben preciso. Di seguito varranno
descritti in particolare tre tipi di oggetti-test, importanti per valutare
in particolare la dose ghiandolare media correlata alla qualità delle
immagini.
4.4.1 ELLE_cil
ELLE_cil è un fantoccio cilindrico, in polimetilmetacrilato
(PMMA), di 10 cm di diametro. All'interno di questo cilindro sono
inserite 8 inclusioni del diametro di 1 cm, ciascuno dei quali simula
componenti differenti all'interno della mammella, come illustrato
nell'immagine (figura 4.3) e nella tabella 2 seguenti:
93
Figura 4.3 - Immagine di una sezione assiale del fantoccio ELLE_cil con
inserti numerati.
Numero inserto
Materiale
1
Etanolo al 35%
2
Acqua (H2O)
3
Tessuto fibroso
4
Paraffina
5
Tessuto tumorale
6
Glicerolo
7
Tessuto adiposo
8
Cloruro di Calcio (CaCl2)
Tabella 2. In riferimento alla figura 4.3, la tabella correla ogni inserto al
materiale di cui è costituito.
Come si può notare dalla tabella 2 vi è una grande varietà di
materiali impiegati; in particolare gli inserti 3, 5 e 7, dalle forme
irregolari, sono tessuti biologici, gli altri inserti (1, 2, 4, 6 e 8),
invece, sono costituiti da materiale inorganico.
Tutti gli inserti sono immersi in un gel di agarosio all'1%, un
94
materiale che ha la proprietà di attenuare le radiazioni X
analogamente all'acqua, la quale, a sua volta, crea con il
background di PMMA un contrasto pressochè nullo (basti vedere il
dettaglio 2 nella figura 4.3); pertanto il gel di agarosio costituisce un
valido background per valutare il diverso contrasto dato dai vari
inserti.
4.4.2 Triple Modality Biopsy Training Phantom
Triple Modality Biopsy Training Phantom (modello 051) è un
fantoccio commerciale che solitamente viene utilizzato per simulare
esami ecografici, mammografici e risonanze magnetiche nucleari.
Questo oggetto-test può essere infatti compresso e presenta
caratteristiche di densità e attenuazione dei raggi X simili a quelle di
una mammella reale contenente in media il 50% di tessuto
ghiandolare, inoltre, ha forma e consistenza anatomiche.
Le dimensioni di tale fantoccio sono di 12 cm in lunghezza, 10
cm in larghezza e 9 cm in altezza, per un volume di circa di 500
cm2. Il materiale con cui è costituito è Zerdine, un materiale tessuto
equivalente nel quale sono inserite 6 masse più dense dai 2 agli 8
mm di diametro e 6 masse dalla densità cistica (acquosa) dai 3 ai
10 mm di diametro.
In figura 4.4 è riportato un disegno schematico del fantoccio
[CIRS].
Figura 4.4 - Disegno schematico dell'interno del Triple Modality Biopsy
Training Phantom, con inserti di varie dimensioni e densità (in bianco inserti
densi, in nero inserti di densità cistica).
95
4.4.3 Fantocci con tessuto biologico
Questi due particolari fantocci sono costituiti da una massa
tumorale asportata da una paziente durante un intervento di
quadrantectomia e sono stati chiamati T9762/1 e T9830/1.
Il primo, la cui lesione presenta un diametro di circa 25 mm ed è
classificata come un carcinoma poco differenziato (di grado 3),
papillare solido e di tipo aggressivo, è stato utilizzato per
acquisizioni in aria: il tessuto biologico durante l'acquisizione è stato
conservato all'interno di una bustina sterile.
Il secondo fantoccio, invece, con un carcinoma duttale infiltrante
di circa 15 mm di grandezza, è stato realizzato con del gel di
agarosio contenuto all'interno di una coppetta del diametro di circa
10 cm. All'interno della coppetta e circondato dal gel è stata, quindi,
immersa la bustina sterile contenente il tessuto biologico, per
rendere l'oggetto-test e l'acquisizione il più possibile vicini ad una
condizione reale.
