I VALORI ETICI NEGATI NELLA SOCIETÀ CONTEMPORANEA Atti

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I VALORI ETICI NEGATI
NELLA SOCIETÀ CONTEMPORANEA
Atti del convegno
FOTO
SENATO SUBALPINO
Palazzo Madama
Torino, 17 ottobre 2011
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In copertina: Senato Subalpino e Primo Senato del Regno d’Italia (1848-1864)
I VALORI ETICI NEGATI
NELLA SOCIETÀ CONTEMPORANEA
Atti del convegno
PALAZZO MADAMA
Torino, 17 ottobre 2011
Il convegno, organizzato nell’ambito delle celebrazioni del 150° anniversario
dell’Unità d’Italia, è stato ideato da La Nuova Arca ed è nato dalla constatazione del
degrado dei valori etici nella nostra società e dal bisogno di discuterne per
sensibilizzare l’opinione pubblica a riflettere sulle cause e sui possibili rimedi.
I relatori, a seconda delle proprie esperienze professionali, hanno parlato
delle cause della negazione dei valori e hanno proposto alcuni antidoti e principi
guida per il ripristino dei valori etici.
Per l’alto profilo e contenuto degli interventi, il Consiglio regionale del
Piemonte ha ritenuto di realizzare la pubblicazione degli atti.
Valerio Cattaneo
Presidente del Consiglio regionale del Piemonte
Valerio Cattaneo …………………………………………………………………………………….pag.9
Presidente Consiglio regionale del Piemonte
Sergio Roda …………………………………………………………………………………………….pag.11
Pro Rettore, Università di Torino
Alida Tua ……………………………..………………………………………………………………….pag.13
La Nuova Arca
Didi Leoni………………………………………………………………….……………………………..pag.15
Giornalista e moderatore
Corrado Faissola……………………………………………………………………………………..pag.17
Presidente UBI Banca e Presidente Federazione ABI-ANIA
Giovanni Maria Flick ………………………………………………………………………………pag.19
Presidente Emerito Corte Costituzionale
Marcelo Sanchez Sorondo …………………………………………………………………….pag.23
Cancelliere Pontificia Accademia delle Scienze
Marco Boglione …………………………………..…………………………….……………………pag.37
Presidente di BasicNet SpA
Mimmo Candito …………… ………………………………………………………………………..pag.39
Giornalista e scrittore
VALERIO CATTANEO
(Presidente Consiglio regionale del Piemonte)
Eccellenza Reverendissima, Illustri Relatori, Autorità, Signore e Signori,
sono profondamente grato agli Amici dell’Associazione La Nuova Arca – in particolare ad
Alida Tua e Armando Caruso – per avermi offerto l’opportunità di intervenire a questo incontro,
dove ritrovo con piacere, insieme a illustri relatori, la presenza di Monsignor Marcelo Sanchez
Sorondo.
In qualità di Cancelliere della Pontificia Accademia delle Scienze ci ha generosamente
ospitato, pochi mesi fa, nella sede della Casina Pio V, presso i Giardini Vaticani, dopo l’Udienza
Papale a suggello di una proficua collaborazione posta in atto dalla Regione con l’Accademia
medesima, sfociata nel concerto dedicato a Sua Santità Benedetto XVI, a Castelgandolfo, lo
scorso settembre.
L’iniziativa di questo incontro conferma l’impegno che La Nuova Arca pone, in vari ambiti
culturali, per attrarre a Torino e in Piemonte iniziative di alto significato, in grado di far segnare
momenti significativi per la crescita civile della nostra comunità.
Non andrò oltre il mio ruolo, nel rivolgere a tutti i convenuti il caloroso saluto
dell’Assemblea regionale che mi onoro di rappresentare, ma indubbiamente i temi oggi discussi
– con l’apporto dei relatori che hanno aderito – sono tali da stimolare una profonda riflessione
in chi – come politico e come amministratore – è chiamato ogni giorno a confrontarsi con una
realtà in rapido cambiamento.
Anzi, proprio l’attività politico-amministrativa, con i propri ritmi frenetici, con il continuo
emergere di problemi contingenti, spesso rischia di limitare all’immediatezza, agli eventi
accidentali, l’attenzione e l’impegno di chi è chiamato a praticarla, impedendo di pensare a una
prospettiva più ampia, sia in termini temporali che valoriali.
Come molti - chiamati a servire il bene pubblico - nella quotidiana attività sento spesso il
bisogno di uscire dall’ordinario, di ampliare gli orizzonti, di dare un senso al succedersi dei
problemi e delle situazioni che si affastellano continuamente.
Penso che l’attività di amministratore pubblico e di politico disancorata da riferimenti
valoriali ed etici rischi di immiserirsi nella pratica quotidiana, nel far fronte a emergenze
sempre più difficili, e finisca per perdere quel senso profondo che dovrebbe avere, se collocata
in un orizzonte più ampio, secondo la definizione che già il Pontefice Paolo VI diede della
politica, come più grande opera di carità.
Nel riflettere sui temi dell’incontro odierno, non ho potuto fare a meno di riferirmi al
significativo intervento che Sua Santità Benedetto XVI ha svolto di fronte al Parlamento
tedesco, nel corso del suo recente viaggio in Germania.
Ricordando il desiderio espresso da Re Salomone al momento dell’assunzione del potere,
cioè quello di poter distinguere il bene dal male, Sua Santità ha definito quale sia la qualità più
importante per un politico: “La politica – ha detto - deve essere un impegno per la giustizia e
creare così le condizioni di fondo per la pace. Naturalmente un politico cercherà il successo
senza il quale non potrebbe mai avere la possibilità dell’azione politica effettiva. Ma il successo
è subordinato al criterio della giustizia, alla volontà di attuare il diritto e all’intelligenza del
diritto”.
Ricordando anche la celebre frese di S. Agostino (“Togli il diritto – e allora che cosa
distingue lo Stato da una grossa banda di briganti?”), Benedetto XVI ha voluto richiamare tutti
coloro che decidono di dedicare l’impegno al servizio del bene pubblico, affinché la loro attività
non prescinda mai dal senso della giustizia, che deriva dal rispetto dell’uomo, della natura
umana, quale fonte di diritti inalienabili, che non possono essere né compressi né tantomeno
cancellati da una volontà politica, quand’anche fosse maggioritaria.
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Esistono dei riferimenti etici che sono intangibili, che riguardano il valore della persona, la
sua libertà di pensiero, l’esercizio di una fede religiosa, il dovere di solidarietà verso le altre
persone, specialmente quelle più deboli e bisognose, che in fondo rappresentano la
motivazione più intima dell’agire politico.
Nel mondo attuale, nel XXI secolo purtroppo aperto da vicende terribili come gli attentati
di New York – di cui abbiamo da poco ricordato il decennale – paiono essere venute meno le
contrapposizioni ideologiche che hanno contraddistinto il Novecento, definito da molti il secolo
delle ideologie, dello scontro fra sistemi contrapposti, che propongono ognuno una propria
filosofia di vita, una concezione chiusa alla mediazione e a ogni rapporto esterno.
Non sentiamo certo la mancanza degli “steccati” che hanno diviso uomini e Stati del
secolo scorso, con gli scontri, le guerre sanguinose che hanno provocato.
Nello stesso tempo, non si può certo pensare che il venire meno di ideologie che hanno
infiammato il cuore di milioni di persone, possa essere sostituito con l’assoluta anonimia, con
la mancanza di identità, di un’eredità culturale e valoriale, con l’incapacità di riconoscersi in
qualcosa di più duraturo degli affanni quotidiani o del cinico pragmatismo che in alcuni casi
spinge le nostre giornate.
Penso che - anche da occasioni come quella odierna - possa nascere lo stimolo per una
riflessione che ognuno può compiere nel proprio cuore e condividere con gli altri, per aiutare a
dare un senso all’impegno di ogni giorno, evitando che prevalgano indifferenza e relativismo,
ma rifondando invece le basi etiche del nostro agire, agire con le persone e per le persone che
ci affiancano nell’avventura umana.
Buon lavoro!
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SERGIO RODA
(Pro Rettore, Università degli Studi di Torino)
Buon giorno a tutti, mi è stato chiesto come Pro Rettore dell’Università di Torino di
portare i saluti dell’Ateneo: lo faccio molto volentieri sia perché fra l’Università di Torino e la
Nuova Arca esiste un rapporto consolidato da anni di collaborazione, sia perché oltre ad essere
l’Università di Torino una delle istituzioni che ha favorito e promosso l’iniziativa di oggi, il tema
in sé è del tutto coerente con la missione che compete all’Università in quanto agenzia di alta
formazione nel senso più lato e onnicomprensivo del termine.
Forse oggi più di ieri, in effetti, occorre fare in modo che l’Università recuperi appieno il
senso implicito nel concetto di universitas, il senso cioè di una realtà formativa in cui la
preparazione culturale, l’accesso ai saperi, l’acquisizione delle tecniche non può essere
disgiunta dalla propedeutica alla maturazione più completa dei valori etici e civili.
Troppo a lungo credo sono stati separati, nell’ambito della società, questi due aspetti
quasi che le competenze per potere essere meglio esercitate non necessitassero di una
componente solidamente introiettata di coscienza civica e di dirittura morale; negli ultimi anni
abbiamo anzi avvertito come questa disgiunzione sia andata allargandosi in modo pericoloso e
per molti versi rovinoso.
Il fatto stesso che in questa importante occasione di incontro e confronto di idee non si
parli dei valori etici all’interno della società contemporanea, ma dei valori etici negati nella
società contemporanea, ci fa pensare che un problema da questo punto di vista esista e si
tratti di un problema profondo, a cui non possiamo dare, credo, risposta generiche.
Ognuno nell’ambito dei suoi specifici compiti: politici, imprenditori, mondo delle imprese,
mondo del lavoro, mondo dell’economia, mondo della scuola, mondo dell’università, credo che
debba impegnarsi singolarmente e collettivamente nello sforzo di mutare un orientamento
della nostra società che rischia di portarci lontano verso un orizzonte molto oscuro, in un
futuro tenebroso molto diverso da quello che sognavano le ultime generazioni.
Ne deriva che iniziative come quella che oggi qui si celebra appaiono fondamentali per
riflettere su una serie di valori che debbono essere o rivitalizzanti o ripensati.
E’ molto significativo del resto - ribadisco - che a un tema come questo si sia oggi
pensato. Probabilmente l’esigenza di dibattere su “i valori etici negati nella società
contemporanea” fino a qualche anno fa non si sarebbe sentita: non che la necessità non ci
fosse ma ne mancavano i presupposti sia nella mentalità collettiva, sia, ahimè, nella classe
dirigente e nell’élite intellettuale.
Il mutare delle condizioni complessive del nostro Paese così come dell’intero mondo
occidentale e della realtà globalizzata ci impongono di rivedere il complesso dei nostri
comportamenti individuali e collettivi e ci costringono a riflettere su ciò che non ha funzionato
nella gestione della nostra società e sul perdita di sensibilità per valori che per errore si
ritenevano definitivamente acquisiti.
Per correggere tale mancanza fatale credo l’Università sia consapevolmente attrezzata a
fare la sua parte: l’ha fatta in passato, non sempre evidentemente in maniera adeguata a
quelle che sono le responsabilità delle più rilevanti istituzioni educative e formative. Occorre
quindi maggiore impegno e determinazione: l’incontro di oggi può aiutarci come ulteriore
monito rispetto a una volontà già risoluta.
Grazie a tutti gli intervenuti, con l’augurio di un buon lavoro e la certezza, di cui mi faccio
interprete e garante che se proseguirete su questa strada avrete il supporto costantemente
assicurato dell’Università di Torino.
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ALIDA TUA
(Associazione La Nuova Arca)
Signore e signori buon pomeriggio e grazie di essere intervenuti a questo convegno.
Ringrazio in modo particolare il Presidente del Consiglio Regionale Valerio Cattaneo e il Prof.
Sergio Roda, per aver portato il saluto della Regione e dell’Università di Torino. Grazie di
cuore ai relatori e alla moderatrice Didi Leoni che hanno accettato il nostro invito a venire qui a
parlare su un tema particolarmente cruciale della nostra epoca.
Il convegno nasce dalla constatazione del profondo degrado dei valori etici nella nostra
società e dal bisogno di discuterne per sensibilizzare l’opinione pubblica a riflettere sulle cause
e sui possibili rimedi. Senza riflessione c’è il rischio che ci si abitui alla situazione attuale e che
la perdita dei valori sia accettata come normale, con enorme danno delle generazioni future. Il
titolo del convegno : i valori etici negati nella società contemporanea si riferisce alla negazione
non in linea di Principi ma di Comportamenti. Anzi spesso i valori sono invocati e
strumentalizzati per validare l’azione. Ma poi la realtà dei comportamenti si rivela essere
differente. Non ci può essere dicotomia tra principi e comportamenti. Oggi assistiamo ad una
dilagante mancanza di limiti e di regole e ad una sempre crescente irrazionalità nell’agire. E’
come se l’umanità, paragonata all’individuo, nel corso dei secoli, non si fosse ancora avviata
verso una maturità razionale.
Credo che un serio ripensamento sulle fondamenta della società, cioè i valori, debba
preludere ad un profondo cambiamento di ciò che non funziona in tutti i settori della società. I
relatori, a seconda delle proprie esperienze professionali, esprimeranno il loro autorevole
parere su questi temi e a loro chiediamo, qualora lo ritengano opportuno, di proporre alcuni
antidoti e principi guida per un cambiamento e rinnovamento in senso etico, per dirla con
parole del Prof. Lamberto Maffei, Presidente dell’Accademia dei Lincei, che nello scorso anno ha
promosso ai Lincei una serie di incontri con lo stesso tema di questo convegno.
Ai punti di vista dei relatori vorrei aggiungere come spunto di riflessione una
considerazione: credo che una delle cause basilari della perdita dei valori sia il fatto che la
società attuale promuove il narcisismo come valore che dà una precisa impronta alla nostra
cultura. Specificando meglio la società promuove il narcisismo antitetico al rispetto dei valori e
non quello positivo e creativo necessario al successo dell’azione ed il cui risultato è utile a chi
agisce ed anche agli altri o quanto meno non li danneggia. Agire secondo valori vuol dire
condividere con gli altri i principi d’azione da rispettare, è sapere dove sono i confini tra bene e
male, tra giusto e ingiusto, tra lecito ed illecito, è sapere che esistono dei limiti che non vanno
oltrepassati, è agire senza calpestare gli altri, è creare rapporti ed è rispetto per gli altri. Il
narcisismo è negazione di tutto ciò: il narcisista agisce mirando unicamente ai suoi scopi,
modificando la realtà e calpestando i rapporti con la distorsione delle normali regole di
comunicazione attraverso l’uso spudorato delle menzogne fuori da ogni autocritica, non solo
sulle implicazioni morali, ma anche sull’irrazionalità dei contenuti. Mancando di un super-io
capace di porre limiti morali alla sua condotta, agisce i propri impulsi: non avendo un giusto
autocontrollo vive al di fuori e al di sopra delle regole sociali.
La società odierna offre meno limitazioni al comportamento in confronto anche solo a
venti anni fa, incoraggia ad agire liberamente senza considerazione dell’interesse degli altri,
inducendo a pensare che l’assenza di limiti sia libertà e giustizia per gli individui. Ma l’assenza
di limiti causa per la società il crollo della sua struttura e il caos, per l’individuo la perdita del
Sé e della propria identità.
Inoltre la società odierna influenza gli individui con le immagini fasulle create dai massmedia che propongono modelli e miti di potere e successo. Oggi il potere, il successo, la
notorietà, l’immagine sostituiscono il senso di dignità di sé e degli altri e il rispetto di sé e degli
altri. Ciò comporta mancanza di umanità, caduta in una condizione di irrealtà, svalorizzazione
dei sentimenti e soprattutto dell’empatia, sentimento chiave per la convivenza degli esseri
umani.
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Non vogliamo qui ed ora ricercare le colpe della svalutazione dei valori etici, se siano da
attribuire all’individuo o alla società: in effetti l’individuo modella la società ed è modellato
dalla società. L’importante è avviare il cambiamento della situazione attuale. Penso che il ruolo
dei giovani nel rinnovamento sia fondamentale e che sia nostro dovere offrire loro tutti gli
strumenti necessari. Una proposta è che vengano insegnati nelle scuole superiori i lineamenti
di psicologia, con impostazione psicanalitica, in quanto questa materia è utile alla
comprensione di se stessi, degli altri, dei rapporti interpersonali e quindi in qualche modo delle
dinamiche sociali. Sarebbe ora che questa disciplina uscisse dal chiuso delle aule accademiche
e dagli studi degli addetti ai lavori, per diventare patrimonio utile a tutti.
Inoltre credo che sia necessario che ogni settore della società rifondi e osservi un codice
etico di comportamento, poiché questa rifondazione è un passaggio obbligato per l’evoluzione
dell’umanità verso quella maturità psichica, prima evocata, che consente la gestione pacifica
delle risorse spirituali e materiali per lo sviluppo e il progresso.
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DIDI LEONI
(giornalista e conduttrice televisiva)
Grazie, grazie ad Alida Tua, un ringraziamento particolare per avermi voluto qui oggi in
qualità di moderatrice.
