Magistratura, virtù passive e stato attivo MARIA ROSARIA FERRARESE 1. Nota introduttiva Nel passato una netta distanza separava i paesi di civil law dalle esperienze di judicial activism, così familiari agli Stati Uniti. Se la centralità del giudiziario ed il suo rilievo politico sono infatti fenomeni ormai consolidati negli Stati Uniti, nel quadro di una democrazia di tipo liberale, nei paesi europei la magistratura aveva tradizionalmente un ruolo limitato e poco visibile nel sistema politico, consistente, paradossalmente, proprio in una funzione di "neutralizzazione politica" (Luhmann 1978, 56-9). La consistente e visibile crescita di importanza del ruolo svolto dalla magistratura nei paesi europei, di tradizione giacobina, è un cambiamento più o meno traumatico. Qui la novità non può essere catalogata come una semplice riedizione di quanto è già avvenuto negli Stati Uniti: pur in presenza di affinità, reali o apparenti, che intercorrono tra i due casi, non vanno infatti sottovalutate differenze importanti che segnano le esperienze europee di attivismo giudiziario rispetto a quella americana. In queste pagine si cercherà di indagare proprio alcune di queste differenze, per meglio interpretare il senso di questo importante cambiamento che ha investito le democrazie europee di cultura giuridica continentale ed il nostro paese in modo particolare. Il fenomeno di centralità del giudiziario chiama in causa sia cambiamenti relativi al sistema politico, sia cambiamenti relativi al sistema giuridico. Tralascerò in questa sede l'analisi dei cambiamenti relativi al sistema giuridico. Invece cercherò di porre in rilievo almeno alcuni aspetti del cambiamento relativo al sistema politico, rispondendo agli interrogativi: si può parlare di judicial activism anche in Europa? Se sì, quali differenze vi sono tra l'attivismo del giudiziario europeo e quello del giudiziario americano? Ed inoltre: in che rapporto stanno tali forme di attivismo rispetto al processo democratico?. L'accresciuto rilievo della giurisdizione nelle democrazie attuali viene prevalentemente interpretata come un processo di compensazione ad una incapacità delle organizzazioni politiche di recepire e dare risposte soddisfacenti alle domande sempre più complesse, cangianti, molteplici e differenziate che le società pongono (si veda GuarnieriPederzoli 1997). Il canale giudiziario funzionerebbe così come un canale suppletivo e complementare rispetto a quello politico, con possibilità di allargare le risposte senza impegnare eccessivamente la macchina politica, secondo un meccanismo già analizzato da tempo negli Stati Uniti1. Tuttavia, al di là di questa "compartecipazione" del giudiziario alle funzioni di selezione e di soddisfacimento delle domande politiche, ci si può chiedere se il protagonismo del giudiziario nel sistema politico non sia parte di un processo più profondo, 1 Il riferimento in proposito è soprattutto Zemans 1983. Per più ampie indicazioni sul processo di "mobilizzazione giuridica" negli Stati Uniti rinvio a Ferrarese 1995. 1 di ridisegno complessivo dell'esercizio della sovranità, per dirla in termini veteroeuropei. La domanda ha ragione di esistere soprattutto in riferimento all'esperienza giudiziaria nel contesto dei paesi di cultura giuridica europea continentale ed a quella italiana in modo particolare. E' dunque opportuno, al fine di caratterizzare meglio i tratti della situazione europea, e di quella italiana in modo particolare, partire da un breve esame del contesto giuspolitico nel quale è maturato l'attivismo giudiziario negli Stati Uniti e dai caratteri che lo contraddistinguono. Si cercherà poi di ritrarre le differenze che segnano le esperienze europee e specie quella italiana rispetto al "modello" americano. 2. Le corti americane: virtù passive e società attiva Per quanto attiene al contesto giuspolitico nel quale è sorto l'attivismo giudiziario americano, il richiamo è ad un quadro di tipo liberale in cui la centralità del giudiziario è conseguenza di una progettazione istituzionale che mira al bilanciamento delle istanze politiche. Sotto tale profilo, il giudiziario americano ha un protagonismo che deriva dall'abitudine a considerare sia il diritto, sia i diritti, come un contrappesi ai poteri politici (Cohen-Tanugi 1985, 58ss.). La manifestazione più eclatante di questo rapporto concorrenziale tra diritto/diritti e politica è in quella dialettica tra legislazione e judicial review, che tanto peso ha avuto nella vita pubblica statunitense: il judicial review, ponendosi come un'"ininterrotto esercizio di ‘potere costituente’" affidato ai giudici (Rebuffa 1986), ha costantemente sfidato la cosiddetta "onnipotenza del legislatore", includendo gli organi giudiziari nella funzione di "distribuzione autoritativa dei valori" che è propria della politica. Ciò fa pensare che la figura del giudice statunitense sia costituzionalmente partecipe di quelle funzioni "teologiche" che Schmitt considera tipiche della politica. La "teologia giudiziaria", da sempre presente nel cromosoma della democrazia americana, ricevette una decisiva spinta in avanti dalle teorie giuridiche realiste che sconfessavano ogni "teoria fonografica della funzione giudiziaria", come ebbe a dire Frank. I realisti, invece, ritenevano "che il giudice fosse un dio. Il motivo fondamentale del loro lavoro fu di mettere in evidenza questa natura divina, e di esortare questo dio a comportarsi in un modo più ragionevole e più socialmente consapevole" (Friedman 1978, 53). Facendo cadere l'illusione che la funzione giudiziaria potesse essere recintata entro un perimetro di tipo meramente tecnico, i realisti scoprirono definitivamente l'anima politica del giudice