4.5 SET-UP
Il set-up utilizzato nelle acquisizioni tomografiche dei fantocci
prevede innanzitutto un preciso allineamento degli stessi con il
fascio radiante e il detector, conseguenza soprattutto del fatto che
la sorgente di radiazione è fissa ad una certa quota. Vengono
pertanto eseguiti spostamenti di traslazione orizzontale e verticale
del lettino portapaziente affinchè la sezione assiale di interesse
giaccia sullo stesso piano del fascio radiante.
Anche il rivelatore viene allineato rispetto al fascio mediante
traslatori verticali ed orizzontali. Inoltre, il rivelatore e' dotato di un
movimento di rotazione (il cui asse risulta parallelo al fascio stesso)
che permette di far coincidere la direzione dell'asse di rotazione del
campione (verticale) con la direzione delle colonne dei pixel del
96
rivelatore. In questo modo, ogni riga di pixel del rivelatore acquisirà
una sezione assiale indipendente dalle altre.
Un altro aspetto importante del set-up sono le distanze sorgentedetector e fantoccio-detector: la prima è di 31,8 m ed è fissa, la
seconda invece si può regolare ed è stata considerata come
ottimale una distanza pari a 1,7 m per permettere di sfruttare al
meglio la tecnica del contrasto di fase.
4.5.1 Parametri di acquisizione
Le acquisizioni tomografiche di tutti i fantocci sopra descritti sono
state effettuate con energia del fascio X impostata a 38 keV e una
filtrazione di 6 mm di alluminio, fatta eccezione per il fantoccio
ELLE_cil che è stato acquisito senza alcuna filtrazione.
Il fascio, come già accennato nel capitolo 3, ha una geometria
laminare le cui dimensioni in sala paziente sono di 4 mm in altezza
e 150 mm in larghezza [Arfelli et al., 2003]; le acquisizioni sono
state effettuate in modalità step&shoot su un arco di circonferenza
di 180°, ovvero le proiezioni vengono acquisite singolarmente con
l'oggetto fermo per un tempo di 50 ms, intervallate da uno
spostamento angolare dell'oggetto-test. La scelta di acquisire a
180° deriva dal fatto che, a differenza della tomografia tradizionale,
la radiazione di sincrotrone prevede un fascio monocromatico e
fortemente collimato che quindi, non risentendo di fenomeni di
divergenza, porta ad una maggior precisione nella raccolta dei dati
grezzi. Pertanto, un arco di 180° è sufficiente a permettere una
ricostruzione di immagini di qualità.
Ciò che differenzia i tre fantocci nell'acquisizione sono l'intervallo
angolare tra una proiezione l'altra, quindi il numero totale di
proiezioni acquisite e la dose ghiandolare media.
Il set completo di immagini ottenute dal fantoccio ELLE_cil è di
97
1440 proiezioni acquisite con intervallo angolare di 0,125° e la dose
ghiandolare media per tutte le proiezioni è risulatata di circa 60
mGy.
Per quanto riguarda il Triple Modality Biopsy Training Phantom le
proiezioni totali sono invece 1200 acquisite con intervalli angolari di
0,15°. La dose ghiandolare media è sensibilmente inferiore rispetto
a ELLE_cil, infatti è di circa 20 mGy.
Anche i fantocci contenenti i tessuti biologici sono stati acquisiti
come il Triple Modality Biopsy Training Phantom, quindi constano di
1200 proiezioni totali sempre con una dose ghiandolare media che
si aggira attorno ai 20 mGy.
In particolare, dei fantocci T9762/1 e T9830/1 sono state
acquisite anche delle immagini planari con il mammografo GE
Senographe DS dell'Unità Complessa Operativa di Radiologia
dell'Ospedale di Cattinara (Trieste), per permettere un confronto
qualitativo tra le immagini planari e quelle tomografiche.
