I VALORI ETICI NEGATI NELLA SOCIETÀ CONTEMPORANEA Atti del convegno FOTO SENATO SUBALPINO Palazzo Madama Torino, 17 ottobre 2011 . In copertina: Senato Subalpino e Primo Senato del Regno d’Italia (1848-1864) I VALORI ETICI NEGATI NELLA SOCIETÀ CONTEMPORANEA Atti del convegno PALAZZO MADAMA Torino, 17 ottobre 2011 Il convegno, organizzato nell’ambito delle celebrazioni del 150° anniversario dell’Unità d’Italia, è stato ideato da La Nuova Arca ed è nato dalla constatazione del degrado dei valori etici nella nostra società e dal bisogno di discuterne per sensibilizzare l’opinione pubblica a riflettere sulle cause e sui possibili rimedi. I relatori, a seconda delle proprie esperienze professionali, hanno parlato delle cause della negazione dei valori e hanno proposto alcuni antidoti e principi guida per il ripristino dei valori etici. Per l’alto profilo e contenuto degli interventi, il Consiglio regionale del Piemonte ha ritenuto di realizzare la pubblicazione degli atti. Valerio Cattaneo Presidente del Consiglio regionale del Piemonte Valerio Cattaneo …………………………………………………………………………………….pag.9 Presidente Consiglio regionale del Piemonte Sergio Roda …………………………………………………………………………………………….pag.11 Pro Rettore, Università di Torino Alida Tua ……………………………..………………………………………………………………….pag.13 La Nuova Arca Didi Leoni………………………………………………………………….……………………………..pag.15 Giornalista e moderatore Corrado Faissola……………………………………………………………………………………..pag.17 Presidente UBI Banca e Presidente Federazione ABI-ANIA Giovanni Maria Flick ………………………………………………………………………………pag.19 Presidente Emerito Corte Costituzionale Marcelo Sanchez Sorondo …………………………………………………………………….pag.23 Cancelliere Pontificia Accademia delle Scienze Marco Boglione …………………………………..…………………………….……………………pag.37 Presidente di BasicNet SpA Mimmo Candito …………… ………………………………………………………………………..pag.39 Giornalista e scrittore VALERIO CATTANEO (Presidente Consiglio regionale del Piemonte) Eccellenza Reverendissima, Illustri Relatori, Autorità, Signore e Signori, sono profondamente grato agli Amici dell’Associazione La Nuova Arca – in particolare ad Alida Tua e Armando Caruso – per avermi offerto l’opportunità di intervenire a questo incontro, dove ritrovo con piacere, insieme a illustri relatori, la presenza di Monsignor Marcelo Sanchez Sorondo. In qualità di Cancelliere della Pontificia Accademia delle Scienze ci ha generosamente ospitato, pochi mesi fa, nella sede della Casina Pio V, presso i Giardini Vaticani, dopo l’Udienza Papale a suggello di una proficua collaborazione posta in atto dalla Regione con l’Accademia medesima, sfociata nel concerto dedicato a Sua Santità Benedetto XVI, a Castelgandolfo, lo scorso settembre. L’iniziativa di questo incontro conferma l’impegno che La Nuova Arca pone, in vari ambiti culturali, per attrarre a Torino e in Piemonte iniziative di alto significato, in grado di far segnare momenti significativi per la crescita civile della nostra comunità. Non andrò oltre il mio ruolo, nel rivolgere a tutti i convenuti il caloroso saluto dell’Assemblea regionale che mi onoro di rappresentare, ma indubbiamente i temi oggi discussi – con l’apporto dei relatori che hanno aderito – sono tali da stimolare una profonda riflessione in chi – come politico e come amministratore – è chiamato ogni giorno a confrontarsi con una realtà in rapido cambiamento. Anzi, proprio l’attività politico-amministrativa, con i propri ritmi frenetici, con il continuo emergere di problemi contingenti, spesso rischia di limitare all’immediatezza, agli eventi accidentali, l’attenzione e l’impegno di chi è chiamato a praticarla, impedendo di pensare a una prospettiva più ampia, sia in termini temporali che valoriali. Come molti - chiamati a servire il bene pubblico - nella quotidiana attività sento spesso il bisogno di uscire dall’ordinario, di ampliare gli orizzonti, di