A.R.I.F.S. Associazione per Ricerca e Insegnamento di Filosofia e Storia ARIFS onlus, Casella Postale 103, 25100 Brescia. Cell. 348 5178633 E-mail: [email protected] oppure [email protected] Sito su Internet: http://www.arifs.it Associazione qualificata come soggetto che offre formazione dal Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca ai sensi degli artt. 2 e 3 del D.M. 177 del 10/07/00. Prof. Claudio Cesa, Scuola Normale Superiore di Pisa Hegel, Le forme dell'eticità Trascrizione non rivista dall’autore ad uso interno ed esclusivamente didattico 1 L' eticità è senza dubbio la figura più caratteristica, o almeno più nota, delle figure dello Spirito oggettivo in Hegel. Su di essa nel suo complesso, come sui singoli momenti in cui essa si è articolata, la discussione si aprì già in vita. Si può ricordare, anzi, la prima recensione alla Filosofia del diritto, quella redatta da un antico amico, poi diventato avversario di Hegel, il teologo di Heidelberg Paulus, dove si mette in evidenza una certa perplessità sull'uso che Hegel faceva del termine Sittlichkeit, dichiarando che questa perplessità nasceva da due ragioni fondamentali: l'una, che il termine Sittlichkeit (eticità), che Hegel contrapponeva a Moralität (moralità), era, in realtà, sempre stato usato nella stessa accezione; cioè, nel linguaggio filosofico tedesco - con qualche piccolissima eccezione che per altro Paulus non registrava - i due termini volevano significare la stessa cosa; la seconda, che i due termini in realtà erano sinonimi, in quanto derivavano l'uno dalla radice greca, l'altro dalla radice latina della stessa parola, cioè ethos greco, mos latino: dall'uno era derivato il termine dotto etica, dall'altro era derivato quello di moralis philosophia, però le due cose erano perfettamente scambiabili; per esempio, la traduzione tedesca dell'Etica di Spinoza reca Sittenlehre, proprio molto tranquillamente, che vuol dire morale: è inutile la pedanteria di tradurla con Dottrina dei costumi, o cose di questo genere: vuol dire semplicemente morale. Per la verità, una qualche distinzione tra i due termini Moralität e Sittlichkeit si poteva forse ricavare già riflettendo sulla morale di Kant e tenendo conto che un uomo bene educato, un uomo civile, che vivesse rispettando tutte le convenzioni della vita associata, poteva farlo per prudenza, poteva farlo per legalità, non obbligatoriamente per moralità; per conseguenza quello che in tedesco si sarebbe potuto dire “ein gesitteter Mann” (un uomo morale) non era morale per moralità. Credo che l'energica distinzione di Kant tra la sede interiore, la vera sede della moralità, e l'esterno vada tenuta presente come una delle radici della più elaborata e più tarda distinzione hegeliana. Un suggerimento interpretativo, particolarmente insistente nel corso degli ultimi decenni, legato alla rinascita di quella che si chiama filosofia pratica, indica, come referente di Hegel, l’etica aristotelica. Si segnala che Aristotele ha parlato della casa (oîkos) e Hegel parla della famiglia; Aristotele ha parlato della città, ha indicato che il perfezionamento dell'uomo può avvenire dentro 1 Trascrizione non rivista dall’autore della relazione tenuta in occasione del convegno su “Il pensiero di Hegel”, svoltosi a Brescia il 23/25 novembre 1990 nel Salone della Camera di Commercio. Ad uso interno ed esclusivamente didattico. certe strutture della vita associata. Allora, si dice che prima di Kant - e allo stesso tempo di Kant c'era una sorta di ripresentazione dell'etica aristotelica, alla quale Hegel si sarebbe potuto ispirare. Ora, questa contrapposizione, Aristotele contro Kant, rischia di essere di maniera o di mettere alla luce in maniera esagerata il richiamo che l'antico ha potuto avere nella costruzione del sistema di Hegel. Perchè l'aristotelismo, sia nella tradizione scolastica (Wolff e i suoi discepoli), sia nella filosofia popolare - cioè in quella che si può considerare il corrispettivo tedesco della filosofia illuministica francese - è una presenza molto autorevole. Per esempio, moltissimi ricorderanno, a proposito dei Prolegomeni ad ogni futura metafisica di Kant, l'invettiva di Kant contro il povero Christian Garve, che era autore della recensione alla prima edizione della Critica della ragion pura insieme a Feder, che suscitò l'ira di Kant, e quel fatto fortunato che fu la redazione dei Prolegomeni. Ebbene, Christian Garve è un traduttore fertilissimo, infaticabile: ha tradotto Adam Smith, ha tradotto il libro di Ferguson Saggio sulla storia della società civile, ha tradotto il De officiis di Cicerone, ha tradotto anche l'Etica Nicomachea. Se noi pensiamo a quest'opera di traduttore, che Hegel aveva certamente presente, troveremo gli autori che vengono quasi sempre citati, esagerando, come fonti della società civile hegeliana: Ferguson e Smith, e poi Aristotele