L`ECCLESIOLOGIA DI BENEDETTO XVI

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L’ECCLESIOLOGIA DI BENEDETTO XVI
“Con Benedetto XVI sarà possibile ritrovare proprio a partire dal magistero pontificio una discussione
profonda e seria sui grandi nodi teologici e storici, sui presupposti che li reggono. Insomma, tutto ciò può
essere definito una decantazione: decantazione del wojtylismo, con le sue feconde complessità, con le
contraddizioni che separavano lo scintillante palcoscenico dal più modesto retrobottega”. Così interpreta
Alberto Melloni gli inizi del pontificato di papa Ratzinger1.
Forse la decantazione sarebbe stata comunque il compito primo del successore di un papa che ha guidato
per ventisette anni la chiesa: ma nel frattempo, mentre in capite si decanta, in membris «la chiesa è
viva», come diceva l'omelia d'inaugurazione del ministero di Benedetto XVI. Viva nelle sue fragilità, nei suoi
tentativi di rendersi accogliente verso il vangelo, intimo e altro, cuore e viandante d'una chiesa viva delle sue
povertà, viva della fame delle folle qui sitiunt ecclesiam.

L’incipit: "Abbiamo creduto all’amore di Dio – così il cristiano può esprimere la scelta fondamentale
della sua vita. All’inizio dell’essere cristiano non c’è una decisione etica o una grande idea,
bensì l’incontro con un avvenimento, con una Persona, che dà alla vita un nuovo orizzonte e
con ciò la direzione decisiva" (n. 1). 2
Viene enunciato qui, come ribadito anche nell’introduzione al convegno diocesano di Roma del 5 c.m., un
principio fondamentale a partire dal quale è possibile cogliere la coerenza interna del pensiero teologico di
papa Ratzinger, quasi l’orizzonte ermeneutico fondante l’intero suo magistero. Affermare che l’esistenza nella
fede ha inizio dall’incontro con la Persona di Gesù, il Risorto e Vivente nella Chiesa significa che la teologia,
come riflessione intelligente e sistematica sull’atto della fede, trova la sua pre-comprensione,
che condiziona ogni suo giudizio e che imprime ad essa una direzione decisiva a partire da
quell’incontro. Che questa sia la natura genuina di un’autentica teologia, come funzione ecclesiale, è stata
una linea costante del teologo, del pastore, del prefetto della Congregazione per la dottrina della fede ed ora
Papa Benedetto XVI, uomo nutritosi da sempre alle fonti della Scrittura, dei Padri apostolici, dei Padri e dei
dottori della Chiesa dei primi secoli e di tutta la Tradizione viva e dinamica, soprattutto liturgica, del primo e
del secondo millennio. Nel giorno dell’insediamento sulla cathedra romana nella Basilica di San Giovanni in
Laterano il 7 maggio 2005, Benedetto XVI tornava di nuovo sulla funzione ecclesiale della teologia: “Così la
Cattedra è il simbolo della potestas docendi, quella potestà di insegnamento che è parte essenziale del
mandato di legare e di sciogliere conferito dal Signore a Pietro e, dopo di lui, ai Dodici. Nella Chiesa, la Sacra
Scrittura, la cui comprensione cresce sotto l’ispirazione dello Spirito Santo, e il ministero dell’interpretazione
autentica, conferito agli apostoli, appartengono l’una all’altro in modo indissolubile. Dove la Sacra
Scrittura viene staccata dalla voce vivente della Chiesa, cade in preda alle dispute degli esperti.
Ma la scienza da sola non può fornirci una interpretazione definitiva e vincolante; non è in grado di darci,
nell’interpretazione, quella certezza con cui possiamo vivere e per cui possiamo anche morire”.
Il posto che la teologia occupa all’interno della Chiesa viva nella Tradizione è stata espressa dal papa stesso
nella lettera in occasione del centenario della nascita del teologo svizzero Hans Urs Von Balthasar “Egli aveva
fatto del mistero dell'Incarnazione l’oggetto privilegiato del suo studio, vedendo nel triduum paschale - come
significativamente intitolò uno dei suoi scritti - la forma più espressiva di questo calarsi di Dio nella storia
dell’uomo. Nella morte e risurrezione di Gesù, infatti, viene rivelato in pienezza il mistero dell'amore trinitario
di Dio. La realtà della fede trova qui la sua bellezza insuperabile. Nel dramma del mistero pasquale, Dio vive
pienamente il farsi uomo, ma nel contempo rende significativo l'agire dell'uomo e dà contenuto all'impegno
del cristiano nel mondo. In questo von Balthasar vedeva la logica della rivelazione: Dio si fa uomo, perché
l'uomo possa vivere la comunione di vita con Dio. In Cristo viene offerta la verità ultima e definitiva alla
domanda di senso che ognuno si pone. L'estetica teologica, la drammatica e la logica costituiscono la
1
A. Melloni, L’inizio di papa Ratzinger, Giulio Einaudi editore, 2006.
2
Benedetto XVI, Lettera Enciclica “Deus Charitas est” (n. 1)
-1-
trilogia, dove questi concetti trovano ampio spazio e convinta applicazione... Hans Urs von Balthasar è stato
un teologo che ha posto la sua ricerca a servizio della Chiesa, perché era convinto che la teologia poteva
essere solo connotata dall'ecclesialità… chi ha parlato del cristianesimo più adeguatamente di Cirillo di
Gerusalemme, di Origene nelle sue omelie, di Gregorio Nazianzeno e del maestro della riverenza teologica:
l'Aeropagita? Chi oserebbe aver da eccepire su qualcuno dei Padri? Allora si sapeva che cosa fosse lo stile
teologico, l'unità naturale, ovvia, tanto tra l'atteggiamento di fede e quello scientifico quanto tra
l'oggettività e la reverenza. La teologia finché fu opera di santi, rimase teologia orante. La spiritualità non
attenua la carica scientifica, ma imprime allo studio teologico il metodo corretto per poter giungere a una
coerente interpretazione”3.