americano, suscitando reazioni incredule e scandalizzate. In realtà, tuttavia, anche nei periodi di più sfrenato attivismo, la propensione teologica del giudice americano è stata sempre ed è controbilanciata dalle cosiddette "virtù passive". Come osservò Tocqueville, "per natura il potere giudiziario è privo di azione; bisogna metterlo in moto perchè si muova. Gli si denuncia un crimine, ed esso punisce il colpevole; lo si chiama a riparare un'ingiustizia, ed esso la ripara; gli si sottopone un atto, ed esso l'interpreta; ma non va da solo a perseguire i criminali, a trovare l'ingiustizia, a esaminare i fatti" (Tocqueville 1969, 123). A questo carattere passivo "essenziale", come lo 2 definisce Tocqueville, se ne sommano altri due: quello consistente nel non potersi occupare di una legge se non nel corso di un processo2 e quello consistente nel non potersi pronunciare su principi di carattere generale. Ma non si capisce bene l'importanza di queste virtù passive se non si fa riferimento al concetto di stato "reattivo", ossia ad uno stato che, come osserva Damaska "è in primo luogo e soprattutto un organo giudicante" poiché rifugge dall'avere propri fini o intenti di trasformazione, cosicché la sua concezione "appare priva di stimoli, pressoché senza vita" (Damaska 1991, 138). Questo stato, insomma, sta in un rapporto di complementarità rispetto ai diritti della società civile. Sotto questo profilo, la magistratura americana, avvertita come un "contropotere" vincolato a funzioni di paladina dei diritti, ha tradizionalmente incontrato la propensione sociale ad "usare" le corti come terreno di affermazione e di potenziamento dei diritti. All'attivismo della società civile corrisponde dunque un ruolo delle corti come strutture ricettive delle istanze dei cittadini che ad esse si rivolgano, per difendere i propri diritti e persino per esercizi di "imprenditorialità giuridica". L'asse istituzionale del giudiziario americano è dunque costituzionalmente sbilanciato dalla parte della società civile, piuttosto che dello stato, proprio per essere in sintonia con una forte cultura dei diritti. Il giudiziario, in altri termini, è progettato come istituzione "passiva" non tanto per limitarne gli spazi rispetto alle istituzioni politiche, quanto per accentuarne la funzionalità rispetto alla società civile ed alla trama di diritti ed interessi che la percorre. Così le corti, concepite come luoghi di ricezione delle domande di giustizia dei cittadini, ma non come istituzioni deboli o inerti, laddove siano sollecitate, possono dar luogo a un attivismo vigoroso e persino altamente creativo, senza tradire la natura essenzialmente "passiva" che le sottende. In definitiva, il giudice americano si caratterizza per una curiosa miscela di tratti passivi e di tentazioni teologiche che sono alla base di una lunga storia di attivismo giudiziario. L'attivismo giudiziario si è dunque configurato negli Stati Uniti sia come caduta del mito tecnico del ruolo giudiziario, sia come allargamento dell'ambito di incidenza della decisione giudiziaria dalla sfera dei diritti individuali alla sfera degli interessi collettivi, ossia come crescente possibilità per il giudice di programmare le conseguenze sociali delle proprie scelte. Peraltro, lo spostamento dell'attivismo giudiziario dal tradizionale terreno della protezione dei diritti individuali verso la protezione di interessi collettivi e di gruppo (Handler 1978), pur stigmatizzando un cambiamento di cultura giudiziaria quasi rivoluzionario, non coglie una rottura significativa sotto il profilo del rapporto con le istituzioni politiche: in un caso come nell'altro il giudiziario corrisponde a domande che gli vengono rivolte e che rispecchiano idee socialmente condivise dei diritti. Piuttosto, tale cambiamento permette di leggere la storia del judicial activism americano come storia unitaria, impedendo di legarla ad una monolitica funzione di contrasto o di sostegno ad una 2 "Quando un giudice a proposito di un processo si pronuncia su una legge ad esso relativa, estende la sfera delle sue attribuzioni, ma non ne esce, perché gli è stato necessario, in un certo senso, giudicare la legge per poter giudicare il processo" (Tocqueville 1969, 138). 3 data politica: l'attivismo giudiziario americano conta al proprio attivo sia atteggiamenti di strenua resistenza sia di pieno sostegno al welfare state. Sotto il primo profilo, basti pensare a quella lunga rassegna di pronunce giudiziarie che crearono la dottrina del substantive due process (Ferrarese 1992), a difesa dei diritti individuali contro le regulations varate dall'amministrazione Roosevelt (Raiteri 1995). Sotto il secondo profilo, basti pensare alla giurisprudenza realista e, ancor più, alla decisione assunta nel caso Brown v. Board of Education, nel 1954, che chiuse la lunga stagione della segregazione razziale negli USA, aprendo un'epoca nuova per i diritti civili. Questa decisione, attaccata a suo tempo anche da osservatori progressisti come un'impropria invasione del giudiziario nella sfera di competenza delle decisioni politiche, assumerà un valore archetipico nel consolidare le corti in un ruolo di agenti attivi al servizio di un riformismo progressista che troverà il suo apogeo negli anni sessanta. Infine, i fenomeni di litigation explosion, rivelando una rinnovata estesa propensione dei gruppi sociali ad usare le corti per ottenere riconoscimento alle proprie istanze, apriranno una nuova stagione di attivismo all'insegna del tort law che non si è ancora conclusa. Questo attivismo delle parti private ha portato negli ultimi decenni ad una ancor più accentuata presenza di diritto, giudici e giuristi sulla scena pubblica americana ed a quei fenomeni