GLI SVILUPPI DEL POSITIVISMO IN FRANCIA: EMILE DURKHEIM (Capitolo 9) La sociologia di Emile Durkheim (1858-1917) è tutta fortemente influenzata dai problemi della Francia del suo tempo: egli, cittadino francese di origine ebraica ed alsaziana, si identifica a fonto con la Terza Repubblica che si forma dopo la guerra perduta con la Prussica nel 1870 e i disordini interni e le lotte di classe che sfociano nel clamoroso episodio della Comune di Parigi (1871). Egli fu sempre attratta dal positivismo e dalle scienze esatte i cui mediti volle estendere alle scienze sociali. Studiò a Parigi, poi in Germania e, negli anni, si fece sempre più assertore della necessità di una sociologia concepita come scienza empirica ed esatta. Nel 1893 discusse la tesi di dottorato su La divisione del lavoro sociale, destinata a diventare una tra le sue opere più famose. Nel 1896 fondò la famosa rivista “L’année sociologique”. Egli dunque visse la sua giovinezza in una Francia uscita sconfitta dalla guerra e ciò comportava sentimenti nazionalistici di rivincita che egli condivideva pienamente. Inoltre la situazione era resa precaria dai conflitti di classe che erano poi sfociati nei massacri della guerra civile. La Terza Repubblica, democratica, laica e anticlericale, che era sorta imponendosi sui tentativi monarchici di restaurazione e su quelli rivoluzionari della Comune, aveva l’esplicito compito di ristabilire un nuovo ordine politico e di rinforzare l’economia della nazione sulla base dei principi borghesi: non è un compito facilee praticamente come non lo è neanche da un punto di vista teorico perché l’ordine presuppone dei limiti agli individui che il sistema economico borghese, basato sulla libera concorrenza e sul non intervento dello stato nelle attività economiche, non può che rifiutare. Il problema dell’ordine costituisce il tema centrale della sociologia durkheimiana: egli non solo si propone questo scopo ma lo fa scendendo sullo stesso piano degli economisti classici, cioè, appunto della divisione del lavoro. Non solo, egli vuole anche dimostrare che anche in una società fondata sulla libera concorrenza e sull’individualismo esiste un elemento non riducibile al contratto individuale e agli egoismi dei singoli: si tratta della solidarietà. Essa è presente ed è il fondamento di ogni società, anche di quella basata sulla concorrenza e sul contratto. Durkheim si ricollega alla tradizione del positivismo compiano, che a sua volta aveva a fondamento il compito di ristabilire l’ordine messo in crisi dalla Grande Rivoluzione pur condannando come impossibili i tentativi reazionari: Durkheim si pone lo stesso compito in relazione alla Francia del suo tempo. Tanto Comte quanto Durkheim si opponevano all’individualismo e vedevano nella solidarietà sociale un valore superiore a quello del singolo e a cui quest’ultimo si doveva sottomettere. La critica agli economisti classici, costituisce, paradossalmente, il punto comune di pensieri tra loro tanto diversi quanto quello di Marx da un lato e Comte e Durkheim dall’altro. Durkheim rimprovera all’economia politica di aver creduto che l’unica realtà sia l’individuo dal quale tutto promana e al quale tutto ritorna. 1 A Comte riconosce il merito di aver colto come la società sia una realtà sui generis che non può essere ridotta alla somma degli individui che la compongo ma muove ad esso la critica fondamentale secondo cui la sua sociologia è in realtà ancora filosofia perché egli non ha saputo comprendere che “non esiste La società ma esistono Le società” : esistono una pluralità di società e la sociologia come scienza deve indagare attraverso ricerche specifiche, società e problemi particolari. Durkheim a Comte riconosce il merito di aver avvertito la necessità di una scienza naturale della società contro le precedenti speculazioni astratte; a Spencer riconosce il carattere più analitico della sua sociologia (però Comte è superiore a Spencer perché ha compreso il carattere sui generis e di superiorità della società contro i vari tentativi individualistici). Entrambi sono rimasti però filosofi in quanto hanno voluto forzare i fatti entro un’unica legge generale anziché muovere da ipotesi più specifiche e verificarle poi empiricamente. Durkheim, dunque, fa dipendere l’individuo dalla società e sostiene che non vi può essere moralità al di fuori di ogni regola sociale. La moralità non si identifica con la libertà individuale ma ha bisogno, al contrario, di un potere regolatore esterno, che si trova nella società. Nell’opera La divisione del lavoro sociale (1893) egli considera la società come dotata di un certo, pur mutevole e imperfetto grado di solidarietà, di integrazione, di “consensus” (come diceva Comte). Il consensus, per Comte consisteva nel buon funzionamento dell’insieme, nello stato di salute di una società in cui ogni sua singola parte agisca in armonia con le altre per il buon andamento dell’insieme e non si tratta di un atteggiamento psicologico in quanto esso agisce come forza autonoma rispetto all’individuo. La solidarietà, per Durkheim deriva dall’idea comtiana di consensus ed è strettamente collegata ad essa: la società non può esistere senza un minimo di solidarietà ed essa non è semplicemente la somma di individui che agiscono mossi dal tornaconto egoistico. “Riunendosi in una forma definitive e attraverso legami durevoli, gli uomini formano un essere nuovo che ha una sua natura e sue specifiche leggi: è l’essere sociale. I fenomeni inerenti ad esso hanno senza dubbio le loro radici ultime nella coscienza dell’individuo ma la vita collettiva non è però una semplice immagine ingrandita della vita individuale. Essa ha caratteri sui generis che le sole induzioni della psicologia non permettono di indagare.”