Donato Loscalzo, Il pubblico a teatro nella Grecia antica, Bulzoni

Donato Loscalzo, Il pubblico a teatro nella Grecia antica, Bulzoni,
Roma 2008, pp. 200, € 16.00 ISBN 978-88-7870-287-5 (a cura di
Vincenzo Blasi)
Quando Dionisio di Siracusa volle
approfondire le conoscenze sulla
costituzione degli Ateniesi, si vide
recapitata da Platone l’opera del
commediografo greco Aristofane. Per
quanto inventato, l’aneddoto – riportato
dalla Vita di Aristofane – è sintomatico
di quale fosse la mentalità dell’epoca e,
indirettamente, di quanto i versi di un
poeta comico potessero dire sul contesto
sociale dell’Atene del V secolo.
Certo il filosofo greco non fu un
grande estimatore del teatro. Sono ormai
ben note le sue polemiche verso la
funzione corruttrice della tragedia, che
bisognava bandire dalla città ideale
poiché l’arte doveva essere giudicata
solo per l’effetto psicologico e per le
virtù che suscitava (Repubblica).
Controversie che raggiunsero il loro apice nell’espressione teatrocrazia, con la quale il
filosofo indicava come, ai suoi tempi, la valutazione delle opere a teatro fosse
eccessivamente condizionata e suggestionata dalle reazioni del pubblico.
Ancora nel V secolo esistevano leggi che regolavano la composizione dei vari
generi musicali. Gli spettatori erano guidati all’ascolto e, se indisciplinati, venivano
richiamati all’ordine con la verga. Il giudice poteva punire severamente il trasgressore.
Nel secolo successivo (quando visse e scrisse Aristotele), il teatro subì un’involuzione
che rifletteva il generale declino di Atene e della sua politica. E smarrì la propria
funzione di momento centrale della vita religiosa. Gli autori stessi contravvennero alle
regole musicali, mescolando i generi; addirittura – stando all’intervento dei mazzieri
auspicato da Aristofane contro di loro (Pace, vv. 734-35) – alcuni di essi si
presentarono fra il pubblico per difendere e magnificare la propria opera. E i teatri da
silenziosi diventarono chiassosi.
Il libro di Donato Loscalzo raccoglie alcune riflessioni sul comportamento del
pubblico a teatro nell’Atene del V secolo. È suddiviso in sei capitoli, ognuno dei quali
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Il pubblico a teatro nella Grecia antica
Vincenzo Blasi
affronta un tema specifico. I frequenti richiami tra le varie parti, pur rendendo la
scrittura a tratti ridondante, conferiscono circolarità al testo. Ne affiora una realtà del
teatro e della società ateniese anticonvenzionale. Forse meno agevole di quella a cui si è
abituati a pensare, ma presumibilmente più vera e più legata alla quotidianità. Le
ricorrenti
dinamiche
pubblico-festa,
pubblico-attore,
pubblico-drammaturgo
restituiscono al teatro le dimensioni che gli sono proprie: quella di evento e quella di
relazione.
Poco si sa sull’articolazione sociale del pubblico a teatro nell’Atene del V secolo
e in età ellenistica. Si tratta di un campo per certi versi poco esplorato, anche perché le
fonti e le testimonianze degli scrittori dell’antichità sono, come si può immaginare,
scarse e lacunose. Soprattutto nelle commedie di Aristofane, ma anche in alcune
orazioni di Demostene o nei Caratteri di Teofrasto, «il teatro torna spesso come luogo
dove emergono le personalità e le ossessioni di alcuni tipi». Comportamenti o
atteggiamenti di chi frequentava gli spettacoli lasciano intuire «quale fosse la
percezione e l’effetto che il teatro aveva sul pubblico». Se poi si esce dalle pastoie della
«catarsi aristotelica», si riesce a intenderne meglio lo spirito e la partecipazione.
Nella sua varietà, il pubblico possedeva mediamente una cultura omogenea –
necessaria per la comprensione dei testi rappresentati – e una formazione “tradizionale”,
poiché le nuove classi emergenti di tipo mercantile non produssero veri modelli
culturali nuovi. Pure in un sistema democratico come quello della polis, che garantiva
l’uguaglianza di diritto a sedere a teatro senza distinzioni di censo o di condizione
sociale – come invece avverrà nel mondo romano – fra gli spettatori erano mantenute le
gerarchie: strateghi e personaggi più in vista occupavano i posti in prima fila e centrali.
Sebbene poi l’evento teatrale si inserisse in una cornice religiosa, il pubblico non
si comportava in maniera corretta e silenziosa: accanto agli spettatori competenti, in
grado di apprezzare il testo e la messinscena, potevano sedere anche spettatori rozzi e
ignoranti, che coglievano solo l’intrattenimento e il divertimento.
