Magistratura, virtù passive e stato attivo

Magistratura, virtù passive e stato attivo
MARIA ROSARIA FERRARESE
1. Nota introduttiva
Nel passato una netta distanza separava i paesi di civil law dalle esperienze di judicial
activism, così familiari agli Stati Uniti. Se la centralità del giudiziario ed il suo rilievo
politico sono infatti fenomeni ormai consolidati negli Stati Uniti, nel quadro di una
democrazia di tipo liberale, nei paesi europei la magistratura aveva tradizionalmente un
ruolo limitato e poco visibile nel sistema politico, consistente, paradossalmente, proprio in
una funzione di "neutralizzazione politica" (Luhmann 1978, 56-9).
La consistente e visibile crescita di importanza del ruolo svolto dalla magistratura
nei paesi europei, di tradizione giacobina, è un cambiamento più o meno traumatico. Qui la
novità non può essere catalogata come una semplice riedizione di quanto è già avvenuto
negli Stati Uniti: pur in presenza di affinità, reali o apparenti, che intercorrono tra i due
casi, non vanno infatti sottovalutate differenze importanti che segnano le esperienze
europee di attivismo giudiziario rispetto a quella americana.
In queste pagine si cercherà di indagare proprio alcune di queste differenze, per
meglio interpretare il senso di questo importante cambiamento che ha investito le
democrazie europee di cultura giuridica continentale ed il nostro paese in modo particolare.
Il fenomeno di centralità del giudiziario chiama in causa sia cambiamenti relativi al
sistema politico, sia cambiamenti relativi al sistema giuridico. Tralascerò in questa sede
l'analisi dei cambiamenti relativi al sistema giuridico. Invece cercherò di porre in rilievo
almeno alcuni aspetti del cambiamento relativo al sistema politico, rispondendo agli
interrogativi: si può parlare di judicial activism anche in Europa? Se sì, quali differenze vi
sono tra l'attivismo del giudiziario europeo e quello del giudiziario americano? Ed inoltre:
in che rapporto stanno tali forme di attivismo rispetto al processo democratico?.
L'accresciuto rilievo della giurisdizione nelle democrazie attuali viene
prevalentemente interpretata come un processo di compensazione ad una incapacità delle
organizzazioni politiche di recepire e dare risposte soddisfacenti alle domande sempre più
complesse, cangianti, molteplici e differenziate che le società pongono (si veda GuarnieriPederzoli 1997). Il canale giudiziario funzionerebbe così come un canale suppletivo e
complementare rispetto a quello politico, con possibilità di allargare le risposte senza
impegnare eccessivamente la macchina politica, secondo un meccanismo già analizzato da
tempo negli Stati Uniti1.
Tuttavia, al di là di questa "compartecipazione" del giudiziario alle funzioni di
selezione e di soddisfacimento delle domande politiche, ci si può chiedere se il
protagonismo del giudiziario nel sistema politico non sia parte di un processo più profondo,
1
Il riferimento in proposito è soprattutto Zemans 1983. Per più ampie indicazioni sul processo di
"mobilizzazione giuridica" negli Stati Uniti rinvio a Ferrarese 1995.
1
di ridisegno complessivo dell'esercizio della sovranità, per dirla in termini veteroeuropei.
La domanda ha ragione di esistere soprattutto in riferimento all'esperienza giudiziaria nel
contesto dei paesi di cultura giuridica europea continentale ed a quella italiana in modo
particolare.
E' dunque opportuno, al fine di caratterizzare meglio i tratti della situazione
europea, e di quella italiana in modo particolare, partire da un breve esame del contesto
giuspolitico nel quale è maturato l'attivismo giudiziario negli Stati Uniti e dai caratteri che
lo contraddistinguono. Si cercherà poi di ritrarre le differenze che segnano le esperienze
europee e specie quella italiana rispetto al "modello" americano.
2. Le corti americane: virtù passive e società attiva
Per quanto attiene al contesto giuspolitico nel quale è sorto l'attivismo giudiziario
americano, il richiamo è ad un quadro di tipo liberale in cui la centralità del giudiziario è
conseguenza di una progettazione istituzionale che mira al bilanciamento delle istanze
politiche. Sotto tale profilo, il giudiziario americano ha un protagonismo che deriva
dall'abitudine a considerare sia il diritto, sia i diritti, come un contrappesi ai poteri politici
(Cohen-Tanugi 1985, 58ss.).
La manifestazione più eclatante di questo rapporto concorrenziale tra diritto/diritti e
politica è in quella dialettica tra legislazione e judicial review, che tanto peso ha avuto nella
vita pubblica statunitense: il judicial review, ponendosi come un'"ininterrotto esercizio di
‘potere costituente’" affidato ai giudici (Rebuffa 1986), ha costantemente sfidato la
cosiddetta "onnipotenza del legislatore", includendo gli organi giudiziari nella funzione di
"distribuzione autoritativa dei valori" che è propria della politica.
Ciò fa pensare che la figura del giudice statunitense sia costituzionalmente partecipe
di quelle funzioni "teologiche" che Schmitt considera tipiche della politica. La "teologia
giudiziaria", da sempre presente nel cromosoma della democrazia americana, ricevette una
decisiva spinta in avanti dalle teorie giuridiche realiste che sconfessavano ogni "teoria
fonografica della funzione giudiziaria", come ebbe a dire Frank. I realisti, invece,
ritenevano "che il giudice fosse un dio. Il motivo fondamentale del loro lavoro fu di mettere
in evidenza questa natura divina, e di esortare questo dio a comportarsi in un modo più
ragionevole e più socialmente consapevole" (Friedman 1978, 53). Facendo cadere
l'illusione che la funzione giudiziaria potesse essere recintata entro un perimetro di tipo
meramente tecnico, i realisti scoprirono definitivamente l'anima politica del giudice
americano, suscitando reazioni incredule e scandalizzate.