di cosiddetta litigation explosion, che tanto hanno animato il dibattito. Questi fenomeni di estesa litigiosità sociale e di crescente ricorso alle corti non hanno mancato di prestarsi ad interpretazioni contrastanti (si veda Politica del diritto 1993, n. 4). Friedman (1985) ha visto in esso il prodotto di un'ansia di giustizia e di sicurezza che è progressivamente cresciuta nella società americana, a vantaggio della democrazia. Altri hanno invece contestato le valenze positive di questi fenomeni di litigiosità processuale, denunciandone invece le capacità destabilizzanti ed i risultati non necessariamente concordi alla giustizia (cfr. Olson 1992). Tuttavia, al di là di contrastanti giudizi o interpretazioni che si possano dare di questa estesa propensione ad usare le corti, essa appare rivelatrice di un atteggiamento di diffuso "attivismo" sociale che è causa e non effetto della centralità del giudiziario nella vita pubblica americana. L'attivismo giudiziario americano si pone dunque, in un quadro di spinta "mobilitazione giuridica", come un modo di interpretare compiutamente il carattere "reattivo" dell'istituzione giudiziaria. Non a caso gli Stati Uniti non sono solo il paese dell'attivismo giudiziario, ma anche dell'iperattivismo degli avvocati. Come ha osservato Damaska, lo stato reattivo "è pieno di avvocati come lo Stato attivo è saturo di amministratori, educatori, terapisti, e simili figure manageriali" (Damaska 1991, 241). L'inserimento a pieno titolo degli avvocati o di altri fattori di bilanciamento (come le giurie) nel circuito della giurisdizione significa altresì che l'attivismo giudiziario americano non è entrato in rotta di collisione con le cosiddette "virtù passive". In un certo senso, anzi, esso si presenta quasi come l'altra faccia di una spinta propensione dei privati, siano individui o gruppi, a scegliere le corti come terreno per difendere diritti o interessi. Come ha osservato Friedman (1978, 300), "i tribunali americani si sono evoluti molto vistosamente nel perfezionare i diritti d'eguaglianza dei negri. Ma non furono i giudici ad iniziare quel tipo di litigiosità: sono stati i negri e i loro avvocati a portare i casi davanti ai 4 giudici; i negri si sedettero sugli autobus proibiti, bussarono alla porta delle scuole proibite, strillarono per ottenere il voto e litigarono con determinazione e tenacia". 3. Magistratura e democrazia in Europa L'esperienza americana costituisce il referente diretto o indiretto di molte analisi per interpretare i processi di trasformazione della democrazia nei paesi europei e la nuova centralità conquistata dalla magistratura. In effetti, in Europa si assiste ad un processo di tendenziale assimilazione del ruolo svolto dal giudiziario al modello americano (Cappelletti 1984). L'impressione è che sempre più le magistrature europee tendano verso un ruolo attivo, di compartecipazione alle funzioni politiche, che ricorda quello svolto dalla magistratura americana. Ciò significa la tendenza dei magistrati a comportarsi come un potere di carattere rappresentativo, cioè abilitato a decidere i casi adottando criteri di natura politica. Peraltro, sotto un profilo giuridico, ciò significa che l'attivismo si propone nei paesi di cultura giuridica continentale come "scarto tra la rappresentazione tradizionale del giudice come ‘bocca della legge’ e le funzioni che questi in realtà svolge" (GuarnieriPederzoli 1997, 10). Sicuramente questa tendenza è in atto e non può essere messa da parte in un tentativo di recuperare certezze di marca giuspositivistica e scenari politici di tipo giacobino. Tuttavia, il timore che la nuova centralità del giudiziario dia luogo ad improprie forme di "governo dei giudici" affiora ripetutamente. Il rischio di possibili effetti "perversi" che l'introduzione del modello americano in contesti culturalmente ed istituzionalmente diversi può comportare è affiorato più volte ed è tutt'altro che nuovo. Già Weber aveva in qualche modo segnalato il rischio di un'operazione di trasposizione del modello americano in seno ad istituzioni giudiziarie coltivate nel mito del formalismo giuridico3. E Schmitt, a sua volta, si chiedeva se, ponendosi i magistrati come "custodi della Costituzione", non si rischiasse di produrre "non una qualche giuridificazione della politica, ma una politicizzazione della giurisdizione" (Schmitt 1981, 41). Resta da vedere se questi rischi siano definitivamente alle nostre spalle e se esista finalmente la possibilità di assegnare alle magistrature europee non più un ruolo prevalentemente di controllo ma di protezione e di potenziamento dei diritti. Certamente una sensibile differenza rispetto alla situazione statunitense è rappresentata dal fatto che nei paesi di cultura giuridica continentale persiste la tendenza ad affidare al legislativo la selezione delle istanze politiche. Tuttavia, proprio la crisi del tradizionale contesto giuspositivistico, che voleva il giudice mero esecutore della "volontà" 3 "Una magistratura burocratizzata, nella quale i posti direttivi sono sempre più sistematicamente assegnati a rappresentanti del pubblico ministero e le possibilità di avanzamento dipendono totalmente dai poteri politicamente dominanti, non può essere paragonata con quella svizzera o inglese, o ancor meno ai giudici (federali) americani" (Weber, 1980, 200). 