come modello di un'etica antica; non ricordo Cicerone, perché si sa che Hegel per lui non aveva poi moltissima simpatia. Verrebbe voglia di dire, dunque, che il materiale per elaborare una sorta di etica alternativa a quella di Kant, o il materiale in base a cui discutere l'etica di Kant, c'era; e forse, se non ci fosse stata la Rivoluzione francese, sarebbe stato l'unica piattaforma da cui discutere ampiamente l'etica kantiana. Ma la Rivoluzione e l'eco che essa ebbe subito al di là del Reno, almeno tra gli intellettuali più vivaci, rese inservibile, o almeno non rispettabile, questa tradizione di filosofia popolare, con le relative traduzioni, alle quali essi del resto non si richiameranno mai esplicitamente - anche se non pochi aspetti di quel patrimonio, in Hegel, ritorneranno alla luce, soprattutto in un'opera relativamente tarda, come i Lineamenti di filosofia del diritto (1821). E non va dimenticato che Hegel, nella sua adolescenza, fu interamente nutrito di cultura illuministica. Se noi leggiamo i suoi appunti degli anni di liceo, restiamo impressionati nel vedere che Kant vi è citato una sola volta, con altri, e non per le opere teoriche, ma per quel saggio giornalistico che era Che cos'è l'Illuminismo?, quale tipico esponente, insomma, della cultura dell'età dei Lumi. Certo, il passaggio di Hegel da Stoccarda al collegio teologico di Tubinga (1788) è di pochi mesi precedente alla presa della Bastiglia. Il tono cambia. Hegel legge, adesso, Rousseau (una testimonianza contemporanea dice che ce l'aveva in mano tutto il giorno); legge naturalmente non soltanto Rousseau, c'è anche la lettura dei greci, di Platone; ma questo non interessa. Un po' per esperienza diretta, un po’ anche per andar dietro alla moda, il contrasto non è più quello che si ritrova così nettamente negli scritti adolescenziali di Hegel: quello tra il popolo ignorante, e i borghesi illuminati; il contrasto adesso è tra il popolo, che rivendica i suoi diritti, e coloro che lo opprimono. Ma c'è anche chi non è un oppressore, anzi, è un amico degli uomini, eppure è separato da essi: è il Gesù kantiano degli scritti giovanili. Verrebbe voglia di dire che, se prendiamo lo Hegel giovane, uno degli elementi più caratteristici è la constatazione della mancata armonizzazione dei diversi elementi della civiltà contemporanea. Ci sono battute caratteristiche: viviamo in Germania e siamo germani, non abbiamo più i nostri dèi (non nel senso di avere nostalgia per le antiche divinità germaniche: di questo non c'è la minima ombra; questo in Hegel non ci sarà mai; c'è però la constatazione di una sorta di importazione, che ha snaturato quella che era la cultura e la natura di un popolo); ancora: la religione che è stata trapiantata in Germania è una religione fondata sulla scissione, fondata su una radice giudaica, la scissione tra l'imperatività assoluta di Dio e la altrettanto assoluta obbedienza degli uomini; all'infelicità interna corrisponde la precarietà esterna. Lo Hegel di quegli anni sente tutta la miseria della Germania, che sta per passare dalla pluralità arcaica delle forme statali del Romano Impero a terra di conquista o a zona di influenza degli eserciti della Rivoluzione francese. E' in questo sfondo che nascono le riflessioni autonome di Hegel sulla politica, sullo Stato, sulla eticità; e, in un primo tempo, ciascuno di questi termini ha una sua valenza e un suo ambito di designazione. E' in questo sfondo che Hegel si confronta con le teorie più autorevoli immediatamente precedenti: con gli scritti di Fichte che erano appena usciti (1796/97: i Fondamenti del diritto naturale; 1798: il Sistema di etica ) e con la Metafisica dei costumi di Kant, uscita anche questa nel '97. Il luogo in cui questo confronto avviene in maniera più viva è lo scritto del 1802 Sui modi di trattare scientificamente il diritto naturale. Mi soffermo soltanto su un punto: qual è l'errore del giusnaturalismo, che Hegel trova in Kant e trova in Fichte? E' il partire dall'uomo nel suo isolamento, farne centro di diritti da far valere nei confronti di altri che si comportano come lui, ed uscire per la tensione, altrimenti insopportabile, di questo potenziale scontro, mediante un modello organizzativo meccanico, nel quale ciascuno rinunzia al suo diritto naturale illimitato, ma non garantito, per ricevere in cambio una serie di diritti limitati, ma garantiti. L'obiettivo che Hegel combatte, adesso e in seguito, è quello della assoluta sicurezza, che per lui è sempre accompagnata da una gravissima perdita di libertà. E' abbastanza caratteristico, anche se non è una novità, che venga stabilita una analogia tra il modello statale fichtiano (quello del tardo assolutismo esemplificato nella Prussia) e quello della Rivoluzione francese nel suo periodo giacobino. Il rapporto che si stabilisce, o che si teorizza, in questi sistemi