. Durkheim distingue due forme di solidarietà: a) la solidarietà meccania - caratteristica delle società semplici, in cui la divisione del lavoro è scarsa. Gli individui che vivono in essa svolgono funzioni lavorative scarsamente differenziate (è fondata sulla identità delle funzioni delle sue parti) ed essi hanno poche possibilità di sviluppare personalità autonome. In essa vi è poco individualismo e la coscienza collettiva prevale su quella individuale. Durkheim definisce tale solidarietà “meccanica” proprio per mettere in evidenza che le parti di essa sono fondamentalmente simili le una alle altre nella loro realtà e nelle loro funzioni. Man mano che la popolazione cresce e si ha, come dice Durkheim, un aumento della “densità morale”: la maggiore vicinanza fisica comporta anche maggiori possibilità di interazione e proprio questo comporta a sua volta il superamento della società fondata sulla somiglianza delle funzioni e la necessità della divisione del lavoro su cui è basata, invece, l’altro tipo di solidarietà 2 b) la solidarietà organica – che è propria delle società complesse nel senso che vi è in essa una più alta differenziazione dei ruoli lavorativi (= divisione del lavoro). La divisione del lavoro di per sé produce solidarietà anche se si tratta di una solidarietà diversa da quella delle società più semplici. Poiché le diverse funzioni lavorative sono tutte utili al mantenimento, al buon funzionamento dell’insieme (come le funzioni di ogni singolo organo per l’organismo) ne deriva che la divisione del lavoro comporta essa stessa solidarietà. Nella solidarietà organica, senza dubbio c’è la possibilità di sviluppare la personalità individuale, di differenziarsi. Alla solidarietà meccanica corrisponde il diritto penale con carattere di espiazione e a quella organico il diritto penale di tipo restituivo (che vuole cioè ripristinare lo stato precedente alla violazione giuridica): ma comunque, in ogni tipo di società, un corpo di regole giuridiche e morali è comunque necessario e la dipendenza dell’individuo dalla società non viene meno in seguito alla divisione del lavoro e al maggior individualismo. L’idea dell’evoluzione sociale come progressiva differenziazione non è certo nuova perché essa aveva costituito il nucleo centrale della sociologia di Herbert Spencer. Ma Durkheim non condivide del tutto il pensiero di Spencer perché questi aveva presupposto alla base del contratto l’individualismo egoistico, l’interesse personale sacrificando quindi l’idea che, comunque, alla base di ogni società c’è la solidarietà. Per Spencer la solidarietà deriva dal contratto mentre per Durkheim il contratto è possibile là dove c’è la solidarietà la quale, dunque, lo precede. Durkheim afferma poi che la solidarietà organica (cioè la divisione del lavoro) può essere patologica e distingue due forme di patologia: a) la divisione coercitiva del lavoro – che si ha quando ad un individuo è assegnato un certo lavoro in virtù della posizione sociale che egli occupa e non in base ai suoi meriti o alle sue capacità (in questo caso le regole possono anche esserci ma non sono giuste: l’autore risolve questo problema affermando, in modo sorprendente, che non vi sarebbe più coercizione se i singoli individui esercitassero funzioni superiori o inferiori le une alle altre che fossero adatte alle loro inclinazioni individuali. Se la società, nella sua dinamicità, consente agli strati inferiori di migliorare le proprie condizioni gli individui più dotati non accettano più lo stato di cose in atto). b) la divisione anomica del lavoro - che è una condizione patologica caratteristica della società capitalistica conseguenza della esasperata specializzazione del lavoro nelle industrie anche se non è corretto pensare che sia la stessa divisione del lavoro a creare una situazione di disgregazione della solidarietà sociale. E’ per spiegare questa situazione che Durkheim espone la sua teoria dell’anomia Egli inzia con l’affermare ciò che costituisce l’unità delle società organizzate è il consensus spontaneo delle parti, è la solidarietà interna che non solo è altrettanto indispensabile quanto l’azione regolatrice dei centri superiori, ma anzi ne è la condizione necessaria poiché essi non fanno altro che tradurla in un altro linguaggio e consacrarla. Le parti di una società che svolgono funzioni lavorative differenziate per la loro stessa vicinanza reciproca e perché intrecciano rapporti tra di loro creano con il tempo le norme che regolano questi loro rapporti. La norma non precede i rapporti coordinati ma, al contrario ne è semplicemente l’espressione. Sono le parti che con il tempo individuano le modalità migliori per i loro rapporti, modalità che meglio si confanno alla natura delle cose tanto che, alla fine, esse diventano regole generali. Se nel lavoro industriale e nella 3 scienza si crea anomia è perché i mutamenti sociali e scientifici verificatisi sono stati troppo rapidi per consentire che si formassero norme adeguate per il loro buon funzionamento. Normalmente, le regole derivano spontaneamente dalla divisione del lavoro ma queste regole non sempre riescono a crearsi. Se la divisione del lavoro non produce la solidarietà è perché le relazione degli organi non sono regolate: si trovano cioè in uno stato di anomia ma lo stato di anomia è impossibile ovunque gli organi solidali sono sufficientemente e abbastanza a lungo a contatto. Nelle società industriali, il lavoro della macchina sostituisce quello dell’uomo; la manifattura sostituisce la piccola officina, l’operaio viene irreggimentato, staccato per tutta la giornata dalla famiglia, vive sempre più spesso separato da chi lo impiega e dai suoi stessi compagni. Queste nuove condizioni della vita industriale richiedono nuove regole, una nuova organizzazione ma dato che queste