In realtà, tuttavia, anche nei periodi di più sfrenato attivismo, la propensione
teologica del giudice americano è stata sempre ed è controbilanciata dalle cosiddette "virtù
passive". Come osservò Tocqueville, "per natura il potere giudiziario è privo di azione;
bisogna metterlo in moto perchè si muova. Gli si denuncia un crimine, ed esso punisce il
colpevole; lo si chiama a riparare un'ingiustizia, ed esso la ripara; gli si sottopone un atto,
ed esso l'interpreta; ma non va da solo a perseguire i criminali, a trovare l'ingiustizia, a
esaminare i fatti" (Tocqueville 1969, 123). A questo carattere passivo "essenziale", come lo
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definisce Tocqueville, se ne sommano altri due: quello consistente nel non potersi occupare
di una legge se non nel corso di un processo2 e quello consistente nel non potersi
pronunciare su principi di carattere generale.
Ma non si capisce bene l'importanza di queste virtù passive se non si fa riferimento
al concetto di stato "reattivo", ossia ad uno stato che, come osserva Damaska "è in primo
luogo e soprattutto un organo giudicante" poiché rifugge dall'avere propri fini o intenti di
trasformazione, cosicché la sua concezione "appare priva di stimoli, pressoché senza vita"
(Damaska 1991, 138). Questo stato, insomma, sta in un rapporto di complementarità
rispetto ai diritti della società civile. Sotto questo profilo, la magistratura americana,
avvertita come un "contropotere" vincolato a funzioni di paladina dei diritti, ha
tradizionalmente incontrato la propensione sociale ad "usare" le corti come terreno di
affermazione e di potenziamento dei diritti. All'attivismo della società civile corrisponde
dunque un ruolo delle corti come strutture ricettive delle istanze dei cittadini che ad esse si
rivolgano, per difendere i propri diritti e persino per esercizi di "imprenditorialità
giuridica".
L'asse istituzionale del giudiziario americano è dunque costituzionalmente
sbilanciato dalla parte della società civile, piuttosto che dello stato, proprio per essere in
sintonia con una forte cultura dei diritti. Il giudiziario, in altri termini, è progettato come
istituzione "passiva" non tanto per limitarne gli spazi rispetto alle istituzioni politiche,
quanto per accentuarne la funzionalità rispetto alla società civile ed alla trama di diritti ed
interessi che la percorre. Così le corti, concepite come luoghi di ricezione delle domande di
giustizia dei cittadini, ma non come istituzioni deboli o inerti, laddove siano sollecitate,
possono dar luogo a un attivismo vigoroso e persino altamente creativo, senza tradire la
natura essenzialmente "passiva" che le sottende.
In definitiva, il giudice americano si caratterizza per una curiosa miscela di tratti
passivi e di tentazioni teologiche che sono alla base di una lunga storia di attivismo
giudiziario. L'attivismo giudiziario si è dunque configurato negli Stati Uniti sia come
caduta del mito tecnico del ruolo giudiziario, sia come allargamento dell'ambito di
incidenza della decisione giudiziaria dalla sfera dei diritti individuali alla sfera degli
interessi collettivi, ossia come crescente possibilità per il giudice di programmare le
conseguenze sociali delle proprie scelte.
Peraltro, lo spostamento dell'attivismo giudiziario dal tradizionale terreno della
protezione dei diritti individuali verso la protezione di interessi collettivi e di gruppo
(Handler 1978), pur stigmatizzando un cambiamento di cultura giudiziaria quasi
rivoluzionario, non coglie una rottura significativa sotto il profilo del rapporto con le
istituzioni politiche: in un caso come nell'altro il giudiziario corrisponde a domande che gli
vengono rivolte e che rispecchiano idee socialmente condivise dei diritti. Piuttosto, tale
cambiamento permette di leggere la storia del judicial activism americano come storia
unitaria, impedendo di legarla ad una monolitica funzione di contrasto o di sostegno ad una
2
"Quando un giudice a proposito di un processo si pronuncia su una legge ad esso relativa, estende la
sfera delle sue attribuzioni, ma non ne esce, perché gli è stato necessario, in un certo senso, giudicare la legge
per poter giudicare il processo" (Tocqueville 1969, 138).
3
data politica: l'attivismo giudiziario americano conta al proprio attivo sia atteggiamenti di
strenua resistenza sia di pieno sostegno al welfare state. Sotto il primo profilo, basti pensare
a quella lunga rassegna di pronunce giudiziarie che crearono la dottrina del substantive due
process (Ferrarese 1992), a difesa dei diritti individuali contro le regulations varate
dall'amministrazione Roosevelt (Raiteri 1995). Sotto il secondo profilo, basti pensare alla
giurisprudenza realista e, ancor più, alla decisione assunta nel caso Brown v. Board of
Education, nel 1954, che chiuse la lunga stagione della segregazione razziale negli USA,
aprendo un'epoca nuova per i diritti civili. Questa decisione, attaccata a suo tempo anche da
osservatori progressisti come un'impropria invasione del giudiziario nella sfera di
competenza delle decisioni politiche, assumerà un valore archetipico nel consolidare le
corti in un ruolo di agenti attivi al servizio di un riformismo progressista che troverà il suo
apogeo negli anni sessanta. Infine, i fenomeni di litigation explosion, rivelando una
rinnovata estesa propensione dei gruppi sociali ad usare le corti per ottenere riconoscimento
alle proprie istanze, apriranno una nuova stagione di attivismo all'insegna del tort law che
non si è ancora conclusa.