Questa unità naturale tra l’atteggiamento di fede e quello scientifico, che per il credente è ovvia, può essere
interpretata nella cultura laica come integralismo o fondamentalismo, e quindi come pericolo incombente
sulla autonomia della ricerca scientifica o sulla laicità della vita politica. In tale interpretazione si è
attestato di recente il noto filosofo italiano Umberto Galimberti, il quale a partire da un opinabile
affermazione del Papa, in visita ad Auschwitz circa l’attenuazione delle responsabilità del popolo tedesco
nell’immane tragedia causata dal nazismo perché non si possono ignorare le differenti pre-comprensioni di
allora giunge ad affermare che “dalla pre-comprensione non si può uscire. E’ allora opportuno, come
consiglia Gadamer4, abitarlo consapevolmente e non arroccarsi in esso come capita a chi non ne è
consapevole”5.
L’orizzonte ermeneutico o pre-comprensione a partire dal quale si muove il pensiero cristiano è
la profonda unità tra ordine della natura e ordine della grazia, tra creazione e redenzione, tra
ragione e fede, e che tale unità dei distinti si è pienamente svelata nell’Amore di Dio in Gesù Cristo. Tale
punto di partenza del pensiero cristiano va sempre precisato, per evitare equivoche interpretazioni. Tuttavia
ciò non nega né la legittima autonomia della scienza né la laicità della vita politica, anzi le pone in un
rapporto di feconda e reciproca creatività. Nel pensiero del teologo Ratzinger è presente come costante, a
partire dal 1970, il convincimento che la cultura occidentale dominante ha fallito nel suo tentativo di mettere
tra parentesi la questione Dio, quasi fosse un ostacolo al processo di sviluppo e di liberazione dell’uomo.
Tuttavia “chi osserva la costellazione odierna della storia, dovrà per lo meno ridiventare molto pensieroso a
questo riguardo. La situazione odierna è determinata dalla contrapposizione di positivismo (forma nuova
del liberalismo) e di marxismo, visto come politica profezia di salvezza: tra questi due si combatte la lotta
per l'uomo; filosoficamente ciò avviene, ad esempio, come lotta tra il neopositivismo di Popper e la scuola di
Francoforte. Se il positivismo può dimostrare a tutte le filosofie marxiste che esse sono teologie
segrete, che non possono essere verificate nei fatti, il marxismo può dimostrare al positivismo che la sua
oggettività è senza una regola e senza meta. Ma la vera soglia, in cui l'uomo si interroga su se stesso,
alla ricerca del suo perché e della sua strada, non è varcata né da una parte né dall'altra. In ultima analisi,
non si fa che parlare di potere e di consumo … Mi sia permesso concludere con un'osservazione abbastanza
pratica. Nelle annotazioni della sua prigionia, Bonhoeffer ha osservato un giorno che oggi anche il cristiano
dovrebbe vivere quasi Deus non daretur come se Dio non esistesse. Egli non dovrebbe coinvolgere Dio nelle
faccende della sua vita quotidiana e dovrebbe plasmare la sua vita terrena con personale responsabilità. Io,
invece, vorrei dire proprio il contrario: oggi, anche colui per il quale l'esistenza di Dio ed il mondo della fede
sono diventati oscuri, dovrebbe vivere praticamente quasi Deus esset vivere come se Dio realmente
esistesse. Vivere sotto la realtà della verità, la quale non è un nostro prodotto, ma è nostra
signora. Vivere sotto il modello della giustizia, che noi non pensiamo da soli, ma è la potenza
che misura noi stessi. Vivere nella responsabilità nei confronti dell'amore, che ci attende e ci
ama. Vivere sotto la pretesa dell'eterno. Chi, infatti, vive attentamente lo sviluppo, capirà che questa è
3
Benedetto XVI, Lettera in occasione del centenario della nascita del teologo svizzero Hans Urs Von Balthasar, 6 ottobre 2005.
4
Gadamer, in Verità e Metodo, cita senza indicare la fonte una frase di Lutero come esemplificativa del problema ermeneutico: ”quis
non intelligit res, non potest ex verbis, sensum eligere”, in realtà per il Riformatore la res è l’esperienza di Dio, in Cristo crocifisso,
che ne costituisce dunque la pre-comprensione.
5
U. Galimberti, Il relativismo di Ratzinger, in La Repubblica del 2 giugno 2006.
-2-
l'unica maniera in cui l'uomo può essere salvato. Dio - lui solo - è la salvezza dell'uomo; quest'incredibile
verità, che per molto tempo ci è sembrata qualcosa di teorico e di irraggiungibile, è divenuta la formula più
pratica di questa nostra ora storica” 6.

L’urgenza: Il nuovo papa ha dato fin dagli inizi assoluta priorità ai temi ecclesiologici
L’urgenza o addirittura l’emergenza drammatica è presente con tratti fortissimi fin dall’omelia nella messa
concelebrata dai Cardinali elettori "pro eligendo Romano Pontifice" pronunciata dal card. Decano Ratzinger.