trasformazioni si sono compiute con una rapidità estrema, gli interessi in conflitto non hanno ancora avuto modo di regolarsi, di equilibrarsi. Così, le scienze, essendo esse sorte da poco, non hanno ancora avuto tempo e modo di cogliere i punti in comune che esse hanno l’una con l’altra me è inevitabile che ciò prima o poi avvenga. Durkheim riprende il discorso sui rapporti tra divisione del lavoro e anomia nella prefazione alla seconda edizione della Divisione del lavoro che esce nel 1902. In essa appare subito evidente una differenza importante rispetto ad un concetto precedentemente espresso. Nella precedente edizione Durkheim affermava che le regole si sarebbero formate spontaneamente qualora le diverse funzioni sociali sarebbero entrate tra loro in rapporto. In questa seconda edizione, Durkheim afferma che “tale modo di adattarsi reciprocamente delle parti l’una all’altra diventa regola se esiste un gruppo che lo consacra in virtù della sua autorità”. Regola non è soltanto una maniera abituale di agire: è una maniera di agire obbligatoria cioè sottratta all’arbitrio individuale. Ora, qual è questo gruppo che ha tale autorità: Durkheim lo indica nelle corporazioni o gruppi professionali in quanto costituiti sia dai datori di lavoro sia dai lavoratori in ogni specifico settore lavorativo, e, stando in continuo rapporto reciproco, risolvono le controversie e creano solidarietà. Non può essere né lo stato né la società politica nel suo insieme può adempiere a questa funzione in quanto la vita economica sfugge alla loro competenza e alla loro azione. La differenza tra quanto affermato nel 1893 rispetto alla prefazione del 1902, non può essere considerata solo un approfondimento dello stesso tema. Prima si fa riferimento ad una regola che nasce spontaneamente, ad un aggiustamento reciproco che viene poi naturalmente riconosciuto come regola (erano sufficienti il tempo e la vicinanza); nella prefazione del 1902 non appare più alcuna spontaneità ma si passa ad un progetto, alla necessità di un gruppo appositamente costituito con il compito di consacrare la solidarietà. Le regole del metodo sociologico (1895) In questa sua opera Durkheim esprime il proprio parere circa il metodo della sociologia ed è in essa che giunge ad affermare che la sociologia ha il compito di studiare i fatti sociali i quali vanno considerati “come cose”. 4 Quando Durkheim afferma che i fatti sociali devono essere considerati come cose, è perché egli vuol mettere in evidenza che la loro caratteristica è la coercitività e l’esteriorità: essi sono elementi che si contrappongono e impongono all’individuo senza possibilità di mutamenti. Per fatto sociale deve intendersi ogni modo più o meno definito dell’agire in grado di costringere socialmente l’individuo; è ciò che l’individuo riceve come essere sociale (educazione, linguaggio, legge, ecc.). E’ un modo di agire, di pensare esterno all’individuo, dotato di potere coercitivo ed imperativo in virtù del quale si impone all’individuo con o senza consenso. La causa determinante di un fatto sociale deve essere cercata in altri fatti sociali e non tra gli stati della coscienza individuale ed essi vanno spiegati in riferimento alle funzioni che essi svolgono nella società e occorre seguirne lo sviluppo integrale attraverso tutte le specie sociali. Il fatto sociale va considerato normale quanto è proprio della generalità e patologico nei casi in cui è proprio di una minoranza ma ciò vale non in relazione a singole società ma piuttosto a singole specie sociali, singoli “tipi sociali”. Mentre per lo storico esistono solo società uniche e per il filosofo esiste solo l’umanità in generale, per il sociologo esistono “tipi sociali”. Le società, infatti, vanno classificate a partire da quelle più semplici fino a giungere a quelle più complesse. Quella più semplice è l’orda: è l’aggregato sociale che non comprende e non ha mai compreso in sé aggregati più semplici: esso si risolve direttamente negli individui. Su questa base si possono distinguere tanti tipi fondamentali per quante sono le possibilità di combinazione dell’orda con se stessa e dare origine a nuove società e in cui queste ultime possono combinarsi tra loro. Di conseguenza, un fatto sociale è normale per un tipo sociale determinato, considerato in una fase determinata del suo sviluppo, quando esso si presenta nella media delle società di quella specie, considerate nella fase corrispondente della loro evoluzione. A proposito del comportamento patologico (nel senso di deviante dalla “media”) Durkheim distingue tra coloro che turbano l’ordine sociale quando poi questo va semplicemente ristabilito e coloro che pur agendo in modo diverso dalla generalità sono portatori di una nuova coscienza collettiva, destinata a creare un nuovo ordine. Pertanto, non tutti i comportamenti devianti si trovano sullo stesso piano. Il socialismo – lezioni su Saint Simon (1895-96) In quest’opera è possibile individuare i tratti costanti e caratteristici di tutta la sociologia di Durkheim. In essa afferma che il nucleo centrale delle teorie socialiste consiste nell’idea della necessità di un coordinamento centralizzato delle attività economiche, considerate come il fattore fondamentale della società, in seguito alla convinzione che il libero giuoco degli egoismi non è sufficiente a produrre automaticamente l’ordine sociale. Anche se egli si è spesso trovato teoricamente a fianco dei socialisti nella loro lotta conto l’ideologia liberista ed individualista degli economisti classici, egli ritiene che il socialismo vada studiato come “fatto sociale”, fenomeno caratteristico della società industriale. Sebbene socialismo e sociologia non possano essere confusi in quanto il 5 primo ha una funzione pratica di mutamento sociale mentre