Questo attivismo delle parti private ha portato negli ultimi decenni ad una ancor più
accentuata presenza di diritto, giudici e giuristi sulla scena pubblica americana ed a quei
fenomeni di cosiddetta litigation explosion, che tanto hanno animato il dibattito. Questi
fenomeni di estesa litigiosità sociale e di crescente ricorso alle corti non hanno mancato di
prestarsi ad interpretazioni contrastanti (si veda Politica del diritto 1993, n. 4).
Friedman (1985) ha visto in esso il prodotto di un'ansia di giustizia e di sicurezza
che è progressivamente cresciuta nella società americana, a vantaggio della democrazia.
Altri hanno invece contestato le valenze positive di questi fenomeni di litigiosità
processuale, denunciandone invece le capacità destabilizzanti ed i risultati non
necessariamente concordi alla giustizia (cfr. Olson 1992).
Tuttavia, al di là di contrastanti giudizi o interpretazioni che si possano dare di
questa estesa propensione ad usare le corti, essa appare rivelatrice di un atteggiamento di
diffuso "attivismo" sociale che è causa e non effetto della centralità del giudiziario nella
vita pubblica americana. L'attivismo giudiziario americano si pone dunque, in un quadro di
spinta "mobilitazione giuridica", come un modo di interpretare compiutamente il carattere
"reattivo" dell'istituzione giudiziaria. Non a caso gli Stati Uniti non sono solo il paese
dell'attivismo giudiziario, ma anche dell'iperattivismo degli avvocati. Come ha osservato
Damaska, lo stato reattivo "è pieno di avvocati come lo Stato attivo è saturo di
amministratori, educatori, terapisti, e simili figure manageriali" (Damaska 1991, 241).
L'inserimento a pieno titolo degli avvocati o di altri fattori di bilanciamento (come
le giurie) nel circuito della giurisdizione significa altresì che l'attivismo giudiziario
americano non è entrato in rotta di collisione con le cosiddette "virtù passive". In un certo
senso, anzi, esso si presenta quasi come l'altra faccia di una spinta propensione dei privati,
siano individui o gruppi, a scegliere le corti come terreno per difendere diritti o interessi.
Come ha osservato Friedman (1978, 300), "i tribunali americani si sono evoluti molto
vistosamente nel perfezionare i diritti d'eguaglianza dei negri. Ma non furono i giudici ad
iniziare quel tipo di litigiosità: sono stati i negri e i loro avvocati a portare i casi davanti ai
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giudici; i negri si sedettero sugli autobus proibiti, bussarono alla porta delle scuole proibite,
strillarono per ottenere il voto e litigarono con determinazione e tenacia".
3. Magistratura e democrazia in Europa
L'esperienza americana costituisce il referente diretto o indiretto di molte analisi per
interpretare i processi di trasformazione della democrazia nei paesi europei e la nuova
centralità conquistata dalla magistratura. In effetti, in Europa si assiste ad un processo di
tendenziale assimilazione del ruolo svolto dal giudiziario al modello americano (Cappelletti
1984). L'impressione è che sempre più le magistrature europee tendano verso un ruolo
attivo, di compartecipazione alle funzioni politiche, che ricorda quello svolto dalla
magistratura americana. Ciò significa la tendenza dei magistrati a comportarsi come un
potere di carattere rappresentativo, cioè abilitato a decidere i casi adottando criteri di natura
politica. Peraltro, sotto un profilo giuridico, ciò significa che l'attivismo si propone nei
paesi di cultura giuridica continentale come "scarto tra la rappresentazione tradizionale del
giudice come ‘bocca della legge’ e le funzioni che questi in realtà svolge" (GuarnieriPederzoli 1997, 10).
Sicuramente questa tendenza è in atto e non può essere messa da parte in un
tentativo di recuperare certezze di marca giuspositivistica e scenari politici di tipo
giacobino.
Tuttavia, il timore che la nuova centralità del giudiziario dia luogo ad improprie
forme di "governo dei giudici" affiora ripetutamente. Il rischio di possibili effetti "perversi"
che l'introduzione del modello americano in contesti culturalmente ed istituzionalmente
diversi può comportare è affiorato più volte ed è tutt'altro che nuovo. Già Weber aveva in
qualche modo segnalato il rischio di un'operazione di trasposizione del modello americano
in seno ad istituzioni giudiziarie coltivate nel mito del formalismo giuridico3. E Schmitt, a
sua volta, si chiedeva se, ponendosi i magistrati come "custodi della Costituzione", non si
rischiasse di produrre "non una qualche giuridificazione della politica, ma una
politicizzazione della giurisdizione" (Schmitt 1981, 41). Resta da vedere se questi rischi
siano definitivamente alle nostre spalle e se esista finalmente la possibilità di assegnare alle
magistrature europee non più un ruolo prevalentemente di controllo ma di protezione e di
potenziamento dei diritti.
Certamente una sensibile differenza rispetto alla situazione statunitense è
rappresentata dal fatto che nei paesi di cultura giuridica continentale persiste la tendenza ad
affidare al legislativo la selezione delle istanze politiche. Tuttavia, proprio la crisi del
tradizionale contesto giuspositivistico, che voleva il giudice mero esecutore della "volontà"
3
"Una magistratura burocratizzata, nella quale i posti direttivi sono sempre più sistematicamente
assegnati a rappresentanti del pubblico ministero e le possibilità di avanzamento dipendono totalmente dai
poteri politicamente dominanti, non può essere paragonata con quella svizzera o inglese, o ancor meno ai
giudici (federali) americani" (Weber, 1980, 200).