Il pubblico manifestava consenso con applausi e richieste di bis, o disapprovava
con fischi e urla. E non sempre le proteste avevano lo scopo di segnalare le
incongruenze con cui era stata rappresentata una vicenda ben nota del mito. Spesso, in
una sorta di anarchia, il pubblico si sentiva in diritto di giudicare gli eventi teatrali cui
assisteva sulla base del piacere privato, di una risposta emotiva, facendo pesare le
proprie attese e i propri gusti.
I drammaturghi avvertivano la presenza del pubblico, indispensabile per scatenare
a teatro momenti dialettici e opposte posizioni, la parola e il dialogo. Spesso mostravano
un certo rifiuto per la massa riunita a teatro – un po’ come oggi intellettuali e filosofi
guardano con sospetto le forme di spettacolo in grado di catalizzare l’attenzione
popolare – ma col tempo si adattarono ai suoi desideri.
Tutto avveniva alla luce del giorno, attori e spettatori erano illuminati allo stesso
modo. L’eliminazione della quarta parete rendeva diretto il rapporto tra scena e
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Il pubblico a teatro nella Grecia antica
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théatron. Immediata era dunque la verifica dell’attore che poteva leggere
nell’espressione del volto dello spettatore il suo indice di gradimento.
Con molta probabilità, la musica, il canto e il clima di festa dovevano rendere
poco comprensibili le parole pronunciate dagli attori, nonostante la perfetta acustica
degli edifici teatrali. Per facilitare la decodifica del messaggio, soprattutto delle parti
eseguite dai cori, la danza, la disposizione dei personaggi sulla scena e i gesti –
convenzionali o quotidiani che fossero – svolgevano un ruolo fondamentale.
E se anche il teatro era un evento celebrativo in onore degli dei e degli uomini,
cioè un’esperienza religiosa, non significa che la tragedia fosse vissuta come un rituale.
Esattamente il contrario di quello che farà il mondo borghese, che considererà il teatro
un momento laico per riflettere sulla vita e sulla natura dell’uomo ed erigerà un muro tra
scena e platea, relegando al buio gli spettatori.
Nei giorni delle rappresentazioni drammatiche, gli spettatori restavano a teatro
anche un’intera giornata. Vi si recavano dopo aver mangiato e bevuto vino, con il capo
inghirlandato. In uno spazio piuttosto movimentato e a stretto contatto tra di loro, non
recepivano nell’intimità e in silenzio quanto avveniva sulla scena. Partecipavano
all’evento teatrale come ad una vera e propria festa.
Proprio il vino rappresenta la prima questione affrontata dall’autore. Il legame tra
la religione e le origini del teatro non risulterebbe solo dal fatto che le rappresentazioni
avessero luogo durante le feste in onore di Dioniso, e che in queste occasioni si
eseguissero in suo onore i ditirambi e i canti (dai quali probabilmente presero le mosse
la tragedia e la commedia): un altro elemento di connessione, poco vagliato, tra il teatro
e la divinità è che prima e durante le rappresentazioni il vino circolasse tra gli spettatori.
Durante la festa descritta nelle Ecclesiàzuse o nel banchetto nuziale nella Pace, gli
inviti a “bere vino” collocati da Aristofane nella parte finale delle due commedie non
sarebbero rivolti solo agli attori in scena ma anche a tutti gli spettatori seduti sulle
gradinate. Non si tratta naturalmente di prove inconfutabili. Poco si sa se questi inviti
fossero reali o facessero parte della finzione spettacolare.
Lo storico Filocoro, vissuto fra il IV e il III sec. a.C., e l’aneddoto del presunto
incontro tra Solone e Tespi, riportato nella Vita di Solone di Plutarco, attesterebbero
questa consuetudine. Il primo accenna alle analogie che il teatro aveva con il simposio,
Plutarco invece racconta di come il diffidente Solone, alla fine della propria vita,
avrebbe deciso di assistere ad uno spettacolo di Tespi (il poeta che stava organizzando
le prime rappresentazioni tragiche): il vecchio legislatore era ormai dedito ai
passatempi, al piacere e al bere.
La presenza del vino metterebbe in stretto rapporto il teatro e il simposio. Altro
punto fondamentale del testo. Nella Grecia antica, in occasione del simposio – di cui ci
danno notizia soprattutto Platone e Senofonte – gli astanti, mentre mangiavano,
scambiavano battute, conversavano animatamente, cantavano e suonavano. Il vino,
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rigorosamente “tagliato”, cioè diluito con acqua, facilitava la conversazione, alterava
l’animo umano, rendeva più ricettivi e predisponeva la mente al nuovo.
Del resto, la tragedia e la commedia evocano momenti simili al simposio: la
discussione, le bevute collettive, il consumo di stuzzichini e pasticcini, la baldoria
(kómos) dopo lo spettacolo. In particolare, la commedia antica rappresenta vere e
proprie scene di simposio. Nella Lisistrata di Aristofane, il simposio segna il passaggio
da una situazione di scompiglio al trionfo della pace; nelle Ecclesiàzuse rappresenta il
trionfo e l’essenza dell’utopia di Prassagora. Ancora, nelle Nuvole, durante i simposi i
giovani amavano cantare arie di Euripide contro Eschilo che, forse, era “passato di
moda”. E probabilmente il teatro era un «simposio allargato ai cittadini liberi», in cui si
mettevano in scena aspetti della vita comunitaria.