4.6 RICOSTRUZIONE DELLE IMMAGINI
4.6.1 Metodi di ricostruzione
Per la ricostruzione delle immagini i metodi utilizzati in questo
studio sono: la Filtered Back Projection (FPB) e i metodi iterativi, in
particolare l'algoritmo SART. La scelta di impiegare entrambe
queste metodiche è stata fatta per permettere il confronto tra di
esse sia in termini di qualità dell'immagine sia di dose erogata.
Dal momento che l'algoritmo di FBP è già stato ampiamente
descritto nel capitolo 2, in questo paragrafo verranno approfonditi in
particolare SART e il suo precursore SIRT, facente parte della
stessa categoria di metodi iterativi.
Queste tecniche sfruttano i principi base del metodo ART
98
(Algebraic Reconstruction Techniques) che indica una classe di
algoritmi iterativi usati in Tomografia Computerizzata.
Come già descritto nel capitolo 2, il metodo ART può essere
considerato come un risolutore di un sistema di equazioni lineari
(concetto valido per i metodi iterativi in generale).
In linea generale esso si basa su:
• applicazione dei termini di correzione dell'errore per tutti i
raggi in una determinata proiezione;
• ponderazione longitudinale
redistribuiti lungo i raggi;
dei
termini
di
correzione
• uso di elementi bilineari per l'approssimazione discreta del
raggio di integrale di un'immagine continua [Anderson e Kak,
1984].
Queste ricostruzioni tuttavia presentano spesso problemi di
rumore con effetto “sale-pepe” nell'immagine ricostruita, che è
causato da delle incongruenze introdotte nelle equazioni iterate,
dalle approssimazioni comunemente utilizzate. Il risultato è una
serie di imprecisioni a cascata che si ripercuotono sul risultato finale
con un'alterazione di alcuni pixel che ad ogni iterazione vengono
“aggiornati” [Kak e Slaney, 1988].
Il termine SIRT sta per Simoultaneous Iterative Reconstruction
Technique ed è molto simile al metodo ART. Il principio di
funzionamento, di fatti, è lo stesso e anche SIRT presenta i
problemi di imprecisione sopra descritti, ma al contempo propone
un miglioramento del sistema eliminando l'aggiornamento continuo
dei pixel e quindi conferendo loro maggiore uniformità e di
conseguenza minor rumore nelle immagini [Kak e Slaney, 1988].
SART invece sta per Simoultaneous Algebraic Reconstruction
Techinque e prende le qualità migliori dei metodi ART e SIRT e le
combina al fine di ottimizzare l'iterazione.
99
Il metodo SART, infatti, produce ricostruzioni di buona qualità e
precisione numerica con una sola iterazione: per ridurre
notevolmente il rumore risultante dalle inevitabili incongruenze
applica i termini di correzione per tutti i raggi di una proiezione
simultaneamente [Kak e Slaney, 1988].
4.6.2 Parametri di ricostruzione
Le proiezioni acquisite con i vari fantocci sono state ricostruite
con matrici da 900x900, 925x925 oppure 1000x1000 pixel. Le
dimensioni dei pixel derivano da quelle dei voxel, che sono, come
nelle moderne TC multristato, isotropici, per cui ogni sezione
assiale è spessa quanto il loro lato e cioè 120 micron.
Per quanto riguarda il fantoccio ELLE_cil sono stati ricostruiti set
di immagini con diverso numero di proiezioni. Ci sono infatti set da
1440, da 720 e da 360 proiezioni, con rispettivamente 0,125°, 0,25°
e 0,50° di intervallo angolare tra una proiezione e l'altra.
