La separazione dal sintomo fisico: riflessioni su cancro e psoriasi

La Separazione Possibile
11-12 ottobre 2013
La separazione dal sintomo fisico: riflessioni su cancro
e psoriasi
Antonella Demma, Chiara Vitalone
1. Il sintomo: tra corpo e psiche
“La distinzione di corpo e anima può essere una idea chiara, ma non dimostrabile, e
rimane sempre aperto il problema di che cosa chiamiamo corpo e che cosa anima”
K. Jaspers, 1913
La parola greca psyché, come ci ricorda Patrizia Manganaro (2008), etimologicamente significa
anima, termine di derivazione latina che presenta la stessa radice del greco ànemos, ossia vento,
a indicare quel principio immateriale capace di rendere vivo il corpo e contemporaneamente
di fondare e dirigere ogni dimensione della vita umana.
Cartesio, invece, negava l'esistenza di un’anima nutritiva e affermava che “ […] il corpo umano
è un meccanismo guidato da un intelletto e da una volontà libera” (Manganaro, 2008, p.6). L’Io
cartesiano dunque è decorporeizzato e demondanizzato (Galimberti, 1983) ed il corpo,
separato dalla mente, assume il significato di “cosa”, somma di parti senza interiorità - res
extensa - mentre la mente è intesa come coscienza, interiorità senza distanze - res cogitans -. Da
questa separazione concettuale nasce la medicina moderna.
René Leriche - medico degli inizi del '900 - affermava che la salute è la vita nel silenzio
degli organi. Paradossalmente infatti sentiamo il nostro corpo solo quando “un organo
interrompe la sua autonomia funzionale e smette di tacere” (Ranieri, 2010, p. 2); il corpo allora
irrompe nella scena come qualcosa di straniero, che arriva dall'esterno a sfatare l'illusione del
soggetto di fare “uno con le proprie membra” (Ranieri, 2010, p. 2). Nel cancro e nelle malattie
autoimmuni, come la psoriasi, il corpo non si riconosce più come una unità, come identità,
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collassando ed andando a colpire una sua stessa parte: un organo, un osso, un sistema
funzionale.
Il sintomo, indice di malattia, acquista un valore completamente differente per la medicina e
per la psicoanalisi. Per la medicina il sintomo organico è rivelatore di una malattia, la quale a
sua volta rinvia ad una causa. La medicina è infatti una clinica del sintomo: esso è segno visibile
della patologia; il medico si occupa di riportare l'organismo ad uno standard funzionale ed in
questa ottica la persona malata si riduce ad un “essere organico da normalizzare” (Ranieri, 2010,
p.3). Per la psicoanalisi invece i sintomi del corpo non sono un qualcosa da normalizzare,
bensì segno di una sofferenza particolare della persona. La psicoanalisi è infatti una “scienza della
salute” (Ranieri, 2010, p.4): la malattia del corpo non viene ridotta ad un impasse fisiologico,
ma è messa in valore in quanto risorsa del soggetto, nel suo significato simbolico, “introducendo
un elemento eterogeneo rispetto al corpo, che trascende il soggetto stesso: l'inconscio” (Ranieri, 2010, p. 4).
Si passa quindi dal sintomo-segno della medicina al sintomo-simbolo della psicoanalisi, nella quale
il corpo non è un “accorpamento di carne” (Ranieri, 2010, p.4) ma un luogo di rappresentazione,
un palcoscenico che può farsi teatro, suggestione.
Freud (1910) scrive: “La psicoanalisi non dimentica mai che lo psichico poggia sull'organico,
anche se il suo lavoro non le consente di procedere oltre questa assunzione di principio. Così la psicoanalisi è
anche pronta ad ammettere, anzi a postulare, che non tutti i disturbi funzionali della vista possono essere
psicogeni come quelli provocati dalla rimozione del piacere erotico di guardare” (Freud, 1910, p. 294).
Il corpo freudiano ha quindi il compito di abreagire una scarica emotiva che non passando
attraverso la via simbolica della parola si manifesta in forma trasposta sul corpo. Freud quindi
non spinge la sua indagine su quei fenomeni somatici che a differenza della conversione, non
si esprimono simbolicamente, pur essendo consapevole dell'esistenza in medicina di sintomi
la cui eziologia non era riconducibile né a sole cause organiche, né ad una sintomatologia
isterica. Si entra quindi nel campo dei fenomeni psicosomatici, dai quali lo stesso Freud si
era tenuto alla larga per non scuotere ulteriormente le fondamenta della medicina del tempo
(Ammon, 1992); tali fenomeni sono caratterizzati da un impasse dell'attività di pensiero che
produrrebbe una scarica pulsionale sul corpo senza alcun simbolismo inconscio. Negli anni
'50, Marty, de M'Uzan e David dell'École Psychosomatique de Paris coniarono il termine
pensiero operatorio caratterizzato dall'assenza di libertà fantasmatica ed alla base dell'insorgenza
della lesione psicosomatica. Sifneos (1976) a sua volta parlò di alessitimia per indicare uno
stato nel quale “tutta la valenza affettiva ed emozionale delle assai povere capacità di elaborazione mentale
è impegnata sul piano somatico […]. La mancanza di attività simbolica si manifesta sia a livello cosciente,
con una verbalizzazione sclerotizzata, che a livello onirico con mancanza del ricordo dei sogni o con sogni
molto banali e si associa con una evidente povertà nelle relazioni interpersonali” ( Lalli, 2005, p.1).
