Le tirannidi nella Grecia arcaica . Le forme di governo secondo

Le tirannidi nella Grecia arcaica
. Le forme di governo secondo Aristotele
Aristotele, Politica IV
a: Quanto alla tirannide, nel
nostro esame della regalità abbiamo proposto di distinguerne due specie, sia perché la loro natura si avvicina
anche in qualche modo alla natura della regalità, sia perché questa due forme di potere si fondano entrambe
sulla legge (...). Queste due specie sono (...) di tipo regale,
in quanto il monarca regna secondo la legge e col consenso dei sudditi, ma di tipo tirannico, perché il potere
viene esercitato in modo padronale e secondo il proprio
arbitrio. Una terza specie di tirannide è quella che viene
solitamente ritenuta la tirannide per eccellenza, e che corrisponde alla regalità assoluta. In questo genere di tirannide rientra il regime in cui il monarca esercita un potere
senza responsabilità su uomini che sono uguali o superiori a lui in vista del suo proprio interesse, e non nell’interesse dei governati (...).
. La tirannide a Corinto
ERODOTO V : A governare Corinto erano i cosiddetti Bacchiadi, che contraevano matrimoni solo al proprio interno. Uno di loro, Anfione, aveva una figlia storpia di
nome Labda; e poiché nessun Bacchiade voleva sposarla
se la prese Eezione figlio di Echecrate, del demo di Petra.
Eezione non riusciva ad avere figli né da questa donna né
da un’altra; perciò si recò a Delfi per avere consigli sulla
propria capacità di procreare. Mentre entrava nel tempio
la Pizia lo salutò con queste parole: «Eezione, nessuno ti
rende onore, benché tu ne sia assai degno. Labda è incinta e partorirà un macigno, che cadrà su chi ha il potere
e punirà Corinto». La profezia resa a Eezione giunse alle
orecchie dei Bacchiadi; essi non erano riusciti a interpretare un precedente responso su Corinto che coincideva
con quello di Eezione e diceva: «Un’aquila è gravida sulle
rocce, e darà alla luce un leone feroce carnivoro: a molti
piegherà le ginocchia. Rifletteteci bene, Corinzi, che abitate intorno alla bella Pirene e alla ripida Corinto». Il responso precedentemente dato ai Bacchiadi era oscuro,
ma quando appresero quello ricevuto da Eezione subito
compresero anche il primo; ma per il momento non fecero nulla, avendo intenzione di eliminare il figlio di Eezione quando fosse nato.
Appena sua moglie ebbe partorito mandarono dieci
di loro nel demo in cui viveva Eezione, allo scopo di uccidere il neonato. Giunti a Petra, costoro si presentarono a
casa di Eezione e chiesero del bambino. Labda, ignorando
le ragioni della loro venuta e credendo che volessero vederlo per amicizia verso il padre, lo andò a prendere e lo
diede in braccio a uno di loro. Strada facendo essi avevano deciso che il primo ad avere in mano il bambino
avrebbe dovuto scaraventarlo per terra. Ma quando la
donna lo portò e lo diede loro, per sorte divina il neonato
sorrise all’uomo che l’aveva preso, e a questi pianse il
cuore all’idea di ucciderlo. Mosso dunque a compassione,
lo porse al secondo, e il secondo al terzo; e così il bambino passò fra le braccia di tutti e dieci senza che nessuno
si decidesse ad ammazzarlo. Restituirono l’infante alla
madre e uscirono; poi fermatisi sulla soglia cominciarono
ad accusarsi a vicenda, rimproverando soprattutto al
primo che l’aveva avuto in mano di non aver agito come
convenuto. Infine, dopo un po’ di tempo, decisero di rientrare in casa e assassinarlo tutti insieme. Labda, stando
accanto alla porta, udì i loro discorsi, e nel terrore che
prendessero nuovamente il bambino e lo uccidessero
andò a nasconderlo nel luogo secondo lei più insospettabile – una cassa – sapendo che se fossero tornati indietro per cercarlo avrebbero frugato dappertutto. E così fu:
entrarono e perquisirono, ma visto che il bambino era
sparito decisero di andarsene e riferire a chi li aveva mandati di essersi attenuti fedelmente agli ordini. Così raccontarono al loro ritorno. Poi il figlio di Eezione crebbe:
per essere scampato a questo pericolo fu chiamato Cipselo, dal nome della cassetta. Divenuto adulto, Cipselo,
consultando a Delfi l’oracolo, ricevette un responso indiscutibilmente propizio, e confidando in esso attaccò Corinto e se ne impadronì. (...)