l’altra una funzione prettamente scientifica, conoscitiva, entrambi hanno una medesima origine sociale. L’uno e l’altra nascono e si manifestano quando si sente la necessità che l’ordine economico cominciasse a prevalere su quello religioso e politico e che il commercio e l’industria avessero già raggiunto un inizio di centralizzazione. Secondo Durkheim, Saint Simon è importante perché egli è uno dei primi a manifestare la necessità di uno studio scientifico della realtà sociale: si può dimostrare scientificamente l’esigenza di organizzare la società in modo da togliere qualsiasi potere agli strati improduttivi e da non abbandonarla agli arbitri individuali. Durkheim però non condivide la convergenza di scienza sociale e socialismo mentre condivide l’idea dell’esigenza di una scienza sociale che essa ha avuto origine nell’ambito della società industriale. Durkheim diverge da Saint Simon perché questi aveva sì avvertito l’esigenza della religione ma poi l’aveva ridotta al fattore economico e industriale. Durkheim afferma che affinché l’ordine sociale regni è necessaria una forza morale, un’autorità morale (un principio economico non può essere sufficiente) che eserciti sulla società un’influenza regolatrice senza la quale gli appetiti degenerano e l’ordine economico si disorganizza. Soltanto la società, sia direttamente e nel suo insieme, sia mediante uno dei suoi organi, è capace di svolgere questa funzione moderatrice, soltanto essa è quel potere morale superiore di cui l’individuo accetta l’autorità. Scrive Durkheim, “ciò che è necessario perché l’ordine regni è che la maggior parte degli uomini si accontenti della propria sorte; ma ciò che è necessario perché se ne accontentino non è che posseggano di più o di meno ma che siano convinti di non avere diritto ad avere di più”. Ritroviamo dunque nella monografia su Saint Simon tutte le idee di Durkheim: la supremazia della società sull’individuo; la società intesa come forza morale, l’esigenza della religione intesa in termini che coincidono con questa forza morale la quale mantiene la coesione degli individui nella società; la possibilità e l’esigenza di una scienza positiva. In una recensione del libro di Antonio Labriola (1897) La concezione materialistica della storia, possiamo trovare espressioni interessanti che ci aiutano a capire fino in fondo le convinzioni di Durkheim in merito al materialismo storico. Innanzitutto egli riconosce al materialismo storico di far dipendere i fenomeni sociali dallo stato raggiunto dell’attività umana (e non dalla fame, dalla sete, dal desiderio genetico); poi condivide con esso la convinzione che la storia può essere spiegata solo ricercando le sue cause profonde che sfuggono alla coscienza: la sociologia ha un senso ed una funzione specifica proprio in quanto ricerca le cause profonde e non esplicite degli eventi storico-sociali. Durkheim critica il marxismo perché a fondamento della società non vi è l’attività economica ma la partecipazione religiosa: la religione è il primo di tutti i fenomeni sociali. Però quando egli afferma questo, cade in contraddizione perché egli aveva anche affermato che quanto è esplicito nel comportamento dell’uomo non corrisponde del tutto alle motivazioni dell’azione che, invece sono profonde. Egli così dimostra di dare più 6 importanza a ciò che è esplicito ed evidente, a ciò che è cosciente a coloro che fanno parte della società che non ai fattori sociali come motivazioni reali e inconsce. Infatti, si potrebbe obiettare che la maggiore importanza iniziale della religione potrebbe dipendere proprio dal fatto che l’economia e la tecnica erano scarsamente sviluppate e che, invece, con lo sviluppa di queste la funzione della religione potrebbe essere diventata meno rilevante. Religione dunque come tentativo di dominare una realtà non ancora dominata dal lavoro umano. La ricerca sul suicidio (1897) Il suicidio è considerato solitamente come un atto eminentemente individuale, il cui studio, quindi, compete alla psicologia. Durkheim in questa sua ricerca viole dimostrare invece che il suicidio è un fatto sociale nel senso che varia in rapporto con variabili sociali, in rapporto con mutamenti o di ordine economico, o di ordine religioso, o di altro genere ancora cosicchè le motivazioni individuali, psicologiche, non costituiscono le vere cause del fenomeno. Per Durkheim, “le deliberazioni umane sono spesso mera forma e non fanno altro che corroborare risoluzioni già prese per motivi che la coscienza ignora”. Il suo antiindividualismo gli impedisce persino di vedere dei nessi indiscutibili che esistono, ad esempio, tra condizioni sociali e alcoolismo o specifiche manifestazioni di malattie mentali. Questi motivi che la coscienza individuale ignora sono costituiti dalla società e dal suo diverso potere di integrazione. In questa ricerca riappare dunque l’esigenza della religione, intesa nel senso più lato, come forza morale che mantiene la coesione degli individui nella società. Questi limiti dell’impostazione della ricerca, non devono mettere in ombra i meriti che pure sono notevoli in quanto Durkheim riesce a risalire ad alcune cause sociali del suicidio pur considerandole come cause esclusive anziché come fattori che agiscono in un vasto contesto di concause. Egli individua 4 tipi di suicidio: 1) il suicidio egoistico. C’è da dire innanzitutto che il termine “egoistico” è inteso da Durkheim come “prevalenza dell’individualismo sul senso del sociale” cioè quando la coscienza individuale prevale su quella collettiva e ciò va visto in correlazione con quanto avviene nella società con il venir meno della sua forza di coesione. Ovviamente, dato il presupposto durkheimiano, questa coesione è concepita in termini di “credenze religiose, politiche e morali”. Egli