Ne approfitto per dire una cosa: come giornalisti -parlo anche per MIMMO CANDITO –
siamo stati chiaramente chiamati in causa e abbiamo sicuramente le nostre responsabilità. Per
questo il convegno si chiuderà proprio con gli interventi che riguardano l’educazione, la
formazione e i mass media. Ovviamente tutti i relatori che sono qui oggi hanno un osservatorio
privilegiato. Lo potete vedere dai nomi: relatori assolutamente illustri che svolgono il loro
lavoro con grande competenza e quindi ad ognuno di loro per il loro settore specifico verrà
chiesto non di delineare quello che sembra abbastanza assodato, cioè la negazione dei valori
etici, ma quali possono essere gli strumenti per risolvere la situazione. Anche se chiaramente è
molto difficile avere una ricetta per una materia così complessa. Vorrei subito presentare i
nostri ospiti, per usare un linguaggio cinematografico, in ordine di apparizione cioè secondo
l’ordine del loro intervento. Abbiamo con noi: CORRADO FAISSOLA Presidente UBI Banca. Fino
all’anno scorso è stato presidente dell’ABI, Associazione Bancaria Italiana, e da gennaio è
Presidente della FEBAF, Federazione delle Banche, delle Assicurazioni e della Finanza. Poi
abbiamo GIOVANNI MARIA FLICK Presidente Emerito della Corte Costituzionale, Ministro della
Giustizia nel Governo Prodi nel 1996, Professore Ordinario di Diritto Penale alla LUISS,
avvocato penalista ed anche rappresentante italiano nella Commissione Europea per i diritti
umani. Poi MARIO DEAGLIO, Professore Ordinario di Economia Internazionale presso la facoltà
di Economia dell’Università di Torino. Parallelamente alla carriera accademica, lo sappiamo
tutti, ha seguito quella di giornalista economico: ha diretto IL SOLE 24 ORE ed è editorialista
economico de LA STAMPA. Abbiamo SUA ECCELLENZA MONSIGNOR MARCELO SANCHEZ
SORONDO, Arcivescovo e teologo argentino. Dal 1998 è Cancelliere della Pontificia Accademia
delle Scienze e della Pontificia Accademia delle Scienze Sociali, Professore Ordinario di Storia
della Filosofia presso la Libera Università Maria Santissima Assunta a Roma e Presidente anche
del corso di laurea in scienze della formazione presso la stessa università; e poi un
imprenditore molto noto MARCO BOGLIONE Cavaliere del Lavoro, fondatore e Presidente di
Basicnet S.p.A. una società che raggruppa alcuni dei marchi più prestigiosi e conosciuti
dell’abbigliamento sportivo. In passato ha anche fondato la FOOTBALL SPORT MERCHANDISE
che è stata una delle prime aziende in Europa a produrre e commercializzare abbigliamento
con i marchi delle squadre di calcio. Il dottor Boglione è anche membro del Consiglio per le
Relazioni Italia- Stati Uniti. Poi abbiamo MARIO DOGLIANI, Vicerettore dell’Università di Torino
e Professore di Diritto Costituzionale. Con lui parleremo ovviamente del ruolo fondamentale
dell’educazione per sensibilizzare i giovani riguardo i valori etici. Ultimo ma non l’ultimo
MIMMO CANDITO giornalista, scrittore, inviato speciale de LA STAMPA, commentatore di
politica internazionale. E’ stato corrispondente di guerra nei principali teatri di conflitto
mondiale dall’Afghanistan al Kosovo all’Iraq ed è anche Docente di Linguaggio Giornalistico
all’Università di Torino e Presidente di Reporter senza Frontiere. Questi sono i nostri illustri
relatori di questa sera. Io darei subito la parola a CORRADO FAISSOLA. La prego di
raggiungere il podio: lei è Presidente della FEBAF Federazione delle Banche, delle
Assicurazioni, della Finanza, il mondo della finanza è nella tempesta in questo periodo… A lei
la parola dottor FAISSOLA.
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CORRADO FAISSOLA
(Presidente UBI Banca e
Presidente Federazione ABI_ANIA)
Papa Benedetto XVI nel discorso tenuto al Reichstag di Berlino il 22 Settembre ha
richiamato il primo libro dei Re della Sacra scrittura. Al giovane Re Salomone, in occasione
della sua intronizzazione, Dio concesse di avanzare una richiesta. Che cosa chiederà il giovane
Sovrano in questo momento? Successo, ricchezza, una lunga vita, l’eliminazione dei nemici?
No, niente di tutto questo! Egli chiede invece “concedi al tuo servo un cuore docile, perché
sappia rendere giustizia al tuo popolo e sappia distinguere il bene dal male!”
Credo che il concetto di etica debba fondarsi appunto sulla distinzione tra il bene e il
male, traducendo in termini concreti questo concetto ed esplicandolo nel contesto sociale e nei
diversi settori delle attività umane.
Le mie esperienze nel mondo della finanza mi inducono a concentrarmi sugli aspetti che
attengono all’attività di coloro che operano in questo settore, settore che negli ultimi anni è
stato protagonista di numerosi comportamenti che hanno compromesso non solo la stabilità
finanziaria a livello mondiale ma hanno anche arrecato danni rilevantissimi all’economia reale
coinvolgendo stati, imprese e famiglie!
Per rispondere alle domande implicite nel titolo del nostro convegno è opportuno,
analizzare, sia pur brevemente, le cause di natura etica che hanno facilitato e reso possibile i
disastri tuttora ben visibili sotto i nostri occhi!
Come è comunemente riconosciuto “l’etica” ha una caratterizzazione direttamente sociale
oltre che individuale.
L’etica sociale è determinata dall’insieme delle regole comunemente accettate su cosa sia
da approvare e cosa sia da criticare nel comportamento umano in un dato, contesto storico e
sociale (lavoro, amici, famiglia, business comunity).
Le scelte dell’uomo sono istintivamente indotte da motivazioni egoistiche: per essere
coerenti con l’etica sociale è necessario che le motivazioni egoistiche siano, per così dire,
attenuate dalla ricerca del bene comune oltre che del bene proprio!
Cipolla in un suo celebre libretto definisce tre tipologie di soggetto umano: l’onesto che
tende a realizzare il bene proprio e quello altrui, il malvagio che tende a realizzare il bene
proprio a danno degli altri e lo stupido che è incline a ricercare il male altrui a proprio danno.
Il giudizio della comunità in cui l’individuo esplica la propria attività è essenziale ai fini di
indurre comportamenti “etici”: la globalizzazione dei mercati, le sofisticate tecniche utilizzate a
supporto degli affari hanno allontanato il deterrente del “giudizio” della propria comunità
rispetto a comportamenti non rispettosi del bene comune.
A questo aggiungasi l’accentuarsi di valutazioni positive di una parte importante delle
società su obiettivi di mero arricchimento di breve/brevissimo periodo.
Quanto sopra detto vale per ogni settore di attività economica: ciò che cambia nella
finanza è l’intensità dei nessi tra mercato ed etica.
Nella finanza l’etica assume una importanza particolare per diversi motivi.
1) Il mercato finanziario è caratterizzato dalla presenza di ampie assimmetrie
informative; dalla possibilità di comportamenti opportunistici (moral hazard) da notevoli
esternalità informative i cui effetti si propagano all’ intera economia (specie per la facilità con
cui la crisi di un intermediario tende a contagiare gli atri, scaricandosi sul sistema). Gli
intermediari, inoltre, possono avantaggiarsi del loro rilevante potere di mercato o trarre
profitto dalla difficoltà della clientela nel comprendere determinati prodotti e nell’effettuare
scelte razionali.
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Queste caratteristiche elevano la probabilità che il mercato finanziario, assai più di altri
settori, non sia in grado di realizzare “naturalmente” la allocazione ottimale e aumentare il
benessere collettivo.
2) La finanza si basa sulla fiducia, si fonda su promesse: il prestito va restituito, il
deposito deve poter essere ritirato a vista, la polizza assicurativa va rispettata alla scadenza.
Richiede quindi, più di altri settori dell’economia, un corretto rapporto ispirato alla “fiducia”. Le
vicende recenti ci ricordano come la sfiducia - fenomeno in gran parte collettivo - tenda a
contagiare anche soggetti che ne sembrano immuni.
3) Mercati e intermediari finanziari svolgono alcune funzioni per l’intera economia:
aggregano il risparmio, scelgono dove allocarlo, controllano l’uso di queste risorse da parte di
chi le riceve; offrono tecniche per trasferire, ripartire e diversificare i rischi; agevolano lo
scambio di beni e servizi.
La qualità dei loro servizi è quindi cruciale: non solo per l’efficienza e la stabilità del
sistema finanziario, ma per l’intera economia.
Una buona finanza, infatti alloca il credito su base meritocratica, in funzione della qualità
dei progetti da finanziare piuttosto che della ricchezza e delle relazioni sociali esistenti, stimola
la crescita, così inducendo la creazione di nuovi posti di lavoro e stabilizzando i redditi delle
famiglie; facilita l’accesso all’istruzione per le classi sociali meno abbienti, favorendo così la
formazione del capitale sociale.
La Banca tradizionale che ha conservato in Italia presenze molto importanti (il nostro
sistema bancario ha oltre il 70% del proprio attivo allocato su finanziamenti diretti all’economia
reale) garantiva e garantisce che, a fronte del giusto profitto riconosciuto all’ intermediario,
possa coesistere altrettanto equo profitto del soggetto finanziato.
Ricorrendo ad un esempio concreto, il finanziamento a medio-lungo termine concesso
dalla Banca alle famiglie e/o alle imprese, se fondato su criteri meritocratici, consente a queste
ultime di trarre vantaggi economici anche per sè.
E’ un classico esempio di combinazione tra l’ interesse proprio della Banca finanziatrice e
quello del soggetto finanziato.
Quando invece l’intermediario finanziario, come è accaduto soprattutto nelle grandi
banche internazionali, opera su prodotti e servizi a valore aggiunto nullo, al profitto della
Banca corrisponde il danno per altri soggetti.
E’ quest’ultimo il classico esempio della distruzione del valore a danno di una delle parti
del contratto!
Prima di concludere il mio intervento vorrei tentare una risposta al quesito se e che cosa
possiamo fare per ricostruire i valori etici nella società contemporanea.
Se è vero che la disgregazione sociale correlata alla globalizzazione e al conseguente
attenuarsi dei giudizi di merito dei componenti la comunità in cui operiamo, enfatizzando
pseudo-valori rappresentati dal successo personale e dall’ arricchimento del singolo a danno
della collettività, io penso che si debbano ricercare percorsi che, pur utilizzando
compiutamente l’innovazione tecnologica, valorizzino aggregazioni di tipo tradizionale quali la
famiglia, la scuola, i gruppi sociali spontanei.
Inoltre è necessario l’ assunzione, da parte di coloro che sono investiti di cariche
istituzionali o che ricoprono posizioni di vertice nella società degli affari, di precise
responsabilità tendenti a influenzare positivamente la società civile: la società civile infatti,
come la storia dimostra, è fortemente influenzata e guidata dai movimenti di pensiero che si
formano intorno ai “leaders” di ogni singolo contesto ambientale e temporale!
Penso che il mondo e l’Italia, in particolare, non possano piu fare a meno di uomini
carismatici che si concentrino sul bene comune e non sull’interesse egoistico personale e/o
della loro casta!
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GIOVANNI MARIA FLICK
(Presidente Emerito Corte Costituzionale)
Valori etici e Costituzione nei centocinquanta anni di unità.
Una riflessione sui valori etici negati nella società contemporanea qui (a Torino, nell’aula
del Primo Senato del Regno d’Italia) e oggi (nel centocinquantesimo anniversario della
proclamazione di quel Regno) non può che prendere le mosse dal percorso unitario nei
centocinquanta anni trascorsi. Una vicenda che prese l’avvio dai moti risorgimentali, dalle
guerre di indipendenza e da Roma capitale, per concludere con la guerra del ’15-’18 il primo
Risorgimento; che proseguì con il fascismo, la seconda guerra mondiale, la sconfitta e una
nuova divisione tra il Regno al sud e la Repubblica Sociale al nord; che ritrovò l’unità nel
secondo Risorgimento – assai più concentrato del primo – attraverso la Resistenza, la scelta
repubblicana, la Costituzione.
Quest’ultima è – anche cronologicamente – centrale in quel percorso, sopratutto perché
esprime, nei suoi valori fondanti, il passaggio dal primo al secondo Risorgimento. Nel primo, la
nazione si è fatta stato attraverso la condivisione di valori come la tradizione, la storia, la
lingua, la cultura, l’arte, il territorio («una d’arme, di lingua, d’altare, di memorie, di sangue e
di cor» come si esprimeva Alessandro Manzoni, nel 1821). Sono valori in qualche modo elitari,
anche se la partecipazione popolare al percorso unitario (dalla spedizione dei Mille alle cinque
giornate di Milano, alla grande guerra) è una realtà incontestabile. Ma nel Dna del primo
Risorgimento ci stanno già l’aspirazione alla giustizia sociale e alla legalità, il principio
personalista, come testimonia la Costituzione della Repubblica Romana del 1849, che delinea
ante litteram il nucleo della Costituzione attuale.
Nel secondo Risorgimento, la nazione ha recuperato e vivificato lo Stato – dopo le
degenerazioni dell’esperienza totalitaria e nazionalista e gli eccessi del liberalismo – attraverso
l’affermazione e la condivisione dei valori fondanti della convivenza: il lavoro, la dignità,
l’eguaglianza, la solidarietà, il personalismo, il pluralismo, la laicità, il pacifismo, l’unità e
l’autonomia. Sono valori frutto di una scelta e di un compromesso alto (non già di un baratto)
fra le grandi correnti ideologiche che furono alla base dei partiti di massa e di élite,
protagonisti dalla Resistenza: i cattolici, i socialcomunisti, i liberali (penso alle tre firme di De
Nicola, di Terracini e di De Gasperi, in calce alla Costituzione).
La Costituzione pone al centro del nostro sistema non più lo stato, come durante il
fascismo, ma la persona. Essa si apre – nei principi fondamentali – con l’affermazione dei
valori cui ho fatto cenno dianzi; e si articola nella conseguente definizione di una serie di
rapporti civili, sociali, economici e politici, in cui sviluppa i diritti inviolabili e i doveri
inderogabili di solidarietà, tra loro strettamente legati. Quei valori possono essere
efficacemente riassunti nel principio di pari dignità sociale ed in quello di laicità: due principi
inscindibili, che non possono fare a meno l’uno dell’altro.
La dignità, nell’articolo 3 della Costituzione, esprime un valore di contenuto; sottolinea il
rapporto tra l’eguaglianza formale di tutti di fronte alla legge e la eguaglianza sostanziale.
Quest’ultima si realizza eliminando le disparità di fatto che impediscono la piena partecipazione
di tutti (non solo dei cittadini) alla vita pubblica e sociale; che trasformano la diversità – un
valore in sé positivo, di identità – in una condizione negativa di inferiorità. La pari dignità
sociale rappresenta la chiave di collegamento tra l’eguaglianza e la diversità e il pluralismo –
un altro dei valori fondamentali della nostra Costituzione – attraverso la solidarietà; nonché tra
l’eguaglianza di tutti e la libertà di ciascuno.
La laicità esprime un valore di metodo: non è menzionata esplicitamente nella
Costituzione, ma la Corte Costituzionale la ha riconosciuta quale principio fondamentale e
immutabile dello Stato, con una sentenza del 1989, dopo la modifica del Concordato con la
Chiesa Cattolica nel 1984. La laicità va intesa non soltanto con riferimento al rapporto tra Stato
e Chiesa ed alla dimensione religiosa; ma altresì con riferimento al rispetto reciproco – nella
consapevolezza dei propri valori e allo stesso tempo nel rispetto dei valori dell’altro – ed al
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dialogo, in antitesi alla sopraffazione: accettare l’altro per quello che è. E’ un valore che nasce
dall’eguaglianza e dalla libertà religiosa, dal rifiuto del laicismo, ma anche da quello del
radicalismo, del fanatismo e dell’intolleranza.
I valori costituzionali, nella loro condivisione, devono rappresentare ciò che unisce e non
ciò che divide. Il riferimento ad essi consente di dare maggior concretezza al patriottismo
costituzionale: la consapevolezza di appartenere a una comunità che li fa propri; una
comunità della partecipazione, non soltanto della appartenenza.
Vi è un nesso tra i vizi, i limiti, i compromessi, il centralismo e il burocraticismo, le
carenze della nostra vita unitaria, nel primo come nel secondo Risorgimento. Ma v’è anche un
nesso tra gli eroi dell’uno e dell’altro: i martiri delle battaglie e dei moti risorgimentali e gli eroi
della Resistenza (penso alle lettere dei condannati a morte); quelli della fedeltà militare (da
Cefalonia ai campi di concentramento) e i sacerdoti assassinati nello svolgimento della loro
missione; gli eroi della quotidianità nel nostro tempo (Ambrosoli, Falcone, Borsellino, Livatino e
i tantissimi altri vittime del terrorismo e della criminalità organizzata, caduti nel compimento
del proprio dovere) fra le forze dell’ordine, i magistrati, gli avvocati, i giornalisti, i sindacalisti, i
lavoratori: insomma, fra la gente.