Dopo trent’anni di regno compì felicemente il corso
della propria esistenza e gli successe al potere il figlio Periandro. Periandro all’inizio era più mite del padre, ma
dopo essere entrato in rapporto con il tiranno di Mileto,
Trasibulo, divenne ancora più sanguinario di Cipselo. Infatti aveva inviato a Trasibulo un araldo per chiedergli
quale fosse il metodo di governo più sicuro da adottare
per governare i propri concittadini. Trasibulo condusse
l’incaricato di Periandro fuori della città ed entrò in un
campo coltivato: camminando in mezzo alle messi, lo interrogava e reinterrogava sul motivo della sua venuta e
nel contempo recideva tutte le spighe più alte, finché così
facendo non ebbe distrutto la parte più bella e rigogliosa
delle messi. Traversato il campo, congedò l’araldo senza
avergli dato alcun consiglio. Al ritorno a Corinto l’araldo
riferì a Periandro che Trasibulo non gli aveva suggerito
nulla; e aggiunse di stupirsi di essere stato inviato da un
demente, da uno che si autodanneggiava: e gli raccontò
quanto aveva visto fare a Trasibulo. Ma Periandro comprese il messaggio, cioè che Trasibulo gli consigliava di
eliminare i cittadini più eminenti; e a questo punto mostrò per intero ai Corinzi la propria malvagità. Gli assassinî
e le persecuzioni che Cipselo non aveva compiuto, Periandro li condusse a termine.
. Pisistrato di Atene
ARISTOTELE, Costituzione degli Ateniesi
- : Pisistrato,
che godeva fama di uomo quanto mai democratico e si
era coperto di gloria nella guerra contro Megara, si procurò da solo una ferita e persuase il popolo, su proposta
di Aristione, a concedergli una guardia del corpo, dichiarando di avere subito ciò da parte degli avversari politici.
Ottenuti dunque i cosiddetti mazzieri, insieme a loro fece
una rivoluzione contro il popolo e occupò l’Acropoli trentun anni dopo la legislazione di Solone, nell’arcontato di
Comeo (
a.C.). (...)
Pisistrato, preso il potere, amministrò la cosa pubblica
più da concittadino che da tiranno. Ma prima che il suo
potere si consolidasse i partigiani di Megacle e di Licurgo
si misero d’accordo e lo cacciarono nel sesto anno dopo
la prima conquista del potere, durante l’arcontato di Egesia. Ma undici anni più tardi Megacle, soccombendo alla
discordia civile, richiamò Pisistrato a condizione che sposasse sua figlia, e gli restituì il potere in un modo molto
tradizionale e semplicissimo: dopo aver sparso la voce
che Atena stava riconducendo Pisistrato in patria, egli
trovò una donna alta e bella, la travestì da dea e la fece
entrare in Atene insieme a Pisistrato; e questi avanzava su
un cocchio affiancato dalla donna, e i cittadini lo accolsero con venerazione e meraviglia.
. Così avvenne dunque il suo primo ritorno. Ma poi
perse di nuovo il potere, esattamente sei anni dopo il ritorno: infatti non riuscì a mantenersi sul trono a lungo, e
poiché non voleva convivere con la figlia di Megacle fuggì
di nascosto, temendo entrambi i partiti (
a.C.). Dapprima colonizzò una località chiamata Rechelo presso il
golfo Termaico; quindi da lì si trasferì nel territorio del
Pangeo, dove si arricchì e raccolse soldati. Recatosi infine
a Eretria all’undicesimo anno, mise in atto un nuovo tentativo di riconquistare il potere, incoraggiato da molti e
specialmente dai Tebani, da Ligdami di Nasso e dai cavalieri che governavano Eretria. Vinta una battaglia presso
il tempio di Atena Pallenide, conquistò la città, disarmò il
popolo e conservò stabilmente la tirannide (
a.C.); e
dopo aver occupato Nasso, vi pose al governo Ligdami.
(...)