studia il suicidio in relazione alla diversità di religione, al fattore familiare, al fattore politico. Quanto al fattore religioso, Durkheim cerca di dimostrare empiricamente che rimanendo inalterati gli altri fattori, il tasso dei suicidi varia con il variare delle religioni stesse in quanto non tutte e tre queste religioni, infatti, assicurano allo stesso grado l’integrazione sociale: alcune esercitano più direttamente un controllo sui loro fedeli, altre lasciano un maggior margine di libertà. Durkheim mette in evidenza come il tasso dei suicidi è più altro tra i protestanti in quanto la loro religione, ammettendo il libero esame, consente un più ampio margine di libertà individuale; è più basso tra i cattolici in 7 quanto la loro fede impone loro delle regole che non possono assolutamente essere messe in discussione (dogma della fede); è ancora più basso tra gli ebrei in quanto gruppo minoritario che si regge sulla sua forte coesione interna. Durkheim, afferma che non è tanto il libero esame che determina la più alta incidenza dei suicidi quanto piuttosto il fatto che la chiesa protestante è meno fortemente integrata della chiesa cattolica. Gli ebrei, inoltre, in quanto gruppo minoritario perseguitato, ha da sempre sviluppato fortissimi legami di solidarietà che li tiene strettamente uniti tra loro. Il rapporto tra libero esame e aumento del tasso dei suicidi risulta anche dal fatto che tale tasso aumenta con il grado di istruzione: non è però l’istruzione di per sé a creare la tendenza suicidogena quanto piuttosto è vero che lo stato di incertezza che incrementa questa tendenza, conduce all’esigenza di maggiore chiarezza e quindi di istruzione. Quanto alla situazione familiare, Durkheim mette in evidenza che la famiglia in quanto tale tendenzialmente preserva dal suicidio e tanto più ciò è vero quanto più essa appare ben integrata. Il tasso dei suicidi tende ad aumentare con l’aumento dei divorzi e delle separazioni legali. Non è tanto l’istituzione giuridica del divorzio a provocare l’aumento dei suicidi quanto l’indebolirsi nella società del vincolo matrimoniale. Non tanto il matrimonio per sé, ma il matrimonio con figli preserva dal suicidio; i vedovi si uccidono più dei coniugi ma, in genere, meno dei celibi: ciò dimostra che il fatto che sia esistita una famiglia comporta un coefficiente di preservazione superiore a quello dei celibi. Lo scapolo è descritto da Durkheim come un individuo non sottoposto ad alcuna disciplina per ciò che riguarda le sue passioni, esemplificando la sua figura nel Don Giovanni. Per quanto riguarda il mondo politico, Durkheim sostiene che quando vi sono grandi sconvolgimenti sociali, quali le guerre o le rivoluzioni, il tasso dei suicidi tende a diminuire e da ciò si può affermare che le grandi scosse sociali come le grandi guerre popolari ravvivano i sentimenti collettivi, stimolano lo spirito di parte come il patriottismo, la fede politica, la fede nazionalistica e concentrando le attività verso un unico scopo determinano, almeno per un periodo, una più forte integrazione sociale. Vediamo dunque come il suicidio egoistico dipende da una scarsa influenza della società nel regolamentare la vita individuale e, nel caso specifico del suicidio egoistico, la società non riesce a dare un significato all’individuo. Durkheim giunge così alla conclusione finale che il suicidio varia in ragione inversa al grado di integrazione della società religiosa, in ragione inversa al grado di integrazione della società domestica; in ragione inversa al grado di integrazione nella società politica. 2) Suicidio altruistico E’ il suicidio caratteristico delle società semplici, fondata sul prevalere della coscienza collettiva su quella individuale: quando l’individuo si annulla completamente nella società tende a seguire un imperativo morale uccidendosi con il venir meno del senso della sua funzione sociale. E’ il caso del suicidio dei vecchi e dei malati che si sentono ormai socialmente inutili, di quello delle mogli che seguono i mariti nella morte, di quello dei servitori alla morte dei padroni. 3) suicidio anomico Trattando di questo tipo di suicidio, Durkheim riprende il tema dell’anomia ed inizia il capitolo dedicato a questo tipo di suicidio affermando che “La società non è soltanto una 8 cosa che attrae a sé con ineguale intensità i sentimenti e l’attività degli individui ma è anche un potere che le regola”. Durkheim inizia l’esame di questo tipo di suicidio considerandolo rispetto alle crisi economiche. Sulla base di dati statistici non elaborati personalmente ma a sua disposizione egli sostiene che il tasso di suicidi aumenta nei momenti di crisi, intendendo come crisi sia quelle recessive come quelle di prosperità. Durkheim considera che se le crisi industriali o finanziarie aumentano i suicidi non è perché impoveriscono, giacchè le crisi di prosperità hanno lo stesso risultato ma perché sono delle perturbazioni dell’ordine collettivo. L’uomo, contrariamente agli animali, non sa autoregolarsi perciò una volta raggiunta una meta, tende a volerne raggiungere altre più ambiziose, in un processo che si imbatte prima o poi in limiti invalicabili. Ma perseguire un fine inaccessibile significa condannarsi a uno stato di perenne insoddisfazione. Pertanto, il limite agli appetiti individuali deve essere posto dall’autorità morale della società. Soltanto la società, sia direttamente e nel suo insieme sia mediante uno dei suoi organi, è in grado di svolgere questa funzione moderatrice perché soltanto essa ha qual potere morale superiore di cui l’individuo accetta l’autorità. E’ la società che stabilisce i limiti del benessere economico in relazione alle varie professioni e condizioni sociali e in una condizione normale gli individui accettano tali limiti. In