Per la ricostruzione con 1440 proiezioni è stata utilizzata solo
l'algoritmo di FBP, mentre per le altre ricostruzioni è stato utilizzato
anche il metodo SART. Inoltre, per il set da 360 proiezioni sono
stati applicati anche dei filtri di ricostruzione, uno “leggero” e uno
“spinto”, sempre abbinati al metodo SART.
Anche la ricostruzione del Triple Modality Biopsy Training
Phantom è stata fatta variando il numero di proiezioni utilizzate,
raddoppiando quindi l'intervallo angolare tra una proiezione e l'altra.
Per questo fantoccio sono stati ricostruiti set di immagini da 1200,
da 600 e da 300 proiezioni sempre utilizzando sia l'algoritmo di FBP
sia l'algoritmo SART abbinato ai filtri “leggero” e “spinto” per il set
da 300 proiezioni.
Gli stessi parametri di quest'ultimo fantoccio valgono anche sia
100
per T9762/1 sia per T9830/1.
Di seguito vengono riportate come esempio alcune immagini
della stessa sezione assiale del fantoccio ELLE_cil, ricostruite con i
due metodi sopra citati (FBP e SART) e con diverso numero di
proiezioni (figura 4.6).
101
Figura 4.6 - Immagini di una precisa sezione assiale del fantoccio ELLE_cil.
a) Ricostruzione con 1440 proiezioni e metodo FBP. b) Ricostruzione con 720
proiezioni e metodo FBP. c) Ricostruzione con 720 proiezioni e metodo
iterativo SART abbinato ad un filtro “spinto”. d) Ricostruzione con 360
proiezioni e metodo FBP. e) Ricostruzione con 360 proiezioni e metodo
iterativo SART abbinato ad un filtro “spinto”. f) Ricostruzione con 360 proiezioni
e metodo iterativo SART abbinato ad un filtro “leggero”.
4.6.3 Rielaborazione delle immagini
Al fine di studiare al meglio la qualità delle immagini, sono state
rielaborate con il programma di elaborazione per immagini ImageJ
[http://imagej.nih.gov/ij] alcune slice di tutti e quattro i fantocci.
In particole l'attenzione è stata focalizzata sui set di immagini
ricostruite con il minor numero di proiezioni, perchè sono quelle
che, come già si può intuire dalla figura 4.6 e come si vedrà nel
paragrafo 4.8, presentano maggior rumore quantico.
L'elaborazione che è stata eseguita è una somma di immagini
per studiare come, variando lo spessore della sezione di due, tre ed
infine quattro volte, varino anche la risoluzione spaziale e di
contrasto. Essendo infatti ogni slice ricostruita spessa 120 micron
(spessore derivato dalla dimensione del voxel isotropico), le
rielaborazioni mostrano immagini di sezioni corrispondenti a
102
spessori di 240, 360 e 480 micron.
In figura 4.7, di seguito riportata, vengono mostrate queste
rielaborazioni applicate su immagini del Triple Modality Biopsy
Training Phantom ricostruite con 300 proiezioni e metodo iterativo
SART con filtro “leggero”.
Figura 4.7 - Immagini del fantoccio Triple Modality Biopsy Training
rielaborate con il programma ImageJ. a) Immagine di una singola sezione
spessa 120 micron. b) Immagine rappresentativa di due sezioni contigue (240
micron totali di spessore). c) Immagine rappresentativa di tre sezioni contigue,
corrispondenti a 360 micron di spessore di fetta. d) Immagine rappresentativa
di quattro sezioni contigue (480 micron di spessore).
103
Come si può osservare dalla figura 4.7, all'aumentare dello
spessore diminuisce il rumore dell'immagine, con un complessivo
miglioramento del rapporto segnale-rumore e della visibilità dei
dettagli in questione.