5 legislativa, ha costituito una grande opportunità per il potere giudiziario di porsi come protagonista visibile ed attivo sul pubblico scenario. Non si tratta solo della incapacità della legge di fungere ormai da efficace mezzo di regolazione della vita sociale; ancora più importante è il fatto che sono mutati in maniera consistente i meccanismi di produzione della "norma giudiziaria", come la chiamava Kelsen, e si è passati da modalità statiche a modalità per così dire, "interattive". In altri termini, se nel passato bastava applicare una data norma ad un dato caso, oggi sempre più il magistrato deve confrontare la norma con altri referenti normativi. Alla base di questa mutata ingegneria della produzione giudiziaria vi sono due importanti movimenti, che costituiscono quelle due "dimensioni costituzionale e transnazionale" che Cappelletti indica come tipiche della giustizia nelle società europee contemporanee. In primo luogo il processo di "costituzionalizzazione" in atto nei paesi europei, che dà fiato alle rivendicazione di diritti vecchi e nuovi: "l'introduzione del controllo di costituzionalità delle leggi nei paesi di civil law, soprattutto laddove si è sviluppata in forme tali da favorire la collaborazione tra corte costituzionale e giudici ordinari ed amministrativi, ha determinato un consistente recupero del diritto giurisprudenziale" (Pizzorusso 1990). In secondo luogo l'esistenza sempre più attiva sia di un diritto comunitario, sia di organi di giustizia europei dà anch'essa luogo a processi interattivi nella decisione giudiziaria, aumentando gli spazi del diritto giurisprudenziale. Vi è poi un'ulteriore dimensione di cui occorre tener conto: si tratta di quel nuovo "movimento di pensiero", detto dell'accesso alla giustizia che, dagli Stati Uniti si è riversato anche in Europa. Certo gli effetti in Europa sono stati assai più modesti e meno dirompenti, ma anch'esso ha contribuito a cambiare alcune delle tradizionali prospettive della cultura giuridica. Innanzitutto la nuova filosofia dell'accesso si accompagna ad "una forte reazione contro un'impostazione dogmatico-formalistica che pretendeva di identificare il fenomeno giuridico esclusivamente nel complesso delle norme, essenzialmente di natura statale, di un determinato Paese" (Cappelletti 1994, 72). Inoltre, tale filosofia rovescia la tradizionale prospettiva "tolemaica", che faceva "vedere il diritto esclusivamente nella prospettiva dei ‘produttori’ e del loro ‘prodotto’: il legislatore e la legge, la pubblica amministrazione e l'atto amministrativo, il giudice e il provvedimento giudiziale"; dalla prospettiva dell'accesso, l'attenzione si sposta all'"individuo, ai gruppi, alla società insomma, e così ai bisogni alle istanze alle aspirazioni di individui, gruppi e società e soprattutto agli ostacoli di varia natura — economici, culturali, psicologici — che si frappongono fra il diritto inteso come ‘prodotto’ e il cittadino che a tale ‘prodotto’ chiede di avere accesso" (Cappelletti 1994, 100). Nel complesso, ciò porta alla penetrazione nelle corti di interessi diffusi e di natura collettiva, che hanno contribuito non poco ad esaltare le valenze politiche del ruolo giudiziario. Se ora si prova a verificare la compatibilità di questa situazione di espansione dell'attivismo giudiziario con un quadro di tipo democratico, i giudizi, pur se non sempre concordi, sembrano prevalentemente accreditare l'idea di una elevata compatibilità. Probabilmente, alla base del dissenso, c'è una diversa accezione di democrazia, intesa in senso liberale o in senso giacobino. 6 Laddove prevale un'accezione giacobina della democrazia, il nuovo potere conquistato dalla magistratura appare incompatibile con la radice della democrazia. Ma anche ai liberali, appare il rischio che la funzionalità politica della magistratura, quando manchino i controbilanciamenti che funzionano in uno stato "reattivo", possa non assomigliare a quella del giudiziario americano, consegnando alla magistratura dosi di potere che possono configurare rischi per una cultura delle libertà. Il contesto di una magistratura caratterizzata in senso burocratico, che agisce al servizio di uno stato che è attuatore di scelte etiche e politiche, di fini e valori, può portare una magistratura tradizionalmente abituata ad un ruolo "ancillare", su lidi non sempre compatibili con una cultura dei diritti: il rischio è che questa nuova libertà dei magistrati resti inserita nel quadro di una cultura "attivistica" dello stato, e dunque priva di quel controbilanciamento che in uno stato "reattivo" è costituito da una società forte, abituata a chiedere il rispetto dei propri diritti e ad usare le corti per ottenerlo. Analizzerò più specificamente questo tipo di argomenti con riferimento al caso dell'attivismo giudiziario in Italia. Laddove la fine di un'accezione giacobina della democrazia viene interpretata come funzionale ad un'espansione democratica, anche la nuova centralità del giudiziario sembra esser vista come un ricostituente della democrazia. Troviamo diffuso questo tipo di interpretazione sia in Italia che in Francia. In Francia, paese-simbolo della cultura democratica, il passaggio "da uno stato giacobino allo stato di diritto" appare a Cohen-Tanugi (1993, 29) l'inevitabile portato di "un rovesciamento significativo della relazione tra l'ordine dello stato e quello del diritto, che caratterizzava tradizionalmente la democrazia francese". Questo rovesciamento si compie in un contesto di rinnovata importanza di questioni che furono centrali alla fine del diciottesimo secolo, essenzialmente i rapporti tra stato, diritto e cittadini, vale a dire le questioni centrali del liberalismo. In tale contesto la tradizionale organizzazione centralizzata dello stato viene via via smontata a favore di una frammentazione del potere e delle autorità statali, in nome di una priorità del diritto e di principi di natura costituzionale. La Francia si è così avviata verso un costituzionalismo4 che ha riportato in auge il diritto come meccanismo di riequilibrio e di rimodellamento della democrazia. In altri termini, a dispetto di una macchina politica congegnata in senso maggioritario, la dinamica maggioranza-opposizione finisce per frantumarsi in uno spettro più complesso di posizioni. Ridefinita in senso pluralista e partecipativo, la democrazia perde ogni connotazione sostanzialista e si pone essenzialmente come un meccanismo procedurale in cui le varie istanze hanno modo di inserirsi, dando luogo ad una concorrenza tra poteri, idee ed interessi, che lottano per "contrattare le norme". 