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La “prima Psicoanalisi” sembra quindi considerare psiche e soma come due
dimensioni fondamentalmente differenti e cooperanti, messe in contatto da un misterioso
ponte psiche-soma che si formerebbe nelle prime fasi di vita in quell'involucro originario
(Anzieu, 1990) che lega tra loro madre e bambino; Freud - in una nota del 1927 - a tal
proposito affermava che l'Io si origina dalle sensazioni corporee derivanti dalla superficie del
corpo (Freud, 1923b): il bambino farà proprie le capacità contenitive materne portando
l'involucro esterno all'interno. Sembra essere assente in tale formulazione la considerazione
di una relazione originaria psiche-soma, al di la di una qualsiasi spiegazione di un legame che a
tratti sembra sfociare nel determinismo tralasciando l'aspetto della comprensione.
La Fenomenologia invece è orientata proprio verso questo aspetto, indicando la
comprensione - Verstehen - come via elitaria verso il senso, il significato profondo della
relazione originaria - e non più causale - al di fuori della quale lo psichico ed il somatico non
sarebbero ciò che sono. Husserl (1931) a tal proposito distingue tra Kőrper, corpo fisico in
quanto corpo somatico di cui è possibile fornire una descrizione anatomica e fisiologica: il
corpo “cosa”, oggetto che può essere misurato, aperto ed il Leib, corpo vivente, corpo intero
e non in singole parti, quel corpo che la persona “è” e non che “ha”.
Come evidenziato da Bracco (2004) il Leib è caratterizzato da una particolare intenzionalità ,
in virtù della quale la persona si rapporta alle cose in termini di esposizione che è apertura di
mondo, trascendenza e non mero riflesso fisiologico, contatto tra recettori del corpo e corpo
esterno. Il mondo al quale il Leib si dischiude è un mondo di significati, un mondo dotato di
senso nel quale il corpo - Leib - si colloca con le sue manifestazioni. Di conseguenza non
solo viene meno la distinzione cartesiana tra corpo e anima ma si promuove la concezione
di un corpo vivente che esprime l'incarnarsi della coscienza - il farsi corpo della coscienza che attraverso il conferimento di senso reso possibile dalla sua intenzionalità, introduce il
corpo in un nuova dimensione di natura non più esclusivamente fisica: il Leib non si colloca
nel mondo come gli altri oggetti ma esso “apre a sua volta un mondo, lo dischiude e lo rende possibile”
(Bracco, 2004, p.3). Manganaro (2008) sottolinea come Edith Stein (1917) prosegua nella
direzione indicata da Husserl distinguendo “in ogni essere vivente un nucleo, Kern, o centro
dell’identità personale: l’anima, la cui vita è guidata dall’interno e dall’alto, tra interiorità e trascendenza.
Essa è la forma di tutto l’individuo psicofisico, la radice fontale della persona umana. In quest’ottica il Leib
non può essere considerato quale prigione dell’anima, che la ostacolerebbe impedendole di elevarsi, quanto il
suo specchio, nel quale la vita interiore si riflette e attraverso il quale l’invisibile si rende visibile. Il corpo
vivente animato viene con ciò illuminato, la medesima luce che riempie l’anima lo penetra e vi si irradia,
facendone la dimora preposta per l’attuazione di una vita concretamente libera” (Manganaro, 2008, p.
76).
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La dimensione corporea oggi non è più, o non è soltanto intesa come contenitore di conflitti
non risolti nella psiche, come affermato nella prima teoria psicosomatica; le tendenze attuali
della psicoanalisi, infatti, ipotizzano una dialettica, in atto fin dal momento della nascita, tra
un corpo-mentale ed una mente-corporea. Pertanto non avrebbe più senso parlare di una
mente che si manifesta nel corpo somatizzando, quanto piuttosto considerare il corpo come
dimensione alla continua ricerca di “dicibilità per poter vivere” (Carignani, Romano, 2006, p. 23).
Mente e corpo possiedono la stessa matrice originaria e, poiché il pensiero è la matrice
relazionale e relazionante (Merendino, 1997) dell’apparato psicofisico umano, anche il corpo
è condotto e sostenuto dal pensiero. La mente non è, così inteso, separata e distinta dal soma,
piuttosto si esprime mediante il soma.
Merleau-Ponty (1945) designava il corpo come “nodo di significati viventi”,
prefigurando l’idea di una rete di contatto tra fisiologico e psicologico ed è su questo che si
interroga oggi la psicoanalisi, sulla possibile e necessaria corrispondenza di senso tra questi
due modi di essere, appartenenti ad un unico soggetto umano.