5
legislativa, ha costituito una grande opportunità per il potere giudiziario di porsi come
protagonista visibile ed attivo sul pubblico scenario.
Non si tratta solo della incapacità della legge di fungere ormai da efficace mezzo di
regolazione della vita sociale; ancora più importante è il fatto che sono mutati in maniera
consistente i meccanismi di produzione della "norma giudiziaria", come la chiamava
Kelsen, e si è passati da modalità statiche a modalità per così dire, "interattive". In altri
termini, se nel passato bastava applicare una data norma ad un dato caso, oggi sempre più il
magistrato deve confrontare la norma con altri referenti normativi.
Alla base di questa mutata ingegneria della produzione giudiziaria vi sono due
importanti movimenti, che costituiscono quelle due "dimensioni costituzionale e
transnazionale" che Cappelletti indica come tipiche della giustizia nelle società europee
contemporanee. In primo luogo il processo di "costituzionalizzazione" in atto nei paesi
europei, che dà fiato alle rivendicazione di diritti vecchi e nuovi: "l'introduzione del
controllo di costituzionalità delle leggi nei paesi di civil law, soprattutto laddove si è
sviluppata in forme tali da favorire la collaborazione tra corte costituzionale e giudici
ordinari ed amministrativi, ha determinato un consistente recupero del diritto
giurisprudenziale" (Pizzorusso 1990). In secondo luogo l'esistenza sempre più attiva sia di
un diritto comunitario, sia di organi di giustizia europei dà anch'essa luogo a processi
interattivi nella decisione giudiziaria, aumentando gli spazi del diritto giurisprudenziale.
Vi è poi un'ulteriore dimensione di cui occorre tener conto: si tratta di quel nuovo
"movimento di pensiero", detto dell'accesso alla giustizia che, dagli Stati Uniti si è riversato
anche in Europa. Certo gli effetti in Europa sono stati assai più modesti e meno dirompenti,
ma anch'esso ha contribuito a cambiare alcune delle tradizionali prospettive della cultura
giuridica. Innanzitutto la nuova filosofia dell'accesso si accompagna ad "una forte reazione
contro un'impostazione dogmatico-formalistica che pretendeva di identificare il fenomeno
giuridico esclusivamente nel complesso delle norme, essenzialmente di natura statale, di un
determinato Paese" (Cappelletti 1994, 72). Inoltre, tale filosofia rovescia la tradizionale
prospettiva "tolemaica", che faceva "vedere il diritto esclusivamente nella prospettiva dei
‘produttori’ e del loro ‘prodotto’: il legislatore e la legge, la pubblica amministrazione e
l'atto amministrativo, il giudice e il provvedimento giudiziale"; dalla prospettiva
dell'accesso, l'attenzione si sposta all'"individuo, ai gruppi, alla società insomma, e così ai
bisogni alle istanze alle aspirazioni di individui, gruppi e società e soprattutto agli ostacoli
di varia natura — economici, culturali, psicologici — che si frappongono fra il diritto inteso
come ‘prodotto’ e il cittadino che a tale ‘prodotto’ chiede di avere accesso" (Cappelletti
1994, 100).
Nel complesso, ciò porta alla penetrazione nelle corti di interessi diffusi e di natura
collettiva, che hanno contribuito non poco ad esaltare le valenze politiche del ruolo
giudiziario.
Se ora si prova a verificare la compatibilità di questa situazione di espansione
dell'attivismo giudiziario con un quadro di tipo democratico, i giudizi, pur se non sempre
concordi, sembrano prevalentemente accreditare l'idea di una elevata compatibilità.
Probabilmente, alla base del dissenso, c'è una diversa accezione di democrazia, intesa in
senso liberale o in senso giacobino.
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Laddove prevale un'accezione giacobina della democrazia, il nuovo potere
conquistato dalla magistratura appare incompatibile con la radice della democrazia. Ma
anche ai liberali, appare il rischio che la funzionalità politica della magistratura, quando
manchino i controbilanciamenti che funzionano in uno stato "reattivo", possa non
assomigliare a quella del giudiziario americano, consegnando alla magistratura dosi di
potere che possono configurare rischi per una cultura delle libertà. Il contesto di una
magistratura caratterizzata in senso burocratico, che agisce al servizio di uno stato che è
attuatore di scelte etiche e politiche, di fini e valori, può portare una magistratura
tradizionalmente abituata ad un ruolo "ancillare", su lidi non sempre compatibili con una
cultura dei diritti: il rischio è che questa nuova libertà dei magistrati resti inserita nel quadro
di una cultura "attivistica" dello stato, e dunque priva di quel controbilanciamento che in
uno stato "reattivo" è costituito da una società forte, abituata a chiedere il rispetto dei propri
diritti e ad usare le corti per ottenerlo. Analizzerò più specificamente questo tipo di
argomenti con riferimento al caso dell'attivismo giudiziario in Italia.
Laddove la fine di un'accezione giacobina della democrazia viene interpretata come
funzionale ad un'espansione democratica, anche la nuova centralità del giudiziario sembra
esser vista come un ricostituente della democrazia. Troviamo diffuso questo tipo di
interpretazione sia in Italia che in Francia.
In Francia, paese-simbolo della cultura democratica, il passaggio "da uno stato
giacobino allo stato di diritto" appare a Cohen-Tanugi (1993, 29) l'inevitabile portato di "un
rovesciamento significativo della relazione tra l'ordine dello stato e quello del diritto, che
caratterizzava tradizionalmente la democrazia francese". Questo rovesciamento si compie
in un contesto di rinnovata importanza di questioni che furono centrali alla fine del
diciottesimo secolo, essenzialmente i rapporti tra stato, diritto e cittadini, vale a dire le
questioni centrali del liberalismo. In tale contesto la tradizionale organizzazione
centralizzata dello stato viene via via smontata a favore di una frammentazione del potere e
delle autorità statali, in nome di una priorità del diritto e di principi di natura costituzionale.