è un rapporto meramente giuridico, senza adesione interiore, nel quale la prospettiva di un miglioramento morale si avrà per il diffuso timore della sanzione, anzi per la sicurezza della sanzione. Niente spontaneità, niente sentimento, niente entusiasmo, e neanche vita pubblica. E qui emerge il richiamo a quanto diversa era la vita nella polis antica. C’è un luogo - nello scritto sul diritto naturale - nel quale Hegel commenta un termine aristotelico politein (che esprime “vivere in, con, per il proprio popolo, condurre una vita universale, sotto l'egida del pubblico): tutto questo dice Hegel - è completamente scomparso. Teniamo conto di questa dichiarazione, onde non commettere l'errore di vedere tutto Hegel sotto il rimpianto della bella grecità perduta. Se il rimpianto rimane, e talvolta viene dichiarato, non significa che Hegel ritenga proponibile quel modello. Quel modello è finito, ed è finito perché si è diffusa una vita privata, sotto l'egida del diritto. Nella città antica, prima di Socrate, non c'è distinzione tra diritto, morale, religione; si vive con, per e nel proprio popolo, integrando tutte queste forme; ma da quando si è diffusa la natura privata, tutto questo non è più possibile. Ebbene, credo che non sia inutile, a questo punto, fare una domanda, che è completamente ovvia. Questa affermazione del privato è teorizzata in un celeberrimo scritto di Benjamin Constant del 1819 (quindi due anni prima della pubblicazione della Filosofia del diritto di Hegel), cioè il celeberrimo discorso - per la verità più noto in seguito che tra gli immediati contemporanei - Sulla libertà degli antichi paragonata alla libertà dei moderni. Constant non diceva affatto cose nuovissime, perché erano dottrine largamente diffuse nell'ambiente; dava ad esse però una concentrazione, una forma letteraria, di altissimo livello. Ebbene, che cosa dice Constant in maniera del tutto esplicita? Dice le stesse cose che dice Hegel, soltanto con un'accentuazione estremamente positiva per quanto riguarda la forma moderna, che consiste nel godere della propria libertà privata sotto l'egida della legge, ma riducendo il più possibile quella che è l'interferenza della legge. Verrebbe voglia di dire che tra Constant e Hegel c'è una quasi assoluta comunanza di diagnosi. C'è una differenza notevole per quanto riguarda invece la valutazione di che cosa questa diagnosi possa significare; perché per Hegel - nello scritto del 1802 come anche poi in seguito - il corrispettivo del dominio del privato è l'etica kantiana, che si fa un vanto di essere priva di contenuto; e sia Kant che Fichte, quale compensazione di questa miseria, presentano modelli utopistici (la pace perpetua, una eventuale trasformazione della natura in Fichte, lo scambio tra diritto privato e diritto pubblico). La prima valida conclusione, insomma, della riflessione di Hegel su questi temi è la crisi del pubblico, la scomparsa del pubblico. Per lo Hegel dei primissimi anni del secolo la salvezza era da ricercarsi soltanto in una violenta iniziativa politica: come Napoleone aveva salvato la Francia dalla catastrofe, così la Germania avrebbe potuto essere salvata soltanto da un Teseo che unificasse le popolazioni e fosse sufficientemente magnanimo da restituire loro poi l'esercizio della libertà. Non ci si può fermare, per ovvie ragioni di tempo, sui vari modelli costituzionali che Hegel elabora in questi anni. Passerei subito, invece, a parlare della Filosofia del diritto. Quest'opera ha una dubbia fama. Abbiamo già detto all'inizio delle recensioni che l'avevano accompagnata: tutte negative. Più tardi venne detta “filosofia della Restaurazione”. E direi che è un'espressione che non è obbligatorio respingere, a patto di chiarire il suo significato. L'espressione è completamente sbagliata, completamente fuori posto, se si intende “filosofia della Restaurazione” nel senso che Hegel volesse proporre il ristabilimento della prassi politica e delle istituzioni politiche dell'antico regime; in questo senso è un'espressione polemica, che vale come espressione polemica. Ma, se pensiamo che i primi anni della Restaurazione sono anche stati quelli della grande discussione sul liberalismo e sulle sue forme nel continente europeo, se pensiamo alla grande discussione che si aprì in Francia, appunto, dopo il 1814 (subito dopo la prima caduta di Napoleone), per continuare intensissima sino alla metà degli anni Venti, ebbene, allora avremo degli elementi che corrispondono in maniera abbastanza cospicua alla mentalità di Hegel. La Filosofia del diritto viene scritta da Hegel avendo ben chiara la caduta dell'ultima grande monarchia militare. Hegel era stato napoleonista, come dicevano i suoi avversari; lo era stato fino a quando era lecito esserlo, cioè praticamente sino alla prima abdicazione di Napoleone. Ebbene, dopo Waterloo, nei primissimi anni