Ecco perché è giusto – nonostante la crisi; anzi, proprio di fronte alla crisi – celebrare i
centocinquanta anni del processo unitario, “riappropriarci” di esso, rivolgendo “la mente al
passato e lo sguardo al futuro” per affrontare “l’angoscioso presente”, come ci ricordava
recentemente Giorgio Napolitano”. E celebrare quel processo guardando all’evoluzione del
patriottismo, che ai valori su cui si unificò l’Italia aggiunge – non sostituisce – i valori proposti
dalla Costituzione per la nostra convivenza. Sono valori oggi, forse, più facilmente percepibili di
quelli del primo Risorgimento. Rappresentano un motivo di speranza e di fiducia nel futuro del
nostro paese, oltre che una ragione convincente per la celebrazione del suo passato; sono
radice del passato e garanzia del futuro.
Fra i tanti valori che devono ispirare il nostro modo di essere, alcuni mi sembrano
particolarmente importanti, per reagire alla crisi: quelli alla base del federalismo solidale, del
volontariato e della sussidiarietà, della dimensione europea.
Il federalismo inteso non come coefficiente di separazione, di egoismo, di mera
competizione, o di deresponsabilizzazione e di incentivo al parassitismo; ma, al contrario,
come collegamento tra il principio di prossimità e il principio di responsabilità. Il federalismo
inteso come unità nella raccolta delle risorse e nella gestione delle spese, in chiave locale e di
prossimità, affiancando ad esse interventi dal centro che assicurino la perequazione, cioè
l’eguaglianza nei livelli fondamentali del nostro vivere insieme. Il federalismo inteso come
fattore di efficienza e di coesione, ma anche di solidarietà nei termini in cui esso è stato
richiamato dalla Conferenza episcopale italiana, nel corso delle discussioni sulla legge istitutiva
del c.d. federalismo fiscale.
E’ altrettanto fondamentale l’impegno civile e sociale, attraverso il volontariato. Una
modifica del titolo V della Costituzione, introdotta nel 2001, ha reso espliciti il principio della
sussidiarietà orizzontale e il riconoscimento che – accanto al pubblico e al privato; al collettivo
e al profitto individuale – ci deve essere il cosiddetto terzo settore: il sociale, ossia la
partecipazione di tutti. Quest’ultima è l’espressione più significativa e concreta del valore
costituzionale fondamentale della solidarietà, che salda fra di loro i diritti inviolabili e i doveri
inderogabili. Penso ai numerosi esempi che ci vengono offerti quotidianamente dalle strutture e
dalle iniziative del volontariato; al contrasto stridente fra le nuove e diffuse forme positive di
superamento della contrapposizione già tradizionale fra pubblico e privato, e la melassa
indecente di commistione fra loro, cui troppo spesso siamo costretti ad assistere, sopratutto
oggi.
Infine, un’altra grande risorsa per il recupero dei valori negati dalla società
contemporanea è rappresentata dall’impegno europeo. E’ il profilo rappresentato dall’aver
cercato di mettere – effettivamente, non soltanto a parole – i diritti fondamentali e la loro
tutela al centro della convivenza europea: prima, attraverso la Convenzione europea dei diritti
dell’uomo; poi, attraverso la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea. Eppure anche
questo profilo – al pari di quello dell’euro, dell’economia e del mercato – sembra entrare in crisi
di fronte ai problemi dell’immigrazione, della sicurezza, della perdita del benessere. Abbiamo
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toccato con mano, nelle polemiche recenti sull’accoglienza dei migranti, il pericolo – di questi
tempi concreto – che la pressione dell’immigrazione risvegli degli egoismi nazionalistici, spinga
alla reviviscenza delle frontiere, favorisca l’arroccamento dell’Europa e dei suoi stati membri in
una inaccettabile “fortezza del benessere”.
Quello europeo – al di là della facile retorica – è un impegno senza soluzione di continuità
nel passaggio dalla cittadinanza italiana a quella europea, dai valori del patriottismo
costituzionale del secondo Risorgimento a quelli del patriottismo europeo. Un “terzo
Risorgimento”, nel quale dobbiamo guardare concretamente non più e non soltanto ai diritti
particolari del cittadino, ma ai diritti universali dell’uomo, come ci impongono le esperienze
delle due guerre mondiali, della Shoah, delle armi di distruzione di massa, del coinvolgimento
delle popolazioni civili, da cui sono nati il bisogno di Europa e il suo cammino verso l’unità.
L’unità europea da raggiungere non è meno importante dell’unità italiana da conservare.
Rappresenta la nuova dimensione dell’eguaglianza, delle diversità, della solidarietà, della
dignità, della laicità, con cui siamo chiamati a confrontarci in un mondo globale, segnato dalle
migrazioni di massa, dal terrorismo globale e glocale, dalle patologie dell’economia e del
mercato, dall’evoluzione e dalle insidie della tecnologia, dai problemi dell’ambiente e dello
sviluppo sostenibile: un mondo nel quale possiamo e dobbiamo essere ancora capaci di
proporre una testimonianza di valori, come italiani e come europei.
Vorrei concludere la riflessione sui valori etici nel percorso unitario del nostro paese in
questi centocinquanta anni, con due diverse esperienze torinesi, molto concrete, legate da un
nesso che testimonia la continuità di quel percorso e di quei valori.
La prima esperienza è quella di don Bosco. Qui a Torino – quando Vittorio Emanuele II
venne proclamato Re d’Italia, il 17 marzo 1861 – a poca distanza dal Parlamento Subalpino
operava, da poco più di un anno, la Società salesiana fondata da don Giovanni Bosco il 18
dicembre 1859. Il percorso unitario del nostro paese in qualche modo si intreccia con quello dei
salesiani: un impegno sul terreno sociale, nell’educazione, nella formazione professionale e
civile, nell’istruzione; quasi a controbilanciare – nel primo Risorgimento – gli effetti del non
expedit, la tradizionale laicità della vita politica e l’anticlericalismo allora prevalente.
Il progetto educativo di don Bosco era (ed è tuttora) quello di formare dei «buoni cittadini
in questa terra, perché fossero poi un giorno degni abitatori del cielo». Esso si traduce in un
impegno concreto e fattivo nell’assistenza ai giovani, soprattutto emarginati o provenienti dalle
classi sociali più deboli, e si sviluppa su scala nazionale e poi mondiale. E’ un impegno
articolato sul piano sociale, culturale, scolastico, educativo, religioso, assistenziale, popolare e
massmediatico, che – ben si può dire – ha certamente contribuito a fare l’Italia e gli italiani, e
compensa largamente l’astensione, l’indifferenza e anzi la contrarietà di don Bosco ai moti
risorgimentali.
Un impegno fondamentale, in un contesto – quello della Capitale preunitaria – nel quale
lo sviluppo industriale si confrontava con tutto il suo seguito di ingiustizie sociali, alienazione,
immigrazione, sfruttamento e abbandono dei ragazzi, spesso destinati al carcere e nel migliore
dei casi alla strada; un contesto di moti, restaurazioni e rivalutazioni, avvenimenti e
turbamenti, in cui la Chiesa raramente era considerata alleata e più spesso nemica da
contrastare; ma in cui destava rispetto – anche negli avversari – la santità degli
“evangelizzatori dei poveri”. Primo fra essi fu don Bosco con la sua missione – come diceva – a
favore della gioventù “povera e abbandonata”, in condizioni di minorità (non di inferiorità):
nella stessa linea dei suoi contemporanei Giuseppe Cafasso, con l’assistenza ai carcerati; e
Giuseppe Cottolengo, con l’assistenza ai portatori di gravissimi handicap.
Una missione che nell’estate del 1854 – durante un’epidemia di colera che investì Torino
– indusse il santo a chiedere ai suoi ragazzi un forte impegno nell’assistenza e nel trasporto dei
malati: un impegno in cui l’aspetto sociale era strettamente connesso a quello religioso, poiché
don Bosco promise ai ragazzi che non sarebbero stati contagiati, se fossero rimasti in grazia di
Dio; ed in effetti nessuno di loro (sembra) si ammalò.
Quella missione assunse il significato di una vera e propria rivoluzione sociale, quando –
dopo la realizzazione dei laboratori di calzoleria e sartoria, legatoria, falegnameria, tipografia e
fabbro ferraio – don Bosco riuscì a predisporre e a sottoscrivere alcuni fra i primi contratti di
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apprendistato in Italia; ad introdurre una disciplina e una tutela del lavoro minorile, sino ad
allora sfruttato in modo vergognoso. Un’anticipazione e un’attuazione – accanto alla
dimensione religiosa (dare a Dio ciò che gli spetta) – di valori profondamente laici ed espressivi
della centralità della persona, nei termini in cui essa è proposta dalla nostra Costituzione: il
principio lavorista, quello personalista, quello di eguaglianza e di pari dignità, quello di
solidarietà, quello di sussidiarietà.
La seconda esperienza torinese che mi sembra significativa, per una riflessione sui valori
etici da cogliere nel percorso unitario del nostro paese, è la storia di un gruppo di giovani,
assolutamente “normali”, nella Torino delle leggi razziali, della persecuzione antiebraica e della
guerra, della resistenza: una storia del secondo risorgimento, quella del gruppo di
frequentatori della biblioteca della scuola ebraica, sita presso il tempio di via Sant’Anselmo, che
venne distrutto da un bombardamento nel 1942.
Un gruppo di ragazzi che a partire dal 1938 dovette confrontarsi con l’esclusione e il
rifiuto della società civile; che dovette prendere le distanze dal regime fascista; che salì in
montagna prima per passione, poi per fuggire una società che li emarginava, infine per
resistere e combattere contro l’invasore nazista e il suo alleato fascista, dopo le prime
deportazioni nell’autunno del 1943.
E’ una vicenda – descritta da una recente ed efficace mostra “Il tempo in sorte” – che
segna la maturazione e la scelta di campo di quei giovani, il loro legame, la riscoperta e la
testimonianza dei valori da parte loro, la loro sorte conclusa per molti con la morte e con il
campo di sterminio.
E’ una vicenda il cui valore si riassume nell’esempio e nell’insegnamento di Primo Levi, il
più conosciuto fra i componenti di quel gruppo: “a molti, individui o popoli, può accadere di
ritenere, più o meno consapevolmente, che «ogni straniero è nemico»… ma quando questo
avviene... allora al termine della catena sta il Lager”.
L’insegnamento di Primo Levi è fondamentale. Esso è il miglior commento che io
conosca all’articolo 3 della nostra Costituzione: il richiamo alla «pari dignità sociale» e
all’eguaglianza «senza distinzioni di sesso, di razza, di lingua, di opinioni politiche, di
condizione personale e sociale». Ed è proprio da qui che occorre ripartire per riscoprire quei
valori etici che la società contemporanea sembra aver negato o dimenticato.
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MARCELO SANCHEZ SORONDO
(Cancelliere Pontificia Accademia delle Scienze)
L’OSCURAMENTO O ECLISSE DEI VALORI
Aspetto teologico, filosofico e culturale
La parola «valore» viene del latino volgare valor, connesso con valeo «ho potenza» «sto
bene», e, molto probabilmente, con la radice sanscrita bal-a o val-a, che significa appunto
forza, dinamismo. Il contrario è l’essere «invalido», ossia quel soggetto che le manca qualcosa
che dovrebbe possedere secondo sua natura. Nelle sue varie accezioni, riferito a persona, il
valore indica il possesso di virtù intellettuali, morali e professionali, come l’onestà o la purezza
di una vita; valore è pure la qualità delle azioni degli esseri umani coscienti e liberi, come gli
atti eroici o di santità, oppure il pregio di un'opera umana indipendentemente dal prezzo, come
le opere di misericordia; valore hanno anche i beni che non possiedono prezzo, come la luce
del sole e l’aria che respiriamo. In filosofia, in teologia e, in generale, nella cultura il valore non
ha un significato univoco ma analogo, come la salute che è presente benché in modo diverso
nell’equilibrio della natura, nella medicina, e nel medico. Perciò in realtà è meglio parlare
dell’oscuramento o dell’eclisse dei valori, perché, in fondo, il valore è come l’essere o c’è o non
c’è, to be or not to be.
Valore e realtà
Dal punto di vista dell’esperienza umana l’ambito dove è più facile individuare la nozione
di valore è l'economia. Ciò vale non solo per l'uso moderno di questo termine, ma anche per
l'uso antico del termine che, anche nei classici come Platone e Aristotele è riferito, di solito, ad
analisi economiche. In un lucido testo che spiega l’origine della moneta, Aristotele nell'Etica
Nicomachea osserva che il bisogno costituisce la misura del valore (V, 8, 1133 a 25 ss.).
Perciò una visione del valore che prescinda della realtà della natura, dell’ente in generale
e del modo di essere dell’uomo nel mondo in particolare, sarebbe difficile da articolare
nell'ambito della filosofia ma anche in quello della cultura e della civiltà. Già in Eraclito,
nell’aurora dell’occidente, sono presenti assiomi come quello del fr. 112, «la saggezza è la virtù
suprema» in cui il valore è ricondotto alla virtù dianoetica e all'etica intera, e a un'etica
tutt'altro che dissociata dall’essere e dal divenire della realtà.
Infatti, si può ben costatare, il forte rilievo assiologico che gli antichi davano alla stessa
realtà: più implicitamente nel pensiero arcaico, mentre esplicitamente soprattutto a partire da
Socrate e la sua scuola, con i suoi grandi rappresentanti, Platone e Aristotele. Una visione della
gerarchia ed emergenza del valore primo e supremo, che tutto il resto avvalora a misura dei
gradi della sua partecipazione, può trovarsi già in quel testo della Repubblica platonica in cui si
afferma che il bene «non è essenza, ma qualcosa che, per dignità e potenza, supera di molto
l'essenza» (509 b). Lo stesso testo afferma che il bene è ciò da cui gli oggetti conoscibili
«derivano non solo l'esser conosciuti, ma anche l'essere e l'essenza». Tale testo, interpretato
alla luce della filosofia platonica, e degli altri testi paralleli in cui si parla del fine come ragione
ultima delle cose (Phaed., 99 b-c), rivela che per Platone ciò che noi chiameremmo «valore»
rappresenta il fondamento per cui ciascuna essenza è ciò che è, e la ragione che fa essere, sia
pur nella loro forma partecipata di realtà, anche le cose particolari o i singoli esistenti. Tale
bene platonico diventerà in Aristotele il primo motore dell'universo, che, come atto per
essenza, muove e causa il divenire e, in qualche modo, suscita e attira a sé come verso
l’oggetto amato, non solo perché fine ma anche in quanto motore, lo stesso universo. Così Dio
può quindi essere considerato «valore», sia nel senso che è la causa del muoversi e divenire
dell’universo, sia nel senso che è sommamente desiderato ed amato, rappresentando il fine
ultimo a cui tendono tutte le realtà sia naturali sia intellettuali. Non sorprende, perciò, la bella
affermazione del Padre Dante riferentesi a Dio come «lo primo et ineffabile valore» (Paradiso,
X, 3), la quale ci presenta il valore personalizzato in una forma che anticipa quella della
modernità.
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L’appartenenza del valore all’essere, che caratterizza la concezione greca, si esprime in
San Tommaso con l’aggiunta della nozione cristiana di libertà, sconosciuta nel pensiero
classico, mediante la dottrina delle «nozioni trascendentali». I «trascendentali» — verum e
bonum — e gli atti umani di conoscenza e libertà, riguardanti la verità e il bene, capaci di
realizzare la persona umana, corrispondono precisamente a ciò che noi chiamiamo «valori».
Tali «trascendentali», che si possono predicare di ciascuna cosa in quanto è qualcosa, non si
aggiungono all'essere — dice San Tommaso — «quasi extranea natura», al modo che la
differenza specifica si aggiunge al genere o l'accidentale al soggetto (De Veritate, q. 1, art. 1).
Essi aggiungono qualcosa all'essere solamente «nel senso che esprimono un suo modo che nel
nome puro e semplice dell'essere rimane inespresso»; non però «uno speciale modo di essere»
(questi modi sono le categorie tali come la sostanza, la qualità, la quantità, ecc.) ma «un modo
che segue generalmente ogni ente». Uno di questi modi riguarda «la convenienza di un ente
ad altro» e questa convenienza è solo comprensibile se si pensa all'anima, «quae quodammodo
est omnia» (Ibid.). La convenienza all’essere rispetto alla facoltà appetitiva dell'anima è
espressa dal termine bonum, e quella rispetto alla facoltà conoscitiva dal termine verum.