La Francia si è così avviata verso un costituzionalismo4 che ha riportato in auge il diritto
come meccanismo di riequilibrio e di rimodellamento della democrazia. In altri termini, a
dispetto di una macchina politica congegnata in senso maggioritario, la dinamica
maggioranza-opposizione finisce per frantumarsi in uno spettro più complesso di posizioni.
Ridefinita in senso pluralista e partecipativo, la democrazia perde ogni connotazione
sostanzialista e si pone essenzialmente come un meccanismo procedurale in cui le varie
istanze hanno modo di inserirsi, dando luogo ad una concorrenza tra poteri, idee ed
interessi, che lottano per "contrattare le norme".
4
L'atto di nascita del costituzionalismo francese viene individuato nel 1971, anno in cui il Conseil
Constitutionnel si pronuncia a favore della costituzionalità dei principi indicati nel Preambolo della
Costituzione del 1958, ivi compresi quelli della Dichiarazione dei diritti dell'uomo e del cittadino del 1789.
Nel 1974 interviene poi una riforma, promossa da V. Giscard d'Estaing, che, modifica i criteri per adire il
Conseil: precedentemente riservato solo a quattro persone, il potere di adire la Corte viene esteso anche
all'opposizione parlamentare, con ciò modificando sensibilmente la possibilità per questa di ricorrere al
controllo di costituzionalità come strumento di lotta politica. Si veda Cohen-Tanugi, 1993, 31ss.
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L'"ascesa del diritto nel firmamento della democrazia" si accompagna d'altra parte,
inevitabilmente, ad una parallela ascesa dei magistrati come nuovi protagonisti sullo
scenario democratico5. La centralità del giudiziario è un modo nuovo di garantire spazi e
partecipazione alla società civile: il diritto diventa così fattore di "modernizzazione" della
democrazia, di potenziamento delle sue tradizionali dinamiche. L'intervento del giudice nel
conflitto corrisponde alla "virtù" di "rendere visibile la divisione sociale e di proporre le vie
argomentative per renderlo negoziabile" (Ost 1991, 267).
In maniera simile in Italia il protagonismo del giudiziario è stato visto come l'effetto
di più profondi cambiamenti dei sistemi politico-istituzionali, che determinano "continui
attraversamenti dei confini tra giustizia e politica, che ingenuamente qualcuno continua a
ritenere fissati una volta per tutte" (Rodotà 1996, 28). Sulla stessa linea interpretativa
Zagrebelsky (1992) sostiene che è in atto il passaggio da uno stato di diritto ad uno stato
"costituzionale" caratterizzato dalla situazione di "separazione dei diritti dalla legge":
laddove la tradizione statalista relegava i diritti nel cono d'ombra della legge, ancorandoli
ad un significato meramente oggettivo, lo stato costituzionale riconosce un autonomo
fondamento ai diritti, come "dotazione giuridica" in capo ai soggetti.
La Costituzione è dunque luogo di "mitezza", ossia di coesistenza e di
compromesso, di "intreccio tra valori e procedure comunicative, che è poi l'unica visione
della politica non catastrofica possibile nel nostro tempo" (Zagrebelsky 1992, 11-2). E non
è un caso che le costituzioni europee attuali "se non prima dei diritti, almeno insieme ai
diritti, parlano della democrazia" (ibid., 76).
In questo quadro, al giudiziario spetta il compito-chiave di guidare lo spostamento
del sistema giuridico dalla preminenza della legge verso "un rapporto di tensione tra caso e
regola" che "introduce inevitabilmente un elemento di equità nella vita del diritto" (ibid.,
204). La capacità di potenziare il dialogo della democrazia contro il monologo dello stato o
della legge, che appare una prerogativa del giudiziario, induce a modificare anche le
tecniche legislative in modo da rendere le leggi capaci di rispondere a nuove esigenze di
flessibilità: com'è stato osservato, l'uso di tecniche legislative che sempre più fanno ricorso
alle clausole generali nell'ambito della legislazione evita il rischio di conflitti frontali sui
valori: la scelta legislativa "non chiude il conflitto ma lo enfatizza, dal momento che uno
dei valori in campo è radicalmente delegittimato. Invece la decisione giudiziaria, laddove è
possibile, non implica mai una delegittimazione completa: nel senso che la parte perdente
può sempre sperare che, nella prossima occasione, ci sarà una decisione giudiziaria, se non
di segno opposto, certamente non così radicale come la precedente" (Rodotà 1994, 198).
Come si vede, queste analisi interpretano l'espansione del potere giudiziario come
una tendenza positiva o comunque ineludibile nelle moderne democrazie. In esse prevale
una lettura del processo di affermazione del diritto e della giurisdizione nell'arena politica
come rottura della logica statalista che dominava nell'Europa continentale. La crescita del
5
Si veda Minc 1995, 130, dove si parla della nuova "santa trinità" che caratterizza la democrazia francese
e che è composta da giudici, mass media e opinione: nella democrazia "di opinione", che sempre più contende
lo spazio all'ideologia statalista, magistrati e mass media, abbracciati gli uni agli altri, costituiscono le nuove
stelle polari di una società mutevole e priva di timonieri.
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peso politico del giudiziario confligge con un'accezione giacobina della democrazia, che
dava rilievo centrale alla legislazione come tipico prodotto della dinamica maggioranzaminoranza. Via via che la democrazia si fa pluralistica e partecipata e meno capace di
riconoscersi in un'accezione unitaria della "volontà generale", essa ricorre alla giurisdizione
come strumento di allargamento e di flessibilizzazione della dinamica democratica.