della Restaurazione, non si poteva più essere napoleonisti, non solamente perché Napoleone aveva perduto, ma anche perché veniva fuori, un po' dappertutto, la miseria di gran parte del personale del quale l'imperatore si era servito e del quale adesso si parlava in maniera impietosa. Basta guardare quello che accade dall'altra parte del Reno. Non solamente Benjamin Constant, tenace avversario di Napoleone. Ma se noi leggiamo Stendhal - che era stato napoleonista, che era stato funzionario di Napoleone, che è uno degli autori del mito napoleonico -, se leggiamo quello scritto rimasto inedito, la Vita di Napoleone, che cosa troviamo, se non questa quasi costretta constatazione che l'imperatore era un grand'uomo, era stato un maestro di energia, ma che aveva lavorato per nulla, perché il dispotismo era incapace di educare gli uomini liberi? Se pensiamo, per esempio, quanto, in tutta Europa, viene espresso un giudizio analogo sul personale politico dell'impero, che poi si era riciclato nella prima Restaurazione, credo che avremo gli elementi per valutare la posizione di Hegel, che non è quella di un liberale francese o inglese, ma è quella di chi ritiene (e lo riteneva da un pezzo) esaurito l'antico regime, e contemporaneamente non crede più che esso possa essere sostituito da un impero militare amministrativo. Se ci mettiamo in questa ottica, se in questa ottica diciamo Restaurazione, allora non credo sia sbagliato, né offensivo, dire che la Filosofia del diritto può essere letta come un libro della Restaurazione; perché una delle caratteristiche, fra l'altro, della Filosofia del diritto è il riconoscimento, questa volta esplicito, del privato, della sfera del privato, come un'indicazione dei suoi ambiti, delle sue forme, anzi bisognerebbe dire delle sue figure istituzionali. E direi che questo è uno dei punti sui quali l’analogia con il liberalismo, diciamo, di tipo francese (come diceva anche De Sanctis) non funziona più, perché Hegel riconosce il privato, e la sfera del privato, ne parla come dell'ambito dell'individuo, ma contemporaneamente assegna immediatamente l'individuo ad una istituzione: questa istituzione può essere la famiglia, può essere una della istituzioni della società civile; ma pare che l'individuo da solo non sia possibile, non sia quasi nemmeno pensabile. Non solo: l'esercizio dei diritti privati è possibile soltanto nell'ambito di un forte Stato monarchico costituzionale. Ho detto prima: differenze dai francesi e dagli inglesi. Questo invece può spiegare perché Hegel abbia potuto essere considerato il maestro di alcuni liberali, più esattamente nazional-liberali tedeschi e italiani, i quali interpretano in chiave di unità nazionale, e quindi di Stato nazionale, il motivo dello Stato, che in Hegel invece ha un ambito molto più limitato: cioè stato monarchico omogeneo, non obbligatoriamente nazionale. Ma perché questo primato attribuito allo Stato? Si può dare una risposta funzionalistica, che non è strettamente hegeliana, ma può aiutare a capire ciò che Hegel dice. Dunque, il privato si è affermato; esso va valutato positivamente. Il mondo moderno, nelle sue forme socio-politiche - Hegel dice etiche - non è l'erede della grecità; è l'erede del diritto romano, cioè di una figura che, nella sua forma pura, Hegel aborrisce, ma la cui necessità e utilità, come strumento giuridico, Hegel riconosce pienamente. Ed è erede dell'atteggiamento morale, atteggiamento morale che certo è nato con Socrate; Socrate è l'inventore della morale - scrive Hegel nelle Lezioni di storia della filosofia, riprendendo del resto un topos che correva già negli autori greci - però questo inventore della morale era stato giustamente - scrive ancora Hegel - condannato dagli ateniesi, perché egli distruggeva le forme della loro eticità. Insisto su questo, perché non era ovvio assumere come punto di riferimento queste figure da parte di Hegel, data la sua concezione generale. Se volessimo fare una schematizzazione, grossolana come tutte le schematizzazioni, potremmo dire questo. Il mondo greco è caratterizzato dal pubblico senza privato; la sua forma più alta di teoria è la Repubblica di Platone, venuta fuori quando quel mondo era in decadenza irrimediabile, che Platone ha evocato per tentare di arrestare quella decadenza. Roma è il primato del pubblico come dominio; il privato si afferma come rifugio dell'individuo contro l'orrore del puro dominio. Il Medioevo è il dominio del privato; non c'è assolutamente più nulla di pubblico. Il moderno, i suoi tempi, vede il privato conciliato col pubblico, che però, insisto, non può più essere inteso come quello dei greci. Una citazione, dal paragrafo 142 della Filosofia del diritto, illustra il concetto al quale finora sono arrivato per vie preparatorie, cioè il concetto di eticità, con le parole di Hegel: "L'eticità è l'idea della libertà