In essa commentando un passo della lettera agli Efesini sui ministeri, i carismi nella Chiesa e sulla "misura
della pienezza di Cristo", cui i cristiani sono chiamati ad arrivare per essere realmente adulti nella fede egli
affermava:”Non dovremmo rimanere fanciulli nella fede, in stato di minorità. E in che cosa consiste l’essere
fanciulli nella fede? Risponde San Paolo: significa essere "sballottati dalle onde e portati qua e là da qualsiasi
vento di dottrina…" (Ef 4, 14). Una descrizione molto attuale! Quanti venti di dottrina abbiamo conosciuto in
questi ultimi decenni, quante correnti ideologiche, quante mode del pensiero... La piccola barca del
pensiero di molti cristiani è stata non di rado agitata da queste onde - gettata da un estremo
all’altro: dal marxismo al liberalismo, fino al libertinismo; dal collettivismo all’individualismo
radicale; dall’ateismo ad un vago misticismo religioso; dall’agnosticismo al sincretismo e così
via. Ogni giorno nascono nuove sette e si realizza quanto dice San Paolo sull’inganno degli uomini,
sull’astuzia che tende a trarre nell’errore (cf. Ef 4, 14). Avere una fede chiara, secondo il Credo della Chiesa,
viene spesso etichettato come fondamentalismo. Mentre il relativismo, cioè il lasciarsi portare "qua e
là da qualsiasi vento di dottrina", appare come l’unico atteggiamento all’altezza dei tempi odierni. Si va
costituendo una dittatura del relativismo che non riconosce nulla come definitivo e che lascia come ultima
misura solo il proprio io e le sue voglie.” I toni drammatici qui evocati pongono in rilievo il relativismo non
tanto e solo come problema dell’odierna filosofia,quanto piuttosto come ambiente culturale che influenza
anche la Chiesa iniettandovi quel soggettivismo e quell’individualistico della religione del fai- da- te da cui
traggono origine ogni giorno nuove sette. C’è in Ratzinger la consapevolezza dell’autodissolvimento della
Chiesa nelle cosiddette nuove chiese libere, senza dogmi e senza istituzioni ministeriali o gerarchiche
soprattutto nell’emisfero sud del mondo 7. Questa drammatica situazione esige una fede adulta e matura,
che sappia porre al centro l’unità della Chiesa, nella verità e nella carità. Già nel discorso del preconclave il futuro papa va delineando quella che diventerà la priorità assoluta del suo pontificato: “Questa
fede adulta dobbiamo maturare, a questa fede dobbiamo guidare il gregge di Cristo. Ed è questa fede - solo
la fede - che crea unità e si realizza nella carità…In Cristo, coincidono verità e carità. Nella misura in cui ci
avviciniamo a Cristo, anche nella nostra vita, verità e carità si fondono. La carità senza verità sarebbe cieca;
la verità senza carità sarebbe come "un cembalo che tintinna" (1 Cor 13, 1).
Tale linea prioritaria viene immediatamente riaffermata nella sua prima allocuzione ai cardinali nella Cappella
Sistina il 20 aprile del 2005: “Con piena consapevolezza, pertanto, all’inizio del suo ministero nella Chiesa di
Roma che Pietro ha irrorato col suo sangue, l’attuale suo Successore si assume come impegno primario
quello di lavorare senza risparmio di energie alla ricostituzione della piena e visibile unità di tutti i
seguaci di Cristo. Questa è la sua ambizione, questo il suo impellente dovere. L’attuale Successore di
Pietro si lascia interpellare in prima persona da questa domanda ed è disposto a fare quanto è in suo potere
per promuovere la fondamentale causa dell’ecumenismo. Sulla scia dei suoi Predecessori, egli è pienamente
determinato a coltivare ogni iniziativa che possa apparire opportuna per promuovere i contatti e l’intesa con i
rappresentanti delle diverse Chiese e Comunità ecclesiali”.
6
J. Ratzinger, A che scopo ancora il cristianesimo? In Lebendige Kirche, Koeln, 1972; cfr. anche il libro Glaube und Zukunft, Munchen
7
Si vedano le inquietanti previsioni fatte da Philip Jenkins, in La terza Chiesa, Il cristianesimo nel XXI secolo, Roma, Fazi Editore, 2004,
1970, in particolare la sezione: «Come si presenterà la chiesa nell'anno 2000», pp. 107-125.
edizione in inglese del 2002.
-3-

La bussola del Concilio Vaticano II
Sempre nella stessa allocuzione ai cardinali nella cappella Sistina, Benedetto XVI afferma di voler proseguire
sulla strada del Concilio, definendo tale evento con le parole di Giovanni Paolo II “bussola” con cui
orientarsi nel vasto oceano del terzo millennio (cfr. Lett. ap. Novo millennio ineunte, 57-58). Nella stessa
omelia egli afferma il modo e la forma della collegialità episcopale come costitutiva della Chiesa stessa:
“Come Pietro e gli altri Apostoli costituirono per volere del Signore un unico Collegio apostolico, allo stesso
modo il Successore di Pietro e i Vescovi, successori degli Apostoli, - il Concilio lo ha con forza ribadito (cfr
Lumen gentium, 22) -, devono essere tra loro strettamente uniti. Questa comunione collegiale, pur nella
diversità dei ruoli e delle funzioni del Romano Pontefice e dei Vescovi, è a servizio della Chiesa e dell’unità
nella fede, dalla quale dipende in notevole misura l’efficacia dell’azione evangelizzatrice nel mondo
contemporaneo”.