dare un senso al succedersi dei problemi e delle situazioni che si affastellano continuamente. Penso che l’attività di amministratore pubblico e di politico disancorata da riferimenti valoriali ed etici rischi di immiserirsi nella pratica quotidiana, nel far fronte a emergenze sempre più difficili, e finisca per perdere quel senso profondo che dovrebbe avere, se collocata in un orizzonte più ampio, secondo la definizione che già il Pontefice Paolo VI diede della politica, come più grande opera di carità. Nel riflettere sui temi dell’incontro odierno, non ho potuto fare a meno di riferirmi al significativo intervento che Sua Santità Benedetto XVI ha svolto di fronte al Parlamento tedesco, nel corso del suo recente viaggio in Germania. Ricordando il desiderio espresso da Re Salomone al momento dell’assunzione del potere, cioè quello di poter distinguere il bene dal male, Sua Santità ha definito quale sia la qualità più importante per un politico: “La politica – ha detto - deve essere un impegno per la giustizia e creare così le condizioni di fondo per la pace. Naturalmente un politico cercherà il successo senza il quale non potrebbe mai avere la possibilità dell’azione politica effettiva. Ma il successo è subordinato al criterio della giustizia, alla volontà di attuare il diritto e all’intelligenza del diritto”. Ricordando anche la celebre frese di S. Agostino (“Togli il diritto – e allora che cosa distingue lo Stato da una grossa banda di briganti?”), Benedetto XVI ha voluto richiamare tutti coloro che decidono di dedicare l’impegno al servizio del bene pubblico, affinché la loro attività non prescinda mai dal senso della giustizia, che deriva dal rispetto dell’uomo, della natura umana, quale fonte di diritti inalienabili, che non possono essere né compressi né tantomeno cancellati da una volontà politica, quand’anche fosse maggioritaria. 9 Esistono dei riferimenti etici che sono intangibili, che riguardano il valore della persona, la sua libertà di pensiero, l’esercizio di una fede religiosa, il dovere di solidarietà verso le altre persone, specialmente quelle più deboli e bisognose, che in fondo rappresentano la motivazione più intima dell’agire politico. Nel mondo attuale, nel XXI secolo purtroppo aperto da vicende terribili come gli attentati di New York – di cui abbiamo da poco ricordato il decennale – paiono essere venute meno le contrapposizioni ideologiche che hanno contraddistinto il Novecento, definito da molti il secolo delle ideologie, dello scontro fra sistemi contrapposti, che propongono ognuno una propria filosofia di vita, una concezione chiusa alla mediazione e a ogni rapporto esterno. Non sentiamo certo la mancanza degli “steccati” che hanno diviso uomini e Stati del secolo scorso, con gli scontri, le guerre sanguinose che hanno provocato. Nello stesso tempo, non si può certo pensare che il venire meno di ideologie che hanno infiammato il cuore di milioni di persone, possa essere sostituito con l’assoluta anonimia, con la mancanza di identità, di un’eredità culturale e valoriale, con l’incapacità di riconoscersi in qualcosa di più duraturo degli affanni quotidiani o del cinico pragmatismo che in alcuni casi spinge le nostre giornate. Penso che - anche da occasioni come quella odierna - possa nascere lo stimolo per una riflessione che ognuno può compiere nel proprio cuore e condividere con gli altri, per aiutare a dare un senso all’impegno di ogni giorno, evitando che prevalgano indifferenza e relativismo, ma rifondando invece le basi etiche del nostro agire, agire con le persone e per le persone che ci affiancano nell’avventura umana. Buon lavoro! 