in quanto bene vivente, che ha nell'autocoscienza la sua consapevolezza, la sua volontà, e, mediante l'agire di questa, la sua realtà; così, come questo ha nell'essere etico il suo fondamento che è in sé e per sé e il fine motore, - è il concetto di libertà, divenuto mondo esistente e natura dell'autocoscienza." Parafraso: l'idea della libertà (non si parla della libertà vissuta) ha la sua consapevolezza nell'autocoscienza; ha nella medesima autocoscienza la sua volontà, cioè si manifesta nell'agire volontario, agire volontario che può anche essere sbagliato, nel senso che un comportamento apparentemente ragionevole può dare conseguenze completamente negative; in grazia dell'azione, però, si passa dall'interno all'esterno; una serie infinita di atti volitivi costituiscono un tessuto continuo; tutto questo, a sua volta, ha il suo fondamento e il fine motore (per dirlo alla buona, è sia principio che fine; principio e fine sono poi le condizioni perché ci sia un intero) nel concetto di libertà, divenuto mondo esistente e natura dell'autocoscienza. Qui natura va presa alla lettera (cioè non si può intendere natura come sinonimo di assetto o qualche cosa del genere). Al paragrafo 151 della Filosofia del diritto viene fuori la famosa espressione "seconda natura": seconda natura è un termine di origine remotamente aristotelica, anche se compare soltanto negli scritti spuri di Aristotele; il termine poi adoperato, abitus, vuol dire in parole povere questa "seconda natura". Il mondo della volizione - si può anche interpretare - è il mondo naturale degli uomini; e, in questo senso, è divenuto mondo oggettivo; oggettivo nel senso che le nostre volizioni, come dicevo prima, si sono incrociate con quelle di tutti gli altri nel corso della storia, sono diventate un tessuto rigido, appunto oggettivo. In questo modo, con queste suggestioni, con questi suggerimenti, si è eliminato il dualismo tra mondo della sensibilità, con i suoi impulsi sensibili, e mondo morale, mondo della libertà. Abbiamo una sorta di compattezza, la quale dovrebbe eliminare il rischio di questa contrapposizione e di questa impossibilità di adeguazione tra il mondo sensibile e il mondo morale. Il che non vuol dire, ben inteso, che i problemi che si poneva Kant siano improponibili e che non siano rilevantissimi per l'uomo; tra l'altro, Hegel lo dice infinite volte, la natura dell'uomo è quella di scire bonum et malum, cioè egli diventa un soggetto libero soltanto in quanto ha consapevolezza di poter fare il bene e il male, cioè ha questa possibilità. Non è giusto risolvere il problema contrapponendo il Kant moralista ad uno Hegel immoralista. La questione è un'altra, ed è che non è l'intenzione a costituire il mondo esistente (questa natura oggettiva degli uomini), ma è l'opus operatum, il quale è tanto più corretto quanto più si adegua alla natura nel senso che ho detto, e quindi al livello dello Spirito. E' facile vivere bene - scrive Hegel più di una volta - se si vive in uno Stato, cioè in un contesto etico, retto da buone leggi. Quali siano questa buone leggi Hegel ha cercato di mostrare nella Filosofia del diritto, fermandosi sulle tre figure per eccellenza dell'eticità: la famiglia, la società civile, lo Stato. Credo che queste cose siano tanto note, che io posso procedere in maniera abbastanza schematica, dando soltanto degli elementi epidermici più visibili di altri, sui quali magari poi ci si potrà fermare. La famiglia. Hegel la definisce sostanzialità immediata dello spirito; potremmo anche intendere: rapporto naturale spiritualizzato. Insisterei sul naturale: l'elemento mediatore, contro Kant, non è il contratto, ma è l'amore (che sostanzialmente qui è tutto quello che resta degli inni all'amore che Hegel aveva sparso negli anni della sua prima giovinezza; sostanzialmente, nella sua tarda filosofia, dell'amore noi troviamo traccia laddove si parla della famiglia e, molto vagamente, dove si parla di religione). Nella famiglia i diritti degli individui permangono, sia in senso positivo (i figli, divenuti adulti, si emancipano) che in senso negativo (è ammissibile il divorzio; in una delle sue lezioni Hegel dice che bisogna renderlo difficile, che è esattamente la stessa cosa che disse Napoleone al Consiglio di Stato nel dare il suo parere favorevole al mantenimento del divorzio in Francia, cioè il divorzio va riconosciuto per un sacco di buone ragioni, però il savio legislatore lo rende difficile). Nella famiglia - che, ben inteso, è diretta dall'uomo, e Hegel lo teorizza con pesanti argomenti permangono certe figure dell’antichità, che in Hegel sono piene di significati: parla di Antigone, parla dei Penati; siccome sono espressioni chiave, che riemergono sempre, appena accennate, credo che dobbiamo attribuire loro una certa importanza. Connotato essenziale della famiglia è avere una proprietà. Questa