La Collegialità episcopale come principio di comunione fra le chiese nella Chiesa universale
Su tale argomento J. Ratzinger aveva già scritto all’indomani avvenuta la approvazione della Costituzione
Dogmatica Lumen gentium in un ampio contributo dal titolo “La collegialità episcopale dal punto di vista
teologico” 8. In tale saggio teologico, Ratzinger dopo aver fugato la diffidenza che il termine collegio aveva
suscitato nella teologia cattolica, per l’uso egualitarista ed anti istituzionale che ne avevano fatto i giuristi
protestanti egli ne recupera il senso pieno ed autentico alla luce della viva tradizione della Chiesa, presente
nel linguaggio della liturgia nel quale «collegio» è una parola corrente per esprimere (al livello della Chiesa
universale o delle Chiese particolari) sia la comunità apostolica, sia la comunità del vescovo e dei presbiteri,
sia la comunità dei vescovi”. Il capitolo III della Costituzione sulla Chiesa ha mandato ad effetto questo
proposito prendendo come idea direttiva la nozione della struttura collegiale dell'ufficio episcopale. Il
ministero petrino e la dottrina del primato doveva essere integrata nell’insieme della collegialità del ministero
episcopale. Ciò fu fatto dal Concilio Vaticano II attraverso la comprensione della Chiesa come
Communio, l’importanza della Chiesa locale (patriarcato) e della Chiesa particolare o episcopale (diocesi). Il
ministero petrino in un’ecclesiologia di comunione trova nella communio del collegio episcopale
l’ambito proprio in cui si esercita il primato. Qui la nozione di collegialità si incontra con la nozione di
successione apostolica e di cattolicità come dimensioni essenziali della Chiesa. Essa non ha come punto di
riferimento soltanto il vescovo di Roma, ma anche gli altri vescovi: il capo e gli altri membri del collegio. Non
si può mai avere comunione col papa solo, ma essere in comunione con lui significa necessariamente essere
«cattolico» ossia stare parimenti in rapporto di comunione con tutti gli altri vescovi, che appartengono alla
«Cattolica». In altre parole: se il criterio della collegialità esige la pace col vescovo di Roma come
presupposto della piena collegialità, proprio in questa esigenza essa include esplicitamente la dimensione
orizzontale dell'essere cattolico, ossia la comunione dei vescovi tra loro.

La ecclesiologia di comunione
Servendo all'unità della comunione nella Chiesa e avendo cura di mettere in rapporto di comunione la Chiesa
particolare con le altre Chiese episcopali e, al vertice, con la Chiesa di Roma, il vescovo serve ad una
esigenza essenziale della comunione stessa, che è voluta dal Signore come vincolo dell'unità, e soltanto
quando essa è realizzata conserva la sua interna legittimità. Proprio perché è un ufficio di comunione esso
non rappresenta semplicemente un incarico di organizzazione esterna, ma è compimento della stessa realtà
sacramentale. Da ciò, - dunque, qualcosa appare sulla natura dell'unità della Chiesa e della Chiesa in
generale. La natura dell'unità della Chiesa si delinea nei quattro concetti: communio - collegium caput membra, che troviamo uniti nel secondo membro della proposizione in cui si definisce l'appartenenza al
collegio episcopale. Nella combinazione di questi concetti appare quale è l'asse proprio dell'unità: la
8
In AA.VV. La Chiesa del Vaticano II, Vallecchi Editore, Firenze 1965, pp 733-760.
-4-
«communio» sia nel suo pieno significato spirituale di comunione nel corpo e col corpo del Signore, sia
come comunione gerarchica da realizzarsi nella forma obbligatoria della comunione della Chiesa
gerarchicamente ordinata. Questo concetto include già la pluralità delle «comunioni» locali o, per
dirlo con la lingua della Chiesa antica, la moltitudine delle Chiese (locales, episcopales), ed esclude
già che si possa stabilire l'unità sulla base della sola relazione col «capo». Questa esige, piuttosto,
la struttura ordinata del collegio come rappresentanza delle Chiese e della loro interna comunione 9. Si noti
come il linguaggio con cui si esprimono i testi conciliari e l’esposizione che ne fa il giovane perito Ratzinger
riflette un ritorno costante alle fonti patristiche e dunque in qualche modo viene riconosciuta anche nella
teologia cattolica l’importanza normativa del primo millennio. Anche tutta la dottrina del Vaticano I sul
primato del Vescovo di Roma va letta all’interno di tutta la tradizione. Tale cammino è indicato dallo stesso
Vaticano I, quando nel proemio alla costituzione dogmatica Pastor aeternus il Concilio dichiara la sua
intenzione di interpretare la dottrina secundum antiquam atque universalis Ecclesiae fidem ,10 cioè secondo i
criteri della apostolicità (antiquam) e della cattolicità (universalis). Esso fa perfino appello al consenso tra
la Chiesa d’Oriente e d’Occidente11. Tali indicazioni esprimono un criterio ermeneutica che è valido per ogni
concilio: la Chiesa è la stessa in tutti i secoli e in tutti i concili. Per questo ogni concilio deve essere
interpretato nell’insieme di tutta la Tradizione.

La comunione ecclesiale nella tradizione apostolica fondamento e fine ultimo del dialogo
ecumenico
La ecclesiologia di comunione del primo millennio rafforza la legittimità delle tradizioni
particolari delle Chiese orientali12, riconoscendo che esse possono governarsi da sole secondo la legge
loro propria 13. L’importanza normativa del primo millennio è stata ampiamente riconosciuta nella teologia
cattolica, al punto che J. Ratzinger, nella conferenza tenuta a Graz nel 1982 afferma “ Per ciò che riguarda la
dottrina del primato, le rivendicazioni di Roma nei confronti dell’Oriente non devono essere più di quelle
formulate e vissute nel primo millennio”14.