Tuttavia perché il bonum è l’ente perfetto e perfettivo (ens perfectum et perfectivum) la
facoltà che ha per oggetto il bene, cioè la volontà, è per se stessa capacità aperta all’Assoluto
trascendente in quanto fine di ogni fine (ossia fine ultimo) e perciò dotata di libertà padrona
dell’atto, dell’oggetto e della configurazione del valore. Infatti: «Il bene, presentandosi come
desiderabile, richiama l’idea di causa finale, il cui influsso ha un primato, poiché l’agente non
opera se non in vista del fine, e dall’agente la materia viene disposta alla forma: perciò si dice
che il fine è causa delle cause (causa causarum). In tal modo, nel causare il bene è prima
dell’ente, come il fine è prima della forma» (S. Th., I, 2, 5 ad 1). Anzi: «la potenza alla quale
appartiene il fine principale, muove all’atto la potenza alla quale appartiene ciò che è per il
fine, cioè il mezzo, come l’arte militare muove a operare l’arte di costruire morsi. E in questo
modo la volontà muove se stessa e anche tutte le altre potenze: infatti conosco perché lo
voglio, e similmente uso tutte le mie potenze e abiti perché lo voglio» (De Malo, q. 6). Si può
dire che l’intelletto precede la volontà, la precede e la guida e si afferma che nihil volitum quin
praecognitum (e ciò è evidente non solo col ragionamento ma anche all’osservazione ordinaria
come dato di fatto). Sennonché nella sfera esistenziale, che è l’attuarsi della libertà della
persona, il rapporto si capovolge ed è la volontà, che prende in mano le redini dell’azione e da
«valore» ossia conferisce la qualità morale all’esercizio dell’intelligenza. San Tommaso, contro
ogni forma di determinismo sia naturalistico sia intellettualistico, rileva il dominio esistenziale
della libertà, e pertanto del riconoscimento del bene come valore, nel comportamento morale
della persona. «Si dice buono — egli afferma — ognuno che ha buona volontà poiché mediante
la buona volontà noi facciamo uso di tutte le cose che sono in noi. Pertanto non si dice buono
l’uomo perché ha una buona intelligenza ma perché ha una buona volontà. La volontà ha per
oggetto il fine come oggetto proprio» (S. Th., I, 4, ad 3). Quindi, il valore, come bene
riconosciuto dal soggetto umano mediante la sua libertà e come oggetto della volontà, è nella
convergenza di tutte le facoltà e abiti, inclusa l’intelligenza, riguardo all’apprensione unitaria
dell’ens. Come si vede, questa impostazione del tema è di grande attualità, perché riesce ad
arricchire il valore legato all’essere della cultura classica con la nuova nozione cristiana di
libertà e viceversa, evitando due scogli. Da una parte, quello di intendere il valore come
qualcosa che esista e sussista per conto suo, al modo di creazione pura della soggettività,
senza riferimento alla verità, al bene e all’essere, che è la tendenza soggettivistica di quella
parte della modernità che segue acriticamente il cogito cartesiano. D’altra parte, si evita di
disgiungere il valore dall’attività della valutazione che è l’atto proprio del soggetto umano,
mediante l’atto della libertà dell'anima spirituale, che è la tendenza dell’averroismo e in
generale del razionalismo classico e moderno.
Essere e dover essere
Il pensiero di Kant, punto decisivo nello sviluppo della modernità, significa il tentativo più
importante, nell’orizzonte di una sostanziale fedeltà al progetto moderno del cogito cartesiano,
per il sorgere di un'indagine autonoma sul valore, con il distacco, ancora più netto che in
Cartesio, fra i processi della natura e l’attività dello spirito, quelli dominati dalla necessità e
questi della libertà, quelli dominati dalla categoria di causa ed effetto, questi dell’imperativo
categorico del Sollen. La libertà quindi si determina in se stessa, e ogni diritto e ogni morale si
fondano sulla libertà. La razionalità, che non può arrivare alla cosa in sé, è puramente formale
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e consiste in ciò che quel che deve valere come legge, deve potere essere pensato come
legislazione valida universalmente: «Opera — dice Kant — secondo massime che siano
suscettibile di diventare leggi universali» (K.d.p.V., Hamburg 1974, p. 36). Tuttavia, Kant
corregge il formalismo del Sollen con un’implicazione di contenuto. Infatti, la libertà si fonda
nella persona che è fine in sé: «Opera in modo da trattare l’umanità tanto nella tua persona
come nella persona del altro, sempre e contemporaneamente come fine e non mai come
mezzo» (Grundlegung der Metaphysik der Sitten, in AA, vol. IV, sezione 2, p. 429). E così
emerge l’«io penso» come trascendentale a cui fa capo tutta la soggettività e oggettività
umana e partire di esso il mondo dei fenomeni naturale, cioè la scoperta dell’ordine cosmico e
le sue leggi. Perciò egli può concludere la K.d.p.V. affermando: «due cose riempiono l’animo di
ammirazione e di riverenza sempre nuova e crescenti, quanto più spesso e più a lungo il
pensiero vi si ferma su: il cielo stellato sopra di me e la legge morale dentro di me». Queste
ultime parole nelle quali si compendia quasi tutto il suo pensiero, furono fatte incidere anche
sulla sua tomba.
Kant usa solo in senso generico la parola «valore» (Wert), dicendo, per esempio, che
«tutti gli oggetti delle inclinazioni, hanno soltanto un valore condizionato, perché se le
inclinazioni non ci fossero, essi sarebbero senza valore», e che, se non vi fosse altro, «non vi
sarebbe assolutamente nulla di valore assoluto» (Ibid., p. 428); nel senso tecnico di valore
«assoluto» usa, invece, il termine astratto Wuerde (dignità), più lontano da ogni significato
economico e, inoltre, meno soggetto a venire, per così dir, entificato: «Nel regno dei fini tutto
ha un prezzo o una dignità... Ciò che si riferisce alle inclinazioni e ai bisogni dell'uomo ha un
prezzo di mercato; ciò che favorisce il libero gioco delle nostre facoltà, un prezzo di affezione;
ma ciò che costituisce la condizione a cui soltanto qualcosa può costituire uno scopo in se
stessa non ha un valore relativo, cioè un prezzo, bensì un valore intrinseco, cioè una dignità»
(Ibid., pp. 434-435). La dignità è posseduta, come noto, soltanto dalla legge morale, e
dall'essere razionale in quanto persona che ne è il portatore.
Lo spostamento d'accento dalla «dignità» al «valore», che si verifica nell'Ottocento e a
cui ha contribuito non poco Nietzsche — la cui ultima opera rimasta incompiuta, Der Wille zur
Macht (in Werke, Leipzig 1895 ss.), porta come sottotitolo la trasvalutazione di tutti i valori
(Eine Umwertung aller Werte) — è anche, implicitamente, uno spostamento d'accento dalla
forma al contenuto anche se in Nietzsche per negare la trascendenza ed aprire al nihilismo.
Capovolgere in tal senso i valori significa per Nietzsche ritornare a essere fedeli alla «terra»,
cioè alla natura dionisiaca, al mondo materiale e alla vita biologica, significa abbandonare il
«Crocefisso» e riabbracciare Dionisio. Tale capovolgimento deve passare per l’esperienza della
«morte di Dio». Ora però la morte di Dio e l’oscuramento dei valori producono l’effetto del
vuoto e della notte, come l’area senza il sole, che è riguardo all’essere il nihilismo metafisico,
perché viene a mancare l’orientamento alla verità che i valori prima rappresentavano. In tal
senso Nietzsche definisce se stesso come «il primo perfetto nihilista d’Europa, che ha già
vissuto in sé fino in fondo il nihilismo stesso — che lo ha dietro di sé, sotto di sé, fuori di sé».
Inutile dire quanta fortuna abbia avuto questa visione nella cultura attuale che ha recepito
Nietzsche non solo dalla filosofia accademica (G. Simmel, K. Jaspers, Heidegger, G. Deleuze, J
Derrida, M. Foucault), ma anche dagli ambienti letterari e poetici (S. George, G. Benn, E
Juenger, Th. Mann), dalla psicologia (L. Klages, S. Feud) e dalla politica (nazionalsocialismo,
movimento della Rivoluzione conservatrice, e via di seguito fino ai nostri giorni con la solita
intolleranza di chi si crede superuomo).
In Marx la categoria del valor rimanda agli aspetti monetari del capitalismo. La
«sostanza» del valor è il lavoro «astratto». Le merci non esprimono altro che oggettivazione
del lavoro vivo del salariato, erogato nel processo di produzione, in merito alla forza-lavoro
acquistata dal capitale nel mercato del lavoro. La «forma» del valore rimanda all’espressione
monetaria della grandezza di valore nell’«equivalente generale» del profitto: la merce
capitalistica deve realizzare più moneta di quella anticipata dal capitale iniziale. Il ciclo
monetario del capitale s’intreccia con la natura processuale del lavoro astratto che da potenza
di lavoro passa all’atto, prima mediante l’attività del lavoratore in forma «fluida», poi nell’opera
ossia nel «cristalo» del lavoro compiuto, infine in espressione monetaria del valore. Valore,
trasformazione del processo del lavoro, moneta fanno parte di un medesimo processo
concettuale. Quando però la forza-lavoro, acquistata a prezzo minimo, viene attuata in lavoro
effettivo, il prodotto cioè l’opera di tale lavoro viene ad avere un valore di scambio superiore al
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prezzo a cui la forza lavoro è stata acquistata. In tal modo il lavoro, cioè l’atto effettivo del
lavoro del salariato, ha prodotto un surplus di valore rispetto a quello che la forza lavoro aveva
inizialmente, cioè un valore in più, che Marx chiama «plusvalore». Questo plus valore non va
all’operario, a cui va solo il salario, cioè quel prezzo minimo a cui il capitalista borghese
acquista la sua forza-lavoro, ma va al padrone, cioè al proprietario dei mezzi di produzione,
ovvero degli istrumenti e delle macchine, e ne costituisce il «profitto». E’ qui è forte il
riferimento a Kant per il ruolo chiave dell’inversione soggetto-oggetto, e soprattutto a Hegel
per la dialettica fra soggetto-oggetto (la forza di lavoro è il vero soggetto, di cui i lavoratori
singoli sono oggetto a modo di predicato); soggetto-oggetto come di «totalità» (il capitale e il
suo profitto sono il soggetto primario e l’oggetto ultimo che mira a porre integralmente i propri
presupposti). Dunque la teoria del valor e plusvalore è simultaneamente, teoria
dell’alienazione, dell’astrazione reale e della contraddizione. Perché il capitalismo dipende dal
rapporto dialettico della lotta di classe, la forza-lavoro è legata indissolubilmente al lavoratore,
mentre il capitale si valorizza solamente «sussumendo» dentro di sé quella alterità che è il
lavoro in atto, prodotto dai lavoratori — la nozione del valore è anche teoria della crisi e della
rivoluzione.
In generale, però, l'indagine postkantiana sul valore cerca di cogliere tale contenuto nella
sua pura oggettività, sia come l’essere de jure e non de facto, sia come correlato dell'atto
intenzionale valutativo. La prima tendenza rappresentata da W. Windelband sostiene che
l’essere de jure, ha la validità normativa nei giudizi valutativi esprimenti il dover essere, e, in
ultima istanza, nei valori eterni del Vero, del Buono, del Bello e del Sacro. Questi ultimi sono
immediatamente
evidenti
a
quella
che
viene
chiamata
nihil
volitum
quin
praecognitumcoscienza delle norme» (Normalbewusstsein), alla quale la coscienza empirica fa
riferimento come a suo termine di adeguazione ideale nel formulare giudizi empirici nel campo
logico (valore del Vero), etico (valore del Buono), estetico (valore del Bello) e religioso (valore
del Sacro). Il neokantismo di Windelband è una filosofia dei valori, fortemente caratterizzata in
senso etico, al punto che la stessa logica vi appare come una etica del pensare.
La seconda tendenza postkantiana si appoggia alla dottrina dell’intenzionalità della scuola
del filosofo austriaco neoaristotelico Brentano, e in particolare alla «teoria dell'oggetto» del
Meinong, in Austria, e alla «fenomenologia» di Husserl, in Germania. L’intenzionalità è la
proprietà degli atti o fenomeni psichici i quali a differenza dei fenomeni fisici che restano in sé
chiusi, si rapportano a un oggetto che le qualifica intrinsecamente. Il fenomeno psichico così è
quello che nel suo svolgersi è dato come attività psichica in relazione ad un oggetto. Brentano
lo presenta in tutta la sua pienezza nozionale: «Ogni fenomeno psichico è pertanto
caratterizzato da ciò che gli Scolastici del Medio Evo chiamano la esistenza intenzionale
(ovvero mentale) di un oggetto; ciò che noi chiamamo la relazione ad un contenuto, la
direzione verso un oggetto» (Psychologie vom empirischen Standunkt, Leipzig 1924, Bd. I, p.
111 s.). Questo rapporto è primordiale perché da esso dipende se l’atto dello spirito può essere
detto vero o falso, buono o cattivo, valido o invalido. Ed è soltanto di questi atti o fenomeni
psichici che si pone l’istanza di vero e di falso, di bene e di male ovvero di valore in generale e
della sua articolazione in particolare.
La fenomenologia del valore
La teoria dei valori della Scuola di Brentano è, per molti aspetti, continuata dalla linea
speculativa Scheler-Hartmann, il cui tratto caratteristico, però, è l'accentuazione
fenomenologica del problema, a entrambi gli autori derivante dal contatto anche con Husserl.
Nella concezione di Brentano il momento cognoscitivo dell’apprensione dell’oggetto aveva la
precedenza sul momento affettivo che veniva trattato come un che di fondato o derivato. Esso
invece è elevato a primario e posto alla radice di ogni atteggiamento psichico da M. Scheler.
Egli distingue nettamente tra «valore» e «bene»: i beni sono cose che hanno valore
(Wertdinge), e che non vanno confusi con il valore delle cose (Dingwert; cf. Der Formalismus
in der Ethik und die materiale Wertethik, Halle 1927, 3 [1916], p. 15). La critica kantiana
all'etica materiale vale se riferita a un'etica dei beni o di cose, che renderebbe empirico ogni
principio morale subordinato ai beni medesimi; non vale, invece, per un'etica fondata sul
valore che, pur non essendo formale, bensì materiale, non è, per questo, qualcosa di empirico.
Scheler respinge la coincidenza tra l'opposizione formale-materiale e quella a priori - a
posteriori (op. cit., p. 49), e ammette che si possa sentire qualcosa che pure non ha nulla di
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empirico. È questo, appunto, il caso del valore, precluso all'intelletto (il quale è «cieco per il
valore così come l'orecchio per il colore», p. 262), e colto, invece, per via emozionale. L'organo
emozionale che ci pone a contatto col valore si articola in un «sentire», che coglie i singoli
valori, in un «preferire», che ne stabilisce la gerarchia, e in un «amare», che precede il sentire
e il preferire alla scoperta di nuovi valori, «come un pioniere e una guida» (p. 268). Siffatta
apprensione emozionale non ha a che fare con la sensibilità empirica, perché il valore è una
qualità che sussiste del tutto indipendentemente, non è una proprietà connessa con il portatore
(il Werttraeger); tanto è vero, osserva Scheler, che la «sfumatura di valore» di un oggetto, p.
es. il carattere simpatico o antipatico di una persona, è colto prima ancora che si colga
distintamente l'oggetto stesso (p. 13). E neppure si tratta di un sentimento psicologico, bensì
di un «sentimento intenzionale», che è «un originario riferirsi o indirizzarsi a qualcosa di
oggettivo», il valore; un «cogliere emozionalmente qualcosa» (Fuehlen von Etwas), diverso da
un semplice «stato sentimentale» (Gefuehlszustand, p. 262).
Il valore, in quanto oggetto, è bensì per Scheler qualcosa che non sussiste come una
realtà scissa dall'atto intenzionale della coscienza, e in particolare della coscienza divina a cui
tutti i valori, da ultimo, vanno riferiti: ma l'uomo, in quanto tale, è «solo, per così dire, il luogo
e l'occasione dell'emergere del valore»: si può studiare in lui il valore nello stesso senso in cui,
p. es., in un uomo che cade si può studiare la legge della caduta dei gravi (p. 273). Il
particolare interesse dell'uomo, non come essere biologico, ma come «persona», per lo studio
del valore sta nel fatto che «l'uomo è il portatore di una tendenza che trascende tutti i possibili
valori vitali, e si indirizza al divino o, più in breve, che esso è il cercatore di Dio» (pp. 301302). L'uomo attraversa da un capo all'altro tutta la gerarchia dei valori a cui il «preferire» è
legato, e che da Scheler è costruita così: valori edonistici o sensibili, valori vitali, valori
spirituali e valori religiosi.