Il fantoccio, come descritto nel paragrafo 4.4, dovrebbe
contenere sei dettagli, di dimensioni diverse e di densità maggiore
rispetto al background (visualizzabili in bianco). Nelle immagini qui
sopra riportate se ne possono notare tre, rispettivamente da 4, 6 e
8 mm. Inoltre, mentre tra l'immagine 4.7a e 4.7b si può apprezzare
una significativa riduzione del rumore, per le immagini 4.7c e 4.7d il
guadagno è meno evidente: probabilmente per poter osservare un
ulteriore miglioramento della qualità dell'immagine bisognerebbe
aumentare ancora lo spessore della sezione.
Per il fantoccio T9762/1, sempre con il set di immagini ricostruite
con 300 proiezioni e metodo SART con filtro “leggero”, si è anche
provato a realizzare spessori di 7 volte maggiori, cioè di 840
micron. Di seguito, in figura 4.8, è riportata l'immagine risultante a
confronto con quella da 120 (una singola sezione), 240 e 480
micron.
104
Figura 4.8 - Immagini del fantoccio T9762/1 rielaborate con il programma
ImageJ. a) Immagine di una singola sezione spessa 120 micron. b) Immagine
rappresentativa di due sezioni contigue (240 micron totali di spessore).
c) Immagine rappresentativa di quattro sezioni contigue, corrispondenti a 480
micron di spessore di fetta. d) Immagine rappresentativa di sette sezioni
contigue (840 micron di spessore).
Analogamente a quanto avviene in figura 4.7, il rapporto segnalerumore migliora con l'aumentare dello spessore di sezione,
conferendo alla lesione margini più netti e definiti. Tuttavia, un
occhio attento potrebbe osservare una riduzione della risoluzione di
contrasto nell'immagine d, rispetto alle immagini precedenti e, in
generale, una lieve sfumatura dei bordi.
4.7 CONSIDERAZIONI DOSIMETRICHE
Un aspetto molto importante dello studio condotto è la
dosimetria. L'intento, infatti, è stato quello di ottenere immagini di
qualità con livelli di dose paragonabili a quelli di una mammografia
convenzionale.
I fantocci, eccetto ELLE_cil che ha ricevuto una dose elevata (60
mGy), hanno ottenuto una dose di circa 20 mGy, che se messa a
105
confronto con la dose erogata ad una mammografia, risulta
sensibilmente più alta. Si ricorda, infatti, che in mammografia la
dose va da 2,2 a 15 mGy circa per l'intero esame, comprensivo di
due proiezioni. Tuttavia, bisogna far presente che, sebbene queste
dosi risultino elevate, sopratutto per quanto riguarda ELLE_cil, esse
corrispondono al numero totale delle proiezioni acquisite per ogni
sezione e quindi a 1440 per ELLE_cil e 1200 per gli altri fantocci.
Pertanto, se si riducesse il numero di proiezioni della metà o di un
quarto, anche la dose verrebbe ridotta dello stesso numero di volte.
Per questo motivo è stato importante ricostruire e confrontare
immagini con 720, o 600 e 360, o 300 proiezioni e con l'impiego di
diversi metodi di ricostruzione: esse sarebbero ottenute con
rispettivamente 30, o 10 mGy e 15, o 5 mGy e ciò
rappresenterebbe un ottimo compromesso tra qualità dell'immagine
e dose impartita.
Altro parametro da considerare nelle valutazioni dosimetriche è il
diametro del fantoccio. Con opportuni calcoli riportati di seguito si
può apprendere che con diametri maggiori, a parità di parametri di
esposizione, la dose da impartire per ottenere immagini di qualità
omogenea risulta maggiore.
In particolare, nel nostro caso, il fantoccio T9762/1 risulta avere
un diametro medio di 6 cm, mentre il fantoccio T9830/1 ha un
diametro di circa 9,6 cm.
