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Il dialogo vi è sempre stato, anche in momenti di massimo conflitto
Contributed by GIORGIO ISRAEL
Thursday, 31 December 2009
esiste un rapporto speciale tra ebraismo e cristianesimo: si tratta della comune visione delle scritture
come un testo rivelato ma scritto da uomini e quindi necessariamente
soggetto a continua e sempre più profonda interpretazione.
GIORGIO ISRAEL
Spesso ci si chiede: è possibile sviluppare un dialogo tra le religioni nonostante il fatto che ciascuna di esse abbia come
fondamento l’idea di possedere la verità, e per giunta una verità assoluta che non ammette compromessi con la
verità dell’altro? Ed è vero che questa difficoltà si presenta in termini ancor più gravi nel caso delle religioni
monoteiste? La risposta è che non si tratta di decidere se il dialogo sia possibile o no: esso è nei fatti, vi è stato da
sempre, anche nei momenti di massimo conflitto. Ne Il rischio educativo (2005) di don Luigi Giussani si legge: «Il rabbino
di Roma, Elio Toaff, ha scritto in un libro recente: “L’epoca messianica è proprio il contrario di quel che
vuole il cristianesimo: noi [ebrei] vogliamo riportare Dio in terra, e non l’uomo in cielo. Noi non diamo il regno dei
cieli agli uomini, ma vogliamo che Dio torni a regnare in terra”. Quando l’ho letto sono saltato sulla sedia!
Questa è esattamente la caratteristica del carisma con cui abbiamo percepito e sentito il cristianesimo, perché il
cristianesimo è “Dio in terra” e la nostra opera, tutta la nostra vita, ha come scopo la gloria di Cristo, la
gloria dell’uomo Cristo, dell’uomo- Dio Cristo.
La gloria di Cristo è una cosa temporale, del tempo, dello spazio, della storia, nella storia… ». Negli anni Settanta
Gershom Scholem, nel suo L’idea messianica nell’ebraismo, proponeva una contrapposizione analoga.
Egli osservava che «quel che l’ebraismo ha situato irrevocabilmente al termine della storia, come il momento in
cui culmineranno gli eventi esterni, è divenuto nel cristianesimo il centro della storia, che è promossa a “storia
della salvezza”». In tal modo, il cristianesimo ha ritenuto di «aver superato una nozione esteriore legata al mondo
materiale, e di averle contrapposto una nuova concezione di più elevata dignità». Ma proprio questa convinzione –
ovvero la reinterpretazione delle promesse profetiche come riferite a un regno dell’interiorità, una visione
puramente spirituale della redenzione – è sembrata all’ebraismo tutt’altro che un progresso.
Come nel caso del rabbino Toaff e di don Giussani, questa affermazione di Scholem suscitò la risposta – però
stavolta risentita – di un teologo protestante che accusò Scholem di ricorrere a clichés e semplificazioni
deformanti. La controreplica fu che l’affacciarsi di visioni teologiche nuove, come quelle di Karl Barth e Albert
Schweitzer, aveva modificato il quadro e reso meno comprensibile una contrapposizione che pure ha segnato
drammaticamente secoli di rapporti tra ebraismo e cristianesimo perché –osservava Scholem – su questo
tema si è manifestato il punto massimo di divergenza tra le due religioni. E negare che il pensiero cristiano abbia spesso
enfatizzato una visione spiritualistica della redenzione, fino a considerare la vita terrena come una valle di lacrime e di
peccato contrapposta all’autentica vita spirituale post-terrena, è questa sì una deformazione. Ma le due religioni
non sono state immobili e un confronto continuo, anche se talora latente, ha prodotto effetti percepibili. È ancora Scholem
a rilevarlo: «Se l’ebraismo non ha smesso di instillare nel cristianesimo un messianismo politico e millenarista, si
può constatare che il cristianesimo, a sua volta, ha trasmesso all’ebraismo, o quantomeno ha svegliato in lui, una
tendenza mistica all’interiorizzazione del messianismo». In fondo, come aveva ragione don Giussani a dire che
l’idea “Dio in terra” ha sempre predisposto un terreno favorevole per sviluppare una visione terrena
della redenzione, così per l’ebraismo la realtà attesa nel tempo messianico è sempre stato anche il simbolo di uno
stato interiore del mondo e dell’uomo.
Di conseguenza, per quanto sia difficile «individuare le influenze storiche che hanno potuto provocare l’incontro di
queste due correnti e gli scambi di idee che si sono potuti produrre tra ebraismo e cristianesimo», queste influenze
reciproche hanno operato attivamente. Non proseguiamo oltre su un tema tanto complesso. Abbiamo voluto sollevarlo
per mostrare come l’interazione e il reciproco influsso vi sia stato persino su un tema tanto spinoso, al centro del
massimo dissidio tra ebraismo e cristianesimo, un tema di natura teologica. Per di più, queste interazioni e questi
reciproci influssi si sono verificati in tempi in cui il contesto dell’antigiudaismo diffuso rendeva tutto più difficile.
Perciò sbaglia chi mette in discussione la possibilità stessa del dialogo: il dialogo è un fatto, un fatto storico.