La giurisdizione come canale di tipo politico da un lato dilata la capacità del sistema
politico di recepire e soddisfare domande, dall'altro aumenta la flessibilità delle risposte.
Questo secondo profilo è particolarmente interessante perché significa non solo la
possibilità di variegare l'arco delle risposte giudiziarie da un caso all'altro, ma altresì la
possibilità di accesso a soluzioni non necessariamente coincidenti con quelle politiche
prevalenti, e dunque estranee al circuito maggioranza-minoranza, secondo un quadro già
analizzato negli Stati Uniti (Zagrebelsky 1992, 200; si veda anche Guastini 1996).
4. Magistratura e processo penale in Italia
Nel contesto italiano, l'ascesa del potere giudiziario ha ormai una lunga storia (Ferrarese
1994a) ed ha raggiunto un'evidenza non pareggiata in altri paesi (cfr. Guarnieri 1992)6.
In Italia, i primi segni di attivismo giudiziario furono legati ad un dibattito sul tema
dei valori costituzionali nell'interpretazione giudiziaria. Lo sguardo del magistratointerprete rivolto alla Costituzione scoprì il fronte delle "tentazioni della politica". Il nuovo
ruolo dei magistrati come garanti di domande di equità, di giustizia e di tutela del pubblico
interesse fu, negli anni sessanta e settanta, una traumatica novità nel panorama italiano. Ma
il dibattito sulla magistratura fu a lungo incentrato in buona misura sull'interpretazione
giudiziaria e dunque su un tema di carattere professionale, più che politico. Gli spazi nuovi
che si aprivano per la magistratura derivavano da un quadro di valorizzazione delle norme e
dei valori costituzionali, più che da aperte rivendicazioni di natura politica. Maturati in
questa cornice, i primi casi di attivismo giudiziario, che avevano per protagonisti i
cosiddetti "pretori d'assalto", corrispondevano ad un progetto di carattere "promozionale" al
servizio di una società più giusta (in consonanza con l'art. 3 della Costituzione), o della
difesa del pubblico interesse (ad esempio in materia di ambiente).
Tuttavia, nonostante l'apparente consonanza con l'attivismo giudiziario americano,
già in quei casi cominciavano a delinearsi due caratteri distintivi assai lontani da
quell'esperienza, che si sarebbero progressivamente affermati come tipici del caso italiano:
un carattere di aperta conflittualità rispetto ai poteri politici, che avrebbe portato l'attivismo
giudiziario a ripetute contrapposizioni rispetto ai poteri rappresentativi; e un carattere
interventista rispetto alla società civile, che avrebbe sempre più travolto il volto della
magistratura come istituzione "passiva".
Cominciamo dalla conflittualità rispetto ai poteri politici.
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Una rassegna di alcuni dei principali episodi che hanno segnato la più recente storia della magistratura
italiana si trova in Canosa 1996.
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In Italia il processo di "politicizzazione" della magistratura è al centro del dibattito
da quasi trent'anni. Peraltro, con tale espressione è possibile riferirsi a fenomeni diversi e
diverse versioni di politicizzazione della magistratura si sono succedute nel tempo. Lungo
queste diverse versioni, sempre più, la politicizzazione, oltre ad indicare un progressivo
abbandono della condizione di potere "neutrale"7, ha significato per il giudiziario
l'assunzione di un ruolo conflittuale nei confronti del potere politico.
Così, l'idea della "supplenza giudiziaria" è passata dal configurare un'azione della
magistratura in vece dei politici, a configurare un'azione della magistratura contro i politici:
se nel passato l'idea di "supplenza giudiziaria" valeva a contrapporre l'attivismo dei
magistrati alle inadempienze della politica, via via indicava un attivismo giudiziario che
metteva sotto accusa le illegalità dei politici. Si creava così una situazione di confronto
diretto col ceto politico, che spesso assumeva la forma di un esplicito conflitto8, e talora
segnava quasi una sorta di sfida ai poteri rappresentativi.
In svariate occasioni, insomma, il potere giudiziario finiva per apparire come
censore della legittimità sia del potere esecutivo, sia del potere legislativo (Ferrarese 1994a,
65ss.). Con una differenza importante: le censure nei confronti di esponenti del potere
esecutivo hanno prevalentemente trovato espressione in sede processuale o nella fase delle
indagini che precedono il processo. Al contrario, le censure nei confronti dell'attività
legislativa si sono manifestate in occasioni extra-giudiziarie, con un più esplicito
travolgimento di quel carattere di passività che vieterebbe ai giudici di pronunciarsi sulle
leggi al di fuori di un caso giudiziario. Veramente decisive sono state tuttavia le censure di
legittimità esercitate nei confronti di esponenti del potere politico (legislativo ed esecutivo)
nel corso di indagini e processi penali. Infine, nel 1993, una crisi di governo ed il ricambio
delle assemblee legislative, provocati dalle inchieste giudiziarie su Tangentopoli, che
colpivano ministri e parlamentari, sono stati a più riprese etichettati come una vera e
propria "rivoluzione" politica provocata dai magistrati.