Per valutare la differenza di dose da erogare ai due fantocci si è
innanzitutto calcolato il coefficiente di attenuazione dell'acqua, che,
come già accennato, risulta essere molto simile a quello del gel di
agarosio, per l'energia di 38 keV. Di seguito si riporta il calcolo:
μ
2
ρ =0,282 cm / g
e cioè:
−1
μ=0,282 cm
106
nelle quali μ è il coefficiente di attenuazione dell'acqua e ρ e la
densità, che vale 1 cm3/g.) [https://inis.iaea.org; https://wwwnds.iaea.org;].
Quindi, in riferimento alla legge di Beer, già illustrata nel capitolo
2, si ha che i fasci emergenti I1, per campione T9762/1 e I2, per il
fantoccio T9830/1, sono dati rispettivamente da:
I 1 =I 0 e
−μ d 1
I 2 =I 0 e
−μ d 2
in cui d1 e d2 sono i rispettivi diametri medi.
Per cui, mettendo a rapporto le due equazioni si ottiene che:
I 1 e−μ d
=
I 2 e−μ d
1
=
2
0,184
=2,76≈3
0,0667
Da ciò si ricava che il fantoccio T9830/1, che rispetto al fantoccio
T9762/1 ha un diametro di circa 3,6 cm più grande, ha bisogno di
una dose 3 volte maggiore per ottenere la stessa quantità di fotoni
che arrivano al rivelatore e quindi lo stesso rapporto segnalerumore.
In sostanza, l'immagine di una singola slice del campione
T9762/1 ha la stessa qualità di un'immagine ottenuta con tre slice
del campione T9830/1.
4.8 VALUTAZIONE DELLE IMMAGINI
Osservando le immagini sopra riportate si può chiaramente
notare che in tutte emerge un artefatto ad anelli che si espande a
partire dal centro dell'immagine. Tuttavia, facendo riferimento alla
figura 4.6, questo artefatto sembra venire meno col diminuire del
numero di proiezioni utilizzate per la ricostruzione: il rumore
107
quantico, infatti, maschera parzialmente le linee concentriche
dell'artefatto. Ad ogni modo tale disturbo al momento sembra
essere inevitabile, perchè è causato da una non perfetta
calibrazione del detettore che ancora non è stato possibile
migliorare in quanto esso è un prototipo.
Se da un lato le immagini ricostruite con minor numero di
proiezioni riducono la visibilità dell'artefatto ad anelli e, come
espresso nel paragrafo 4.7, possono essere ottenute con una dose
ridotta, dall'altro lato sono immagini che presentano un rumore “sale
e pepe” non trascurabile.
Osservando la figura 4.6 sopra riportata, che mette a confronto
le varie ricostruzioni, si può notare che nell'immagine d, ricostruita
con 360 proiezioni, i margini dei vari inserti presenti nel fantoccio
non sono ben visualizzabili, a differenza invece dell'immagine a,
ricostruita con tutte le proiezioni. Un leggero miglioramento della
risoluzione spaziale lo si può notare nelle immagini e ed f: sebbene
siano state ricostruite sempre con 360 proiezioni, il metodo
utilizzato è stato diverso ed ha portato ad un sensibile
miglioramento.
In riferimento alla stessa figura si può quindi affermare che
l'algoritmo di ricostruzione FBP risulta più impreciso dell'algoritmo
iterativo SART, che a parità di proiezioni utilizzate per la
ricostruzione fornisce immagini meno rumorose e con risoluzione
spaziale migliore. Anche per quanto riguarda la risoluzione in
contrasto, il metodo iterativo sembra più efficace della FBP, in
particolare se abbinato al filtro “spinto”.
Per aggirare questo problema di qualità, le immagini ricostruite
con poche proiezioni sono state rielaborate, quindi, per simulare
uno spessore di fetta maggiore, ottenendo un voxel non isotropico.
In riferimento alla figura 4.8 si può notare come aumentando lo
spessore il problema del ridotto rapporto segnale-rumore viene
108
meno: l'immagine d presenta i margini della lesione del fantoccio
T9762/1 più netti rispetto all'immagine a.