4 L'atto di nascita del costituzionalismo francese viene individuato nel 1971, anno in cui il Conseil Constitutionnel si pronuncia a favore della costituzionalità dei principi indicati nel Preambolo della Costituzione del 1958, ivi compresi quelli della Dichiarazione dei diritti dell'uomo e del cittadino del 1789. Nel 1974 interviene poi una riforma, promossa da V. Giscard d'Estaing, che, modifica i criteri per adire il Conseil: precedentemente riservato solo a quattro persone, il potere di adire la Corte viene esteso anche all'opposizione parlamentare, con ciò modificando sensibilmente la possibilità per questa di ricorrere al controllo di costituzionalità come strumento di lotta politica. Si veda Cohen-Tanugi, 1993, 31ss. 7 L'"ascesa del diritto nel firmamento della democrazia" si accompagna d'altra parte, inevitabilmente, ad una parallela ascesa dei magistrati come nuovi protagonisti sullo scenario democratico5. La centralità del giudiziario è un modo nuovo di garantire spazi e partecipazione alla società civile: il diritto diventa così fattore di "modernizzazione" della democrazia, di potenziamento delle sue tradizionali dinamiche. L'intervento del giudice nel conflitto corrisponde alla "virtù" di "rendere visibile la divisione sociale e di proporre le vie argomentative per renderlo negoziabile" (Ost 1991, 267). In maniera simile in Italia il protagonismo del giudiziario è stato visto come l'effetto di più profondi cambiamenti dei sistemi politico-istituzionali, che determinano "continui attraversamenti dei confini tra giustizia e politica, che ingenuamente qualcuno continua a ritenere fissati una volta per tutte" (Rodotà 1996, 28). Sulla stessa linea interpretativa Zagrebelsky (1992) sostiene che è in atto il passaggio da uno stato di diritto ad uno stato "costituzionale" caratterizzato dalla situazione di "separazione dei diritti dalla legge": laddove la tradizione statalista relegava i diritti nel cono d'ombra della legge, ancorandoli ad un significato meramente oggettivo, lo stato costituzionale riconosce un autonomo fondamento ai diritti, come "dotazione giuridica" in capo ai soggetti. La Costituzione è dunque luogo di "mitezza", ossia di coesistenza e di compromesso, di "intreccio tra valori e procedure comunicative, che è poi l'unica visione della politica non catastrofica possibile nel nostro tempo" (Zagrebelsky 1992, 11-2). E non è un caso che le costituzioni europee attuali "se non prima dei diritti, almeno insieme ai diritti, parlano della democrazia" (ibid., 76). In questo quadro, al giudiziario spetta il compito-chiave di guidare lo spostamento del sistema giuridico dalla preminenza della legge verso "un rapporto di tensione tra caso e regola" che "introduce inevitabilmente un elemento di equità nella vita del diritto" (ibid., 204). La capacità di potenziare il dialogo della democrazia contro il monologo dello stato o della legge, che appare una prerogativa del giudiziario, induce a modificare anche le tecniche legislative in modo da rendere le leggi capaci di rispondere a nuove esigenze di flessibilità: com'è stato osservato, l'uso di tecniche legislative che sempre più fanno ricorso alle clausole generali nell'ambito della legislazione evita il rischio di conflitti frontali sui valori: la scelta legislativa "non chiude il conflitto ma lo enfatizza, dal momento che uno dei valori in campo è radicalmente delegittimato. Invece la decisione giudiziaria, laddove è possibile, non implica mai una delegittimazione completa: nel senso che la parte perdente può sempre sperare che, nella prossima occasione, ci sarà una decisione giudiziaria, se non di segno opposto, certamente non così radicale come la precedente" (Rodotà 1994, 198). Come si vede, queste analisi interpretano l'espansione del potere giudiziario come una tendenza positiva o comunque ineludibile nelle moderne democrazie. In esse prevale una lettura del processo di affermazione del diritto e della giurisdizione nell'arena politica come rottura della logica statalista che dominava nell'Europa continentale. La crescita del 5 Si veda Minc 1995, 130, dove si parla della nuova "santa trinità" che caratterizza la democrazia francese e che è composta da giudici, mass media e opinione: nella democrazia "di opinione", che sempre più contende lo spazio all'ideologia statalista, magistrati e mass media, abbracciati gli uni agli altri, costituiscono le nuove stelle polari di una società mutevole e priva di timonieri. 8 peso politico del giudiziario confligge con un'accezione giacobina della democrazia, che dava rilievo centrale alla legislazione come tipico prodotto della dinamica maggioranzaminoranza. Via via che la democrazia si fa pluralistica e partecipata e meno capace di riconoscersi in un'accezione unitaria della "volontà generale", essa ricorre alla giurisdizione come strumento di allargamento e di flessibilizzazione della dinamica democratica. La giurisdizione come canale di tipo politico da un lato dilata la capacità del sistema politico di recepire e soddisfare domande, dall'altro aumenta la flessibilità delle risposte. Questo secondo profilo è particolarmente interessante perché significa non solo la possibilità di variegare l'arco delle risposte giudiziarie da un caso all'altro, ma altresì la possibilità di accesso a soluzioni non necessariamente coincidenti con quelle politiche prevalenti, e dunque estranee al circuito maggioranza-minoranza, secondo un quadro già analizzato negli Stati Uniti (Zagrebelsky 1992, 200; si veda anche Guastini 1996). 