Nel testo, un’altra questione, ampiamente dibattuta e non ancora risolta, riguarda
la presenza delle donne a teatro. Non disponiamo, in tal senso, di testimonianze dirette.
In Grecia, teatro, simposio e politica dovevano essere essenzialmente affari da uomini.
Tuttavia l’autore, appellandosi ad alcuni recenti studi e alle testimonianze letterarie –
indizi queste ultime più che prove certe (ad esempio, il passo della Vita di Eschilo sulla
rappresentazione delle Eumenidi di Euripide e i alcuni versi delle Rane e delle
Ecclesiàzuse di Aristofane) – non esclude la presenza femminile a teatro. Nessuna legge
lo vietava, e la misoginia dei Greci, che mal tolleravano la presenza femminile in
contesti pubblici, non implicava l’assenza tra il pubblico delle donne.
Certo, la loro frequentazione doveva essere molto limitata, un po’ come avviene
oggi sugli spalti di uno stadio di calcio che ospitano un pubblico prevalentemente
maschile. Se c’erano, le donne dovevano verosimilmente occupare le ultime file e
frequentare il teatro sempre sotto il controllo dei mariti; inoltre – aspetto questo
socialmente più significativo – se la loro presenza sembra certa agli spettacoli tragici,
molto più complessa e discussa è invece negli agoni comici.
Restano comunque interessanti le considerazioni che l’autore fa riguardo alla
presenza di personaggi femminili nelle tragedie e delle commedie. Nonostante
manchino notizie di attrici, personaggi come Antigone, Medea, Alcesti, Andromaca
sono protagoniste assolute di vicende tragiche, tanto da segnare il destino di alcuni eroi.
Inoltre in molte tragedie (le Supplici, il Prometeo incatenato, le Coefore e le Eumenidi)
e commedie è presente un coro composto da donne.
Proprio il rapporto tra il pubblico e il coro costituisce un altro tema fondamentale
del libro. L’autore sembra mettere in discussione l’opinione secondo la quale il coro
fosse lo spettatore ideale. Articolato e diverso in ogni opera, aveva piuttosto il compito
di provocare dibattiti.
Nella tragedia rappresentava le reazioni di coloro che assistono allo snodarsi degli
eventi; la voce dialettica e critica dei drammi familiari; un personaggio che nella
vicenda agisce al posto del pubblico. Nella commedia il coro, socializzando un conflitto
privato, coinvolgeva il pubblico nei fatti rappresentati, dividendolo in opposti partiti.
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Il pubblico a teatro nella Grecia antica
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Nel V secolo e agli inizi del IV, il teatro era strettamente connesso alla vita
democratica della polis. La commedia di Aristofane, ad esempio, svolgeva un
importante ruolo di informazione per i cittadini. Creando un contatto diretto, attraverso
la «rottura dell’illusione drammatica», la commedia antica – la tragedia invece tendeva
a conservare la finzione scenica – esortava l’uditorio all’azione e alla riflessione su temi
di attualità.
Nei loro versi i poeti richiedevano l’attenzione e il consenso degli spettatori – una
specie di «quarto attore» o di «secondo coro» – con i quali probabilmente gli attori
interagivano. Il poeta cercava sempre di tenerne viva l’attenzione dileggiando, mettendo
alla berlina i loro vizi, le abitudini o l’esagerato patriottismo di personaggi noti. Oppure,
con linguaggio scurrile e allusivo, chiamava direttamente in causa il pubblico, di cui
derideva i vezzi, le mode o gli atteggiamenti stereotipati. Ma il pubblico incolto e
superficiale, quello cioè che amava le scene garantite, le battute convenzionali, gli
stereotipi, non mostrava sempre interesse per i problemi della politica, né accettava di
buon grado le frecciate del poeta.
Nel già citato episodio della Vita plutarchea, Solone, dopo aver assistito allo
spettacolo di Tespi, accusò il poeta tragico di rappresentare impunemente davanti al
pubblico tante menzogne, di ingannare gli spettatori attraverso l’assunzione in scena di
una realtà altra, di diverse identità, di figure immaginarie. Si sentì rispondere che non
c’era alcun danno «nel dire e fare» per divertimento cose simili. Solone, preoccupato,
ribatté che questa forma di piacere sarebbe potuta diventare un affare dello Stato, da
organizzare col denaro della polis. Col tempo, cioè, simili forme libere di spettacolo
avrebbero attratto tutta la collettività.
Probabilmente il dialogo tra i due non avvenne mai, né mai forse si incontrarono.
E l’episodio è sicuramente il frutto di una ricostruzione posteriore. Ma quanto piacere
per il pubblico in quell’inganno e quanti insegnamenti – o corruzioni – in quel piacere.
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