Tuttavia, a conferma di quanto detto sopra, per avvicinarsi il più
possibile ad una condizione reale, vengono riportate di seguito
(figura 4.9) le immagini del fantoccio T9830/1 rielaborate secondo
lo stesso schema del fantoccio T9762/1.
Figura 4.9 - Immagini del fantoccio T9830/1 rielaborate con il programma
ImageJ. a) Immagine di una singola sezione spessa 120 micron. b) Immagine
rappresentativa di due sezioni contigue (240 micron totali di spessore).
c) Immagine rappresentativa di quattro sezioni contigue, corrispondenti a 480
micron di spessore di fetta. d) Immagine rappresentativa di sette sezioni
contigue (840 micron di spessore).
109
Al fine di osservare con maggiore attenzione il beneficio dato da
uno spessore di sezione maggiore, in particolare tra le immagini c e
d, dove la differenza sembra essere minima, viene riportato di
seguito un ingrandimento di un particolare (figura 4.10).
Figura 4.10 - Immagini del fantoccio T9830/1 con ingrandimento di un
particolare corrispondente alla stessa area dell'immagine. a) Immagine
rappresentativa di una sezione da 480 micron. b) Immagine rappresentativa di
una sezione da 840 micron.
Come si può notare da quest'ultima figura (figura 4.10), il
dettaglio contenuto nel riquadro dell'immagine b, segnato con le
frecce rosse, non è visibile nell'immagine a. Tuttavia, i margini
dell'intera lesione sembrano essere più sfumati rendendoli, nel
complesso, meno definiti.
Si potrebbe quindi affermare che per una sezione assiale lo
spessore di 840 micron sia un valore limite in cui nonostante sia
possibile visualizzare dettagli interessanti, in generale, la
risoluzione spaziale inizia a diminuire.
Infine, come già accennato sopra, dei fantocci T9762/1 e
T9830/1, sono state anche acquisite immagini planari, riportate di
seguito (figura 4.11), con un apparecchio mammografico, per
110
permettere un confronto con la tecnica tomografica tramite luce di
sincrotrone.
Figura 4.11 - Immagini dei fantocci T9762/1 (a e b) e T9830/1, acquisito
togliendo il tessuto biologico dalla coppetta contenente gel di agarosio (c) e
con il tessuto biologico immerso nella coppetta contenente gel di agarosio (d).
a,c) immagini planari acquisite tramite il mammografo GE Senogrpahe DS
dell'Unità Complessa Operatica di Radiologia dell'ospedale di Cattinara
(Trieste). b,d) immagini tomografiche acquisite con luce di sincrotrone e
rielaborate con il programma ImageJ per simulare uno spessore di 840 micron.
Come si può notare dalla figura 4.11a e 4.11c, i margini della
lesione e dell'intero campione di tessuto risultano sfumati, a
111
differenza, invece, delle immagini tomografiche in figura 4.11b e
4.11d dove la risoluzione spaziale sembra essere maggiore,
fornendo così maggior dettaglio e più informazioni. Anche la
risoluzione di contrasto risulta diversa; nonostante sia possibile
variare la finestra ed il livello per permettere la visualizzazione
ottimale di tutte le strutture, la tecnica mammografica ha fornito
un'immagine più contrastata, risaltando alcuni elementi, per
esempio all'interno della lesione, che nell'immagine tomografica
non si notano. È bene ricordare, tuttavia, che le immagini
mammografiche sono state ottenute sull'intero campione in
questione, dello spessore di 7,5 mm, per quanto il fantoccio
T9762/1, e 9,8 mm, per quanto riguarda il fantoccio T9830, mentre
le sezioni assiali nelle immagini sopra riportate sono spesse 840
micron.
112
Conclusioni
Alla luce di quanto è emerso da questo studio si può affermare
che la tecnica di Breast-CT con luce di sincrotrone, in questo primo
approccio, deve ancora essere ottimizzata ed è stato anche
compito di questo elaborato cercare di comprendere in che
direzione può rivolgersi tale ottimizzazione.