Non si tratta di regredire ad un ecumenismo del ritorno, né possiamo rimettere indietro l’orologio della
storia; si tratta piuttosto di interpretare gli eventi del secondo millennio alla luce del primo per dischiudere le
porte del terzo. Il Vaticano II ha cominciato a fare questo interpretando il Vaticano I nel più ampio orizzonte
dell’ecclesiologia di comunione. Una ricezione analoga da parte delle Chiese orientali non è purtroppo ancora
avvenuta. Tale ricezione non implica né una accettazione meccanica o una sottomissione dell’Oriente alla
tradizione latina. Implica piuttosto che integrando l’altra tradizione nella propria e viceversa, si potrebbe
pervenire a differenti forme ed espressioni nell’esercizio del ministero petrino come è avvenuto
nel primo millennio e come avviene oggi nelle Chiese orientali in piena comunione con Roma. Introducendo il
simposio teologico tra cattolici ed ortodossi il Card. Kasper nel 2003 affermava “Nutro la speranza che al pari
di quanto avvenuto nel primo millennio, il ministero petrino possa assumere una forma che, sebbene
esercitata in maniera diversa in Oriente ed in Occidente, possa essere riconosciuta da entrambi nell’ambito di
un’unità nella diversità e di una diversità nell’unità” 15. Questa speranza è divenuta tangibile nel cuore della
chiesa con gli inizi del ministero petrino di Benedetto XVI il quale il 29 giugno del 2005 salutando la
delegazione della Chiesa ortodossa di Costantinopoli, guidata dal Metropolita Ioannis, inviata dal Patriarca
ecumenico Bartolomeo I, ha affermato: “Anche se ancora non concordiamo nella questione
dell'interpretazione e della portata del ministero petrino, stiamo però insieme nella successione
9
10
J. Ratzinger, o.c. p. 142.
DH 3052.
11
DH 3059.
12
Unitatis redintegratio, 14.
13
Ibid. 16.
14
J. Ratzinger, Die oekumenische Situation, Munchen 1982, p. 209.
15
W. Kasper, Il ministero petrino, cattolici ed ortodossi in dialogo, Città Nuova ed. Roma 2004, p. 28.
-5-
apostolica, siamo profondamente uniti gli uni con gli altri per il ministero vescovile e per il
sacramento del sacerdozio e confessiamo insieme la fede degli Apostoli come ci è donata nella
Scrittura e come è interpretata nei grandi Concili. In quest'ora del mondo piena di scetticismo e di
dubbi, ma anche ricca di desiderio di Dio, riconosciamo nuovamente la nostra missione comune di
testimoniare insieme Cristo Signore e, sulla base di quell'unità che già ci è donata, di aiutare il mondo perché
creda. E supplichiamo il Signore con tutto il cuore perché ci guidi all'unità piena in modo che lo splendore
della verità, che sola può creare l'unità, diventi di nuovo visibile nel mondo ”.

La Chiesa episcopale: cattolicità e apostolicità
Il tema ecclesiologico invita ripensare anche all'essenza della funzione del ministero episcopale in un periodo
in cui il sogno di una chiesa puramente «carismatica» e «fraterna» pone un forte interrogativo su ufficio e
istituzione. Il termine «vescovo» è derivato dalla parola greca «episkopos», che risale al Nuovo Testamento.
Il termine prosegue la tradizione del pastore biblico ed colui che detiene questo ufficio è chiamato
all'imitazione del «buon pastore» Gesù Cristo. Ciò comporta preoccupazione, vigilanza, cura dell'unione di
tutto il gregge al richiamo della voce del padrone; significa responsabilità per l'unità e per l'unità in Cristo;
egli ha un ruolo costitutivo per inserimento dei fedeli nella chiesa apostolica universale e per la
loro unione con la totalità. Ciò significa che nessuno può essere cristiano per sé solo, ma soltanto
insieme con gli altri, con la comunità vivente dei credenti; così pure nessuna comunità, nessuna comunità
regionale da sola può essere chiesa. Lo può soltanto nell'apertura all'universalità e grazie all'inserimento
nella tradizione apostolica, della quale sono garanti gli apostoli e i loro successori. “ Usando le classiche
parole del Credo si può affermare che sono componenti necessarie della chiesa sia la cattolicità che
l'apostolicità: la Chiesa non esiste soltanto qui ma su tutta la terra;la chiesa non c'è soltanto oggi, ma ieri
e domani. Soltanto dove sono accolte ambedue queste esigenze, l'unità con gli altri, con la totalità e la unità
con coloro che credettero prima di noi, l'unità con la chiesa di tutti i tempi, lì esiste veramente chiesa”. 16
Espressione e garanzia di questa relazione è l'ufficio dei vescovi. Ma anche il compito di ogni singolo cristiano
riceve luce da qui. La cattolicità infatti, rappresentata dal vescovo, riguarda un pò ogni individuo e può
quindi avere un significato pratico soltanto se viene condivisa dai singoli. Essa pretende che noi, nella
nostra fede, siamo ovunque e sempre aperti agli altri. Ciò significa di nuovo che ogni chiesa vescovile
deve guardare al di là di se stessa e deve portare frutto, affinché la parola di Dio penetri in nuove zone. Il
miglior modo di conservare se stesso è il portar frutto per gli altri.

La chiesa e il mondo contemporaneo - Costituzione pastorale Gaudium et spes
A dieci anni dalla celebrazione del Concilio, il teologo Ratzinger in una conferenza del 1966 cercava di
valutare la recezione di tale evento in rapporto al mondo contemporaneo partendo dall'entusiasmo ovunque
suscitato dal termine aggiornamento, usato da Giovanni XXIII per indicare la finalità del concilio stesso. La
particolare speranza, che sorse dalla parola aggiornamento, era appunto quella che venisse dissolto
l’anacronismo tra la Chiesa e il mondo. Il concilio lo fece, cercando di dare alla liturgia una forma più chiara
e comprensibile; si sforzò di distinguere nella chiesa l'essenziale dall'accessorio e di provvedere, in
corrispondenza, anche ad una trasposizione di questi criteri nella Costituzione sulla chiesa; cercò infine, nella
Costituzione pastorale sulla chiesa nel mondo contemporaneo, di toccare i problemi specifici dell'uomo di
oggi e di riportare nella sua situazione sia la missione che la speranza cristiana. In questo lavoro il concetto
di «mondo» si pose ovviamente al centro delle riflessioni. Già prima del concilio si era diffusa l'idea che il
cristiano d'oggi dovesse essere «aperto al mondo». Se questa richiesta sta in un primo momento si era
presentata come un'attitudine morale, era stata ben presto immersa nell'ontologia: la moderna
secolarizzazione del mondo non sarebbe solo un prodotto pratico della fede cristiana nella creazione e nella