A livello di fisicità, ci ricorda Alberto Panza (2006), il corpo si esprime attraverso la
sintesi proteica, invia messaggi elettrici o chimici; a livello di corporeità, invece, esso si
esprime attraverso sensazioni ed emozioni. In questo contesto la malattia organica può essere
collegata alla compresenza di aspetti integrativi e segregativi, per cui alcune aree o funzioni
si autonomizzano, agendo disarmonicamente rispetto agli altri sottosistemi dell’organismo.
La fisicità è intesa da Panza (2006) come quella dimensione perturbante che ci viene incontro
quando il corpo si ammala e si sperimenta un’improvvisa estraneità rispetto a se stessi, mentre
la corporeità non è solo qualcosa da pensare, ma un processo pensante esso stesso: “Si deve
creare il corpo, così come si deve creare il resto del mondo, prima di poterlo vedere”, sostenne Marion
Milner (1987, in Panza, 2006, p. 94).
2. Essere malato, sentirsi malato
“Corpo io sono in tutto e per tutto, e null’altro; (…)
Il corpo è una grande ragione, una pluralità con un solo senso;
una guerra e una pace; un g regge e un pastore”
Nietzsche, 1883-1884
“Loro mi dicono che non sto più male... ma io mi sento male…”, questo lo sfogo rabbioso e concitato
del Signor Roberto, un paziente affetto da una forma invalidante di psoriasi e componente
di un gruppo terapeutico riservato a persone colpite dalla sua stessa patologia. Al mattino il
Signor Roberto si era sottoposto ad una visita Medico Legale finalizzata a valutare la
concessione di un orario ridotto di lavoro; la sua attività da operaio infatti mal si concilia con
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l'artrite psoriasica che, nei momenti di maggior acuzia, rende difficile - se non impossibile anche il più banale dei movimenti. In quel periodo l'artrite stava dando al paziente un po' di
sollievo ma le sue condizioni cliniche - seppur migliorate - non andavano di pari passo con il
suo sentire il corpo. Questo breve flash clinico ci riporta alla mente una affermazione di
George Canguilhem (1966): “la medicina esiste perché gli uomini si sentono malati e non perché qualcuno
- il medico - li dichiara tali” (in Israel, 2010, p. 61).
Grmek (1998) sottolinea che il rischio è che invece di considerare la condizione del sentirsi
malato - fatta di esperienza e di vissuto - ci si concentri esclusivamente sulla condizione
dell'essere un malato, ovvero riconosciuto come tale da un medico.
Quella che viviamo, ricorda infatti Galimberti (1979), è un'esistenza incarnata e nella
malattia l’esistenza si assenta progressivamente dal mondo, riducendo la propria presenza e
partecipazione; nella malattia l’esistenza ha la possibilità di non occuparsi più del mondo, ma
esclusivamente di se stessa. In quest’ottica la malattia non appare come l’effetto di una causa,
ma come il significato di un rapporto, significato che la malattia assume per colui che la vive.
Se la via della causalità è impercorribile, ci suggerisce Jaspers (1913), non ci resta che
percorrere quella della comprensione, dove non si coglie l’effetto psichico della malattia
organica, ma la modificazione di senso nel proprio modo di essere al mondo.
A tal proposito scrive Tiziano Terzani: “Io ero un corpo: un corpo ammalato da guarire. E avevo un
bel dire: ma io sono anche una mente, forse sono anche uno spirito e certo sono un cumulo di storie, di
esperienze, di sentimenti, di pensieri ed emozioni che con la mia malattia hanno probabilmente avuto un sacco
a che fare! Nessuno sembrava volerne o poterne tenere di conto. Neppure nella terapia. Quel che veniva
attaccato era il cancro, un cancro ben descritto nei manuali, con le sue statistiche di incidenza e di
sopravvivenza, il cancro che può essere di tutti. Ma non il mio!” (Terzani , 2004, p. 15).
E' dunque necessario recuperare quello che è il senso che la persona attribuisce alla malattia
nel suo rapporto con il mondo, dove il mal-essere è anche un disequilibrio dell’esistenza,
costretta a vivere nel proprio corpo la sua impossibilità o incapacità a progettarsi nel mondo.
Essere ammalato significa distogliere l'intenzionalità dal mondo per concentrarla sul corpo,
sulla malattia nello specifico, la quale non consente più al corpo di progettarsi nel mondo
come prima. Il corpo, in tal senso, da soggetto di intenzioni, diventa oggetto intenzionato.
Il paziente quindi si sentirà malato, dove il termine malato, cioè male habitus, richiama l’idea
dell’abitare male, del non sentirsi più a casa nel proprio corpo, tra le vecchie abitudini; Alberto
Panza (2006) ricorda a tal proposito che uno dei termini greci per indicare il corpo vivente è
proprio dêmas, da demo - abitare, costruire - da cui deriva il latino domus. Il termine latino corpus,
invece, indica la forma, qualcosa cioè di tangibile, unificato e unificante; così come anche il
termine salute, che in sanscrito significa totalità.