frase ha suscitato curiose e polemiche interpretazioni. Si è scritto, per esempio, che allora Hegel diceva che i poveri non avevano famiglia, cioè che quella dei poveri non era famiglia, perché i poveri non avevano proprietà. Il problema non è questo; oltre a tutto, in questo caso, Hegel, che non aveva proprietà, avrebbe dovuto, appunto, ritenere di vivere senza famiglia; insomma, credo che questa interpretazione non stia in piedi. La questione è un'altra; cioè, quando Hegel parla di proprietà e la assegna come una notazione essenziale alla famiglia, egli intende, e lo dice chiaramente, che l'egoismo dei desideri, cioè l'egoismo - che ciascuno ha - di possedere, diventa etico, perché nella famiglia viene esercitato in funzione degli altri, per l'utilità degli altri, e gli altri sono naturalmente i membri della propria famiglia. Quindi, direi, la famiglia ha questa continua funzione moralizzatrice, nel senso che permette all'egoismo, che è un dato completamente ineliminabile nell'uomo come individuo privato, di avere una sorta di sublimazione, che è volta a questo interesse collettivo. Si può dire che qui Hegel interpretasse la famiglia con molta benevolenza, perché tra i suoi contemporanei - e gli epistolari e i romanzi ne sono pieni - vi sono descrizioni terrificanti di capifamiglia avarissimi che accumulano per sé e non per i propri parenti. Ora, questa sorta di continua elevazione etica, che avviene nella famiglia, subisce un brusco arresto quando dalla famiglia si passa alla società civile. E qui la società civile va veduta sotto due aspetti. Hegel dice, brutalmente: perdita dell'ethos (paragrafo 181). Genesi: la società civile nasce quando la famiglia si allarga, quando la famiglia patriarcale diventa troppo grossa per esser famiglia, ovvero si unisce con altre famiglie; questa, direi, è la genesi abbastanza banale. Perdita dell'ethos qui vuol dire perdita dell'ethos familiare; e del resto altro non c’è. Ma la perdita dell'ethos si ha in una misura che non è più genetica, ma è strutturale; e Hegel esprime questo concetto con una frase molto nota (paragrafo 184) “la perdita dell'eticità nei suoi estremi”. I due estremi dell’eticità quali erano? L'universale e il particolare. E adesso invece accade che questi due estremi si divaricano violentemente e diventano incomunicabili, per cui l'universale diventa il necessario, il particolare diventa l'accidentale. Fuori di questo gergo scolastico, che cosa succede? Succede che, appunto, l'individuo particolare, il quale si dà da fare per vivere e sopravvivere nel mondo, si trova inserito in un contesto tanto articolato, che egli è completamente incapace di padroneggiarlo; di qui la accidentalità della sua forma di esistenza; contemporaneamente, questo contesto ha una sua necessità, che sfugge all'occhio dell'individuo attivo. Che cos'è la società civile? Hegel ne dà una definizione che ha fatto discutere infinitamente: è lo Stato della necessità, per dir così, o del bisogno (Not) e dell'intelletto. Perché dice Stato? E non è un lapsus, perché lo ripete, ribadisce l'espressione. Credo che si possano dare due interpretazioni possibili, non escludentisi. E’ Stato perché - e lo si vedrà nel resto dell'opera - è un settore o una forma subordinata di Stato, esercitante funzioni statali per delega (per esempio l'amministrazione della giustizia, che Hegel attribuisce alla società civile, essendo chiaro che le leggi le fa il potere legislativo e il potere monarchico; quindi non è che la società civile sia fonte di diritto). Ma è anche Stato, secondo l'espressione - anche questa non infrequente in Hegel - nel senso che un Cantone svizzero, o un piccolo Stato italiano pre-Rivoluzione francese, o un piccolo Stato europeo, il Belgio, ma anche un Comune o una Corporazione, che rivendicasse la sua autonomia, sono sì Corpi autonomi, ma non sono Stati in senso politico. Hegel parla, per esempio, un paio di volte, in maniera esplicita, di diritto privato come contrapposto a diritto politico: cioè il contrappeso di “privato” non è “pubblico”, come comunemente si intende, ma è “politico”; pubblico uguale a politico. Quindi l'essenza del politico, per una istituzione, vuol dire capacità di difesa. Un ente che è incapace di difendersi non è uno Stato, molto semplicemente. In questo senso, c'è questa doppia valenza. Lo Stato moderno è tanto forte da delegare le sue funzioni a questo Stato del bisogno o dell'intelletto, che però appunto riceve la delega, non l'ha in proprio. La società civile si struttura in sistema dei bisogni, amministrazione della giustizia, polizia, corporazione. Il sistema dei bisogni non è solo rapporto economico; si potrebbe dire che è l'incivilimento sotto la specie del rapporto economico. Nella Ricchezza delle nazioni di Adam Smith, che è uno dei pochi autori che Hegel cita proprio per illustrare questo punto, c'è un