4. Magistratura e processo penale in Italia Nel contesto italiano, l'ascesa del potere giudiziario ha ormai una lunga storia (Ferrarese 1994a) ed ha raggiunto un'evidenza non pareggiata in altri paesi (cfr. Guarnieri 1992)6. In Italia, i primi segni di attivismo giudiziario furono legati ad un dibattito sul tema dei valori costituzionali nell'interpretazione giudiziaria. Lo sguardo del magistratointerprete rivolto alla Costituzione scoprì il fronte delle "tentazioni della politica". Il nuovo ruolo dei magistrati come garanti di domande di equità, di giustizia e di tutela del pubblico interesse fu, negli anni sessanta e settanta, una traumatica novità nel panorama italiano. Ma il dibattito sulla magistratura fu a lungo incentrato in buona misura sull'interpretazione giudiziaria e dunque su un tema di carattere professionale, più che politico. Gli spazi nuovi che si aprivano per la magistratura derivavano da un quadro di valorizzazione delle norme e dei valori costituzionali, più che da aperte rivendicazioni di natura politica. Maturati in questa cornice, i primi casi di attivismo giudiziario, che avevano per protagonisti i cosiddetti "pretori d'assalto", corrispondevano ad un progetto di carattere "promozionale" al servizio di una società più giusta (in consonanza con l'art. 3 della Costituzione), o della difesa del pubblico interesse (ad esempio in materia di ambiente). Tuttavia, nonostante l'apparente consonanza con l'attivismo giudiziario americano, già in quei casi cominciavano a delinearsi due caratteri distintivi assai lontani da quell'esperienza, che si sarebbero progressivamente affermati come tipici del caso italiano: un carattere di aperta conflittualità rispetto ai poteri politici, che avrebbe portato l'attivismo giudiziario a ripetute contrapposizioni rispetto ai poteri rappresentativi; e un carattere interventista rispetto alla società civile, che avrebbe sempre più travolto il volto della magistratura come istituzione "passiva". Cominciamo dalla conflittualità rispetto ai poteri politici. 6 Una rassegna di alcuni dei principali episodi che hanno segnato la più recente storia della magistratura italiana si trova in Canosa 1996. 9 In Italia il processo di "politicizzazione" della magistratura è al centro del dibattito da quasi trent'anni. Peraltro, con tale espressione è possibile riferirsi a fenomeni diversi e diverse versioni di politicizzazione della magistratura si sono succedute nel tempo. Lungo queste diverse versioni, sempre più, la politicizzazione, oltre ad indicare un progressivo abbandono della condizione di potere "neutrale"7, ha significato per il giudiziario l'assunzione di un ruolo conflittuale nei confronti del potere politico. Così, l'idea della "supplenza giudiziaria" è passata dal configurare un'azione della magistratura in vece dei politici, a configurare un'azione della magistratura contro i politici: se nel passato l'idea di "supplenza giudiziaria" valeva a contrapporre l'attivismo dei magistrati alle inadempienze della politica, via via indicava un attivismo giudiziario che metteva sotto accusa le illegalità dei politici. Si creava così una situazione di confronto diretto col ceto politico, che spesso assumeva la forma di un esplicito conflitto8, e talora segnava quasi una sorta di sfida ai poteri rappresentativi. In svariate occasioni, insomma, il potere giudiziario finiva per apparire come censore della legittimità sia del potere esecutivo, sia del potere legislativo (Ferrarese 1994a, 65ss.). Con una differenza importante: le censure nei confronti di esponenti del potere esecutivo hanno prevalentemente trovato espressione in sede processuale o nella fase delle indagini che precedono il processo. Al contrario, le censure nei confronti dell'attività legislativa si sono manifestate in occasioni extra-giudiziarie, con un più esplicito travolgimento di quel carattere di passività che vieterebbe ai giudici di pronunciarsi sulle leggi al di fuori di un caso giudiziario. Veramente decisive sono state tuttavia le censure di legittimità esercitate nei confronti di esponenti del potere politico (legislativo ed esecutivo) nel corso di indagini e processi penali. Infine, nel 1993, una crisi di governo ed il ricambio delle assemblee legislative, provocati dalle inchieste giudiziarie su Tangentopoli, che colpivano ministri e parlamentari, sono stati a più riprese etichettati come una vera e propria "rivoluzione" politica provocata dai magistrati. Collocato in questo quadro fortemente conflittuale, l'attivismo del potere giudiziario in Italia ha finito per essere da alcuni interpretato più come causa che come effetto di una crisi dei poteri rappresentativi (cfr. Marconi 1984, Gismondi 1996). Anzi, in alcune interpretazioni, è sembrato quasi che il rapporto tra potere giudiziario e potere politico fosse "a somma zero", cosicché all'espansione del primo avesse corrisposto un equivalente indebolimento del secondo. In definitiva è stato a più riprese sottolineato il ruolo svolto dalla magistratura come strumento di selezione del personale politico nel nostro paese. Con l'aggravante che tale selezione è avvenuta per le vie della giustizia penale (Cazzola-Morisi 1996) e con le valenze simboliche che hanno da sempre i "rituali di degradazione" (Giglioli-Cavicchioli-Fede 1997). 7 Sulla politicizzazione dei poteri neutrali nelle crisi di regime democratico, si veda Linz 1977. Sul caso italiano Righettini 1995. 