Anche per Nicolai Hartmann, che accetta da Scheler la necessaria trasposizione
dell'apriorismo etico in un'«etica materiale dei valori» (Ethik, Berlin 1949, 3 [1926], p. 118),
l'apprensione del valore ha carattere emozionale, al tempo stesso che contemplativo; essa è
accostata da lui alla contemplazione platonica delle idee (Ibid., p. 120), animata dall'eros
(Ibid., p. 174). Hartmann dedica un intero capitolo (cap. 16) all'«aseità» (Ansichsein) del
valore che, egli precisa in una nota aggiunta alla 2a ed. (1935), non va confusa con quella
della «cosa in sé» kantiana, poiché «è null'altro che l'indipendenza del valore dal fatto che il
soggetto lo riconosca e non lo riconosca per tale» (Ibid., pp. 149-151). Il valore sussiste
indipendentemente dall'esser riconosciuto, così come a elevato a zero continuerebbe a essere
uguale a elevato al uno anche se gli uomini non ne avessero coscienza (Ibid., p. 154). Una
prova di ciò sta nel fatto che ci si può sbagliare, e anche riconoscere di aver sbagliato, nella
valutazione del valore (Ibid., cap. 16): «non il valore, ma la percezione del valore è variabile»
(Ibid., p. 158). Ciò che distingue, però, la posizione di Hartmann da quella di Scheler, più
fedele alla fenomenologia originaria, è un assoluto realismo, che porta, tra l'altro, Hartmann a
capovolgere l'orientamento religioso scheleriano: il valore non ha bisogno di sussistere per una
coscienza; e d'altra parte, secondo Hartmann, l'esistenza di Dio renderebbe impensabile la
libertà e la responsabilità dell'uomo, quindi il valore morale. Al contrario, per Hartmann,
«l'essere morale non è né Dio, né lo Stato, né qualcos'altro al mondo, ma solo il portatore
primario del valore o disvalore, e cioè l'uomo» (Ibid., p. 249). Inoltre Hartmann ritiene
essenziale al valore il momento del «dover essere» (Sollen): dover essere ideale nell'aseità del
valore, a cui nella sfera del reale corrisponde un «dover essere attuale», ovvero l'esigenza di
«attualizzazione» del valore da parte del soggetto (Ibid., p. 182)
Reazioni antifenomenologiche
La corrente fenomenologica ha avuto un grande merito nel combattere il relativismo,
sostenuto, p. es., da G. Simmel che, in un articolo pubblicato in Mélanges de philosophie
rélativiste (Paris 1912), fa nascere il valore dall'urto del desiderio contro un ostacolo che ne
impedisce la realizzazione (pp. 53-54); o da E. Meyer, che intende il valore come il correlato di
un bisogno «costante», tale cioè che, se saziato, non si estingue, e se non saziato non affligge
con la violenza propria dei bisogni organici (Sein und Sollen in der Wertphilosophie, in
«Kantstudien», 39, 1929); o dal discepolo di Rehmke, J. E. Heyde, che in Wert, eine
philosophische Grundlegung (Erfurt 1926) definisce come valore assoluto quel valore che, in
luogo di restar relativo al soggetto singolo, s'impone a ogni soggetto: teoria non molto lontana
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da quella di S. Alexander, che, nella relazione su The Objectivity of Value, presentata al
«Congresso Descartes» (Paris 1937), sostiene che l'oggettività deriva al valore dal «consenso»
umano, attivato dalla «costrizione esercitata dalle menti consenzienti sulle menti individuali»
(cfr. anche Beauty and Other Forms of Value, London 1933). Ma l'ipostatizzazione del valore,
sia pure in un modo o in una sfera d'essere diversa da quella dell'essere di fatto, aveva portato
la fenomenologia non solo a distinguere, ma a dissociare la realtà del valore dalla realtà di
fatto, e da ultimo, con Hartmann, a contrapporre l'esigenza di attuare il valore alla fede in un
Dio personale. Ciò accade, soprattutto, perché al valore si finisce con l'assegnare un'altra
forma d'essere, accanto a quella dell'essere per cui esistono le cose, ed esiste Dio. Tale
entificazione del valore ha, evidentemente, qualcosa di mitico; e l'assunzione di una struttura
di valori che dovrebbe offrirsi a priori a una nostra particolare capacità di apprezzarli ha un
certo sapore d'arbitrarietà: in realtà i valori si offrono a noi sempre incarnati in singoli oggetti,
o persone, o situazioni concrete. Alla fondata esigenza di giustificare la pretesa di assolutezza
di certi valori si dovrà, dunque, cercar di soddisfare altrimenti che con l'ipostatizzazione del
valore in una sfera a sé. Per queste considerazioni sono sorti, nel corso della fine de novecento
e l’inizio del nostro secolo, movimenti d'opposizione all'impostazione fenomenologica del
problema.
Particolarmente viva l'opposizione nel campo della filosofia tomista che insiste
sull'intrinsecità del valore all'essere come tale, in base al principio scolastico che «ens et
bonum convertuntur»; contro l'«emozionalismo», inoltre, il tomismo propende per
un'apprensione intellettuale del valore. Nell'ambito di questa corrente si possono citare la
Philosophie der Werte di S. Behn (Muenchen 1930), l'ampio lavoro storico-sistematico di F. von
Rintelen, Der Wertgedanke in der europaeischen Geistesentwicklung (I. Halle 1932), nonché
Die moderne Wertethik di M. Wittmann (Muenster 1940), e Wert-Sein-Gott di F. Klenk (Roma
1942). Rintelen oppone al Wert-positivismus una definizione del valore come «contenuto
significativo (Sinngehalt) che deve essere realizzato come scopo consapevole o inconsapevole
secondo i diversi gradi di perfezione» (op. cit., p. 42); e, nella sua indagine di filosofia della
storia, Daemonie des Willens (Magonza 1947), riafferma la sua dottrina nella coincidenza di
essere e di valore.
Altri preferiscono contrapporre alla fenomenologia un'impostazione formale, come Alfred
Stern, secondo cui «il grado di valore assoluto di una volontà è misurato dal grado in cui essa
si avvicina al superamento dell'opposizione soggetto-oggetto» (Die philosophischen
Grundlagen von Wahrheits, Wirklichkeit, Wert, Muenchen 1932). In La philosophie des valeurs
(Paris 1936), Stern qualifica come «fronetismo» (cap. II, pp. 35-39) la propria concezione che,
stabilendo come criterio di valore una legge formale della relazione soggetto-oggetto, si
propone di superare tanto il relativismo quanto l'assolutismo del valore: il primo, perché la
legge formale è oggettiva, il secondo, perché, pur essendo oggettiva, riguarda una relazione
(soggetto-oggetto).
Al metodo fenomenologico, e in particolare alla classificazione dei valori di Scheler,
muove appunti R. Le Senne, il quale osserva che ciò che si lascia classificare gerarchicamente
non è tanto il valore come tale, quanto la determinazione particolare in cui esso si individua e
si limita. In sé, ogni valore è incomparabile a ciascun altro, e non può essere ritenuto inferiore
e tanto meno subordinato ad altri (cf. Qu'est-ce que la valeur?, in «Bulletin de la Société
francaise de Philosophie», lugl-dic. 1946). Le Senne — che si oppone non solo al nihilismo, ma
anche al naturalismo del valore, che rende il valore simile a una cosa trascurando la sua
necessaria relazione con lo spirito valutante, nonché al sociologismo p. es. di Durkheim, al
soggettivismo psicologico di Ehrenfels e di Ribot ecc. (in Les valeurs et la valeur in «Actes de la
Societé Philosophique de langue française», Louvain-Paris 1948) definisce il valore come
relazione tra l'eterna sorgente del valore assoluto e i valori storicamente determinati. Il valore
«deve per la sua origine, esserci trascendente»: ma «tale estrinsecità resterebbe sterile se il
valore non fosse fatto per discendere nella nostra esperienza: tale discesa può essere
spirituale solo grazie al concorso degli spiriti umani, per i quali il valore deve rendersi attuale».
«Il valore universale deve rifrangersi, e perfino frazionarsi secondo la diversità di sfumature e
la profondità dei tagli consentiti dall'unità e dalla molteplicità relativa degli spiriti» (L'
expérience de la valeur, in «Giornale di Metafisica», 1948, pp. 94-96).
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Vivo il senso della partecipabilità del valore ai singoli anche in Lavelle. Per Lavelle il
valore sta al bene come l'esistenza sta all'essere: ma mentre bene ed essere non si possono
separare, l'esistenza può anche volgersi contro il valore (Introduction a l'ontologie, Paris 1947,
p. 99). Il valore è da un lato l'essenza profonda e la ragion d'essere di ciascuna cosa; dall'altro
esprime il momento del parteciparsi del bene agli enti particolari e temporali (Ibid., p. 101).
Seguendo il fenomenizzarsi psicologico di tale partecipazione, il cap. 7 di Les puissances du
moi (Paris 1948), intitolato La rivelazione del valore, senza per nulla fare del piacere o del
dolore un criterio del valore, scorge però nella vita affettiva l'attestazione di un nostro
prendere parte attiva alla vita dell'universo, senza di cui di valori non si potrebbe parlare:
«L'errore più grande è pensare che il valore sia un oggetto che si contempla, mentre, al
contrario, è sempre un'azione da farsi e una pratica da seguire» (Ibid., pp. 123-124).
Anche chi, d'altra parte, nella più recente filosofia utilizzi per certi aspetti il metodo
fenomenologico, come Gaston Berger (cfr. Structure et épanouissement des valeurs, negli
«Actes», cit.), innova tuttavia quel metodo profondamente, e cala il valore nella concretezza
della vita spirituale: poiché nella coscienza contemporanea è diffusa la convinzione,
particolarmente forte proprio a proposito del valore, che il soggetto e la singolarità del suo
punto di vista non si lascino «mettere tra parentesi».
Da B. Croce il valore o è considerato uno pseudo concetto utile a classificare determinati
insiemi di fatti storici, o è ricondotto, nel suo significato positivo, alle consuete quattro
categorie in cui la filosofia crociana inquadra la vita dello spirito (cf. lo scritto del 1909: I
giudizi di valore, in Saggio sullo Hegel, Bari 1913). Per G. Gentile, valore è l'atto dello spirito,
«unificazione di conoscere e volere, di verità e bene, di logica e moralità». La moralità, che
nessuno «può fantasticare che abbia valore in sé, senza che egli si adoperi col suo ardore a
farla valere attualmente», è, d'altra parte, concepita come «il maggior valore che ci sia, il
pregio assoluto, in relazione al quale ogni altra realtà potrà valere»: ora, anche la verità, se ha
da esser tale, non potrà essere che questo medesimo assoluto (Sistema di logica, Bari 19222,
l. I, cap. 6, § 11, p. 118); quindi il valore è coincidenza di verità e moralità.
I movimenti di pensiero o ideologie
Dell’estensione culturale e diffusione delle idee filosofiche sui valori sopra esposte
nell’ambito del sociale e della politica, due movimenti sono stati i principali protagonisti: uno è
l’illuminismo e l’altro è il marxismo. Col nome di «Illuminismo» (corrispondente all'inglese
Enlightenment e al tedesco Aufklärung, che significano «illuminazione», e all'espressione
francese philosophie des Lumières, che letteralmente significa «filosofia dei lumi», o delle
«luci») si suole indicare la tendenza filosofica prevalente nel secolo XVIII, fondata sulla
convinzione che la ragione sia la luce capace di «illuminare» o «rischiarare» l'umanità,
liberandola dalle tenebre dell'ignoranza, della superstizione e del pregiudizio, e che pertanto gli
uomini debbano decidersi a servirsi di essa, rinunciando a farsi guidare da qualsiasi autorità
superiore. La «ragione» a cui si fa riferimento non è tanto quella della metafisica (quella che
vuole conoscere le «essenze»), ma soprattutto la ragione scientifico-matematica, di cui si sono
serviti Galilei e soprattutto Newton per costruire la scienza moderna (la ragione, cioè, che
vuole conoscere le «affezioni», vale a dire i comportamenti, le costanti, le leggi della natura).
Una ragione, dunque, che non si oppone all'esperienza, ma anzi la presuppone e si muove con
nuovi strumenti di conoscenza quasi esclusivamente nell'ambito di questa, come avviene in
generale nella «filosofia sperimentale» e in particolare in Locke.
Caratteri generali dell'Illuminismo sono pertanto il valore della ragione, cioè di un sapere
puramente naturale, costruito interamente dall'uomo (la filosofia, le scienze, le tecniche, le
arti), e il rifiuto di ogni rivelazione soprannaturale, in particolare della religione rivelata, o
positiva, dei suoi misteri e dei suoi dogmi, considerati altrettante forme di superstizione.
Conseguentemente in tal movimento viene esaltata la libertà dell'uomo contro ogni forma di
autoritarismo, sia di carattere religioso che di carattere politico, e quindi il rifiuto del
dispotismo, della tirannide, della stessa tradizione. Inoltre, l’illuminismo è convinto che esista
una natura umana immutabile, costituita appunto dalla ragione, sulla quale si fondano i
principali diritti, che è stata spesso repressa dall'autorità e dalla tradizione e che deve invece
essere rispettata e difesa. Appartiene anche a questo movimento la convinzione che, grazie
alle scoperte della scienza e della tecnica, la storia sia essenzialmente un progresso, sia dal
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punto di vista materiale che di quello conoscitivo e perfino morale, e che pertanto l'età
moderna sia sotto ogni aspetto migliore di quella antica e soprattutto di quella medioevale
(ritenuta l'epoca dell'ignoranza e dell'autoritarismo religioso e politico). In fine, è propria
dell’illuminismo la tendenza a divulgare le conoscenze, attraverso i dizionari, le enciclopedie, le
riviste, i giornali, la conversazione pubblica nei salotti, nei clubs e nelle piazze, al fine di
promuovere l'emancipazione di tutti gli esseri umani. Quindi ben oltre il significato filosofico
delle loro dottrine, bisogna considerare l’importanza politica del loro progetto di una completa
razionalizzazione dell’organizzazione sociale, a partire degli istituti di formazione per
continuare in ogni forma di comunicazione.
Semplificando l’analisi si potrebbe dire che dal punto di vista sociale l'Illuminismo fu
soprattutto la filosofia della classe borghese, impegnata nella rivendicazione dei propri diritti
contro il clero e la nobiltà, mentre che dal punto di vista sociopolitico fu la filosofia dei liberali,
autori della rivoluzione inglese prima e di quell’americana e francese poi. E dal punto di vista
religioso esso fu la filosofia dei «liberi pensatori», disposti ad accettare della religione solo ciò
che è dimostrabile razionalmente (la «religione naturale» o «deismo»), oppure pronti a
rifiutare qualsiasi religione (ateismo). Le idee dell'Illuminismo trovarono una delle loro più
tipiche espressioni nella Massoneria, società segreta che imita nel nome la corporazione
medioevale dei «muratori» (in francese maçons), aggiungendovi la qualifica di «liberi», per
sottolineare la sua scelta a favore della libertà. La Massoneria si costituì a Londra nel 1717 e si
diffuse presto in tutto il mondo (ad essa aderirono artisti come Goethe, filosofi come Voltaire e
Diderot, uomini politici come Franklin, San Martin), incorrendo già nel 1738 nella condanna
della Chiesa cattolica per la sua negazione degli aspetti soprannaturali del cristianesimo.
L'Illuminismo nacque in Inghilterra, dove trovò la situazione politica più favorevole al
proprio sviluppo in seguito all'instaurazione della monarchia costituzionale, avvenuta con la
rivoluzione del 1688; raggiunse però la sua forma più compiuta, con manifestazioni anche
estreme, in Francia, dove divenne il movimento culturale ispiratore della rivoluzione del 1789,
ed ebbe importanti sviluppi anche in Germania e in Italia.
Con questa visione del mondo, diremmo oggi, secolarizzata non sorprende che fin dagli
inizi l’illuminismo abbia fatto dei miracoli e delle profezie il bersaglio principale dei loro attacchi
sia negando la loro esistenza o sviandone il significato intesso da Gesù Cristo. Il punto è
importante perché nel magistero ordinario della Chiesa cattolica i miracoli e le profezie hanno
un valore considerevole in quanto sono l’argomento di credibilità della fede come voleva Cristo
stesso: «Se è mediante lo Spirito di Dio che io caccio i demoni, è dunque giunto a voi il regno
di Dio» (Mt 12,28). Di fatto è difficile disgiungere la vita del Salvatore dai miracoli e questi
continuano ancora come anche le profezie per muovere agli uomini alla conversione, per
rinsaldare la fede e scandalizzare ai suoi avversari ed infine a dichiarare certi uomini e certe
donne santi, cioè esempi di vita cristiana.
Nell’ultimo e più strepitoso miracolo della risurrezione di Lazzaro, morto da quattro giorni
e già con i segni della corruzione del corpo, Gesù dichiara alla sorella Marta ch’egli è «la
risurrezione e la vita e chi crede in lui non morrà in eterno». «Credi tu questo?». E Marta,
trasformata dalla spinta interiore della grazia, gli risponde: «Sì, o Signore, io credo che tu sei il
Cristo, il figlio di Dio che deve venire nel mondo». Segue l’incontro con la sorella Maria e Gesù,
vedendola piangere, si commosse anche lui profondamente e si sciolse in lacrime. Ripresosi,
gridò a gran voce: «Lazzaro, vieni fuori». Ed il morto tornato alla vita, uscì dal sepolcro fra lo
stupore dei Giudei presenti (Gv, 10,20 ss.). Era il terzo morto risuscitato da Gesù, dopo la
giovinetta Tabita ed il figlio della vedova di Naim. Le circostanze dell’evento che l’evangelista
Giovanni, testimone oculare, descrive minutamente, non hanno riscontro in nessuna altra
religione.
L’avversario più ostinato dei miracoli di Gesù rifiuta anche questo miracolo perché è solo
l’evangelista Giovanni a raccontarlo a distanza di sessanta anni dalla morte di Cristo, e dunque
considera questo miracolo una mera invenzione dell’evangelista (T. Woolton, A fifth Discourse
on the Miracles of our Saviour, London 1728, p.8). A quali estremi può portare il partito preso!