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Ci allontaniamo in quest’ottica da un riduzionismo organicistico che intende la salute come
assenza di malattia, per concentrarci piuttosto su un significato contestualmente più ampio,
cioè come capacità di vivere armoniosamente con se stessi e con il mondo. In quest’accezione
la salute diviene un’istanza multidimensionale, non statica ed universalmente concepita, bensì
da costruire attraverso l’attribuzione di significati possibili. Salute e malattia non sono perciò
due condizioni contrapposte, ma aspetti dinamici dello stesso percorso esistenziale, elementi
evolutivi insostituibili nella costruzione dell’identità umana.
3. Dal corpo fisico al corpo vissuto: il sintomo incarnato
“Il medico, a differenza del naturalista, ha a che fare…
con un singolo organismo,
il soggetto umano,
in lotta per conservare la propria identità in circostanze avverse”
Ivy McKenzie in Oliver Sacks, 1985
Il corpo viene quindi a collocarsi come luogo dell’incarnazione del segmento coscienzamondo, io-altri, io-tu, me medesimo-me ipse (Di Petta, 2010).
Callieri (2007) a tal proposito affermava che l’esserci è sempre embodiment, cioè che la
consapevole esperienza di sé è fondata sul corpo, ed è il corpo il soggetto della preriflessiva
consapevolezza di Sé.
E' proprio sul corpo che si collocano quindi tre aspetti principali: quello dell’io, quello del
mondo e quello degli altri (Di Petta, 2010).
In psicoanalisi si parlerà di identità, termine che già nella sua etimologia - deriva infatti dal
latino identitatem, da idem: stesso-medesimo - contiene il bisogno dell'essere umano di
sperimentare un sentimento di continuità del proprio essere nella propria esistenza
(Winnicott, 1989), sentimento di cui ciascun individuo ha bisogno per vivere in modo
creativo, per affrontare i conflitti, i cambiamenti, i lutti, i dolori (Russo, 2009).
L'identità, come sottolineato da Freud (1926) e Winnicott (1989), nasce dallo sguardo, dalla
funzione di rispecchiamento dello sguardo materno, che nel corso dello sviluppo
dell'individuo deve in parte perdere il suo carattere narcisistico di illusione, di unione, di coappartenenza madre-bambino e diventare un evento sociale. Il corpo, nel corso di tale
percorso, svolge una funzione strutturante ed integrante l'identità, la quale si delinea come
una formazione mista, in continuo divenire, risultato di processi di identificazione e
disidentificazione rispetto ai quali lo sguardo sociale svolge un ruolo determinante.
La malattia, soprattutto se cronica ed invalidante, sembra spesso rappresentare un
punto di rottura nella continuità identitaria, uno spartiacque tra un prima ed un dopo.
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Patologie come il cancro e la psoriasi, per le loro caratteristiche trasformative sul corpo e
sull'immagine sociale, alterano profondamente lo schema corporeo, compromettono
l’immagine di sé e l’autostima, minano rapporti affettivi e sociali, a volte in modo irreversibile,
gettando un’ombra sulla prospettiva di vita a medio e lungo termine.
Sicuramente accostare due patologie così differenti potrebbe apparire una forzatura,
considerando soprattutto l'aspetto relativo allo spettro mortifero che aleggia sulla malattia
cancerosa; a tal proposito però Sylvie Consoli (2004-2005) - dermatologa e psicoanalista
francese - evidenzia come, mettendo a confronto soggetti affetti da psoriasi con malati affetti
da patologie somatiche reputate più gravi come le neoplasie, sono gli psoriasici a presentare
i punteggi di depressione più alti, seguiti dai soggetti affetti da acne di media gravità ed inoltre
“il tasso di una reale ideazione suicidaria riscontrato negli psoriasici (7,2 %) è più elevato di quello rinvenuto
nei malati affetti da altre affezioni somatiche reputate più gravi” (Consoli, 2004-2005, p.8). Tale
affermazione ci riporta nel campo del “come” e del “cosa” la persona malata sente,
soprattutto in patologie come la psoriasi ed il cancro, che evocano seppur con manifestazioni
differenti vissuti mortiferi legati alla perdita di parti di sé.
Merleau-Ponty (1945) sottolinea come sia il corpo a permetterci di essere in presa
diretta con il mondo poiché è attraverso il corpo che si costruisce il rapporto originario con
il mondo, la cui dimensione fondamentale è data dall'esperienza vissuta della percezione. Il
corpo è frontiera tra io ed il mondo (Merleau-Ponty, 1945) ed in questa prospettiva è quindi
comprensibile come ad una alterazione nel corpo, corrisponda un alterato rapporto con il
mondo stesso. Ad essere alterati non sono solo i significati ma anche le relazioni: si parla a
tal proposito del vissuto di stigmatizzazione (Consoli, 2004-2005); lo stigma è un marchio, ed
infatti questo termine fu coniato dai Greci, proprio per designare quei segni, inscritti sulla
pelle con la lama di un coltello o con un ferro incandescente, che le persone macchiatesi di
un crimine, dovevano esporre agli occhi degli altri, condannandosi all’esclusione sociale: “la
colpa era così scritta sulla loro carne” (Consoli, 2004-2005, p. 7).