Collocato in questo quadro fortemente conflittuale, l'attivismo del potere giudiziario
in Italia ha finito per essere da alcuni interpretato più come causa che come effetto di una
crisi dei poteri rappresentativi (cfr. Marconi 1984, Gismondi 1996). Anzi, in alcune
interpretazioni, è sembrato quasi che il rapporto tra potere giudiziario e potere politico fosse
"a somma zero", cosicché all'espansione del primo avesse corrisposto un equivalente
indebolimento del secondo. In definitiva è stato a più riprese sottolineato il ruolo svolto
dalla magistratura come strumento di selezione del personale politico nel nostro paese. Con
l'aggravante che tale selezione è avvenuta per le vie della giustizia penale (Cazzola-Morisi
1996) e con le valenze simboliche che hanno da sempre i "rituali di degradazione"
(Giglioli-Cavicchioli-Fede 1997).
7
Sulla politicizzazione dei poteri neutrali nelle crisi di regime democratico, si veda Linz 1977. Sul caso
italiano Righettini 1995.
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Il fenomeno, tuttavia, non è solo di questi ultimissimi anni; il confronto diretto tra politici e magistratura
nei termini di un conflitto era già presente negli anni ottanta, pur non avendo raggiunto l'importanza
qualitativa e quantitativa degli anni novanta. Rinvio in proposito a Ferrarese 1994.
10
Se questo particolare carattere di opposizione ai poteri politici è stato osservato da
varie prospettive, minore attenzione è stata invece tributata al secondo carattere,
spiccatamente interventista, dell'attivismo giudiziario italiano.
Cosa si vuole indicare con il termine "interventismo giudiziario"? Com'è noto, si
parla di "interventismo" per indicare il processo di interferenza dello stato nella vita
economica e, per estensione, in altre sfere della vita sociale, originariamente considerate
"spontanee". Si può dunque parlare di un interventismo giuridico, così come di un
interventismo economico o culturale. L'interventismo corrisponde alla logica di uno stato
"attivo", che cioè assume come proprii fini e obiettivi da perseguire. L'interventismo allude
dunque ad un intervento di natura pubblica, che ricade "dall'alto" sulla società, ed ha
un'ispirazione essenzialmente di tipo pubblicistico.
Un attivismo giudiziario di tipo interventista indica dunque un processo di
mobilitazione della giurisdizione, che non è tanto il risultato di spinte, domande o richieste,
azionate dal basso, da svariati individui, gruppi o settori sociali, quanto di obiettivi di
politica giudiziaria disegnati "dall'alto" e che ricadono sulla vita sociale come un "corso
forzoso" a connotazione pubblicistica.
Come si è detto, questo aspetto diventa più chiaro se si assume lo sguardo del
comparatista, guardando al caso italiano attraverso la lente del giudiziario americano.
Per capire le differenze tra attivismo giudiziario americano ed interventismo
giudiziario italiano non basta far riferimento ai diversi contesti organizzativi della
magistratura. Come insegna proprio Damaska, diversi contesti organizzativi, di tipo
"gerarchico" o "paritario" sono non per caso rispettivamente connessi a due diversi tipi di
stato: l'organizzazione di tipo gerarchico è propria dello stato "attivo", che si propone come
tutore ed educatore della società civile, mentre l'organizzazione di tipo "paritario" è propria
dello stato "reatttivo", che non persegue propri fini e si limita ad una funzione arbitrale
rispetto ad interessi e conflitti che emergono nella società.
Diverse culture statali hanno riflessi significativi sul ruolo svolto dalla giurisdizione
perché disegnano diversamente la sua funzionalità rispetto allo stato o rispetto alla società
civile. Una cosa è il ruolo giudiziario in un ambiente sociale sensibile alla difesa dei diritti e
disponibile ad "usare" le corti per tal fine: qui l'attivismo giudiziario diventa uno strumento
al servizio della società civile ed è necessariamente controbilanciato dall'attivismo sociale
che lo promuove. Altro è il ruolo della giurisdizione quando questa si trovi inserita in uno
stato di tipo "attivo", in cui manca questa diffusa propensione sociale ad usare le corti per
difendere i propri diritti: qui il rischio è che l'attivismo giudiziario finisca per porsi come
"interventismo" dall'alto, che non è bilanciato da una diffusa mobilitazione sociale.
Non per caso, laddove negli Stati Uniti l'ideologia dei diritti ha portato i cittadini ad
adire soprattutto le corti civili, per presentare le proprie istanze sui diritti9, da noi sono stati
i giudici penali a catalizzare lo scenario della giurisdizione. Questa, intesa prevalentemente
9
Si pensi, per esempio, alla lunga catena di casi giudiziari che portò fino davanti alla Supreme Court
l'obiettivo di liberalizzare la preghiera nelle scuole o alla richiesta, presentata ai giudici di permettere l'accesso
dei neri nelle scuole dei bianchi.
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come organo di intervento e di controllo "dall'alto", al servizio di una funzione di natura
pubblicistica, è corrispettiva alla mancanza di una diffusa ed attiva cultura dei diritti.
L'esperienza americana insegna che ancora più importante del tipo di
organizzazione giudiziaria è l'"ambiente" sociale che circonda la giurisdizione. Questa,
peraltro, è la chiave che permette di spiegare perché in Italia, dopo Mani pulite, le inchieste
sulla corruzione non si sono diffuse, fino a innescare una vera controtendenza; certo, qui e
lì di ciò può essere responsabile l'atteggiamento collusivo di qualche magistrato o la scarsa
voglia di aprire indagini scomode. Ma per lo più la mancanza di un effetto diffuso delle
indagini in materia di corruzione è da ascrivere ad una scarsa attitudine a vedere nella
corruzione una lesione ai propri diritti e nel giudiziario l'interlocutore a cui rivolgersi per
denunziare tale lesione. Non è un caso che l'immane caso giudiziario "Mani pulite" è stato
innescato a seguito della denuncia non di un concusso o di un corrruttore, ma di una moglie
in conflitto giudiziario con un marito corrotto!