16
J. Ratzinger, articolo scritto nel 1972, per il decimo giubileo episcopale del vescovo di Regensburg.
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incarnazione, ma corrisponderebbe in linea di principio anche al suo essenziale orientamento. Su tali
presupposti si muoveva la teologia della secolarizzazione17. Il cristiano dovrebbe volere il mondo come
qualcosa di mondano (e non di sacrale, di numinoso e di divinizzato) per rimanere fedele all'incarico datogli
dal Dio che ha creato il mondo come mondo ed ha spezzato in Cristo i legami sacrali, sostituendo con la sua
vita e la sua sofferenza il culto del tempio, mettendo al posto dei sacramenti del tempio i servitori della
parola, e della gioia. Ma qui l'ottimismo della teologia della secolarizzazione si scontrava
duramente con le parole della Scrittura, che parlano del mondo in termini molto diversi; se molti erano
disposti a giudicare erroneo l'atteggiamento finora assunto dalla storia cristiana o per lo meno a ritenerlo
puramente legato al suo tempo, sorgeva invece il problema di come mantenere salda la fede degli apostoli.
Da qui è nata ciò che nel concilio si era manifestato come forza del conservatorismo. Sotto la minaccia,
istintivamente avvertita, di una totale falsificazione e di un crollo inevitabile dei valori sinora dominanti, ci si
rifugia in ciò che si ritiene come specificamente cattolico: in una pietà mariana che si alimenta a visioni e
miracoli, in una lotta gretta per la lettera della vecchia liturgia ecc. Solo cosi si pensa di poter conservare
l'identità cattolica. Non si deve sottovalutare ciò che anche qui opera come autentica forza religiosa. È
grande, tuttavia, il pericolo di un chiudersi in forme che portano alla settarietà. È un pericolo chiaramente
riconoscibile là dove si accusa lo stesso Vaticano II di eresia e si abbandona quindi la strada indicata
dal contesto ecclesiastico-universale.

Il modello della chiesa aperta all’universalità come risposta alla nuova situazione
La chiesa è sempre e soltanto l'unica chiesa, in tutti i luoghi e tuttavia una chiesa si forma in un luogo e qui
trova la sua più diretta e concreta realizzazione (chiesa locale). Le conferenze episcopali sono strumenti
utili per vivificare le strutture ecclesiale e per inserire ed aprire le molteplici e specifiche possibilità dei singoli
popoli nella chiesa universale. Là, dove una comunità si chiude in se stessa e si ritiene autosufficiente e dove
dei singoli gruppi nazionali percorrono indipendentemente la loro strada dimenticano di essere chiesa
soltanto nella totalità e nella tensione ad essa. Il vivere nell'universalità è quindi il criterio basilare per
decidere se una comunità si raduna nel nome i Cristo ed è quindi chiesa. La regola fondamentale per essa è
la sua non-chiusura, la sua non-autonomia, la sua apertura verso il tutto della chiesa. Il suo criterio è la
volontà di non essere qualcosa di particolare, ma di incorporare in questo luogo l'unica chiesa, che è
dappertutto identica e soltanto così è se stessa. Essa diviene e si esperimenta come modello della
chiesa aperta. Nella ingarbugliata disputa sulla chiesa del futuro, sulla chiesa nell'epoca della tecnopoli i
caratteri essenziali della cattolicità e dell’apostolicità fanno sì che la chiesa locale non si chiuda in una
speciale forma di esistenza comunitaria, ma che si conosca e viva come chiesa della stazione, proprio
come chiesa aperta degli uomini non integrati18. In mezzo all'anonimità, che deriva dalla mobilità, essa
comprende se stessa come l'unica chiesa che abbraccia tutti gli spazi della mobilità umana e si offre ovunque
come l'unica istituzione che è patria in ogni regione straniera. Questa disponibilità a considerarsi
incessantemente la chiesa aperta, che non si divide in gruppi linguistici ed etnici, ma è a disposizione
dell'universalità in quanto presenza dell'universale in questo luogo è di importanza fondamentale ed è anche
17
I suoi primi passi vanno visti in quella teologia del mondo, che J. B. Metz ha sviluppato da una fusione del tomismo, reinterpretato in
senso trascendentale-filosofico da Karl Rahner, con quella visione del mondo, per la quale Friedrich Gogarten si era ispirato a Lutero.
Nell'incontro con Ernst Bloch, questa teologia del mondo è stata prima mutata in teologia della speranza e poi, logicamente, in teologia
politica. Oggi, da queste prime impostazioni, andando molto oltre i maestri, è derivato un pragmatismo riformatore generale, distinto in
differenti correnti, il quale sfocia in un movimento senza veri grandi nomi. Proprio questa mancanza di un volto fa sì che tale movimento
si presenti come potere dell'unica vera modernità, che si fonde sempre più con la generale tendenza neomarxista e perciò non è
propriamente una forza veramente critica nella società, una forza dalla quale possa derivare una speranza, per quanto tenti di
raccomandarsi sotto l'etichetta della speranza e della critica” (ibidem)
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Il riferimento è all’esperienza dell’Unione per la protezione della giovane, sorta nella stazione di Monaco e Colonia per opera di Padre
Frohlich e della contessa Preysing e successivamente rifondata a Regensburg. Il testo è una sintesi del discorso tenuto da J. Ratzinger a
Monaco il 25-4-1970 nel 75° anno di tale fondazione.
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un contributo del tutto specifico della chiesa al chiarimento dei problemi del nostro tempo; la mobilità da
sola non crea alcuna unità, cosi come la concentrazione da sola non opera alcuna comunicazione.