La contestazione delle profezie messianiche ha preso vita con lo scritto, pubblicato
anonimo, di J. Collins, A Discourse of the Grounds and Reasons of the Christian Religion
(London 1724) che suscitò nell’ambiente dei teologi inglesi contemporanei una moltitudine di
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energiche contestazioni. La tesi del Discourse è sbrigativa: le profezie sono state inventate
dagli evangelisti per mostrare l’accordo fra il Vecchio e il Nuovo Testamento ed i riferimenti al
Cristo hanno un significato puramente allegorico (cfr. p. 54 ss., spec. p. 61 ss.). E’ sintomatico
che ambedue, Woolton come Collins, si riferiscano sia ad un certo Rabbi ebreo sia a Baruch
Spinoza (1632-1677), per polemizzare con la religione cristiana; ma, scalzati gli argomenti
(storici) delle profezie, dei miracoli e della vita di Cristo, non rimaneva loro che la cosiddetta
“religione naturale” che era la posizione di partenza del fondatore del deismo: Herbert de
Cherbury. In quanto avversario della religione rivelata ed in particolare del Cristianesimo, il
deismo si affermò come critica biblica, sottoponendo i testi sacri, e in particolare il Vangelo di
Giovanni, all’esame delle nuove scienze filologico-storiche. Questa opera fu svolta soprattutto
da John Roland, e fu successivamente ripresa sul continente con criteri più rigorosi dal
Reimarus nei suoi famosi Frammenti di Wolfenbüttel, editi postumi da Lessing. Questi due
autori possono essere considerati i fondatori della moderna critica biblica. A questa linea di
completa indipendenza dalla teologia patristica e da San Tommaso si è attenuto Kant con il
saggio La religione nei limiti della ragion pura, che fu debolmente contestato da Jacobi che
oppone al razionalismo ateo di Spinoza una forma di realismo fideistico. Sulla linea del
razionalismo religioso deista, fin dagli anni giovanili si è posto invece Fiche con il suo
Aphorismen…, ma essendo costretto a difendersi dall’accusa di ateismo, il suo pensiero sfociò
in una forma di spinozismo dinamico. Tale approccio razionalista verrà accolto anche da
Schelling e soprattutto con più genio e influenza, da Hegel la cui Religionsphilosophie
costituisce il testo classico del deismo speculativo in quanto pone Cristo al centro della storia,
portatore della libertà per tutti gli uomini, ma lo secolarizza svuotandolo della partecipazione
della natura divina come grazia soprannaturale.
Marx critica l’ideologia illuminista per essere un pensiero che non si converte
radicalmente alla praxis e soprattutto alla prassi rivoluzionaria mistificando la realtà, però
conserva dell’illuminismo la visione dell’uomo immanentista, cioè senza alcuna trascendenza
religiosa. L’essere umano, secondo Marx, crea la religione, perché è alienato nel suo lavoro e
cerca nella religione una consolazione alla miseria reale, cioè economica, in cui si trova. Questo
è il significato evidente della famosa espressione: “La religione è il sospiro della creatura
oppressa, il sentimento di un mondo senza cuore, lo spirito di situazione in cui lo spirito è
assente. Essa è l’oppio del popolo”. Ovviamente, una volta eliminata l’alienazione economica,
si prevede che scomparirà spontaneamente anche la religione. Marx elabora un’antropologia
sociologica, ossia delle relazione umane nel meccanismo storico del configurarsi delle società
basata particolarmente sulle modalità della produzione, che domina tuttora parte della critica
della religione secondo il noto principio di Feuerbach che “il segreto (essenza) della teologia è
l’antropologia”. Semplificando ancora la complessità della storia si può dire che il pensiero di
Marx, e del suo amico Engels, dopo la morte dei suoi autori deviene in Germania la dottrina
officiale del partito socialdemocratico, il quale con la Seconda Internazionale (1889-1917) si
configurò come il partito guida del movimento socialista europeo che con una molto varia serie
d’interpretazioni, procedenti di diverse epoche e configurate secondo differenti tradizioni,
temperamenti, circostanze storiche si diffuse con bastante celerità in una parte del globo
configurando, con la caduta del nazionalsocialismo europeo dopo la seconda guerra mondiale,
il blocco marxista, contrapposto a quello capitalista anglo-americano. La versione più influente
del corpo dottrinale di Marx è stata quella di Lenin, che a sua volta è stata reinterpretata in
modi diversi. Un’interpretazione ha dato origine al chiamato marxismo-leninismo nella versione
della filosofia ufficiale sovietica, la quale ha seguito l’evoluzione della dottrina della rivoluzione
permanente propugnata por Trotsky e l’adozione della “linea generale” di carattere stalinista,
con le modificazioni poi introdotte dal “deshielo” e dal periodo poststalinista, per passare per la
trasparenza di Gorbachoff e finire con la caduta del muro di Berlino nel 1989. Altra
interpretazione ha dado origine a dottrine filosofico-politiche non sovietiche, come quelle di
Mao Tse-tung e Tito, e ad altra interpretazione prima politicamente pro-sovietiche e poi procinese, però culturalmente indipendenti, come quella di Fidel Castro, anche questa in chiaro
processo di cambiamento seguendo un’originale recezione dell’indicazione di Giovanni Paolo II
nel suo viaggio a Cuba “il mondo deve aprirsi a Cuba e Cuba al mondo”.
Un tentativo di reagire dentro il marxismo alla cristallizzazione di questo come “visione
del mondo proletaria” (Weltanschaung proletaria), assurto a rango di dottrina ufficiale, solo
suscettibile e interpretabile a partire dalla classe politica dominante, adoperato come
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istrumento di educazione di massa e come compendio di un approccio sedicente scientifico ai
problemi dell’uomo e della società, viene compiuto col movimento che si chiamerà, in
contrapposizione a quello sovietico, il marxismo occidentale (K. Korsch, G. Lukas). Una ripresa
delle tematiche più filosofiche e meno economiche del marxismo può essere rintracciata nella
elaborazione del cosidetto marxismo critico, sviluppato nella scuola di Francoforte (H. Marcuse,
M. Horkheimer, T. Adorno, J. Habermas). A questa accezione programmatica più aperta del
marxismo può appartenere la opera di A. Gransci, ravvisabile soprattutto nei Quaderni del
carcere. Il crollo del muro di Berlino, nell’autunno del 1989, motivato da molte cause ma anche
certamente dal magistero profetico e azione pratica del grande beato Giovanni Paolo II che è
riuscito a dare un nuovo corso alla storia, può essere considerato come l’evento che
simbolicamente chiude la parabola storico-teorica del marxismo.
La ripresa dei valori oggi
E' chiaro che il Papa Giovanni Paolo II, grande e benedetto al pari di San Gregorio
Magno, è riuscito a sconfiggere il comunismo ateo in Europa centrale, ma non è riuscito,
almeno nello stesso modo, a invertire e guarire questa tendenza malsana dell’ateismo
positivista occidentale alimentato dalle ideologie della modernità, specialmente nei luoghi che
una volta erano pieni di fede, come lo dimostrano, fra l’altro, le magnifiche cattedrali che
s’innalzano verso il cielo in forma di preghiera, in tutto il vecchio mondo, con una varietà di
stili e di bellezza incomparabile. Purtroppo dobbiamo constatare, specialmente in Europa, il
diffondersi di una secolarizzazione che porta all’emarginazione di Dio dalla vita, ad una
crescente eclisse dei valori fondamentali, alla disgregazione del valore essenziale per la vita
sociale, quale la famiglia, e alla degradazione ambientale. Si assolutizza una libertà senza
impegno per la verità e per il bene, frutto di certe posizioni della filosofia moderna, e si coltiva
come ideale il benessere individuale attraverso la ricerca e il consumo di beni materiali ed
esperienze effimere, trascurando la qualità delle relazioni con le persone e i valori umani più
profondi. Si riduce l’amore a emozione sentimentale e a soddisfazione di pulsioni istintive,
senza impegnarsi a costruire legami duraturi di appartenenza reciproca e senza apertura alla
vita. Siamo chiamati a contrastare tale mentalità!
Così Papa Benedetto XVI, fin dall'inizio del suo pontificato, ha messo al centro della sua
missione petrina e del suo magistero il programma di ricominciare da Dio e da Cristo Salvatore
(su cui ha scritto in maniera significativa due libri importanti e di successo, il secondo di
recente pubblicazione), e il conseguente scopo di suscitare, a partire dalla rinnovata preghiera
e dalle verità del Credo vissute, la gioia profonda della Fede, Speranza e Carità nella Chiesa e
in ognuno dei cristiani con l'ulteriore vantaggio per tutte le persone di buona volontà e la pace
nel mondo.
L’indicata caduta delle ideologie, la crescente secolarizzazione, il relativismo, il nichilismo
pratico e l’eclissi dei valori indubbiamente hanno portato a vivere in un periodo di grande
tensione e ansietà. Nonostante la ricchezza totale della terra abbia raggiunto livelli mai visti
prima, nei paesi ricchi c’è una generale insicurezza, agitazione, insoddisfazione mentre per un
quinto dell’umanità, specialmente per i bambini poveri del mondo, c’è fame vera e crescente.
Negli Stati Uniti, in Europa e in Nord Africa gran parte dei cittadini crede che i loro paesi non
siano «sulla retta via». C’è una sensazione di fallimento del «sistema» e la convinzione che
perfino in democrazie consolidate il processo elettorale non riesca a mettere le cose a posto –
quantomeno non senza una forte pressione sociale anche di piazza. Il movimento di protesta
che ha avuto inizio in Tunisia a gennaio, e che si è poi esteso prima all’Egitto e poi alla Spagna,
ha raggiunto adesso una dimensione globale, tanto che sono state occupate Wall Street e le
piazze di diverse città americane. Con le crisi che si susseguono, create dai “guru” della finanza
e sostenute dagli astuti politici per il proprio rendiconto, il più delle volte formati nelle migliori
università d’America, il pessimismo è alle stelle e lo stesso vale per tanti altri popoli che
seguono acriticamente il cosiddetto consenso di Washington. Adesso sappiamo che quei guru
affaristi e quei politici furbi non hanno disatteso soltanto le aspettative della società, ma
addirittura le loro. Gli indignados sono solo la punta dell’iceberg di un’insoddisfazione e
protesta sociale diffusa che denuncia la deriva intollerabile dell’enorme aumento delle
disuguaglianze, delle promesse di equità non mantenute e di retribuzioni non meritate. Vi è un
tema conduttore, che viene espresso dal movimento «Occupiamo Wall Street» con una
semplice frase: «Siamo il 99%». Una deriva che oltre ad essere un disvalore, può favorire la
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“decostruzione” sociale perché è una protesta che non si traduce quasi mai in scelte concrete
di riforme. Anzi mentre ci si indigna, le fratture sociali aumentano e, se si evidenziano gli
effetti malefici, non si riesce ad avere consapevolezza delle cause e delle soluzioni vere, a
rischio di aggiungere violenza alla violenza, sofferenza alla sofferenza. A Madrid, ad esempio,
molti degli indignados polemizzavano con i giovani convocati da Papa Benedetto XVI per
riprendere da Cristo il cammino di quei valori meno visibili però essenziali per la compattezza
della società come sono la fede, la speranza e la carità cristiana.
In un simile contesto, è arrivato il tempo di riconsiderare quali siano quei valori che
possiamo considerare le fonti basilari di felicità nella nostra vita individuale, sociale, politica ed
economica. La ricerca sfrenata di guadagni sempre più elevati sta portando a livelli di
diseguaglianza e ansia spirituale mai visti prima piuttosto che rendere le persone più felici o
più soddisfatte della propria vita. Il progresso economico è un valore e può migliorare la
qualità della vita in molti sensi, ma unicamente se è perseguito insieme ad altri valori in una
gerarchia rispondente alla natura umana composta di corpo e anima, che cerca beni di mercato
e non di mercato, materiali e spirituali.
Siamo invitati, paesi, popoli e singoli individui, sulla base di una dichiarazione fatta a
luglio dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite e in vista dell’incontro a Rio de Janeiro della
conferenza delle stesse Nazioni Unite sullo sviluppo sostenibile (Rio+20), ad esaminare come
le politiche nazionali possano promuovere la felicità che viene senza dubbio con il ritorno ai
valori.
Tutti possiamo ritrovarci nella comune convinzione dell’importanza di perseguire la
felicità invece che il solo prodotto interno lordo. Ci dobbiamo porre la questione di ieri, di oggi
e di sempre, con la quale già Aristotele apre la sua Etica e la sua Politica, e cioè quella di come
raggiungere quella felicità che “tutti gli esseri umani naturalmente desiderano”, fondata sulle
valutazioni forti in un mondo contemporaneo caratterizzato da una rapida urbanizzazione,
crescente comunicazione mass mediatica, capitalismo globale e degrado ambientale. La prima
questione centrale dell’ordine morale non è soltanto che cosa devo fare, bensì come vorrei
condurre la mia vita al cospetto di Dio, di me stesso, degli altri, e del mio habitat? Che la
questione dei valori sociali, come la giustizia e la equità, appartenga a questo interrogativo,
Aristotele lo attesta già dall’inizio della sua Etica Nicomachea, quando sostiene che la ricerca
della felicità non arresta la sua traiettoria nella solitudine della propria perfezione, ma nel
contesto della città, della Polis. I valori sociali e la politica indirizzata al bene comune,
costituiscono così, in un certo qual modo, l’architettonica dell’etica. Si tratta quindi di sapere
come la nostra vita sociale ed economica nella città globale possa essere riorganizzata in
maniera tale da ricreare i valori di contemplazione, di preghiera, di comunità, di equità, di
fraternità, di fiducia e sostenibilità ambientale che permettono la felicità.
L’agenda dei valori per la felicita’
Alla luce di quanto detto sullo sviluppo crescente della riflessione filosofico - teologica sui
valori nel corso della storia e dell’importanza decisiva che i valori hanno per ogni pensatore
essenziale dall’inizio del pensare con punte altissime in ogni tempo, e aspirando di fare
prevalere la dimensione dialogica e sociale sulla pura dimensione «monologica» e accademica,
che più volte la tradizione filosofica riflessiva avvantaggia, osiamo proporre un’agenda sul da
farsi da considerare tuttavia provvisoria e perfettibile.
Secondo, il perseguimento accanito del Prodotto Interno Lordo al punto da escludere
qualsiasi altro obiettivo è anch’esso un percorso che preclude il raggiungimento della felicità.
Bisogna far funzionare insieme sia la macroeconomia sia la microeconomia, cioè cercare il bene
comune in generale e i beni comuni concreti che costituiscono la vita buona di ciascuna
persona e non solo di un gruppo o classe che sia. Negli Stati Uniti, in gran parte d’Europa,
nell’Occidente in generale, ma non solo, il famoso PIL è aumentato considerevolmente negli
ultimi quarant’anni, ma altrettanto non ha fatto la felicità della gente. Al contrario, inseguire
acriticamente il PIL ha portato a grandi disuguaglianze di ricchezza e di potere, alimentato
l’espansione della povertà nelle nazioni più povere, negli strati più bassi della società di tutte le
popolazioni, intrappolando milioni di bambini del globo in condizioni di estrema povertà e
causando un serio degrado ambientale.
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Terzo, la felicità si raggiunge attraverso un approccio alla vita che riesca a riscoprire una
sana gerarchia dei valori, sia da parte degli individui sia delle società. Ogni sforzo in questa
direzione deve basarsi sulle salde virtù individuali e sociali della verità, della libertà, della
giustizia, del primato del bene comune sugli egoismi e interessi particolari, della fraternità e,
soprattutto della carità, che è la madre e la perfezione di ogni virtù cristiana e umana.
Cinquant’anni or sono, già il beato Giovanni XXIII proponeva codeste virtù a tutti gli uomini di
buona volontà nella sua grande Enciclica Pacem in terris dopo essere riuscito a mettere pace
fra l’USA e l’Unione Sovietica nel conflitto di Cuba, evitando una guerra nucleare. Infatti, noi
esseri umani – dotati di un corpo e di un’anima immortale con intelligenza e libertà nella scelta
dei valori – siamo infelici se ci vengono negati i nostri bisogni materiali primari, ma siamo
anche più infelici se, nelle nostre priorità, la ricerca di livelli di reddito sempre più alti prende il
posto della preghiera, della famiglia, della propria responsabilità vocazione e professionale,
degli amici, della comunità, della fraternità. Come società nazionale e globale, una cosa è
organizzare politiche economiche per mantenere costante il miglioramento degli standard di
vita che permettono gli sviluppi di altre dimensioni delle persone, un’altra è di subordinare tutti
i valori della società al raggiungimento del profitto.
