16. Gli 007 dei Romani I servizi segreti sono sempre esistiti, almeno da quando gli uomini hanno fatto quel passo fatale di razionalizzare la più irrazionale delle attività umane: la guerra. I soli che non avevano bisogno delle spie sono stati i mongoli, che applicavano la tecnica corleonese – con otto secoli di anticipo sui siciliani – di spargere il terrore prima della battaglia. Come i loro scout apparivano in cima alle colline, i governatori della città si affrettavano a consegnare le chiavi, sapendo perfettamente quale sarebbe stata la loro sorte in caso di resistenza. Ma questo disinteresse per le notizie che riguardavano i nemici era solo apparente. I mongoli sapevano benissimo chi avevano di fronte nelle battaglie e mostreranno sempre una conoscenza assoluta dei territori che stavano per attraversare. Credere che l’orda mongola fosse una massa eterogenea di ululanti ed esaltati cavalieri, priva di qualsiasi ordine e gerarchia, è costato molto caro a un’infinità di eserciti. Nei loro continui spostamenti attraverso la steppa, i mongoli acquisivano indirettamente una serie di notizie che i popoli stanziali non avevano. E quello che mancava, lo trovavano nei grandi mercati dell’Asia centrale, frequentati da pastori, mercanti, soldati con le facce di cuoio, dello stesso colore dei loro stivali, e che provenivano dalle più estreme latitudini del continente. Nell’antichità si diceva che anche i romani si servivano poco dei servizi segreti. Storici come Tito Livio sono stati molto attenti a creare il ritratto del romano del buon tempo antico come un contadino laziale semplice e duro, cortese ma sbrigativo, che detestava i fronzoli e l’eccesso di ricchezza. Le legioni romane erano riuscite ad ottenere un’impressionante serie di vittorie attraverso l’uso della pura forza. Andavano lente e sicure e i loro ingegneri costruivano poi le strade pensando alla marcia dei legionari. Nei primi secoli della Repubblica nessuno pensava, almeno pubblicamente, che servizi d’informazione più celeri potessero essere molto utili. E anche i soldati non 1 erano professionisti e non vedevano l’ora di tornare ai loro campi. Ma doveva contare anche la scarsa fiducia dei romani verso chi faceva la spia di mestiere, sia pure per lo Stato. È un’attitudine ereditata dagli italiani che continuano a diffidare di qualsiasi persona si aggiri nei meandri dei servizi: non hanno tutti i torti a leggere le cronache nere nell’Italia democristiana, ora aggiornata ai nuovi fenomeni politici, in cui quello che rimane non dico di morale ma di dignità è molto vicino allo zero. Testardi com’erano, i romani impararono la lezione molto tardi, solo quando erano andati vicinissimi alla catastrofe. Questa volta avevano di fronte non i ducetti locali o re greci della decadenza, ma il più grande tattico che si fosse mai visto sul campo. Il racconto di come Annibale affiancasse la sua abilità a manovrare in battaglia gli eserciti ad una serie fantasiosa e geniale di interventi non guerreschi è uno dei pregi del libro Guerra segreta dell’antica Roma (Libreria Editrice Goriziana, pagg. 482, euro 26) scritto da Rose Mary Sheldon, una storica della guerra molto attendibile e stimata, insegnante al Virginia Military Institute. Già prima di venire in Italia Annibale aveva preparato un sistema di spionaggio che gli permetteva di sapere una quantità di cose sull’esercito romano. È stato in base a queste informazioni che sfruttò il dissidio tra i due consoli Quinto Fabio Massimo e Minucio Rufo, riuscendo a metterli uno contro l’altro. Questa fiducia nella soffiata come arma primaria per la difficile guerra che stava sostenendo esigeva un controllo accurato e anche spietato dei soffiatori, come poi farà Giulio Cesare nelle Gallie, costringendoli a passare sotto il duro screening dei centurioni. Quando le guide di Annibale capirono male i suoi ordini e lo portarono sulla Casilina invece che a Cassino, il cartaginese fiutando il tradimento li fece crocifiggere senza pietà. Annibale non è stato il primo ad inventarsi la guerra psicologica, ma è stato uno dei più tempestivi a servirsene. In precedenza, appena giunto in Italia, il primo atto fu quello di ingraziarsi i paesi italici assicurando che non aveva attraversato le Alpi per combattere i locali, ma per liberarli da Roma. Quando Fabio Massimo, detto il Cunctator, cominciò a metterlo in difficoltà con la sua tattica di rinviare lo scontro finale per usurare le truppe nemiche, Annibale 2 rispose incendiando i terreni che circondavano la proprietà del generale romano, ma senza che questa venisse toccata. Il Cunctator, già non popolarissimo a Roma, cominciò a essere guardato con sospetto. Bisogna aspettare la conquista delle Gallie e un militare della personalità di Giulio Cesare perché Roma si scuotesse dal suo provincialismo e creasse un’organizzazione informativa all’altezza delle sue ambizioni. L’efficienza e la velocità di Cesare erano due tra le sue più apprezzate caratteristiche. Nell’esercito che sconfisse i Galli un’enorme importanza era data alla ricognizione del terreno, perché il comandante romano voleva sempre partire da una posizione vantaggiosa: non era solo una posizione attiva favorevole, ma un’iniezione di fiducia nei soldati che sarebbero andati a combattere con la certezza di vincere. Il lavoro di ricognizione era svolto dagli «esploratores», che avevano il diritto di conferire direttamente con il capo supremo, così come facevano gli «specualtores», un termine che comprende i messaggeri e le spie. Da allora i romani hanno continuato a ritenere finalmente i servizi informativi una branca vitale per uno stato bellico e imperialista come quello romano. Ma i buoni propositi, secondo la Sheldon, non si sono poi concretizzati in comportamenti adeguati. Tutti i grandi fallimenti e le grandi sconfitte dei romani sarebbero da attribuire alla mancanza di uno spionaggio all’altezza dello scontro futuro, come la sparizione delle legioni romane nella selva di Teutoburgo o l’annientamento dell’esercito guidato da Crasso a Carre, in territorio persiano. Questa mi sembra una considerazione discutibile. Senza volersi perdere nel dibattito senza fine, che riguarda l’epoca romana solo di rimbalzo e che negli ultimi trent’anni è stato incentrato sul ruolo delle decrittazioni dei messaggi in codice, credo che le due famose catastrofi siano state causate dall’assenza totale di leadership. Sia a Carre che a Teutoburgo le legioni avevano alla loro testa due cretini leggendari, che si comportarono adeguandosi perfettamente alla loro fama. Anche lo sbarco di Giulio Cesare in Britannia, che la Sheldon definisce quasi un insuccesso, la defaillance dei servizi informativi c’entra poco. Il generale andava di carriera o non aveva avuto 3 tempo di prepararsi con la necessaria tempestività, come faceva sempre. Ma si può essere sicuri che, se la lunga mano del caso da lui stesso direttamente controllata non lo avesse dirottato molto più ad Oriente, sarebbe certamente ritornato nelle isole oltre la Manica, e invece degli anglosassoni, ci saremmo ritrovati altri latini. (Stefano Malatesta, James Bond al tempo dei Romani, “La Repubblica” 15 maggio 2008) 4