una monografia dedicata a Saint Simon, pubblicata nello stesso periodo della ricerca sul suicidio, Durkheim scrive che “ciò che è necessario perché l’ordine regni è che la maggior parte degli uomini si accontenti della propria sorte; ma ciò che è necessario perché se ne accontentino non è che posseggano di più o di meno ma che siano convinti di non avere diritto ad avere di più”. Durkheim afferma che vi è una particolare sfera della vita sociale in cui l’anomia si trova allo stato cronico ed è il mondo del commercio e dell’industria. Egli si riferisce al suo tempo in quanto afferma anche che in altri periodi vi erano forze sociali che ostacolavano questo stato cronico dell’anomia. Qui si ha l’esaltazione della religione (non importa quale) intesa nella sua accezione più ampia come fattore che regola i desideri individuali indicando i limiti oltre i quali non si poteva andare, di imporre il suo sistema normativo. Nella società industriale, invece, caduti i vincoli imposti dalla religione, la vita economica è abbandonata alla libera concorrenza senza alcun freno esterno: e dalla vita economica l’anomia passa anche negli altri settori della società. La ricerca di infinito, nella vita sociale, è solo segno di sregolatezza, di anomia. 4) il suicidio fatalistico è un tipo di suicidio cui Durkheim fa soltanto un piccolo cenno: egli scrive che esiste un tipo di suicidio che si contrappone al suicidio anomico come quello egoistico si contrappone a quello altruistico. E’ quello risultante da un eccesso di regolamentazione, quello che commettono i soggetti che hanno un avvenire completamente chiuso, con passioni violentemente compresse da una disciplina eccessiva. E’ il suicidio di chi si sposa troppo giovane, delle donne sposate senza figli. Da questa pur breve descrizione del suicidio fatalistico possiamo vedere come Durkheim contrappone il suicidio anomico a quello fatalistico; al suicidio egoistico quello altruistico: la prima contrapposizione deriva da una carenza/eccesso di regolamentazione mentre la 9 seconda da una carenza/eccesso di integrazione. A supporto di questa contrapposizione, ricordiamo ciò che l’autore cita all’inizio del capitolo sul suicidio anomico e cioè che la società non è solo una cosa che, con diversa intensità, attrae a sé i sentimenti e le attività degli individui ma è anche un potere che li regola. C’è da mettere in evidenza che non è tanto semplice distinguere tra suicidio egoistico e suicidio anomico tant’è vero che entrambi i casi sono considerati in rapporto alla situazione familiare. Un’altra difficoltà di Durkheim in questa ricerca, deriva dalla distinzione tra gli stati acuti dell’anomia (causati da momenti particolari quali le crisi economiche) e l’anomia come condizione cronica della società industriale in quanto tale. Alcuni affermano che Durkheim usa questa distinzione per criticare e condannare vigorosamente l’ideologia industriale ma è anche vero, per contro, che egli, nel complesso non è un critico ma un sostenitore della società industriale e borghese. La difficoltà maggiore sembra però trovarsi nell’affermazione di Durkheim là dove egli dice che il suicidio deriva da cause che stanno al di fuori della coscienza individuale e che le motivazioni coscienti possono al massimo corroborare decisioni già prese sotto la forza dei condizionamenti sociali. La società agisce inconsciamente. Nella ricerca sul suicidio, però egli fa riferimento, per individuarne le cause, a stati di coscienza: la sete di infinito propria del suicidio anomico, per esempio, non può essere considerata come un fattore inconscio essendo ben presente alle coscienze individuali. Si potrebbe replicare che se la motivazione individuale è come tale cosciente, non lo è il fatto che l’individuo risponda, nelle sue preferenze, al forze collettive. Il problema pedagogico Durkheim afferma che i principi morali che stanno alla base della società (ne costituiscono l’autorità) vengono trasmessi attraverso l’educazione ed ecco spiegata l’importanza fondamentale dell’educazione. I principi trasmessi possono variare radicalmente da società a società ma non per questo perdono la loro autorità. Tale relativismo, però, è mitigato da Durkheim da un principio evoluzionistico secondo il quale i diversi modi di essere della società non sarebbero tutti da porre sullo stesso piano ma sarebbero piuttosto espressioni diverse di singole fasi di un unico processo evolutivo. La società industriale, con la sua divisione del lavoro, la spersonalizzazione dei rapporti, l’anomia, ecc.. è una fase di questo processo evolutivo. Ma quali principi devono essere insegnati: Durkheim (impostazione relativistica) afferma che non è importante stabilire quali principi devono essere insegnati me è importante che vi sia un’autorità morale che rappresenti la società e che inculchi nei giovani un qualche sistema educativo, quale che esso sia. Società e religione Negli studi sulla religione, tra i quali il più noto è costituito dalla ricerca su Le forme elementari della vita religiosa (1912). Durkheim, riprendendo il tema fondamentale di tutto il suo pensiero, inizia con l’affermare che la società di distingue dall’individuo come il sacro dal profano, ed è l’autorità spirituale che trascende l’individuo ed alla quale 10 l’individuo non può non sottomettersi. In ogni religione positiva si coglie una verità cioè che esiste una realtà che trascende gli individui ed è ad essa superiore. Esse però non colgono ciò che è rilevato invece dalla scienza sociale e cioè che questa realtà superiore è la società. La società nasce attraverso l’interazione, l’azione comune, la cooperazione attiva. Gli individui, interagendo, creano una realtà sui generis che si impone ad essi con quei caratteri religiosi della trascendenza, della