“Una mia collega, quando ero decisa precocemente a togliermi la parrucca, perché non la sopportavo proprio,
mi disse che era meglio che mi mettessi il foulard in testa per coprire i pochi capelli che stavano ricrescendo,
perché non era un bel vedere per le donne che avrebbero dovuto fare il mio stesso iter”, racconta Carla,
trentanove anni, durante un gruppo terapeutico per donne operate di cancro al seno.
Ed infatti nella psoriasi e nel cancro la patologia, seppur in modalità differenti, si “mostra”
al mondo esterno, causando nella persona spesso un duplice dolore: da una parte vi è la
sofferenza fisica che rende gesti quotidiani come andare al lavoro impossibili; dall'altra la
pena suscitata dagli sguardi della gente, compassionevoli o pieni di paura, che provocano
spesso nella persona malata la sensazione di essere stata messa ai margini della realtà
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condivisa. “Era domenica mattina e mi ritrovai tra le dita intere ciocche di capelli; scoppiai in un pianto a
dirotto e pensai subito che da quel momento sarebbe stato evidente per tutti che ero malata e sotto
chemioterapia”, racconta Marisa, paziente di cinquantadue anni, operata per un carcinoma
duttale infiltrante.
L'intensità del vissuto di stigmatizzazione risulta essere legato alla fragilità narcisistica della
persona, fragilità provocata dalla malattia o preesistente ad essa, che porta la persona ad
essere sempre più sensibile allo sguardo della gente e che la impegna nella costante ricerca di
approvazione o la condanna ad una progressiva chiusura ed estraneazione dal mondo
circostante; “in queste condizioni, la più piccola imperfezione del corpo o della loro pelle, rischia di
realizzare un terribile scacco narcisistico” (Sigal, Consoli, 2004, p. 9).
Si è detto come il corpo risulti essere strettamente legato anche alla coscienza, tanto che sia
le caratteristiche del corpo sia i suoi elementi fondamentali quali tempo, spazio,
intenzionalità, autoriflessività sono gli stessi della coscienza. Tempo e spazio sono due
dimensioni fortemente alterate dalla malattia: si pensi infatti alla prognosi, a quanto “tempo”
il medico dà al paziente per la guarigione o per il decorso infausto della malattia; si pensi al
tempo dettato dalle cure: i cicli di chemioterapia - nel caso del cancro - o le sedute di
fototerapia - nell'esempio della psoriasi - ed infine si pensi al tempo dettato dai periodi di
recidiva.
Lo spazio corrisponde invece alla dimensione del “racconto”: spesso il medico esordisce con
un “mi racconti i suoi sintomi... da quanto tempo...”, storicizzando, con questa semplice espressione,
la malattia che spesso il paziente colloca in uno spazio altro, indipendente da quello vissuto.
4. Unheimliche: la malattia organica e il vissuto di perturbante estraneità
“Io non sono di fronte al mio corpo ma sono il mio corpo”
Merleau-Ponty, 1945
Paolo Carignani e Fausta Romano (2006) ci ricordano che noi siamo il nostro corpo, ma nei
momenti di forte conflittualità, può accadere di sentire di non possederlo più, in quanto esso
segue criteri e trasmette sensazioni che non riusciamo più a governare o a modificare; “in
questo senso la soggettività è al contempo alterità, e l’alterità si pone come aspetto specifico della soggettività”
(Carignani, Romano, 2006, p. 15).
L’Io non è distinto dal corpo, se non nelle esperienze di alienazione, in cui si vive il corpo
come altro da sé, come qualcosa da cui l’Io è separato. Nella malattia accade che mi separo
da me e l’esistenza scopre il corpo come qualcosa di estraneo: l’Altro che mi abita e mi insidia
sconvolge l’ordine della mia esistenza, dei miei tempi e delle mie prospettive. La vera sfida,
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ricorda Panza (2006), sta nel pensare ad una psiche che è corpo pur senza coincidere con
esso, mantenendone intatti gli aspetti di diversità.
Ed è proprio nel corpo che l’Unheimliche freudiano trova la sua più evidente manifestazione:
privo di una casa-madrepatria familiare e sicura, territorio intrinsecamente mutante, “l’ignoto
che si annida nel familiare, l’incomprensibile che rimane custodito all’interno del pensabile, l’alterità che abita
nel cuore dell’identico” (Panza, 2006, p. 81).
L’utilizzo di metafore relazionali in ambito biologico risulta particolarmente
interessante, in quanto, come evidenzia Giovanni Marchioro (2009), anche i processi cellulari
possono essere considerati in fondo processi di comunicazione; anche a livello cellulare,
infatti, possono accadere gli stessi fenomeni di unione e separazione che caratterizzano la
vita affettiva dell’individuo. In quest’ottica il corpo, nel cancro e nella psoriasi, diviene ad un
tratto alienus e carnefice di se stesso: non vi è un agente esterno, estraneo, ma è il corpo
stesso che attacca le sue stesse cellule, distruggendole - nel caso della psoriasi i linfociti T
attaccano le cellule epidermiche; nel cancro creando delle masse - .
