P E R C O R S O T E M AT I C O ANNIBALE, IL GRANDE NEMICO Nel cercare i pericoli aveva moltissima audacia, nel mezzo dei pericoli moltissima prudenza; nessuna fatica poteva fiaccare il corpo di Annibale o sopraffare il suo animo; sapeva tollerare in ugual misura il caldo e il freddo; nel mangiare e nel bere si regolava in base al bisogno naturale, non al piacere della gola. Era di gran lunga il primo dei cavalieri e nello stesso tempo anche dei fanti; il primo a scendere in battaglia, l’ultimo a ritirarsene. Queste eccezionali virtù erano pareggiate da enormi vizi: una crudeltà disumana, una grande malafede, nessun senso del vero né del sacro, nessun timore degli dèi, nessun rispetto per i giuramenti, nessuno scrupolo di coscienza. TITO LIVIO, Storia di Roma, XXI, 4 Il nemico monocolo La seconda guerra punica, la guerra che più spaventò i Romani, fu dominata da un solo, grande protagonista: Annibale. Questo geniale comandante, che per quasi diciassette anni seppe a mettere a dura prova le forze romane, è passato alla storia come uno dei più abili generali dell’antichità, ma anche come un uomo spietato e sleale. La storia, come si sa, è scritta dai vincitori, e pertanto quando ci si imbatte in grandi figure di nemici vinti non è sempre facile ricostruire la verità dei fatti accaduti. Secondo un’antica tradizione l’odio di Annibale per i Romani risalirebbe a una promessa fatta al padre, prima di partire per la Spagna: tenendo una mano sopra a un altare il giovane Cartaginese avrebbe solennemente giurato che mai sarebbe stato loro amico. Per i Romani Annibale fu infatti il nemico per eccellenza, un nemico così forte e terribile che a un certo punto si trasformò nelle loro menti in una forza diabolica, in un mito negativo: una sorta di dea della vendetta, una Furia con aspetto umano, scesa in Italia per vendicare il sacrificio di Didone, la regina punica abbandonata da Enea. Nei racconti degli storici romani la sua figura si colora così di un alone magico e perverso: Annibale è il capo da un occhio solo (l’occhio l’aveva perso vicino a Pistoia), guerriero e stregone, che supera le Alpi, e poi la barriera dell’Appennino (il vero e sacro limite dell’Italia per i Romani), perché gode dell’appoggio di demoni oscuri, dotati di straordinari poteri; la sua forza militare si basa sull’inganno, sull’uso senza scrupoli dell’astuzia, della slealtà, e le sue vittorie sono seguite da atti di brutale crudeltà, che non mostrano alcun rispetto per i nemici vinti. © 2009 SEI - Torino In verità dietro questi pesanti giudizi si nasconde una realtà assai complessa. La seconda guerra punica infatti non fu solo il conflitto tra due grandi schieramenti (i Romani da una parte e i Cartaginesi dall’altra), ma fu anche lo scontro tra due diverse culture e, soprattutto, tra due diversi modi di concepire la guerra. Molti degli elefanti che accompagnarono i Cartaginesi nella spedizione in Italia morirono durante la traversata delle Alpi. L’uso degli elefanti è una delle poche caratteristiche degli eserciti ellenistici che fu conservata da Annibale (Napoli, Museo Archeologico). Annibale, il grande nemico E R C OlaR società, SO TEM TICO GliPeventi, la Acultura PERCORSO TEMATICO La “slealtà” di Annibale Annibale nacque a Cartagine, verso il 247 a.C., da una potente famiglia cartaginese. All’età di soli nove anni seguì il padre, il generale Amilcare Barca, in Spagna e così crebbe nel campo dell’armata punica. Questi primi anni furono molto importanti per la formazione del futuro condottiero: sotto la guida attenta del suo maestro, lo spartano Sosilo, Annibale fu indirizzato allo studio delle opere di storia militare; imparò così presto a conoscere non solo le campagne di Alessandro Magno, ma anche ogni più recente sviluppo nel campo della strategia e della tattica. Uno dei suoi modelli fu Santippo, generale spartano al servizio dei Cartaginesi, che alcuni anni prima aveva distrutto non col valore, ma grazie all’abilità tattica l’esercito del console Attilio Regolo. Su questi insegnamenti Annibale basò la grande riforma delle sue truppe, quando, morto il padre e poi il cognato Asdrubale, assunse all’età di venticinque anni (221 a.C.) il comando dell’esercito cartaginese. Le armate cartaginesi, a differenza delle legioni romane, non erano un esercito omogeneo: in genere erano costituite da mercenari di origine barbarica, uomini abituati a tecniche di combattimento diverse. Con il suo intuito militare Annibale comprese che, per riuscire ad avere un esercito forte, occorreva sfruttare queste caratteristiche, rinnovando profondamente la fanteria pesante