superiorità, della imperatività costitutivi, secondo Durkheim, della stessa società. La riprova di questa idea si ha nel fatto che tutte le istituzioni sociali, prima di acquistare indipendenza le une rispetto alle altre, erano collegate alla religione e ad aspetti di essa. La funzione delle religioni è quella di esaltare la vita morale: esse devono raggiungere le coscienze degli individui, renderle sensibili e disciplinarle; gli aspetti esteriori della religione (i riti e le funzioni religiose, le festività civile, ecc.) hanno il compito di tenere viva la coscienza collettiva rinnovando quei momenti particolarmente intensi di collaborazione e fusione degli individui in cui essa si è formata o rinnovata. E’ la società che crea la coscienza degli individui che, senza di essa, non potrebbe emergere come tale. Sviluppando questa idea, Durkheim sostiene, a proposito delle categorie conoscitive (e cioè degli strumenti mentali attraverso cui gli uomini conoscono) che la disputa filosofica tra gli aprioristi (cioè coloro che sostengono che le categorie sono date all’uomo come possibilità prima dell’esperienza empirica) e gli empiristi (che sostengono che le categorie conoscitive derivano dall’esperienza sensibile) non è possibile una scelta scientificamente fondata perché le categorie sono sì a priori e vincolanti per gli individui ma esse hanno origine sociale, tant’è che variano da società a società. Le categorie conoscitive sono rappresentazioni collettive esse dunque derivano da una immensa cooperazione che si estende nello spazio ma anche nel tempo: una moltitudine di individui nella loro costruzione ha associato, mescolato, combinato, fuso le proprie idee e i propri sentimenti. Ad esempio, la categoria del tempo è resa possibile dall’organizzazione e dalla suddivisione di esso a opera della società (cioè deriva da un processo collettivo) così come la categoria dello spazio che è resa possibile dalla cooperazione collettiva. Solo la società può fornire gli strumenti per conoscere la realtà (cioè per organizzarla concettualmente). Tutte queste idee sono riprese ed approfondite da Durkheim nel saggio Il dualismo della natura umana e le sue condizioni sociali (1914). Le religioni distinguono l’anima dal corpo e considerano l’anima superiore al corpo. L’anima è la socialità, cioè moralità e capacità concettuale, che si crea nell’individuo attraverso l’interazione e l’interiorizzazione delle norme e dei principi conoscitivi e valutativi. Il corpo invece è costituito dall’insieme dei nostri desideri egoistici. La società (in quanto moralità, in quanto anima) impone dei limiti ai desideri egoistici che però, in quanto costitutivi del nostro corpo non possono scomparire: ecco che si spiega il carattere conflittuale della nostra vita. In essa sono presenti forze diverse, individuali ed egoistiche da un lato, sociali (quindi morali e organizzatrici) dall’altro. 11 In Durkheim l’esaltazione della società ha totalmente il sopravvento sul problema degli istinti repressi che non vengono presi assolutamente presi in considerazione (cosa che invece prevale in Freud). CRITICA Dualismo (= dicotomia netta tra società ed individuo; in quanto egli attribuisce ogni moralità, altruismo e capacità conoscitiva presente nell’uomo alla società mentre attribuisce all’individuo solamente istinti egoistici) e Sociologismo (che discende direttamente dalla prima e rimprovera a Durkheim di voler anteporre il fattore sociale a tutti gli altri fattori causali - ad esempio nel suicidio - che invece sono ad esso intrecciati). La dicotomia che Durkheim attua tra società ed individuo è troppo netta: egli attribuisce ogni moralità, altruismo e capacità conoscitiva presente nell’uomo alla società mentre attribuisce all’individuo solamente istinti egoistici. Concependo al società solo ed esclusivamente come moralità e ordine, egli non coglie il rapporto che pure esiste tra gli stessi egoismi individuali e una determinata struttura socio-economica. Per lui la società è sempre forza moralizzatrice, elemento positivo, creatore dell’ordine, dell’armonia tra gli individui mentre il fattore economico rimane fuori di quello sociale, rimane relegato all’individualismo e all’egoismo e costituisce la negazione della stessa società. Ecco che ogni rapporto dialettico tra struttura economica di una società e i suoi aspetti morali e intellettuali sembra impossibile. Ad esempio, nel pensiero di Durkheim sono presenti evidenti contraddizioni (derivanti dal suo sociologismo) nel modo in cui egli risolve il problema della divisione coercitiva del lavoro nelle società industriali, affermando che non vi sarebbe più coercizione se i singoli individui esercitassero funzioni superiori o inferiori le une alle altre che fossero adatte alle loro inclinazioni individuali. Se la società, nella sua dinamicità, consente agli strati inferiori di migliorare le proprie condizioni, gli individui più dotati non accettano più lo stato di cose in atto. Dunque, il riferimento ai talenti individuali non può non apparire contraddittorio. Eppure, con la sua teoria dell’anomia Durkheim si avvicina molto a cogliere il carattere dialettico anziché dualistico del rapporto società/individuo ma egli trascura di cogliere questa particolarità e ribadisce il suo noto punto di vista: egli non riesce ad ammettere che se individuo e società si compenetrano e se nulla può essere nell’individuo se non discendente dalla società, allora ogni fenomeno individuale va correlato con la struttura sociale e lo stesso egoismo individuale è strettamente legato a fattori sociali. Arroccandosi nel dualismo, Durkheim si preclude la possibilità di spiegare la contraddizione che si evidenzia quando egli parla di una società basata sulla concorrenza (la società borghese) e la solidarietà che è sempre a fondamento della società (in generale). E non lo ammette neanche quando, a proposito del Suicidio, afferma che il gesto cosciente estremo che sembra legato alla scelta dell’individuo non è altro che la conseguenza di una decisione inconscia che dipende da cause che stanno al di fuori dell’individuo stesso (cioè nella società): egli dovrebbe dunque ammettere che il nostro stesso egoismo (che spinge in determinate circostanze al suicidio) è un prodotto della società. 