Nel caso specifico del cancro le teorie immunologiche moderne inferiscono che il sistema
anticorpale possa funzionare in modo tipicamente depressivo o persecutorio, agendo cioè in
modo autodistruttivo o eterodistruttivo, a seconda che riconosca le cellule come proprie o
estranee (Fornari, 1985).
Secondo Marchioro (2009) l’ambiguità delle cellule tumorali, che pur essendo alterate non
sono propriamente estranee, in quanto prodotte dall’organismo a cui appartengono, può
essere tradotta, psicologicamente parlando, in termini di incapacità di separarsi e individuarsi,
come assenza di differenziazione. Le cellule neoplastiche sono dette “fuorilegge” (Nesci,
Poliseno, 1997), perché smettono di seguire il normale destino delle cellule in cui avviene una
mutazione, cioè ripararsi prima di duplicarsi oppure, in caso di mancata restaurazione genica,
autodistruggersi andando in apoptosi - attivando cioè il programma di morte cellulare -. In
questa fuga, invece, le cellule neoplastiche si sdifferenziano sempre di più, proliferano e
invadono l’organismo, traendo in inganno il sistema immunitario, andando ad attivare una
fondamentale confusione tra processi distruttivi e processi generativi.
Il corpo si trasforma a causa della malattia ma anche delle cure: “Mi guardo allo specchio
e non mi riconosco più… vedo un'estranea”, continuava a ripetere la Signora S. affetta da una forma
di psoriasi eritrodemica che colpiva circa il 70% della sua superficie cutanea; la sua possibilità
di riconoscersi, la sua identità mediata anche dall'aspetto esteriore, dai tratti del suo corpo,
ormai era persa, resa irriconoscibile dal manto di squame purulente coperte da unguenti
medicamentosi. “È come se la mia immagine di colpo si infrangesse come uno specchio rotto nel quale non
mi riconosco più”, racconta Beatrice, donna in carriera di quarantatre anni, sei mesi dopo
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l’intervento di mastectomia radicale al seno sinistro.
Nella malattia oncologica e psoriasica le trasformazioni del corpo provocano una frattura,
oltre che una ferita narcisistica, portando in luce una discontinuità che crea uno squilibrio
nella possibilità di mantenere l’investimento narcisistico sul corpo (Nesci, Poliseno, 1997).
Un vissuto di perturbante estraneità si estende dunque a tutto il corpo, come se la
trasformazione rompesse la continuità di un sé integrato: il corpo diviene un persecutore.
“La sera prima di andare a dormire... la controllo - la psoriasi - e penso che non vincerà lei... che le squame
ed il rossore si bloccheranno, che io le bloccherò...!”; Marco, affetto da psoriasi medio-grave dall'età di
trent’anni, provato da diverse recidive, sosteneva di combattere una battaglia e di sentire la
sua pelle come una parte estranea.
5. La separazione: comprendere il sintomo per costruire una nuova identità
integrata
“Avemmo l’esperienza ma ce ne mancò il significato e accostarci al significato ci restituisce
l’esperienza in una forma diversa che è al di la del significato”
Eliot T. S., 1943
Nella pratica clinica abbiamo avuto modo di riscontrare una domanda estremamente
frequente che i pazienti pongono: perché proprio a me, perché in questo momento, perché
così. Ci siamo molto interrogate su questo, perché tale quesito in realtà non ha risposta e non
può averla se non uscendo dalla prospettiva consueta del perché “causalistico”. Quando una
persona viene colpita da una malattia organica invalidante è normale ed umano che si chieda
il perché e che lo chieda a noi curanti, ma se ragioniamo in un’ottica di tipo causa-effetto,
non troveremo risposta alcuna in grado di aiutare la persona. L’ordine della spiegazione ci
dice come l’alterazione si è prodotta, ma non è in grado di comprendere perché si è prodotta,
dove il perché non rinvia ad una causa, ma ad un senso.
Il primo atto del percorso di separazione dal sintomo fisico è dunque, a nostro
parere, riconoscerne la possibilità di senso. Non è infatti concepibile integrare qualcosa che
si pensa non abbia un senso perché “se gli uomini non sono cose, il modo in cui sono al mondo e il
senso che esso assume per loro sono causa di malattia non meno delle componenti mediche fisico-chimiche”
(Galimberti, 2005, p. 278).
Riteniamo altresì che la possibilità di riconoscere un “senso” in quello che accade - in questo
caso nella malattia - passi indubbiamente attraverso il pensiero. L'atto del pensare alla malattia
è sicuramente un processo “creativo”, creativo poiché riteniamo preveda una fuoriuscita da
quel sentire indefinito ed indecifrabile che i pazienti spesso “traducono”- con grande sforzo
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- utilizzando etichette come “rabbia e disperazione”, rappresentanti di un sentire “oceanico”,
che occupa la persona. Proprio come dopo un terremoto la polvere che si alza dopo il crollo
non permette di orientarsi né di guardare oltre, così la patologia ed i suoi sintomi spesso
creano nella persona un impasse che non le permette quasi più di riconoscersi né di sentirsi,
confondendosi con il sintomo-malattia.