Un modello per la responsabilità e la libertà del laico
La forma, in cui oggi viene portata avanti nella chiesa la cosiddetta scoperta del laico, va spesso nella falsa
direzione. Per teologia del laico si intende oggi spesso la lotta per un nuova e democratica partecipazione
al governo della comunità ecclesiale, ciò che è una vera contraddizione in termini. “Il laico infatti o è laico
o non lo è. Una teologia del laico, che viene portata avanti come lotta per la proporzione nel governo della
chiesa, è una caricatura di se stessa e rimane tale anche se questo malinteso viene ammantato con il
concetto di una direzione sinodale della chiesa” 19. E purtroppo questo non è soltanto uno sbaglio della
teoria, ma una deviazione delle forze nella chiesa ed un fallimento nei confronti del loro compito; quando la
teologia diventa teoria della politica ecclesiale e lotta per partecipare al governo della chiesa, la forza d'urto
va solo verso l'interno di essa. La chiesa si occupa soltanto di se stessa e così logora se stessa. La forza, che
le è stata concessa proprio per servire, per essere presenza per altri, viene impiegata nella lotta per
dominare e per tenere in moto se stessa. Ma una chiesa che capisce e vive rettamente se stessa non guarda
a sé, ma si allontana da sé ed opera per gli altri. Il laico dimostra la sua libertà e la sua necessità nel fare ciò
che la chiesa deve fare, ciò che è una necessità per essa e ciò che, tuttavia, può accadere in essa soltanto se
viene fatto liberamente, per libera iniziativa. E noi oggi abbiamo urgentissimo bisogno proprio di
abbandonare l'autogestione ecclesiale e di rivolgerci agli uomini che ci aspettano. La vera libertà
e la vera necessità del cristiano che vive nella fede di Cristo, senza incarico ecclesiastico, consiste anche oggi
nel portare avanti con decisione e temerarietà iniziative di giustizia e di carità, anche se il trend non ne sa
nulla e il magistero ecclesiastico non le incoraggia eccessivamente. Allora e soltanto allora la chiesa si
conserva come la forza del futuro, che non viene superata dalla società in marcia verso la tecnopoli, ma
viene anzi richiesta nuovamente da essa.
La chiesa in sé e in quanto tale non è affatto un istituto sociale d'assistenza e neppure una scuola secondaria
popolare. Essa può, in via sussidiaria e in situazioni convenienti, sostenere il compito di produrre le iniziative
necessarie, che aiutano l'uomo ad essere in grado di percorrere la sua strada nella società moderna; la
chiesa lascerà tali iniziative non appena il servizio sussidiario ha raggiunto il suo scopo. Essa
non può cambiare il suo messaggio con un servizio sociale, però la forza di questo messaggio lascerà
sempre dietro a sé delle nuove iniziative sociali, così come essa supera la portata di queste iniziative per
tendere a quella maggiore grandezza che sarà e rimarrà un'esigenza dell'uomo anche nella società tecnica.
Nell'imitazione di Dio, che ha creato di persona la realtà ed è entrato in Gesù Cristo persino nella positività
della vita e del soffrire umano, essa deve lottare piuttosto per la realizzazione del compito principale, di
svelare cioè agli uomini la loro fratellanza e di vivere proprio di questa scoperta. Il credente dovrebbe
essere spinto dall'irrequietezza di uno scopritore, che deve render nota la sua conoscenza,
sovvertitrice della storia, la deve far accettare e portare ad una realizzazione pratica.

L’eredità del concilio: a che punto siamo?
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Il dibattito sulla eredità del Vaticano II non può oggi esser condotto unicamente sulla base dei testi ma è
necessario rifarsi a quelle forze che hanno propriamente reso possibile e preparato il Vaticano II, ma sono
state subito travolte da un'ondata di modernità, con la quale quelle forze potevano venir confuse solo grazie
ad un errore madornale. Si tratta di una teologia e di una pietà, che si fondano essenzialmente sulla Sacra
Scrittura, sui padri della chiesa e sul grande patrimonio liturgico della chiesa tutta. Al concilio,
questa teologia si era adoperata per alimentare la fede non solo al pensiero dell'ultimo secolo, ma alla
19
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J. RATZINGER - H. MAIER, Demokratie in der Kirche, (Limburg 1970).
J. Ratzinger, Monaco 1973, in Dogma e Predicazione, 358 -359.
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grande corrente di tutta quanta la tradizione, così da rendere quella fede più ricca e più viva, ma al tempo
stesso anche più semplice e più aperta. “Per il momento questo tentativo sembra fallito; esso è
rimasto impotente di fronte ai più accessibili programmi, che da allora si sono posti come alternativa.