12 Coerentemente dunque egli dovrebbe ammettere che la società non è soltanto fonte di moralità dal momento che condiziona tanto gli aspetti altruistici quanto quelli egoistici dell’individuo. Egli riesce a farlo solo in riferimento ad affermazioni specifiche ma non lo ammette mai nella sua concezione generale di società. Simili difficoltà Durkheim le trova quando critica il socialismo. Egli afferma che a fondamento della società non vi è l’attività economica ma la partecipazione religiosa: la religione è il primo di tutti i fenomeni sociali. Però quando egli afferma questo, cade in contraddizione perché egli aveva anche detto che quanto è esplicito nel comportamento dell’uomo non corrisponde del tutto alle motivazioni dell’azione che, invece sono profonde. Egli così dimostra di dare più importanza a ciò che è esplicito ed evidente, a ciò che è cosciente a coloro che fanno parte della società che non ai fattori sociali come motivazioni reali e inconsce. Infatti, si potrebbe obiettare che la maggiore importanza iniziale della religione potrebbe dipendere proprio dal fatto che l’economia e la tecnica erano scarsamente sviluppate e che, invece, con lo sviluppa di queste la funzione della religione potrebbe essere diventata meno rilevante. Religione dunque come tentativo di dominare una realtà non ancora dominata dal lavoro umano. Durkheim è costantemente preoccupato dal problema della coesione sociale e in questo senso la compresa anche la sua concezione della religione. Ma la coesione sociale può esserci come non esserci oppure essere imperfetta e la presenza dell’anomia ne è indice. Per Durkheim la socialità è una realtà problematica più che un dato naturale (egli lo intende il passaggio dall’indifferenziato al differenziato come un processo generale; oppure quando afferma che le rappresentazioni collettive sono il risultato dell’interazione tra individui; presuppongono il substrato materiale della società e costituiscono rispetto agli individui una realtà a essi superiore): essa è un valore da conquistare e da conservare in una continua lotta i fattori che militano contro di essa. Alla società come fattore problematico egli dedica attenzione particolare e lo dimostrano gli studi sui problemi pedagogici (L’educazione morale, 1902/1902; La sociologia e l’educazione, 1902) che egli ha condotto dopo la ricerca sul Suicidio. Ma anche qui troviamo in Durkheim delle contraddizioni. Concepire la società come natura, nel senso deterministico che il positivismo attribuisce a questo termine comporta una contraddizione che non può essere superata con indire che la conoscenza di tale natura ne costituisce anche una liberazione (semmai porta ad una accettazione). Questa liberazione dalla natura presume infatti l’azione dell’uomo come forza storicamente e limitatamente autonoma rispetto ai determinismi naturali. Se invece anche l’azione umana si muove all’interno di questi determinismi allora la conoscenza di essi non può comportare azione nel senso di trasformazione. Tanto è vero che lo stesso Durkheim ammette che l’educazione deve realizzare non tanto l’uomo così come la natura l’ha fatto ma quale la società lo vuole. Riguardo al presunto carattere sociale delle categorie conoscitive, sembra che egli confonda alcune manifestazioni concrete con cui lo spazio ed il tempo si conoscono di fatto in certe società con le forme a priori che consentono questa conoscenza. Ad esempio, la categoria del tempo non deriva esclusivamente dalla società ma è legata anche ai ritmi naturali del movimento degli astri; quella dello spazio, non è legata solo alla forma dell’accampamento ma anche al fatto che l’orizzonte appare circolare. 13 Le influenze che il pensiero di Durkheim esercita sullo sviluppo della teoria sociologica sono importanti: egli, ricordiamo, cerca la funzione dei vari aspetti della società (ad esempio, la funzione della religione) e, in questo senso, egli può anche essere considerato il fondatore del moderno funzionalismo in sociologia ed in antropologia. Inoltre, il fatto che egli si preoccupi costantemente della coesione sociale, ci permette di inquadrarlo come legittimo successore di Comte in quanto si può affermare che la sua sociologia costituisce un tentativo, contro l’importanza sempre crescente dei condizionamenti economici e di classe, di trovare al di fuori di essi (cioè nel consenso, nella coesione, nell’integrazione, in un insieme di valori e di norme comuni) l’elemento che fonda la società. Le critiche che abbiamo sopra considerato non devono farci dimenticare che Durkheim, movendo dalla critica all’economia politica, è giunto a cogliere gli aspetti anomici della società industriale, suddivisa in classi, pur nell’ambito di una visione fondamentalmente relativistica. Egli ha poi evidenziato che la sociologia studia la realtà sociale come realtà umana, storica, sorta dall’interazione eppure nello stesso tempo oggettiva, estranea e coercitiva rispetto agli individui. Va detto, però, che per Durkheim la coercitività e l’oggettività delle istituzioni sono date una volta per tutte e non sono non appaiono superabili ma nemmeno affrontabili e trasformabili: egli così rischia di annullare ogni tensione tra l’azione individuale come fattore di innovazione e le strutture entro cui essa è costretta. 14