Nell’esperienza oncologica e psoriasica assistiamo spesso - a livello di vissuti - alla
dimensione del tradimento: ad un certo punto, come già detto, nella persona compare un
nemico interno, che corrode e invade da dentro, sancendo l'interruzione di un’alleanza tra la
persona ed il proprio corpo. Nesci e Poliseno (1997) ci ricordano che questo drammatico
cammino avrà come tappa necessaria l’elaborazione del lutto; si apriranno due strade: o
perdonare il tradimento - ricongiungendosi con la parte malata di sé - aprendosi a nuova vita,
o privarsi di una qualsiasi possibilità di significazione. Riuscire a pensare al sintomo implica
quindi il rappresentarlo - attribuirgli una “forma” che sia familiare - ma anche il
comprenderlo, dove il termine comprendere - dal latino cum-prehendere - nella sua etimologia
assume in senso figurativo il significato di un “abbracciare con la mente”. Se si pensa quindi
al tema della separazione dal sintomo fisico essa assume il significato di un incontro, un
incontro che separa dal sintomo alieno, per ricongiungere la persona al sintomo sul piano
della comprensione che annulla ogni alterità.
A tali considerazioni si lega naturalmente l'aspetto della crisi aperta dalla malattia, un
momento molto delicato per le sue caratteristiche indubbiamente perturbanti ma anche - e
soprattutto - evolutive. Nella nostra esperienza di lavoro con persone affette da cancro e
psoriasi ci sembra di intravedere due momenti fondamentali della crisi: il primo,
concomitante alla diagnosi, con il sentire che c’è stata una rottura nella sensazione di
continuità - soprattutto identitaria - del paziente; il secondo, in coincidenza con la possibilità
di pensare alla malattia e quindi di “separarsene”. Quest'ultimo passaggio, che rappresenta
sicuramente l'aspetto evolutivo della crisi, è anche a nostro avviso il segno di quel
faticosissimo lavoro che, come sottolineato da Racamier (1986), l'Io si ritrova a fare lavorando
nel tempo per ritrovarsi, nell'incontro con il sintomo, dopo essersi perso. “Quando arrivi al
limite, prima o poi lo capisci: non devi recuperare energie ma essere diversa”, dice Cristiana, cinquantadue
anni, operata per tumore al seno tre anni fa, durante una seduta di gruppo per donne affette
dalla stessa patologia.
Il lavoro terapeutico consiste quindi nell'aiutare la persona a trovare un luogo - all'interno di
sé - che possa accogliere questo percorso, un tragitto che si snoda attraverso l'elaborazione
della perdita della vecchia immagine di sé, per poter così arrivare a reintegrare la presenza al
mondo (Marcoli, 2003).
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Malattia, dolore e sofferenza sono situazioni limite entro le quali si sviluppa
l’esistenza: la coscienza e l’accettazione di tale finitezza suggeriscono la pienezza dell’esistere,
nel recupero della propria parte in ombra, così come la malattia può essere tanto ricca di vita
proprio perché richiama l’idea della morte (Marchioro, 2007). Queste le parole di Maria,
quarantotto anni, operata per un carcinoma lobulare infiltrante al seno destro quattro anni
fa: “Sotto certi aspetti la malattia mi ha risvegliata, ed ora sono rinata con nuovi stimoli e tanta voglia di
vivere. Ora, quando mi sveglio, spalanco il balcone e con un bel respiro profondo annuso l’aria fresca e pulita
del mattino, con il sole e con la pioggia, poi, con calma, inizia una nuova giornata. Se ripercorro la mia vita,
vedo che tutto ciò che è accaduto ha avuto un senso, per portarmi a diventare quella che ora sono, o che
probabilmente sono sempre stata e che non sapevo di essere”.
6. L’incontro con il dolore: quale ruolo possibile per il terapeuta
“Senza malattia né angoscia sarei stato una barca senza timone”
Edward Munch
(in Burrone A., Maccarini G., 1993, Il gusto di vivere, Oscar Mondadori, Milano, pag. 1)
Compito arduo per uno psicoterapeuta che si trova a lavorare nei reparti ospedalieri è
interrogarsi sul significato della cura e della propria presenza in un luogo che, purtroppo,
produce un impatto drammatico sulla mente, tanto da non rendere pensabile talvolta
nemmeno una domanda di aiuto psicologico, tanto preponderante è l’attenzione per la cura
del corpo.