8 Il fenomeno, tuttavia, non è solo di questi ultimissimi anni; il confronto diretto tra politici e magistratura nei termini di un conflitto era già presente negli anni ottanta, pur non avendo raggiunto l'importanza qualitativa e quantitativa degli anni novanta. Rinvio in proposito a Ferrarese 1994. 10 Se questo particolare carattere di opposizione ai poteri politici è stato osservato da varie prospettive, minore attenzione è stata invece tributata al secondo carattere, spiccatamente interventista, dell'attivismo giudiziario italiano. Cosa si vuole indicare con il termine "interventismo giudiziario"? Com'è noto, si parla di "interventismo" per indicare il processo di interferenza dello stato nella vita economica e, per estensione, in altre sfere della vita sociale, originariamente considerate "spontanee". Si può dunque parlare di un interventismo giuridico, così come di un interventismo economico o culturale. L'interventismo corrisponde alla logica di uno stato "attivo", che cioè assume come proprii fini e obiettivi da perseguire. L'interventismo allude dunque ad un intervento di natura pubblica, che ricade "dall'alto" sulla società, ed ha un'ispirazione essenzialmente di tipo pubblicistico. Un attivismo giudiziario di tipo interventista indica dunque un processo di mobilitazione della giurisdizione, che non è tanto il risultato di spinte, domande o richieste, azionate dal basso, da svariati individui, gruppi o settori sociali, quanto di obiettivi di politica giudiziaria disegnati "dall'alto" e che ricadono sulla vita sociale come un "corso forzoso" a connotazione pubblicistica. Come si è detto, questo aspetto diventa più chiaro se si assume lo sguardo del comparatista, guardando al caso italiano attraverso la lente del giudiziario americano. Per capire le differenze tra attivismo giudiziario americano ed interventismo giudiziario italiano non basta far riferimento ai diversi contesti organizzativi della magistratura. Come insegna proprio Damaska, diversi contesti organizzativi, di tipo "gerarchico" o "paritario" sono non per caso rispettivamente connessi a due diversi tipi di stato: l'organizzazione di tipo gerarchico è propria dello stato "attivo", che si propone come tutore ed educatore della società civile, mentre l'organizzazione di tipo "paritario" è propria dello stato "reatttivo", che non persegue propri fini e si limita ad una funzione arbitrale rispetto ad interessi e conflitti che emergono nella società. Diverse culture statali hanno riflessi significativi sul ruolo svolto dalla giurisdizione perché disegnano diversamente la sua funzionalità rispetto allo stato o rispetto alla società civile. Una cosa è il ruolo giudiziario in un ambiente sociale sensibile alla difesa dei diritti e disponibile ad "usare" le corti per tal fine: qui l'attivismo giudiziario diventa uno strumento al servizio della società civile ed è necessariamente controbilanciato dall'attivismo sociale che lo promuove. Altro è il ruolo della giurisdizione quando questa si trovi inserita in uno stato di tipo "attivo", in cui manca questa diffusa propensione sociale ad usare le corti per difendere i propri diritti: qui il rischio è che l'attivismo giudiziario finisca per porsi come "interventismo" dall'alto, che non è bilanciato da una diffusa mobilitazione sociale. Non per caso, laddove negli Stati Uniti l'ideologia dei diritti ha portato i cittadini ad adire soprattutto le corti civili, per presentare le proprie istanze sui diritti9, da noi sono stati i giudici penali a catalizzare lo scenario della giurisdizione. Questa, intesa prevalentemente 9 Si pensi, per esempio, alla lunga catena di casi giudiziari che portò fino davanti alla Supreme Court l'obiettivo di liberalizzare la preghiera nelle scuole o alla richiesta, presentata ai giudici di permettere l'accesso dei neri nelle scuole dei bianchi. 11 come organo di intervento e di controllo "dall'alto", al servizio di una funzione di natura pubblicistica, è corrispettiva alla mancanza di una diffusa ed attiva cultura dei diritti. L'esperienza americana insegna che ancora più importante del tipo di organizzazione giudiziaria è l'"ambiente" sociale che circonda la giurisdizione. Questa, peraltro, è la chiave che permette di spiegare perché in Italia, dopo Mani pulite, le inchieste sulla corruzione non si sono diffuse, fino a innescare una vera controtendenza; certo, qui e lì di ciò può essere responsabile l'atteggiamento collusivo di qualche magistrato o la scarsa voglia di aprire indagini scomode. Ma per lo più la mancanza di un effetto diffuso delle indagini in materia di corruzione è da ascrivere ad una scarsa attitudine a vedere nella corruzione una lesione ai propri diritti e nel giudiziario l'interlocutore a cui rivolgersi per denunziare tale lesione. Non è un caso che l'immane caso giudiziario "Mani pulite" è stato innescato a seguito della denuncia non di un concusso o di un corrruttore, ma di una moglie in conflitto giudiziario con un marito corrotto! In Italia, dunque, l'attivismo giudiziario si è espresso prevalentemente come interventismo penale. Inoltre, i suoi principali protagonisti sono stati i pubblici ministeri, ossia magistrati che sono detentori dell'iniziativa penale, e che dunque in qualche misura mancano di quei caratteri di passività di cui si è detto precedentemente. Certo, il p.m. ha pur sempre bisogno di una notizia criminis per avviare un'indagine. Ma questo non significa necessariamente un cittadino che avvia un procedimento, assumendosi tutti i relativi oneri. In definitiva, in Italia l'attivismo giudiziario si è prevalentemente attestato su compiti di controllo sociale. Correlativamente, la magistratura è stata prevalentemente