. Pisistrato governava la città con equilibrio, più da
concittadino che da tiranno. Nel complesso, infatti, era
generoso, mite e clemente con chi sbagliava, e inoltre
prestava denaro ai poveri per i lavori, cosicché questi si
guadagnavano da vivere facendo gli agricoltori. Agiva
così per due ragioni: affinché essi non vivessero ammassati in città ma sparsi per la campagna e affinché – godendo di una modesta agiatezza e occupandosi dei loro
affari privati – non desiderassero né avessero il tempo di
occuparsi di quelli pubblici. Contemporaneamente riuscì
anche ad aumentare le entrate grazie al lavoro della terra:
sui prodotti infatti riscuoteva le decime. Perciò creò i giudici dei demi ed egli stesso andava spesso in campagna
a ispezionare e a mettere pace fra i contendenti, affinché
non trascurassero il lavoro per venire in città. Si dice che
fu in occasione di una di tali visite che avvenne l’incontro
fra Pisistrato e il contadino dell’Imetto, nella località poi
detta “campo franco”. Vedendo un tale che scavava e lavorava una terra piena di pietre, si meravigliò e disse al
proprio schiavo di chiedergli che cosa producesse quel
terreno, e il contadino rispose: «Soltanto disgrazie e dolori, e su di esse bisogna dare la decima a Pisistrato!».
Quell’uomo aveva risposto così perché non lo conosceva,
ma Pisistrato, compiaciuto della sua franchezza e laboriosità, lo esentò da ogni tributo. Nemmeno nel resto egli
tormentava il popolo con il proprio governo, anzi gli procurava sempre tranquillità e manteneva la pace; per questo si ripeteva spesso che la tirannide di Pisistrato era
come vivere al tempo di Crono. (...) Ma soprattutto veniva
elogiato il suo carattere democratico e socievole. In genere teneva a governare ogni cosa secondo le leggi,
senza concedersi nessun privilegio; e un giorno, citato in
giudizio per omicidio davanti all’Areopago, si presentò
personalmente per discolparsi, mentre l’accusatore, impaurito, lasciò cadere l’accusa. Perciò rimase a lungo al
potere, e quando venne cacciato lo riprese facilmente. Infatti gli era favorevole la maggioranza dei nobili e dei democratici, giacché gli uni se li conciliava con le relazioni
personali, gli altri soccorrendoli nei loro affari privati; ed
era proprio fatto per piacere a entrambi.
. Pisistrato dunque invecchiò al potere e morì di
malattia sotto l’arcontato di Filoneo (
a.C.), trentatré
anni dopo la sua prima tirannide, rimanendo in carica per
diciannove anni, mentre gli altri li passò in esilio.
. I figli di Pisistrato
TUCIDIDE VI - : (...) Dunque Pisistrato si spense, già vecchio, mentre era tiranno: e a salire al potere, in qualità di
primogenito, fu Ippia, e non Ipparco, come pensa la
gente. Armodio, divenuto sempre più bello, fece innamorare di sé Aristogitone, un Ateniese del ceto medio, e ne
divenne amante; ma contemporaneamente fu oggetto di
pressanti attenzioni anche da parte di Ipparco, il figlio di
Pisistrato, cui però non cedette: anzi rivelò l’intrigo ad Aristogitone. Costui, trafitto dalla gelosia e trepidando al sospetto che facendo pesare la sua potenza Ipparco costringesse il suo amato, nell’impeto dell’ira decise di rovesciare il tiranno con i mezzi che il proprio grado sociale
gli offriva. Frattanto Ipparco, cui nuove premure erano
valse ancor meno a sedurre Armodio, pur essendo intenzionato a non abusare della propria autorità si propose
tuttavia un gesto che nascondesse la propria vera intenzione, quello cioè di umiliarlo e ferirlo. Eccettuato
quest’episodio in complesso il potere di Ipparco parve
più che tollerabile alla maggioranza, ed egli poté esercitarlo salvo da astiosi malumori. Resta da dire che i Pisistratidi, più a lungo di qualunque altra dinastia dominante, applicarono alla propria tirannia i principi dell’integrità morale e dell’intelligenza politica: benché tassassero gli ateniesi solo in ragione di un ventesimo della loro
rendita, conferirono alla città un aspetto urbanistico e architettonico ricchissimo, organizzarono più d’una campagna militare e votarono vittime nei santuari. (...)