Fazzi (2005) riporta un’affermazione di Bion: “L’esercizio della vera psicoanalisi è un compito molto
impegnativo. È facile leggere e parlare delle teorie: l’esercizio della psicoanalisi è un’altra cosa” (in Fazzi,
2005, p.1). Quando la psicologia incontra la sofferenza umana, come nel caso delle patologie
croniche e invalidanti, la cura non può prescindere da assetti di natura fenomenologica, quali
i vissuti mentali e corporei che la malattia e le terapie comportano; questo perché “la sofferenza
di un uomo è già la sofferenza dell’uomo: una sofferenza esistenziale che non è solo privata” (Marchioro,
2007, p.104), ma rappresenta per il terapeuta una profonda sfida esistenziale anche alla
propria persona (Benedetti, 1992).
Molte delle persone che noi avviciniamo stanno così male da non avere il privilegio del tempo
per verbalizzare delle richieste d’aiuto; tale sofferenza psicologica è frequentemente legata
alla percezione di assenza di tempo, che Poliseno (2009) chiama “lutto della progettualità”,
inteso come vissuto dello stare in un’impossibilità di abitare il futuro - sia nel tempo che nello
spazio - con un progetto.
Lo spazio ed il tempo del corpo sono due aspetti che giocano un ruolo fondamentale nel
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lavoro di separazione dal sintomo perché la patologia ha tra i suoi effetti sul piano psichico,
come già ricordato, anche ripercussioni nella dimensione spaziale e temporale, aspetti che
nella malattia perdono le loro caratteristiche di tridimensionalità e spiralità, a favore di una
generale indefinitezza e cristallizzazione.
A tal proposito, nel lavoro terapeutico con persone affette da malattie croniche ed invalidanti
come psoriasi e cancro, risulta fondamentale invitare il paziente a raccontarsi, a raccontare la
sua storia, che non è solo storia di malattia, favorendo un progressivo ricongiungimento con
un corpo alieno che a poco a poco potrà divenire nuovamente familiare, seppur modificato
dalla patologia ed inoltre, la dimensione temporale del racconto, andrà a sanare la
frammentarietà provocata dalla malattia, costruendo col tempo un ponte tra il prima e il
dopo. Lo spazio terapeutico dell’incontro si affaccia dunque alla “cura del senso”, attraverso
la narrazione biografica, perché, con le parole di Marchioro, “… Il senso altro non è che la
direzione dell’esperienza vissuta” (2007, pag. 69).
Resta dunque da interrogarsi sul ruolo del terapeuta, su quale possa essere un
possibile ed auspicabile modo di incontrare la persona sofferente, senza aspettarsi che siano
i pazienti a “chiamare”, perché quelli che chiamano hanno già potuto iniziare a mentalizzare
il loro dolore ed hanno già la percezione del bisogno di aiuto. Si potrebbe a tal proposito
utilizzare come “indicazione” il titolo di un bellissimo libro della Nissim Momigliano,
“l'Ascolto Rispettoso” (2001); l'ascolto rispettoso è infatti un tipo di ascolto non
“indagatore”, che non imbriglia la persona in etichette diagnostiche, dando grande spazio alla
sua storia di vita ed al suo vissuto di malattia, con la finalità di favorire nella persona un
graduale, seppur spesso faticoso, percorso di integrazione tra malattia fisica e vissuto
psicologico.
Anna, cinquant’anni, affetta da psoriasi dall'età di venti al termine di un percorso terapeutico
di gruppo: “Ho chiamato per anni la psoriasi: la malattia, senza mai riuscire a chiamarla per nome... solo
adesso capisco quanto fossi arrabbiata e quanto lo sono ancora oggi, per quanto è accaduto... così arrabbiata
da non riuscire a nominarla”.
In quest’ottica “curare” espone il terapeuta ad una sfida: ricordando le parole di Gaddini
(1983-1985) “il setting è la mente analizzata dell’analista” (in Fazzi, 2005, p.4), riuscire a non farsi
pietrificare o congelare dall’angoscia della massa maligna o della pelle che si desquama,
piuttosto aiutare il paziente a separarsi dal sintomo, nel senso di inglobare il sintomo in un
sistema di senso e di significati unici ed irripetibili proprio perché appartenenti al vissuto di
malattia della persona. Non a caso Antonio De Luca (2003), sottolineando che il dolore
psichico può essere il prodotto di un “appuntamento mancato”, ci indica anche la sfida insita
nella cura: la possibilità che un appuntamento mancato si trasformi in un incontro
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autenticamente realizzato, in cui il malato possa riscoprire il senso di sé in armonia con gli
altri e con se stesso.
“Ognuno di noi ha una storia del proprio vissuto, un racconto interiore, la cui
continuità, il cui
senso è la nostra vita.
Si potrebbe dire che ognuno di noi costruisce e vive un racconto, e che questo
racconto è noi stessi,
la nostra identità. Per essere noi stessi, dobbiamo avere noi stessi, possedere, se
necessario
ripossedere, la storia del nostro vissuto. Dobbiamo ripetere noi stessi, nel senso
etimologico del
termine, rievocare il dramma interiore, il racconto, il racconto di noi stessi. L’uomo
ha bisogno di
questo racconto, di un racconto interiore continuo, per conservare la sua identità, il
suo sé”
Oliver Sacks, 1985
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