percepita come forma di pubblico potere, soprattutto al cospetto di magistrati che vestivano la toga del pubblico ministero. Peraltro, è stato lo sguardo rivolto verso la magistratura penale la "via italiana" per arrivare a cogliere la politicità della giurisdizione e la magistratura come soggetto politico. Ma questa politicità è di segno diverso da quella di una giurisdizione che agisce innanzitutto al servizio dei diritti. Non a caso l'Italia manca di un attivismo giudiziario in campo civile (si veda Alpa 1996). La pressoché totale riduzione dell'immagine della magistratura alla magistratura penale ha corrisposto alla quasi totale scomparsa della giustizia civile dal cosiddetto "immaginario collettivo". Ciò ha prodotto un gravissimo difetto in termini di cultura civile: a dispetto di valori "liberali" che pressoché tutti invocano o a cui tutti si richiamano, non si riesce ormai neanche più a pensare che la giustizia è innanzitutto giustizia civile10. Ora, come può parlarsi di "stato costituzionale" e di "costituzionalismo" in Italia, in una situazione di completa dèbacle della giustizia civile? Che diritti sono dei diritti che non sono azionabili dinanzi al giudice o che richiedano tempi lunghissimi di riconoscimento giudiziario? 10 Un piccolo ma significativo sintomo di tale situazione si è ritrovato nel recente convegno organizzato dalla rivista Liberal su "Ripensare la giustizia" (si veda il documento introduttivo pubblicato in Liberal 1997, n. 25), dove, semplicemente, il termine "giustizia" stava per "giustizia penale" ed il progetto di una rifondazione in senso liberale della giustizia, saltava a piè pari il problema della giustizia civile, limitandosi a porre il tema delle garanzie del cittadino nella sfera penale e in specie nei confronti del p. m. 12 Questa situazione, a sua volta, può essere spiegata in base alla scarsa vicinanza della magistratura alla società civile. Non a caso sia Cohen-Tanugi che Zagrebelsky avvertono l'importanza centrale di una trasformazione della cultura giurisdizionale per portare a termine il processo di costituzionalizzazione. Cohen-Tanugi (1993, 199-204) auspica una vera "democrazia giuridica", in cui il discorso dei giudici sappia aprirsi alla realtà sociale e diventare "discorso pubblico" e la società sappia stimolare la giurisdizione. Zagrebelsky (1992, 206-7), a sua volta, considera necessaria una riforma di collocazione della magistratura, in modo da renderla intermedia tra stato e società, e da conferirle in tal senso sia "una doppia fedeltà", sia "una doppia indipendenza". Una magistratura protettrice dei diritti è insomma una magistratura più vicina alla società che allo stato; che agisce più nella sfera civile che nella sfera penale; che appare più come un'istituzione quotidiana e domestica che come un'istituzione solenne e potente. Quando Schmitt tratteggia i caratteri dello stato di diritto "giurisdizionale" non pensa ad un "governo dei giudici": pensa ad uno stato caratterizzato da un ethos, che "risiede nel fatto che il giudice decide direttamente nel nome del diritto e della giustizia, senza che gli vengano proposte o imposte da parte di altri poteri non giudiziali, ma politici, normazioni relative a questa giustizia" (Schmitt 1972, 216). L'ethos dello stato giurisdizionale è diverso dal grande pathos dello stato di diritto "governativo" che si ammanta dei principii di majestas, splendor, excellentia (ibid., 216-17). L'immagine della magistratura nel nostro paese, così pesantemente caratterizzata in senso penalistico, è tutt'altro che quotidiana e domestica: essa ha finito per somigliare sempre più ad un'istituzione di tipo bellico, con connotati di straordinarietà quasi di tipo carismatico. La stessa idea della magistratura come potere "diffuso" è andata ad infrangersi contro fenomeni di giustizia penale "aggregata", che accentra indagini, controlli ed indirizzi, al fine di assolvere a funzioni di intelligence (cfr. Ferrarese 1994b). Concetti come quello di "maxi-processo" o di "superprocura" danno l'idea di un carattere di estrema "pesantezza" assunto della macchina penalistica nel nostro paese. A tutto ciò non è estranea un'involuzione delle stesse categorie penalistiche che ha spostato sempre più il diritto penale verso funzioni "simboliche" o "magiche", come le chiama Delmas-Marty (1992). Una magistratura penale che amministra giustizia nella temperie dell'"emergenza" e dello "stato di necessità" appare assai lontana da quel carattere quotidiano della magistratura americana che così appariva allo "straniero" Tocqueville: "il magistrato sembra introdursi negli affari pubblici solo per caso; senonché, è un caso che si ripete tutti i giorni" (Tocqueville 1969, 122). Appare, piuttosto, pericolosamente vicina a quel potere di decidere "sullo stato di eccezione", che, nei termini di C. Schmitt, è il tratto più tipico della sovranità. Riferimenti bibliografici Alpa, G. 1996. L’arte di giudicare. Roma: Laterza. Canosa, R. 1996. Storia della magistratura in Italia. Milano: Baldini & Castoldi. 13 Cappelletti, M. 1984. Giudici legislatori. Milano: Giuffré. ------. 1994. Dimensioni della giustizia. Bologna: Il Mulino. Cohen-Tanugi, L. 1985. Le droit sans l’état. Sur la democratie en France et en Amerique. Paris: Puf. ------. 1993. La métamorphose de la démocratie française. De L’Etat jacobin à l’Etat de droit. Paris. Gallimard. Damaska, M. R. 1991. I volti della giustizia e del potere. Bologna: Il Mulino. Delmas-Marty, M. 1992. Dal codice penale ai diritti dell’uomo. Milano: Giuffré. Ferrarese, M. R. 1992. Diritto e mercato. Il caso degli Stati Uniti. Torino: Giappichelli. ------. 1994a. L’istituzione difficile. 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