Come già visto, il rivelatore PIXIRAD-8, dispone di una
tecnologia avanzata di tipo single photon counting, che permette, in
linea di principio, di ottenere il massimo dell'informazione
disponibile. Esso, però, al momento presenta della limitazioni
dovute al fatto di essere un prototipo. Innanzitutto, riguardo alla
velocità di acquisizione, c'è da specificare che, nonostante il
detector permetta, in linea di principio, l'acquisizione di 30
frames/sec e quindi una rotazione continua dell'oggetto, appropriata
per esami su pazienti, tale modalità di acquisizione non è stata
ancora sperimentata, in quanto richiede un'elettronica di lettura che
è ancora in fase di sviluppo. Un altro aspetto da migliorare
riguardante il detector è la sua calibrazione: un'imprecisa
calibrazione, infatti, porta ad avere nelle immagini degli artefatti ad
anello che possono compromettere la visibilità di alcune
caratteristiche ed una conseguente perdita d'informazione.
Per quanto riguarda la ricostruzione delle immagini, come già
visto nella discussione sopra, un sostanziale guadagno in termini di
qualità può essere dato dall'utilizzo del metodo iterativo SART, al
fine di ottenere immagini diagnostiche con un numero limitato di
proiezioni in rispetto al principio di ottimizzazione e di risparmio di
dose.
La dose, infatti, è un fattore fondamentale che va tenuto sempre
sotto controllo. Mammelle più grandi, o particolarmente dense,
hanno la caratteristica di assorbire più radiazioni X rispetto a
113
mammelle piccole e meno dense: ciò significa che per avere
nell'immagine lo stesso rapporto segnale-rumore la mammella
grande deve ricevere una maggior quantità di radiazioni rispetto
quella piccola, cioè più dose. Un esempio di quanto è stato appena
detto è riportato nel paragrafo 4.7, in cui si dimostra che il fantoccio
T9830/1, di diametro maggiore rispetto al fantoccio T9762/1, per
ottenere la stessa qualità di immagine, per una singola sezione,
dovrebbe ricevere una dose di circa tre volte maggiore.
Un altro parametro da prendere in considerazione è lo spessore
delle sezioni ricostruite: un voxel non isotropico può, infatti, portare
ad una significativa riduzione del rumore quantico e, di
conseguenza, ad un'immagine dai bordi più nitidi. Esiste però uno
spessore limite, nel nostro caso stimato in circa 800 micron, oltre il
quale, pur migliorando il rapporto segnale-rumore, non si guadagna
risoluzione spaziale e così bordi e dettagli risulterebbero sfumati.
É bene ricordare, poi, che la Breast-CT con luce di sincrotrone
può acquisire sezioni contigue spesse al massimo 3 – 4 mm, per
cui, se in un futuro studio clinico si dovesse acquisire un intervallo
maggiore bisognerebbe far compiere più rotazioni alla paziente e
ciò potrebbe risultare scomodo.
Tuttavia, come si è già visto, l'inarrestabile progresso
tecnologico, filo conduttore di questa tesi, negli anni ha portato alla
creazione di apparecchiature sempre più sofisticate, performanti e
agevoli sia per l'operatore sia il paziente. Pertanto, con l'avanzare
delle scoperte tecnologiche, i problemi sopra descritti potranno
essere probabilmente superati e anche la tecnica potrà essere
ottimizzata sotto tutti gli aspetti.
Per concludere, la Breast-CT con luce di sincrotrone ha delle
potenzialità che vale la pena conoscere e approfondire con altri
studi. Essa non può sostituire la mammografia convenzionale per la
ricerca e la diagnosi precoce del cancro al seno, ma può contribuire
significativamente, in determinati casi selezionati e con diagnosi
dubbia, a chiarire il quadro clinico.
114
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