Nell’attualità esso può assumere un rilievo tanto più grande e una fecondità tanto maggiore nella misura in cui venga
fatto ogni sforzo per far svanire un contesto di ostilità e di diffidenza secolare. Inoltre, nel caso dei rapporti ebraicocristiani, è importante osservare che non si tratta di dialogo ma di qualcosa di inevitabilmente e strutturalmente più
profondo. Lo ha spiegato magistralmente un grande filosofo ebreo, Emmanuel Lévinas (nel suo Trascendenza e
intelligibilità): «Il cristianesimo cattolico possiede una grandezza che non ho mai ignorato […] Vi è nella storia della
Chiesa qualcosa che mi sembra importantissimo; la continuità, l’idea di magistero». E, pur dichiarandosi estraneo
a certe letture ebraiche del Nuovo Testamento come un midrash cristologico (tale fu forse quella di André Chouraqui),
Lévinas afferma che «non si può contestare che col cristianesimo odierno vi sia, non dico un dialogo – tutti
abusano del dialogo – ma un contatto possibile nella coscienza di un rapporto di parentela; di parentela, in
particolare di fronte a tutta quella parte del mondo, a tutta quella immensa umanità che non ha conosciuto le nostre
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Scritture comuni».
Questa parentela profonda non implica alcun sincretismo e alcuna confusione – ed è qui che misuriamo come
l’adesione alla propria fede non sia in contraddizione con il rapporto e non lo escluda. Difatti, dice Lévinas: «non
ho mai vissuto la lettura del Nuovo Testamento come vivo la lettura dell’Antico, dove non mi manca nulla».
Quindi, se ciascuno vive nelle proprie Scritture come nella propria casa, inconfondibile e non intercambiabile, esiste una
“comunanza” e una “parentela” che stabiliscono un contatto inevitabile. Certo, vi è una
spiegazione dei motivi per cui esiste un rapporto speciale tra ebraismo e cristianesimo: si tratta della comune visione
delle Scritture come un testo rivelato ma scritto da uomini e quindi necessariamente soggetto a continua e sempre più
profonda interpretazione.
È caratteristica delle due religioni aver prodotto una sterminata, interminata e interminabile esegesi biblica – sia
pure diversamente declinata – nella coscienza dell’inesauribilità del significato delle Scritture, da scavare e
ricercare in strati sempre più profondi. E si badi che questa idea della continua e inesauribile tensione verso il significato
profondo del messaggio contenuto nelle Scritture è il fondamento caratteristico della centralità della ragione
nell’esperienza religiosa, perché l’esegesi è, in primo luogo, una manifestazione di pensiero razionale.
Qui si manifesta la possibilità di un rapporto e di una coesistenza tra ragione e fede religiosa. Quando si parla di specificità
della civiltà europea, quella stessa che ha consentito lo sviluppo del pensiero razionale accanto alla dimensione spirituale
e religiosa, essa va ricercata proprio nel principio di quella coesistenza.
Di qui deriva l’importanza e la grande intuizione che ha sorretto il documento del 2001 su Il popolo ebraico e le
sue Sacre Scritture nella Bibbia cristiana della Pontificia Commissione Biblica su ispirazione dell’allora Cardinale
Ratzinger. Dopo la grande svolta che la Nostra Aetate ha prodotto nei rapporti tra ebraismo e cristianesimo cattolico,
l’aver affrontato il tema dei rapporti tra le Scritture delle due religioni, prima in questo documento e poi nel libro
Gesù di Nazaret di Benedetto XVI, senza sincretismi e confusioni ma senza il timore di toccare anche le questioni
teologiche, è stato un progresso straordinario. Come ha scritto il rabbino Jacob Neusner – autore
dell’ormai celebre libro A Rabbi talks with Jesus – «negli ultimi due secoli il dialogo ebraico-cristiano è
servito come mezzo per politiche di conciliazione sociale, non è stato più un’indagine religiosa sulle convinzioni
dell’altro. […]
Col libro Gesù di Nazaret le dispute ebraico- cristiane entrano in una nuova era. Siamo ora in grado di incontrarci gli uni
e gli altri in un promettente esercizio di ragione e di critica». L’opera straordinaria e così strettamente collegata e
coerente di Giovanni Paolo II e di Benedetto XVI ha prodotto un grande progresso rispetto alla generale dichiarazione di
amicizia, rispetto e volontà di gettarsi dietro le spalle un triste passato contenuta nella Nostra Aetate, Si tratta
dell’affermazione che l’Antico Testamento è fondamentale per il cristianesimo perché, ove esso se ne
congedasse, decreterebbe il suo dissolvimento; che la divisione sul tema del messianismo e della divinità di Cristo deve
essere depurato di tutte quelle forme di ostilità che conducono all’antigiudaismo; e della tesi che il rapporto tra le
due religioni deve fondarsi su questo patrimonio comune. La visita di Benedetto XVI al Tempio Maggiore di Roma sarà un
evento straordinario che suggellerà ulteriormente questo percorso di ormai mezzo secolo, la cui enorme importanza
storica può misurarsi soltanto guardando indietro ai duemila anni precedenti. Deve essere un guardare indietro non per
indugiarvi ma per trarre stimolo, apprezzando il cammino percorso, ad andare avanti con decisione e senza timore. Chi
ha certezza nelle proprie convinzioni e nella propria fede non può nutrire timori di sorta. Occorre puntare sulla speranza
che il progresso dello storico incontro tra ebraismo e cristianesimo costituisca un modello per un dialogo con altre
religioni, il quale suggerisca le vie per superare anche le più grandi difficoltà. È difficile negare che la via principale
consista nel porre al centro il rapporto tra ragione critica e fede che ha consentito di raggiungere così significativi risultati:
perché è per tale via che l’integralismo può essere sconfitto.
GIORGIO ISRAEL
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