libica – il cuore dell’esercito punico – in funzione dei requisiti delle altre truppe. Alle lance, che richiedevano un combattimento in formazioni serrate e un esercito allenato alla disciplina, sostituì le spade, tipiche dello scontro ravvicinato e della lotta corpo a corpo; inoltre divise le truppe in reparti più piccoli, paragonabili ai manipoli delle legioni romane, che trasformarono l’esercito annibalico in una struttura più libera e veloce rispetto alla rigida e pesante falange ellenistica e meno condizionata dalla natura del terreno. Percorso tematico Annibale sapeva infatti che per riuscire a vincere i ben più numerosi, ma lenti eserciti romani, aveva bisogno di una forza dotata di una straordinaria capacità di manovra. Agli eserciti romani, composti prevalentemente da fanterie e dunque legati allo scontro frontale, oppose così una forte cavalleria, addestrata non solo a compiere azioni di sostegno sui campi di battaglia, ma anche a preparare imboscate, azioni di guerriglia o di copertura e missioni esplorative. Alla cavalleria fu in genere affidata la manovra d’attacco: così accadde a Canne, dove la sua azione di aggiramento accompagnò i movimenti della fanteria fino al completo accerchiamento delle legioni romane. Ma Annibale non fu solo uno straordinario conoscitore di tattiche belliche (tanto che le sue battaglie sono state studiate – fino al secondo conflitto mondiale – in ogni accademia militare e in ogni scuola di guerra), ma da vero genio militare, fu anche un eccezionale stratega, maestro nel saper valutare l’importanza del terreno e delle condizioni climatiche nello svolgimento delle battaglie o per preparare imboscate. Tuttavia agli occhi dei Romani i suoi metodi apparvero scorretti. Per la classe dirigente romana di quest’epoca la guerra è ancora un confronto faccia a faccia, tra due contendenti; per questo, come le gare sportive, deve essere regolata da norme rigide e precise, che hanno lo scopo di garantire la correttezza dello scontro. In ogni guerra la vittoria deve essere assegnata all’avversario migliore, al più valoroso, e deve essere conquistata nella battaglia in campo aperto e non “rubata” con insidie ed espedienti. Con la seconda guerra punica questa morale fu completamente stravolta dalle azioni di guerra puniche: di qui l’accusa di malafede e di slealtà rivolta ad Annibale. La fides romana venne così contrapposta alla “perfidia” punica. Questa moneta punica, coniata in Spagna, è forse uno dei pochi ritratti di Annibale (Barcellona, Gabinetto Numismatico di Cataluña). © 2009 SEI - Torino La traversata delle Alpi ha colpito la fantasia di molti artisti. In questo quadro il pittore inglese W. Turner (1775-1851) immagina che una terribile bufera di neve rallenti l’avanzata delle truppe di Annibale. L’opera cela probabilmente un’allusione a Napoleone, che come Annibale iniziò la campagna in Italia dopo il passaggio delle Alpi (Londra, Tate Gallery). Annibale, il semita Ma se per gli storici romani Annibale rimane il grande nemico, esaltato e demonizzato insieme, la figura del generale cartaginese acquista un nuovo carattere fortemente negativo verso la fine del XIX secolo. Sono questi gli anni in cui gli storici europei, in particolare francesi e tedeschi, discutono vivacemente sull’origine della cultura europea: il dibattito, che divide gli studiosi in due gruppi, contrappone i sostenitori delle civiltà semitico-orientali a quelli delle civiltà ariano-indoeuropee. Poiché la discussione coinvolge sia i Cartaginesi (come popolo di origine semitica) sia i Romani (come popolo indoeuropeo), Annibale si trasforma, per i più accesi sostenitori delle tesi indoeuropee, nel rappresentante tipico del mondo orientale (fraudolento e avido, raffinato e crudele, spregiudicato e corrotto), destinato inevitabilmente ad essere sconfitto dai più forti, sani e “virtuosi” Romani. Questo assurdo contrasto di sapore razzista tra “buoni” (i Romani) e “perfidi” (Annibale e i Cartaginesi) viene ripreso dalla propaganda fascista che si servì anche delle guerre puniche per giustificare la sua nuova e aggressiva politica coloniale. Nel 1937 fu infatti realizzato il © 2009 SEI - Torino celebre film Scipione l’Africano, nel quale al condottiero romano si contrappone l’immagine “tenebrosa” del grande Cartaginese. Mussolini aveva ben capito il potere del cinema, nuovo mezzo di comunicazione utilizzato per la propaganda di regime. Significativa la scena di massa costruita dal regista Carmine Gallione sul set di Scipione l’Africano: la grandezza di Roma rivive nel fascismo e nel suo Duce. Annibale, il grande nemico