Malgrado ciò, crescenti indizi fanno pensare che l'impulso di questa teologia non sia andato a vuoto. Molti
sono i sintomi che fanno sospettare una sua ripresa e qui, a mio giudizio, sta la speranza della nostra
situazione presente. Dopo tutti i trastulli di liturgie autonomamente elaborate, noi avvertiamo l'insorgere
della nuova esigenza di un profondo e personale incontro con Dio e di un culto, il quale faccia veramente
conoscere la presenza dell'Eterno. Esperimentiamo la nostalgia degli uomini per Gesù Cristo e per quel
semplice gesto, che si apre francamente all'agire dello Spirito Santo, non per fuggire dal mondo, ma per
potergli dare qualcosa di più di nuovi problemi. Mi pare che alcuni uomini incomincino a capire sempre
meglio che il mero pragmatismo di una riforma strutturale della chiesa trascura proprio ciò che dovrebbe
esser dato veramente agli uomini; in verità, il fanatismo di quanti propugnano una riforma della struttura è
un nuovo clericalismo, un egoismo clericale che non si cura dell'uomo e si preoccupa primariamente dei
propri interessi... Io credo che siffatte esigenze, apparentemente moderne, non sorgano in persone che,
sono realmente contemporanee del nostro oggi e della sua afflizione. Sorgono in persone che sono
ancora profondamente radicate nel passato e vivono col complesso del loro esser sorpassate. Si
sentono visibilmente oppresse dalla solida armatura del mondo ecclesiale, in cui sono cresciute, e cercano
disperatamente di liberarsene. Si rivoltano contro quel mondo, che però da tempo non esiste più per la
maggior parte degli uomini. Il loro grido nasce, per buona parte, dal fatto che essi non sono affatto in
sincronia col presente. Infatti, il problema dell'uomo di oggi non è quello di essere oppresso dai
cosiddetti tabù sacrali; il suo problema sta nel vivere in un mondo di una profanità senza
speranza, dove egli è inesorabilmente programmato fino nel tempo libero. La vera oppressione, che
abbiamo alle calcagna, non è più l'ordinamento della chiesa, ma la totale programmazione che, in ogni
libertà borghese, ci degrada sempre più a funzionari di un sistema anonimo e ci porta una metà
alla disperazione, l'altra metà all'asfissia… Solo chi vive ancora nell'ieri sente la fede come
un'oppressione,come un pericolo. Solo chi vive ancora nell'ieri, deve opporsi al futuro. Chi si toglie di dosso
l'ieri e si trova assegnato al nudo oggi, scopre che il mondo ha bisogno del sacro. Le sue notti buie
chiedono di Dio. Ed egli sa che la fede ha un futuro. Non il futuro dei funzionari e della programmazione
neoclericale, ma il futuro di Dio. Il futuro del mistero, della fede, della preghiera, della vera liturgia con la
sua poesia derivante dall'Eterno. L'eredità del Vaticano II non è ancora ridestata. Essa attende la
sua ora. E questa verrà, ne sono certo.”

Il ministero petrino di Benedetto XVI: il pastore e il pescatore
I primi passi e i primi gesti significativi del papa Benedetto XVI si collocano nella scia della antica ed
universale tradizione della chiesa apostolica dei primi secoli, quasi un riandare alle sorgenti ed alle radici del
ministero petrino, prima che le controversie teologiche e le contrapposizioni politico-ideologiche
dissolvessero la communio eccclesiale. Essi hanno un sapore di antico e nello stesso tempo hanno la
capacità di schiudere sereni orizzonti di speranza per la chiesa e per il mondo. Il linguaggio usato è quello
antico e sempre nuovo dei simboli, della liturgia, dei padri della chiesa. Tale linguaggio biblico e patristico ha
il fascino del sacro, del bello, del sublime e più che a definire qualcosa intende aprire orizzonti di significato
in cui si vive nel tempo il mistero trascendente di Dio. Il 24 aprile 2005 nell’omelia pronunciata durante la
liturgia dell’inizio del suo ministero petrino il papa non ha fatto discorsi programmatici, anzi si è presentato
provocatoriamente come uno che non ha programmi. Del resto è rimasto deluso anche chi si attendeva dalla
sua prima enciclica linee programmatiche generali; Benedetto XVI ha più volte espresso da cardinale il
convincimento che se si fossero realizzati anche solo un millesimo degli immensi programmi pastorali
elaborati nel dopo concilio dalla Conferenze episcopali e dalle diocesi il mondo sarebbe del tutto convertito al
vangelo! D’altronde intere biblioteche di produzione cartacea stanno davanti a noi fatti di progetti pastorali
senza anima che hanno dato sempre più l’immagine di una chiesa-azienda con organigrammi e piani di
sviluppo, analisi sociologiche e utilizzo di risorse umane. Anche chi si attende una riforma semplicemente
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strutturale della curia romana io penso che rimarrà deluso da papa Ratzinger: egli anche in questo, come
ebbe a dire il Card. Martini, ci stupirà perché non seguirà criteri di politica ecclesiastica né di mera
opportunità o funzionalità. Egli l’ha fatto intendere fin dall’inizio del pontificato quando, anziché discorsi
programmatici cosiddetti di largo respiro, egli si è limitato a presentare semplicemente i due segni con i quali
viene significato il ministero del vescovo di Roma fin dal IV secolo: il pallio e l’anello.
Il primo segno il pallio, tessuto in pura lana, che viene posto sulle spalle può essere considerato come
un’immagine del giogo di Cristo, che il Vescovo di Roma il Servo dei Servi di Dio, prende sulle sue spalle.
Inoltre la lana d’agnello di cui è tessuto intende rappresentare la pecorella perduta o anche quella malata e
quella debole, che il pastore mette sulle sue spalle. “Una delle caratteristiche fondamentali del pastore deve
essere quella di amare gli uomini che gli sono stati affidati, così come ama Cristo, al cui servizio si trova.
“Pasci le mie pecore”, dice Cristo a Pietro, ed a me, in questo momento”. Il secondo segno è la consegna
dell’anello del pescatore. La chiamata di Pietro ad essere pastore fa seguito alla narrazione di una pesca (Gv
21, 11). Sia nell’immagine del pastore che in quella del pescatore emerge in modo molto esplicito la
chiamata all’unità della Chiesa. (Gv 10, 16 - Gv 21, 11). Benedetto XVI ha concluso l’omelia con queste
parole: “Fa’ che siamo un solo pastore ed un solo gregge! Non permettere che la tua rete si strappi ed
aiutaci ad essere servitori dell’unità”. Lontano da una concezione pragmatica della Chiesa e da una
concezione semplicemente funzionale del ministero petrino papa Ratzinger si presenta con la semplicità
disarmante della liturgia, che esprime la realtà sacramentale della Chiesa, che è in Cristo “ segno e strumento
dell’intima comunione con Dio e dell’unità di tutto il genere umano.” 21
Battista Angelo Pansa
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Lumen gentium,1
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