intero libro, che è una vera e propria storia della civiltà (e, di queste storie della civiltà, in buona parte ispirate al modello inglese, dove si insisteva su quelli che noi chiameremmo gli intrecci economici come ciò che ha promosso o prodotto uno sviluppo dell'incivilimento, c'era una certa abbondanza alla fine del Settecento tedesco). Io credo che non sia troppo sbagliato vedere il sistema dei bisogni in questa prospettiva. Amministrazione della giustizia. Esige un diritto positivo in forma di Codice: su questo Hegel è fermissimo. In altri termini, non può valere il diritto consuetudinario, ma il diritto dev'essere scritto e possibilmente completo, i processi devono essere pubblici e devono essere gestiti da Corti di giurati. Nell'amministrazione della giustizia, la società civile si riporta al concetto dell'idea; cioè abbiamo questo fenomeno: mentre si esce dall'idea con l'ingresso nella società civile, adesso si riemerge, ci si riavvicina all'idea. Polizia. Compare il problema della plebe. Più tardi sarà interpretata come proletariato in riferimento alla famosa frase che, nella sua straordinaria ricchezza, la società civile è incapace di rimediare all'altrettanto grande miseria: i rimedi sono commercio estero e colonizzazione. Corporazione. La società civile trapassa nello Stato, dice Hegel espressamente. Verrebbe voglia di dire: la perdita dell'etico si ha al passaggio dalla famiglia alla società civile; il recupero pieno dell'etico si ha con la corporazione, la quale corporazione ha, per altro, una radice etica molto diversa da quella della famiglia. Cioè Hegel spiegherà: corporazione-città; famiglia-campagna. Allora, dal punto di vista politico, la campagna ha una radice e un ethos naturale, mentre la corporazione ha il punto di partenza, e quindi anche un ethos, in certa misura artificiale. Faccio un rapidissimo sommario dei temi dello Stato. Nei primi due paragrafi che trattano dello Stato, Hegel adotta delle espressioni che non sono frequenti sotto la sua penna: virtù politica, sentimento politico, patriottismo; e le adopera nel senso di "condurre una vita universale": questo vuol dire vivere nello Stato. Se poi andiamo a leggere, troviamo una precisazione: la virtù politica non è l'eroismo; è invece la virtù ordinaria, portata a riconoscere la res publica come ragione e fine sostanziale. Cioè c'è questo primo elemento importante, in cui poi, tra l'altro, verremo proprio a ritrovare non soltanto una presa di distanza nei confronti del passato eroico dell'impero, ma anche una presa di distanza nei confronti dei liberal-nazionali più accesi del suo tempo, che volevano appunto il rinnovamento sulla base di gesti clamorosi. Hegel ribadisce: il patriottismo è la vita quotidiana; gli uomini - egli dice preferiscono essere magnanimi che giusti; ma invece bisogna essere giusti. La costituzione politica ha i due lati: interno ed esterno. All'interno divisione dei poteri, ma non autonomia assoluta di essi; in questo Hegel non è liberale in senso classico, perché egli respinge in maniera esplicita la teoria che il potere limiti il potere. L'elenco dei tre poteri ha aperto grosse discussioni, perché è: legislativo, esecutivo, principesco; indi quello principesco viene trattato per primo. Qualcuno ha detto che Hegel si era sbagliato. Altri hanno detto che invece lo faceva perché era un assolutista camuffato. Ma Hegel ne spiega la ragione: nel potere sovrano sono compresi l'universalità della legge - legislativo -, l'applicazione di essa al particolare - governo - , la decisione ultima. Qui bisogna stare attenti. Non mi trattengo su questo modello, in quanto è, direi, una delle cose meno originali della Filosofia del diritto, perché questa concezione è abbastanza corrente in Francia (per esempio nella scuola dei dottrinari) ed è quella della monarchia costituzionale pura (che in Italia abbiamo avuto con lo Statuto albertino). Credo che sia una pura perdita di tempo quella di strologare sulle intenzioni di Hegel, quando qui egli, ripeto, ha un modello che nella vita pubblica europea era perfettamente diffuso - criticatissimo, com'è ovvio, da quelli che volevano lo slittamento della monarchia costituzionale verso la monarchia parlamentare, ma, ad ogni modo, una posizione ampiamente riconosciuta e rispettata. Semmai in Hegel, come forma particolare di accentuazione, c'è l'insistenza sul ruolo del monarca, ruolo che può anche essere ridotto a nulla, può anche essere mera potenzialità. Mettere il puntino sulla i e dire io voglio: a rigore - dice Hegel - in uno Stato ben ordinato, il monarca si limita a far questo. Però la sua figura è essenziale, perché egli ha in sé la decisione (Hegel lo dice proprio: questa parola non l'ha inventata Carl Schmitt; in Hegel è detta in maniera completamente esplicita) e poi perché la persona del monarca è una forma estrema di soggettività, che