. Ipparco, attuando la tattica premeditata, offese Armodio, che aveva disprezzato le sue profferte. Una sua
sorella vergine era stata prescelta dai Pisistratidi a partecipare come canefora a una processione, ma poi essi annullarono l’invito aggiungendo anzi che per quella giovane la convocazione non era mai stata fatta perché ne
era indegna. Il risentimento di Armodio esplose aspro, e
per amor suo vibrò ancor più acuto in Aristogitone. Ogni
dettaglio dell’attentato venne messo a punto tra gli aderenti al complotto. Essi attesero le grandi Panatenee,
un’occasione unica per dei cittadini di assiepandosi in
armi a lato del sacro corteo senza destar sospetti. Il primo
colpo era assegnato ad Armodio e Aristogitone; i compagni avrebbero poi dato man forte bloccando i lancieri di
scorta. Ragioni di prudenza imponevano un limite rigido
alla cerchia della congiura, ma ci si aspettava che anche
chi non ne era al corrente trovasse, in quell’istante cruciale, la spinta a cooperare alla propria liberazione.
. Venne la data solenne: e Ippia, in compagnia dei
lancieri, fuori delle mura, nel cosiddetto Ceramico, distribuiva i vari compiti per procedere a un ordinato svolgimento del sacro corteo. Armodio e Aristogitone, con pugnali alla mano, si avvicinarono al loro bersaglio: ma a un
tratto notarono uno del complotto che conversava confidenzialmente con Ippia – che era di carattere socievole –
e un brivido li scosse. Ipotizzarono subito il tradimento, e
si sentivano già le catene al collo, sicché sui due piedi decisero – se fosse venuto a tiro – di farla pagare comunque
a quell’individuo che li aveva oltraggiati e contro cui, per
vendicarsi, rischiavano la vita. Così come si trovavano
piombarono in città attraverso una porta e si imbatterono
in Ipparco nel quartiere chiamato Leocorio, dove, senza
riflettere (...) lo aggredirono e a pugnalate lo finirono. Aristogitone, per il gran concorso di folla, sfuggì sul momento alla cattura dei lancieri, ma poco più tardi fu arrestato e messo a morte senza pietà. Armodio cadde
all’istante, sul posto.
. Quando Ippia fu raggiunto dalla notizia nel Ceramico accorse non sul luogo dell’uccisione, ma verso gli
armati che scortavano la processione, prima che li si informasse dell’attentato. Compose sul volto un’espressione impenetrabile, estranea alla disgrazia, e indicò loro
una determinata località, con l’ordine di recarvisi subito e
disarmati. Quelli vi andarono, pensando a qualche comunicazione da parte di Ippia; egli invece, dopo aver ordinato ai propri mercenari di chiudere a chiave quelle armi,
separò gli individui sospetti del crimine e chiunque fosse
scoperto in possesso di un pugnale (...).
. Così da una piaga d’amore nacque il primo impulso di Armodio e Aristogitone all’attentato, e per reazione a un fulmineo sgomento quel loro gesto di audacia
irriflessiva; mentre agli Ateniesi, in conseguenza del fatto,
toccò di subire una tirannide più aspra e pesante. Per Ippia ormai la vita era una catena sempre più pesante d’angosce. Si moltiplicarono le esecuzioni capitali, mentre il
tiranno tentava continui approcci con paesi stranieri per
veder di disporre, qui o là, di un asilo fidato, se fosse
esplosa la rivolta. (...). Ippia detenne la tirannide ad Atene
ancora per tre anni, finché, dopo essere stato deposto nel
quarto da Sparta e dai fuoriusciti della famiglia degli Alcmeonidi (
a.C.), si rifugiò con un lasciapassare a Sigeo
e di lì a Lampsaco presso Eantide, donde proseguì alla
volta della corte di Dario. Da lì, diciannove anni più tardi,
partì ormai vecchio per seguire la spedizione persiana
fino a Maratona.
. Cronologia delle tirannidi greche
Tirannidi d’Asia Minore
Mileto: Trasibulo (fine VII secolo a.C.)
Mitilene: Melancro, Mirsilo, Meleagiro
Samo: Demotele (
a.C.); Policrate
Tirannidi greche:
Sicione: Ortagoridi
Corinto: Cipselo (
); Periandro
Atene: Pisistrato (
-
); Ippia (
-
)
Tirannidi occidentali:
Lentini: Panezio (
a.C.)
Agrigento: Falaride (
); Telemaco? (dal
Alcmene e Alcandro; Terone (
); Trasideo (
a.C.)
Gela: Cleandro (
(
)
-
); Ippocrate (
-
);
): Gelone
Siracusa: Gerone I (
); Trasibulo (
); Dionisio I (
); Dionisio II (
); Dione (
);
Callippo (
); Ipparino (
); Niseo (
);
Dionisio II (
); Timoleonte (
)