In Italia, dunque, l'attivismo giudiziario si è espresso prevalentemente come
interventismo penale. Inoltre, i suoi principali protagonisti sono stati i pubblici ministeri,
ossia magistrati che sono detentori dell'iniziativa penale, e che dunque in qualche misura
mancano di quei caratteri di passività di cui si è detto precedentemente. Certo, il p.m. ha
pur sempre bisogno di una notizia criminis per avviare un'indagine. Ma questo non
significa necessariamente un cittadino che avvia un procedimento, assumendosi tutti i
relativi oneri.
In definitiva, in Italia l'attivismo giudiziario si è prevalentemente attestato su
compiti di controllo sociale. Correlativamente, la magistratura è stata prevalentemente
percepita come forma di pubblico potere, soprattutto al cospetto di magistrati che vestivano
la toga del pubblico ministero. Peraltro, è stato lo sguardo rivolto verso la magistratura
penale la "via italiana" per arrivare a cogliere la politicità della giurisdizione e la
magistratura come soggetto politico. Ma questa politicità è di segno diverso da quella di
una giurisdizione che agisce innanzitutto al servizio dei diritti. Non a caso l'Italia manca di
un attivismo giudiziario in campo civile (si veda Alpa 1996).
La pressoché totale riduzione dell'immagine della magistratura alla magistratura
penale ha corrisposto alla quasi totale scomparsa della giustizia civile dal cosiddetto
"immaginario collettivo". Ciò ha prodotto un gravissimo difetto in termini di cultura civile:
a dispetto di valori "liberali" che pressoché tutti invocano o a cui tutti si richiamano, non si
riesce ormai neanche più a pensare che la giustizia è innanzitutto giustizia civile10.
Ora, come può parlarsi di "stato costituzionale" e di "costituzionalismo" in Italia, in
una situazione di completa dèbacle della giustizia civile? Che diritti sono dei diritti che non
sono azionabili dinanzi al giudice o che richiedano tempi lunghissimi di riconoscimento
giudiziario?
10
Un piccolo ma significativo sintomo di tale situazione si è ritrovato nel recente convegno organizzato
dalla rivista Liberal su "Ripensare la giustizia" (si veda il documento introduttivo pubblicato in Liberal 1997,
n. 25), dove, semplicemente, il termine "giustizia" stava per "giustizia penale" ed il progetto di una
rifondazione in senso liberale della giustizia, saltava a piè pari il problema della giustizia civile, limitandosi a
porre il tema delle garanzie del cittadino nella sfera penale e in specie nei confronti del p. m.
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Questa situazione, a sua volta, può essere spiegata in base alla scarsa vicinanza della
magistratura alla società civile. Non a caso sia Cohen-Tanugi che Zagrebelsky avvertono
l'importanza centrale di una trasformazione della cultura giurisdizionale per portare a
termine il processo di costituzionalizzazione. Cohen-Tanugi (1993, 199-204) auspica una
vera "democrazia giuridica", in cui il discorso dei giudici sappia aprirsi alla realtà sociale e
diventare "discorso pubblico" e la società sappia stimolare la giurisdizione. Zagrebelsky
(1992, 206-7), a sua volta, considera necessaria una riforma di collocazione della
magistratura, in modo da renderla intermedia tra stato e società, e da conferirle in tal senso
sia "una doppia fedeltà", sia "una doppia indipendenza".
Una magistratura protettrice dei diritti è insomma una magistratura più vicina alla
società che allo stato; che agisce più nella sfera civile che nella sfera penale; che appare più
come un'istituzione quotidiana e domestica che come un'istituzione solenne e potente.
Quando Schmitt tratteggia i caratteri dello stato di diritto "giurisdizionale" non pensa ad un
"governo dei giudici": pensa ad uno stato caratterizzato da un ethos, che "risiede nel fatto
che il giudice decide direttamente nel nome del diritto e della giustizia, senza che gli
vengano proposte o imposte da parte di altri poteri non giudiziali, ma politici, normazioni
relative a questa giustizia" (Schmitt 1972, 216). L'ethos dello stato giurisdizionale è diverso
dal grande pathos dello stato di diritto "governativo" che si ammanta dei principii di
majestas, splendor, excellentia (ibid., 216-17).
L'immagine della magistratura nel nostro paese, così pesantemente caratterizzata in
senso penalistico, è tutt'altro che quotidiana e domestica: essa ha finito per somigliare
sempre più ad un'istituzione di tipo bellico, con connotati di straordinarietà quasi di tipo
carismatico. La stessa idea della magistratura come potere "diffuso" è andata ad infrangersi
contro fenomeni di giustizia penale "aggregata", che accentra indagini, controlli ed
indirizzi, al fine di assolvere a funzioni di intelligence (cfr. Ferrarese 1994b).
Concetti come quello di "maxi-processo" o di "superprocura" danno l'idea di un
carattere di estrema "pesantezza" assunto della macchina penalistica nel nostro paese. A
tutto ciò non è estranea un'involuzione delle stesse categorie penalistiche che ha spostato
sempre più il diritto penale verso funzioni "simboliche" o "magiche", come le chiama
Delmas-Marty (1992).
Una magistratura penale che amministra giustizia nella temperie dell'"emergenza" e
dello "stato di necessità" appare assai lontana da quel carattere quotidiano della
magistratura americana che così appariva allo "straniero" Tocqueville: "il magistrato
sembra introdursi negli affari pubblici solo per caso; senonché, è un caso che si ripete tutti i
giorni" (Tocqueville 1969, 122). Appare, piuttosto, pericolosamente vicina a quel potere di
decidere "sullo stato di eccezione", che, nei termini di C. Schmitt, è il tratto più tipico della
sovranità.
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