Tuttavia, in generale, la politica occidentale e orientale emergente (per quello che ne
possiamo sapere) sta permettendo sempre di più agli interessi aziendali e finanziari di
dominare tutte le altre aspirazioni: preghiera, verità, onestà, fiducia, fraternità, generosità,
salute mentale e fisica, e sostenibilità ambientale. In America e non solo – affermano
economisti rispettabili e seriamente preoccupati – i contributi delle imprese e della finanza alle
campagne elettorali stanno minando il processo democratico e tali contributi fomentano, molte
volte, perfino leggi che vanno contro i principi non negoziabili della dignità umana, quali il
rispetto per la vita di ogni persona dal concepimento fino al momento della sua morte naturale
e il matrimonio fra un uomo e una donna. L’aumento della disuguaglianza e delle leggi contro
la dignità umana è il risultato di una spirale viziosa: il criticato «uno per cento» dei cittadini
ricchi usa la propria ricchezza per modellare la legislazione in modo da proteggere ed
aumentare la propria fortuna e influenza. La Corte Suprema americana, nella famosa decisione
Citizens United, ha legittimato l’uso da parte delle corporation di fondi per influenzare la
direzione della politica.
Quarto, un certo tipo di capitalismo mondiale che tende a prevalere, alimentato da una
volontà di potenza nietzschiana (e del conseguente relativismo e nichilismo se non teorico
almeno pratico), e in definitiva mosso dal solo profitto, presenta molte minacce dirette alla
felicità. Sta distruggendo l’ambiente naturale attraverso il riscaldamento globale e altri tipi di
inquinamento sulla base di una falsa filosofia moderna che incoraggia la strumentalizzazione
della natura (res extensa), sottomettendola ad un dominio che la tratta come fosse solo
qualcosa di materiale, come una specie di plastica, con cui si può fare tutto senza rispetto dei
suoi processi e delle sue leggi, al solo beneficio del profitto. Il risultato è che la natura trova
varie forme di resistenza, non ultimo la mucca pazza e il cambiamento climatico, mentre
nell’uomo si genera uno stato di disorientamento, d’indifferenza e di sradicamento riguardo al
suo habitat, o una visione caotica in cui la natura diviene parte della crisi di senso dell’uomo.
Altrettanto si deve dire delle centrali nucleari e soprattutto degli armamenti in generale – e
delle armi nucleari in particolare – che stanno indebolendo la fiducia sociale e la stabilità
mentale, con un apparente aumento della depressione clinica. Nel frattempo, uno sfrenato
afflusso di propaganda da parte dell’industria petrolifera e delle lobby nucleari e degli
armamenti riesce a mantenere molte persone all’oscuro di queste gravi situazioni. Gran parte
dei mass media è diventata canale di sbocco dei “messaggi aziendali”, molti dei quali sono
apertamente anti-scientifici e anti-sostenibilità ambientale, con la conseguente crescita di
dipendenze da consumo.
Si consideri, ad esempio, come l’industria dei fast food usa oli, grassi, zucchero e altri
additivi alimentari per creare dipendenze insalubri al cibo. I produttori non possono non essere
consapevoli che ciò contribuisce all’obesità che porta fra l’altro alle malattie cardiovascolari,
una delle cause principali d’invalidità permanente o di morte. Si dà il paradosso che, mentre
l’obesità colpisce ormai un terzo degli americani (e il resto del mondo ricco può finire allo
stesso modo, a meno che i paesi non pongano restrizioni alle pratiche aziendali pericolose,
rivolta ai bambini, di cibi dannosi alla salute e che creano dipendenza), i paesi poveri soffrono
di crescenti carestie e di un’alimentazione non sufficientemente sana.
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Il problema non è solamente il cibo. La pubblicità di massa contribuisce a generare molte
altre dipendenze che implicano pesanti costi per la sanità pubblica, quali l’eccessiva
esposizione televisiva e informatica, il gioco d’azzardo, l’uso di sostanze stupefacenti, il
consumo di sigarette, e l’alcolismo. Mentre ci sia il profitto si cerca di guardare altrove!
Altro detonante di decostruzione sociale che crea dipendenze ancora più gravi è la
rivoluzione sessuale che ci propone la pratica del sesso in ogni modo e circostanza possibile
come un valore quasi assoluto, senza alcun rapporto con la famiglia e col vero amore al suo
interno. Naturalmente anche qui intervengono i moderni strumenti di comunicazione di massa,
che, invece di servire per il flusso e il riflusso della verità e del bene, ingigantiscono vecchi e
nuovi disordini sessuali, ingannando e schiavizzando la psiche e i corpi dei giovani e non solo.
Basti pensare all’utilizzo propagandistico e indiscriminato del corpo femminile, sfruttato anche
qui per il puro profitto, con immagini e posizioni perfino grottesche che nulla hanno a vedere
con la vera bellezza. È ora che i popoli delle varie nazioni arginino energicamente la
dipendenza dalla prostituzione che non rispetta la tanto proclamata realtà che l’uomo e la
donna hanno la stessa dignità e costituisce un grave crimine contro l’umanità, nonché l’ampia
diffusione di materiale dal contenuto erotico o pornografico, anche in Internet, che sta
nuocendo seriamente alla serenità perfino dei minori.
Quinto, per promuovere la felicità, dovremmo identificare i numerosi fattori diversi dal
PIL in grado di elevare o comprimere il benessere sociale nella misura dei valori. La maggior
parte dei paesi investe per misurare il PIL, ma spende poco per mettere a fuoco le cause della
salute a rischio, dell’abbandono della fiducia sociale, del deterioramento dell’educazione e del
degrado ambientale. Poco si investe nella ricerca delle fonti di energia rinnovabili che hanno
accompagnato l’uomo durante tutta la sua esistenza sulla terra, come l’aria, il sole e la forza
dell’acqua, mentre oggi si prevede che queste saranno l’energia del futuro se vogliamo
sopravvivere e lasciare alle future generazioni un habitat sano.
Malgrado le molte affermazioni e le numerose dichiarazioni di intenti, formulate dalle
Nazioni Unite e da altre agenzie, e sebbene sforzi significativi siano stati compiuti in alcune
nazioni, poco si investe in conoscere ed in elevare i livelli di istruzione ed educazione che
permangono straordinariamente disuguali nella popolazione mondiale, nonostante le risorse
necessarie per il miglioramento di tale situazione non sembrino fuori dalla nostra portata. Nel
corso dell’ultimo decennio uno speciale motivo di preoccupazione è stata la divergente e
crescente disuguaglianza, concomitante con la globalizzazione e collegata alle politiche nel
campo dell’istruzione, tra paesi sviluppati o emergenti, e paesi che si trovano in una condizione
di stagnazione, ovvero che sono bloccati nella trappola della povertà. Vista la crescente
importanza dell’educazione, ora più che mai nella storia dell’uomo, perché gli essere umani,
con la democrazia, ogni volta sono più responsabili dell’avvenire comune, un’analoga fonte di
preoccupazione è rappresentata dal grande e spesso crescente divario tra le scuole frequentate
dai vari ceti sociali, dove frequentemente emergono percorsi educativi differenziati e separati.
Ancora più allarmante è il fatto che in tutto il mondo circa 200 milioni di bambini e ragazzi che
dovrebbero ricevere un’istruzione di base non vengono neanche iscritti a scuola né vengono
incoraggiati a farlo. Una volta compresi questi fattori della salute, dell’educazione, della
mancanza di fiducia sociale, del declino ambientale, se si è liberi si può agire e reagire.
L’inseguimento folle dei profitti aziendali minaccia tutti noi. Per essere al sicuro, dovremmo
sostenere la crescita economica e lo sviluppo, ma soltanto in un contesto più ampio: quello che
promuove la sostenibilità ambientale, la educazione, l’eguaglianza in opportunità e i valori della
testimonianza della verità, della giustizia, dell’onestà e della generosità, che la fiducia sociale
richiede. La ricerca della felicità nella terra non dovrebbe essere confinata nel bel regno dei
sogni.
Sesto, molti contemporanei ritengono che l’influsso del Cristianesimo come pure di altre
religioni consista nel plasmare una determinata cultura e un determinato stile di vita nella
società. Un gruppo di credenti segnala, attraverso il proprio comportamento, certe forme di
vita sociale, che vengono adottate da altre persone, imprimendo così alla società un carattere
specifico. Quest’idea non è errata, ma non esaurisce la visione che la Chiesa cattolica ha di se
stessa a partire dall’insegnamento e dalla prassi di Gesù Cristo. Senza dubbio, la Chiesa è
anche una comunità culturale che influenza le società nelle quali è presente. Tuttavia, essa è
convinta di non avere solo creato valori comuni in diverse forme nei vari Paesi, e di essere
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stata a sua volta plasmata dai loro veri valori di verità, di bene e di bellezza, perché pensa che
la grazia supponga la natura e perfezioni il perfettibile della cultura. La Chiesa cattolica è
consapevole di conoscere, attraverso la sua fede, la verità sull’uomo e quindi di avere il dovere
di intervenire a favore dei valori che sono validi per l’uomo in quanto tale, indipendentemente
dalle varie culture. Essa distingue fra l’ordine naturale della creazione e l’ordine soprannaturale
della grazia che fa capo a Cristo Salvatore, fra la verità della ragione (sia scientifica sia
filosofica, cui la fede il più delle volte apre gli occhi e alle quali l’uomo in quanto uomo può
accedere anche a prescindere dalla fede) e la specificità della sua fede cristiana. Come diceva il
filosofo spagnolo Ortega y Gasset ci sono popoli che parlano del futuro per la loro giovinezza e
vitalità ascendente, per esempio, l’Argentina e il Brasile, altri che sono sette volti centenari e
hanno contribuito con diversi valori universali al progresso dell’umanità, ma ci sono quelli
popoli ancestrali dove l’uomo si è riscoperto a se stesso in quanto essere umano e fra queste
popoli privilegiati c’è Italia. Perché l’Italia poi è la sede degli Apostoli Paolo e Pietro, e dei suoi
successori, si può aggiungere che anche la fede cristiana si è radicata e sviluppata
singolarmente in Italia in merito ai grandi santi e dottori arrivando a rappresentare i valori più
profondi dell’identità italiana, le sue vere radici vive. Fortunatamente, un patrimonio
fondamentale di tutti i valori umani universali è divenuto comune nelle dichiarazioni sui diritti
dell’uomo dopo la Seconda Guerra Mondiale e nella maggior parte delle costituzioni da quel
periodo, perché delle persone illuminate, dopo gli errori e orrori della dittatura, hanno saputo
riconoscere la loro validità universale, che si basa sulla loro verità antropologica formulata da
San Tommaso con la dottrina dello ius gentium e l’hanno tradotta in diritto vigente. Oggi,
nell’agenda per la ripresa dei valori fondamentali dell’essere umano, la Chiesa, ossia
l’assemblea dei credenti guidata dalla gerarchia che fa capo al Papa, considera suo dovere
primario la nuova evangelizzazione, andando, secondo gli esempi degli Apostoli, sia dalla fede
alla ragione che dalla ragione alla fede, per aprire gli uomini alla relazione di salvezza con Dio
e Cristo, ma anche per promuovere e difendere, nella totalità della nostra società, le verità e i
valori, nei quali è in gioco la dignità dell’uomo e il suo habitat, l’ecologia umana e ambientale.
E lo vuole fare seguendo l’esempio degli apostoli Pietro e Paolo che si stabilirono in Roma, in
modo che la nuova evangelizzazione segua il modello di quella fondanti degli Apostoli.
Infine una nota di ottimismo e di speranza sull’Italia e la sua capacità di rinascere come
l’ave fenix alla pienezza dei suoi valori in ogni difficile circostanza sia perché sempre ha saputo
riemergere dalle grave difficoltà nel crocevia della storia sia per le ragioni di esperienza tre
volte millenaria di umanità sopra esposte ma soprattutto perché con San Tommaso possiamo
dire: «E’ per questo fondamento di Cristo, degli apostoli e delle loro dottrine, che soltanto la
Chiesa di Pietro (al quale toccò in eredità l’Italia quando gli apostoli furono mandati a
predicare) fu sempre salda nella fede. Mentre nelle altre parti, o non esiste o è inquinata da
molti errori, la Chiesa di Pietro è invece fiorente per la sua fede ed immune da eresie. Né c’è
da meravigliarsene, perché il Signore disse a Pietro: “Io ho pregato per te, che non venga
meno la tua fede (Lc 22,32)”».
DIDI LEONI:
Ora io lancio una piccola provocazione a Marco Boglione. Lei, nel sottotitolo di un suo
libro, dice che “imprenditore è bello”. L’imprenditore etico è bello, immagino; ma è possibile?
36
MARCO BOGLIONE
(Presidente BasicNet SpA)
Io direi piuttosto il contrario: imprenditore “non etico” non è possibile, senza contare che
tanti chiamano “imprenditore” gente che non lo è affatto. Ho scritto questo libro, “Piano piano
che ho fretta. Imprenditore è bello”, perché quando qualcuno mi chiede qual è la fortuna della
mia vita, rispondo che sono state due: una è stata quella di incontrare una persona come
Maurizio Vitale (l’imprenditore che a cavallo tra gli anni Sessanta e Settanta creò i marchi Robe
di Kappa e Jesus Jeans, n.d.r.), che mi ha aperto un pezzo di mondo; l’altra è che, anche
grazie a questa persona, oggi faccio il mestiere che sognavo di fare quando avevo 15 anni.
Quando avevo 15 anni sognavo di fare l’imprenditore, ero un bravo ragazzo, un bravo
bambino, e quindi avevo tutti i miei valori etici a posto. Io penso che ci sia un solo modo di
fare l’imprenditore, quello vero, che non ha niente a che vedere con gli imprenditori di cui si è
parla sovente sui giornali: molti sono semplicemente dei trafficoni, dei trafficanti che vengono
pizzicati dal telegiornale a fare cose illegali, e quando non hanno un mestiere preciso li
chiamano “imprenditori”.
Si è parlato tanto di finanza creativa, ma viene da sorridere a pensarci. Quelli non sono
imprenditori né creativi: l’imprenditore è una persona che aggrega, che trasforma, e
soprattutto che sogna moltissimo. È stato citato prima Steve Jobs, che io – da imprenditore –
non finirò mai di ringraziare, perché ha dimostrato con i fatti di poter fare l’azienda con la più
grande capitalizzazione al mondo rimanendo se stesso, rimanendo lo stesso ragazzo che era,
senza piegarsi alle consuetudini del “così fan tutti” della grande finanza e dell’industria. Steve
Jobs si è tenuto su i suoi jeans e ha continuato a sognare, a rinnovare, fino a dimostrare che,
così facendo, si riesce non solo a galleggiare e a “sbarcare il lunario”, ma si riesce a vincere a
tutti gli effetti.
All’inizio ero un po’ perplesso a parlare di etica. Non è la mia materia. Poi, però, ci ho
ragionato su e alla fine sono venuto, perché penso che chi fa il mio mestiere lo fa perché pensa
che sia etico.
Sono convinto che sia etico fare l’imprenditore in un sistema moderno, consolidato e
globale, come quello attuale, che si basa su tre paradigmi: democrazia, mercato e capitale. Se
noi riuscissimo a far funzionare questa equazione, l’etica sarebbe una conseguenza del buon
funzionamento del sistema, che non è il semplice liberismo “arraffa-arraffa”.
Questo sistema (democrazia-mercato-capitale, ndr) non è naturale, ma è stato inventato
dall’uomo pro domo sua; è un paradigma di gestione della cosa sociale che si basa su questi
tre capisaldi, che sono appunto: l’impianto democratico; il mercato visto non come opportunità
di liberismo, ma come strumento (poi quando uno ne inventa uno migliore, noi non siamo
contrari a priori; anche se, finora, i risultati ci dicono che questo è ancora il sistema migliore);
infine il capitale, che deve essere considerato etico, e non – come spesso ancora si sente dire –
lo “sterco del diavolo”.
Il capitale è altamente etico, ecco perché io credo di fare un mestiere molto etico, e
quindi di poter parlare oggi di etica. Il nostro mestiere, l’imprenditore, è utile proprio per
capire che l’etica non è una causa ma una conseguenza: essere etici deve convenire, se
vogliamo veramente che l’etica ritorni centrale, e io credo che non ci sia altra opzione. Una
società senza etica è come un computer senza software, un bel computer che spara numeri a
casaccio.
Quindi sicuramente l’etica ci vuole. Ma, anche in merito a quello che è successo a livello
di globalizzazione, sarebbe pretenzioso e presuntuoso cercare di convincere tutti alla stessa
etica. Qualcuno ha il suo Sant’Agostino, altri hanno il proprio Buddha. Perciò è impossibile, in
un regime di globalizzazione, convincere tutti a essere buoni – e quindi etici – perché nella
migliore delle ipotesi se ne convincerebbe soltanto una parte. Invece bisogna convincere tutti
che essere etici conviene, che è poi ciò che io, nel mio piccolo, ho sempre fatto. Io ho sempre
pensato che pagare le tasse convenisse e che rispettare le leggi convenisse, e ciò per ragioni
etiche molto elevate, quali ad esempio la libertà.
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Tranne in pochissimi momenti, nel mondo occidentale cosiddetto civilizzato le leggi sono
sempre state fatte per aumentare il tasso di libertà, non per ristringerlo. Si parla sempre di
etica, ma secondo me non c’è nessuna etica negata. Certo, non bisogna arrivare a pensare di
avere solo diritti, altrimenti le cose non funzionano. Se per ragioni di etica uno pensa che si
abbiano tutti i diritti, ecco che poi uno sente di avere anche il diritto di non rispettare la legge,
ed è naturale – a questo punto – che vada tutto in crisi.