fa da contrappeso alla soggettività disordinata dei singoli. E qui torniamo a dire: fa da contrappeso al privato. Cioè, ogni singolo tende ad essere sempre più personalità e, per contrappesare queste personalità disordinate, ci vuole una personalità con tutta la forza dello Stato dietro di lei. Le Camere: l'unica cosa di straordinario, o non comune, è che, per il reclutamento della Camera bassa, Hegel non mette condizioni censitarie, ma mette invece condizioni di merito, meritocratiche. Sovranità interna. Anche se non originali, sono pagine estremamente lucide. Hegel presenta argomenti, presenta forme giuridiche non nuove, col proprio linguaggio e con le proprie categorie mentali. Più sua, e famigerata, la dottrina dell'esercizio della sovranità esterna. Sovranità esterna vuol dire potere dell'indipendenza, ma non soltanto. Questa sovranità esterna è il momento della guerra, che Hegel ha indicato come un elemento della conservazione della salute etica del popolo: famosa l'immagine "come i venti che impediscono alle acque di diventare fangose e malsane". Ora, al di là dell'immagine, la possibilità della guerra è l'aspetto per il quale lo Stato diventa un valore, senza rendere servigio ai suoi membri. Hegel lo dice espressamente, a scanso di equivoci: non è vero che si faccia la guerra per tutelare la vita e i beni, anzi è in essa che vita e beni vengono messi in gioco. Ebbene, uno Stato che si ponesse come fine la difesa della vita e dei beni non sarebbe granché diverso dallo Stato francese. In altri termini, la struttura politica interna rischia di perdere la sua peculiarità, se non è accompagnata da quest'altra. Ed è caratteristico che questo rischio è chiamato da Hegel con una parola sacrale: sacrificio per l'individualità dello Stato. Io penso che sarebbe utilissimo che qualcuno facesse una bella ricerca sull'uso del termine sacrificio da parte di Hegel, perché è un termine non frequentissimo, ma che ricorre in situazioni chiave, e credo che ci aiuterebbe moltissimo a chiarire questi aspetti della sua dottrina; perché sacrificio è parola che ha sicuramente un valore sacrale anche in questo caso. E’ caratteristico del resto che Hegel dichiari più di una volta che la religione è utile allo Stato e che lo Stato deve aiutarla, proprio perché essa fornisce allo Stato degli individui che sono già disposti al sacrificio. Ma perché la guerra? Questa è una prima spiegazione, che però credo rilevante per l'interpretazione di Hegel. E inoltre gli Stati sono figure affette da particolarità e quindi contingenti. Più alto, dice Hegel, del loro diritto di sopravvivenza individuale è il diritto dello Spirito del mondo. Se potessimo fare una schematizzazione grossolana, la storia universale corre su due binari: uno è lo sviluppo della civilizzazione, il sistema dei bisogni; l'altro è l'ascesa e la caduta degli Stati e dei popoli (filosofia della storia). Sono due cose diverse, che si intrecciano, come è ovvio: è lo stesso materiale, che si muove; però seguendo due ritmi, che non obbligatoriamente coincidono. Nell'esporre queste teorie sulla costituzione esterna degli Stati, non si deve credere che Hegel dicesse cose che lo potessero rendere popolare; anzi, proprio su questo punto, egli ebbe delle battute sarcastiche dai recensori; ma bisogna anche dire che i suoi difensori si affrettarono a prendere le distanze da lui, cioè o tacquero questo punto scabroso, ovvero lo modificarono tranquillamente, nel senso cioè di dire che il periodo delle guerre in Europa era finito e, per conseguenza, questa valeva come considerazione generale, non valeva affatto come predizione e tanto meno come ricetta per quelli che potessero essere i mali dell'Europa. E credo che Hegel pensasse anche lui esattamente queste cose. Personalmente riteneva - lo sappiamo - che con Napoleone la fase bellicosa della storia europea fosse finita. A preoccuparlo non erano le guerre: erano le rivoluzioni, che per lui nascevano non tanto da motivi sociali, quanto piuttosto dalla instabilità culturale dei paesi cattolici: cioè in Francia, in Spagna, e così via, il liberalismo da un lato, la monarchia dall'altro, non avevano saputo stringere alcun patto, si combattevano a colpi bassi senza nessuna fiducia l'uno nell'altra: ivi era aperta la strada della insicurezza europea. Il che spiega, tra l'altro, le sue sconsolate considerazioni, consegnate in un paio di passi famosi, quando venne raggiunto dalla notizia della Rivoluzione di luglio, che ai suoi occhi, e non solamente ai suoi occhi, rimetteva in gioco tutto l'ordine europeo non per ragioni di espansione militare, ma semplicemente perché c’era il rischio che la rivoluzione, anche questa volta, non si sarebbe fermata nell'ambito di un solo paese. Ma con questo noi dovremmo cominciare a parlare delle idee politiche di Hegel, il che richiederebbe tutt'altro discorso.