Quindi bisogna fare un ragionamento, forse un po’ provocatorio, almeno per quanto
riguarda il nostro Paese, ed è questo: se tu vai dal panettiere, lui ti dà il pane non perché è
buono, ma perché gli conviene. Questa cosa è vera e sacrosanta: il panettiere ti dà il pane
perché a lui conviene. Quindi, per un imprenditore, essere etico è l’unico modo per fare il
proprio mestiere, altrimenti gli tocca fare qualcos’altro: “arraffare” in fretta e poi “telare”... Io
credo che sia importantissimo per un imprenditore agire correttamente, e l’ho detto tante
volte: io sento di essere etico non perché sono buono, ma perché sono furbo.
Tutti gli atteggiamenti fortemente etici che adotto nei confronti del mercato – per
esempio la lealtà, la gratitudine, il mettere prima le persone che hanno più bisogno in azienda
rispetto a quelle che ne hanno meno, i più deboli anziché i più forti, e così via – mi tornano a
casa come pagamento della fatica che ho fatto, e quindi anche con il sacrosanto profitto.
Proprio come quello del fornaio: un profitto che io non ho nessuna voglia né intenzione di
nascondere,
perché
non
c’è
niente
di
male.
Anzi.
In
un
sistema
di
“democrazia+mercato+capitale”, la democrazia e la cosa pubblica sono lì, apposta, per
ridistribuire la ricchezza prodotta dagli imprenditori. Per questa ragione il problema dell’etica
negata non esiste, perché – a un certo punto – qualcuno ha inventato la democrazia e mica
l’ha inventata perché ci fosse caos: l’ha inventata perché ci fosse sempre qualcuno nella cabina
di pilotaggio del Paese, anche se oggi – se usciamo e chiediamo a un ragazzo che cos’è la
democrazia – lui risponde “ciò che mi consente di fare e dire quello che voglio”, che poi è
esattamente il contrario di ciò per cui la democrazia è stata inventata. Anche per questo
motivo, oggi, soprattutto ai giovani, manca la speranza…
Se tu oggi vai da un ragazzo e gli chiedi “che cos’è il lavoro: un diritto o un dovere?”, lui
ti risponde “è un diritto perché io sono italiano e, come dice la Costituzione, ho diritto a
lavorare”. Sbagliatissimo: lui ha il dovere di lavorare! Oggi c’è bisogno che qualcuno dica a
questi ragazzi, che sentono sempre che gli manca qualcosa (e che sono anche gli anelli deboli
della nostra catena sociale, perché non hanno l’esperienza), che hanno già tantissime cose.
Sarebbe il caso che questi ragazzi cominciassero a chiedersi che cosa possono fare loro per la
società, mentre c’è sempre qualcuno pronto a dire loro che la società gli fa mancare qualcosa.
Ecco, forse con questo sistema si potrebbe innescare un meccanismo virtuoso, come
quello del fornaio, e potrebbe ricominciare a esserci – se non un’aspettativa – almeno una
speranza di benessere. Sarebbe ora che i comportamenti rientrassero a cinghia di trasmissione
di quel motore (democrazia+mercato+capitale) che, obiettivamente, ha dato grandissimi
risultati in termini socio-culturali. Adesso c’è forse un po’ più di liberismo, associato a una
comunicazione fuori controllo, ma credo che – in tutta la storia dell’uomo – non abbiamo mai
sperimentato una situazione di benessere diffuso, di diritti e di libertà come quella che
abbiamo a disposizione oggi. È non è cosa di poco conto. Grazie.
DIDI LEONI: Grazie a Marco Boglione. Allora essere etici conviene: lei ci permette di usare
gratuitamente questo slogan per una campagna, magari da indirizzare ai giovani?
MARCO BOGLIONE
Quasi quasi vi pago… All’interno dell’azienda (BasicNet, ndr) abbiamo una piccolissima
casa editrice che ha pubblicato un libro proprio su questo tema. Si intitola “Contro l’azienda
etica. Per il bene comune”: un piccolo trattato sul fatto che bisogna essere etici non perché
siamo buoni, ma perché siamo smart (furbi, svegli, intelligenti, ndr). È una lettura che vi
consiglio vivamente, a Torino potete trovare il libro alla Luxemburg: costa solo 8 euro, e
oltretutto ve lo rimborsiamo con uno sconto di pari importo nei nostri negozi…
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MIMMO CANDITO
(Giornalista e scrittore)
Sono invitato a compiere un processo di sintesi di quanto è stato detto, ma ho qualche
perplessità perché tanta varietà di interventi, tale diversità di collocazioni culturali e ideologiche,
rendono presuntuoso, oltre che fortemente penalizzante per la qualità di interventi, immaginare
una sintesi.
Però, certo, di fronte alla nettezza del tema che è stato proposto alla nostra attenzione
non posso non partire da quello che ormai è diventato un territorio attraversato comunemente
da tutti, e cioè la definizione di Zygmunt Bauman del vivere noi oggi in una società liquida, una
società nella quale mancano sostanzialmente gli ancoraggi che finora avevano consentito un
andamento in qualche modo organico dei processi della storia e dello sviluppo delle società;
si naviga, quindi, all’interno di un percorso di cui poco si conosce e che poco può offrire alla
elaborazione diretta, conseguente.
Tanto più che, come dice ancora lo stesso Bauman, viviamo in un tempo “puntillistico”,
un tempo nel quale ogni momento viene vissuto come autonomo, un punto chiuso, una monade
serrata e indifferente a tutto ciò che precede e tutto ciò che seguirà, annullando in qualche
misura il concetto della Storia e il valore stesso della conoscenza come capacità di valorizzare gli
elementi essenziali del processo evolutivo - non soltanto cronologico - del tempo.
Nel mondo rapido e onnivoro dell’elettronica, son saltate via le categorie sulle quali
tutti quanti noi abbiamo costruito la “conoscenza”, cioè le categorie del Tempo e dello Spazio; e
diventa quindi difficile fare un percorso cognitivo coerente e consapevole, perché il cambiamento
che stiamo vivendo si pone con i caratteri propri della mutazione genetica.
In quest’aula di un Parlamento che mi piace ricordare come la radice della mia, della
nostra, identità di italiani che si riconoscono nel percorso sì contraddittorio della storia nazionale,
ma un percorso che ha trovano nella Costituzione repubblicana la sintesi alta di tutte le storie
che hanno preceduto il nostro tempo di oggi, in quest’aula ci appare manifesto con una rapida
occhiata che l’età media dei presenti supera, e di molto, i 15 anni o i 20 anni anagrafici; questo
vuol dire che fuori da quest’aula c’è tutto un mondo di “giovani”che noi presumiamo di conoscere,
magari anche di rappresentare, ma che forse, forse, non conosciamo autenticamente.
Uno studio recente, un’analisi sollecitata da MTV, ha individuato una nuova categoria
sociale, quella della “net generation” o, se preferite, dei “digital born”, cioè di coloro che sono nati
e che vivono da tempo nell’era digitale, la stessa che ha portato, appunto, alla società fluida e al
tempo puntillistico; da questo studio venivano a disegnarsi dei ritratti di giovani - coloro che qui
ora non ci sono - piuttosto interessanti, in rottura con i “pregiudizi” che spesso ci accompagnano
nell’analisi dei movimenti giovanili.
Questi ritratti anticipavano in larga parte quello che poi, negli ultimi tempi, si è
espresso concretamente con il fenomeno degli Indignados, gruppi spontanei di individui che
non si riconoscono nel progetto dominante delle società sviluppate, società fondate sul dominio
mercantile del capitale e della speculazione finanziaria.
Ne veniva il profilo complessivo di una società post-ideologica, che si riconosce poco quindi
nelle valutazioni che invece ne erano state generalmente fatte in forma, diciamo, pregiudiziale.
Questa discrasia tra un’ottica di lettura della realtà diversa dalla identità della realtà mi
porta un po’ a servirmi delle riflessioni che nascono dalla mia esperienza professionale nell’ambito
dei problemi politici internazionali.
Possiamo prendere come esempio d’uso per aiutarci a riflettere su questa discrasia che
crea misconoscenza della realtà il concetto della “stabilità” (la stabilità strategica, o la stabilità
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politica, o la stabilità diplomatica): sarà molto facile che siamo portati a considerarlo come un
valore astratto, teorico, anche a-storico, ma sempre in sé positivo, la “stabilità” come dato
progettuale immutabile, mentre invece la sua identità può vivere – ed essere dunque strumento
d’uso - soltanto all’interno d’una cornice di interessi e di fenomeni i di netta concretezza, dove la
positività diventa inevitabilmente un giudizio storicamente relativo.
Guardiamo a quanto sta accadendo in questo tempo d’oggi in un paese cardine del
Grande Medio Oriente, sulle coste del Golfo.
L’Iran è un Paese fortemente interessato alla “destabilizzazione” (cioè a una messa
in crisi della attuale “stabilità”) nell’area medio orientale perché, in difesa dei propri interessi
nazionali, ritiene di avere una grande capacità potenziale di sviluppo della propria presenza in
quel terreno, in quello scacchiere, e tenta dunque di guadagnarsi un ruolo legittimamente più
forte all’interno degli equilibri geopolitici nell’area.
Noi nel nostro mondo, che puntiamo tutto sulla stabilità quale essa è ora, vediamo
questo tentativo dell’Iran come un elemento negativo, critico, da condannare.
Ma è una condanna da dare in assoluto, pregiudizialmente, perché conflittuale con la
stabilità? oppure una condanna come risultato d’un giudizio che ha alla base la difesa di interessi
politici di parte, storicamente determinati?
Rientriamo allora all’interno della tematica di questo convegno, e le considerazioni
appena fatte riportiamole alla problematica di questi giovani che in qualche misura tendono a
non riconoscersi nelle definizioni dell’etica che sono state date così dottamente qui, giovani che
appaiono negarla mentre ricercano un’etica “altra” nel gioco della stabilità/destabilizzazione (per
essere più chiari: etica=stabilità e altro=destabilizzazione).
Non intendo esprimere su questa dialettica un giudizio valutativo, ma piuttosto intendo
richiamare la necessità di non sottrarsi al confronto restandocene asserragliati sulla navicella
delle nostre certezze, delle nostre sicurezze quando parliamo di etica e di valori.
E’ stato fatto qui un percorso molto dotto, molto interessante, sull’evoluzione del concetto
di valore e di etica; però, rispetto a questi giovani, cosa offre la politica quale strumento per la
realizzazione concreta di questi “valori”, in una società e in un tempo definiti?
Qui,negli interventi che mi hanno preceduto, la politica si è autorappresentata con una
identità forte, orgogliosamente alta.
Ma, nella realtà del nostro oggi, vediamo che fuori da questa sala, lontano da questa
piazza, la politica si manifesta invece in una forma molto diversa, molto più povera di etica e
di valori, spesso negatrice di questi principi che tanto esalta nelle parole, e i giovani la vedono
per come essa si realizza concretamente, al di là delle definizioni alte che le vengono date, qui
o altrove.
E anche la Chiesa, che qui ha rivendicato un ruolo straordinario di interprete legittima
e coerente dei principi che sostanziano l’eticità del vissuto, come si misura con il silenzio invece
lungamente praticato su quanto andava accadendo nel nostro Paese? sul detrimento quotidiano
che la politica praticava dei valori dell’etica?
Questa discrasia, questo linea netta di frattura tra valori enunciati e pratica vissuta,
questo, i giovani lo vedono; e legittimamente lo mettono in discussione , e lo rifiutano.
“Destabilizzano” ciò che noi rivendichiamo come “stabilità”.
Il nostro compito, allora, è tentare di capire perché stia accadendo questo, capire cioè
perché siamo qui a discutere di etica, e di valori negati, nella nostra società.
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Qualche tempo fa è apparso su un grande quotidiano nazionale il racconto di un episodio
molto interessante, visibile ancora in un filmato che credo circoli in Youtube. C’è uno studente
che sta intervistando una sua insegnante, e mettendole il microfono davanti alla bocca le chiede:
“Professoressa ma lei quanto guadagna dalla scuola?”.
Qui, in questa nostra sala, ci sono molti professori, che sanno bene quanto sia amaro
il loro salario come misura del riconoscimento che viene dato al loro compito di costruzione di
un sapere, e sanno bene come sia inevitabile riconoscersi nella risposta che la professoressa
dà alla domanda. “Sai, ovviamente il nostro stipendio non è adeguato all’impegno che ci viene
richiesto”.
Arriva allora la seconda domanda dello studente: “Ma lei, professoressa, ha mai pensato
di fare la prostituta e guadagnare di più?”. La professoressa si stupisce, resta imbarazzata: “Ma
insomma, cosa c’entra questa cosa qui? Che domande fai?”. Il ragazzo incalza, reso libero dallo
sbandamento della sua insegnante, ponendo una terza domanda ancora più provocatoria.
Una società è tale – cioè, è “societas” – quando i suoi “soci” vi si riconoscono, riconoscono
le identità e i ruoli che la fanno “societas”. Se questo riconoscimento salta, se saltano i valori che
la identificano, essa non è più una società, ma un accozzaglia si soggetti individuali (che tali sono
anche quando legati da interessi corporativi).
Ora, non v’è dubbio che la reazione di quell’insegnante sarebbe dovuta essere ben altra,
già alla impertinenza, anzi alla spudoratezza, della seconda domanda.
Perchè è la debolezza della reazione a questa domanda che porta poi alla incredibile
formulazione della terza. Ma la reazione non sarebbe dovuta essere tanto a difesa della stessa
insegnante quanto a difesa di ciò che essa rappresenta: lei non era lei, in quel momento, lei era
la Scuola, il Sapere, la Cultura, la civiltà di un popolo. Di una società. Se non si dà riconoscimento
e forza alla identità dei ruoli, se non se ne difendono le ragioni e l’operare, allora cessa di
esistere anche la “societas”.
Quindi, nell’ambito di questo convegno, simbolicamente, è la reazione impacciata,
debole, incerta, della professoressa che finisce per togliere forza alla credibilità dei valori che in
quell’aula e in quel momento l’insegnante professava. Se non v’è coerenza tra ruoli assegnati e
capacità di interpretazione , allora serve a poco denunciare la “negazione” dei valori e dell’etica:
sarà solo un “piangersi addosso” che non porterà ad alcuna efficacia d’intervento se non è
accompagnato da una responsabilizzazione.
Ma c’è dell’altro.
I ragazzi di oggi sono portatori “naturali” (i digital born) di un sapere che per noi “adulti”
qui riuniti è, invece, un progetto, una conquista, e non sempre riuscita.
Questo sapere è il sapere digitale, l’uso rapido e pragmatico della comunicazione
informatica, il possesso di un linguaggio che noi avvertiamo come estraneo alle nostre
abitudini della comunicazione sociale. Siamo dunque noi, che dovremmo essere i depositari e i
comunicatori del Sapere, siamo noi che invece finiamo per dipendere dai nostri ragazzi; se ne
produce, di conseguenza, un ribaltamento dei ruoli, che non può non incidere drammaticamente
sulla qualità della rappresentazione della cultura dell’etica, e della affermazione dei valori, che
qui stasera sono stati illustrati da tutti noi
Perdiamo, dunque, autorevolezza, e credibilità.
Con ancora un’aggiunta di peso. I ragazzi di oggi (la net generation, i digital born) hanno
quasi sempre una loro paghetta settimanale, una loro autonomia economica; e quindi, non
dipendono se non indirettamente da coloro che sono “i portatori dei valori”.
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Questa “indipendenza” finisce, anch’essa, per rafforzare un sentimento di alterità che
poi, nei comportamenti, si traduce in distacco e in rifiuto tendenziale di identificazione con la
società degli “adulti”, quella che è portatrice dei “valori” (di quella “stabilità” che definivo).
Il modello di riferimento su cui è stata costruita l’attuale identità dell’etica è oggi in crisi,
e se appare in crisi il modello allora è in crisi anche l’identità definita dell’etica; e, di seguito,
i suoi valori si mostrano incapaci di dare una risposta funzionale alle attese e alle aspettative
di larga parte della società del nostro tempo, la net generation ma non solo quella. La classe
de-ideologizzata che veniva disegnata dallo studio de Mtv - la classe degli “indignados” e dei
disoccupati cronici impossibilitati a trovare un lavoro – manifesta apertamente il suo distacco
(l’alterità) da questa società e dunque dai valori nei quali essa (spesso soltanto a parole) dice
di identificarsi.
Nell’aprire questo intervento citavo Bauman, e la società liquida, e il tempo puntillistico.
L’ecosistema nel quale si manifesta la crisi dei valori riflette il mutamento delle identità
che noi qui, quest’oggi, abbiamo tentato di rappresentare. La ricognizione delle difficoltà di
relazionarsi all’interno d’una accelerazione straordinaria dei fenomeni sociali ha costituito il
tessuto dei nostri interventi; credo che ne usciamo tutti con una più intensa consapevolezza
di quanto drammaticamente estese siano le dimensioni della problematicità analizzata da tutti
noi.
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