10 SERGIO RODA (Pro Rettore, Università degli Studi di Torino) Buon giorno a tutti, mi è stato chiesto come Pro Rettore dell’Università di Torino di portare i saluti dell’Ateneo: lo faccio molto volentieri sia perché fra l’Università di Torino e la Nuova Arca esiste un rapporto consolidato da anni di collaborazione, sia perché oltre ad essere l’Università di Torino una delle istituzioni che ha favorito e promosso l’iniziativa di oggi, il tema in sé è del tutto coerente con la missione che compete all’Università in quanto agenzia di alta formazione nel senso più lato e onnicomprensivo del termine. Forse oggi più di ieri, in effetti, occorre fare in modo che l’Università recuperi appieno il senso implicito nel concetto di universitas, il senso cioè di una realtà formativa in cui la preparazione culturale, l’accesso ai saperi, l’acquisizione delle tecniche non può essere disgiunta dalla propedeutica alla maturazione più completa dei valori etici e civili. Troppo a lungo credo sono stati separati, nell’ambito della società, questi due aspetti quasi che le competenze per potere essere meglio esercitate non necessitassero di una componente solidamente introiettata di coscienza civica e di dirittura morale; negli ultimi anni abbiamo anzi avvertito come questa disgiunzione sia andata allargandosi in modo pericoloso e per molti versi rovinoso. Il fatto stesso che in questa importante occasione di incontro e confronto di idee non si parli dei valori etici all’interno della società contemporanea, ma dei valori etici negati nella società contemporanea, ci fa pensare che un problema da questo punto di vista esista e si tratti di un problema profondo, a cui non possiamo dare, credo, risposta generiche. Ognuno nell’ambito dei suoi specifici compiti: politici, imprenditori, mondo delle imprese, mondo del lavoro, mondo dell’economia, mondo della scuola, mondo dell’università, credo che debba impegnarsi singolarmente e collettivamente nello sforzo di mutare un orientamento della nostra società che rischia di portarci lontano verso un orizzonte molto oscuro, in un futuro tenebroso molto diverso da quello che sognavano le ultime generazioni. Ne deriva che iniziative come quella che oggi qui si celebra appaiono fondamentali per riflettere su una serie di valori che debbono essere o rivitalizzanti o ripensati. E’ molto significativo del resto - ribadisco - che a un tema come questo si sia oggi pensato. Probabilmente l’esigenza di dibattere su “i valori etici negati nella società contemporanea” fino a qualche anno fa non si sarebbe sentita: non che la necessità non ci fosse ma ne mancavano i presupposti sia nella mentalità collettiva, sia, ahimè, nella classe dirigente e nell’élite intellettuale. Il mutare delle condizioni complessive del nostro Paese così come dell’intero mondo occidentale e della realtà globalizzata ci impongono di rivedere il complesso dei nostri comportamenti individuali e collettivi e ci costringono a riflettere su ciò che non ha funzionato nella gestione della nostra società e sul perdita di sensibilità per valori che per errore si ritenevano definitivamente acquisiti. Per correggere tale mancanza fatale credo l’Università sia consapevolmente attrezzata a fare la sua parte: l’ha fatta in passato, non sempre evidentemente in maniera adeguata a quelle che sono le responsabilità delle più rilevanti istituzioni educative e formative. Occorre quindi maggiore impegno e determinazione: l’incontro di oggi può aiutarci come ulteriore monito rispetto a una volontà già risoluta. Grazie a tutti gli intervenuti, con l’augurio di un buon lavoro e la certezza, di cui mi faccio interprete e garante che se proseguirete su questa strada avrete il supporto costantemente assicurato dell’Università di Torino. 11 ALIDA TUA (Associazione La Nuova Arca) Signore e signori buon pomeriggio e grazie di essere intervenuti a questo convegno. Ringrazio in modo particolare il Presidente del Consiglio Regionale Valerio Cattaneo e il Prof. Sergio Roda, per aver portato il saluto della Regione e dell’Università di Torino. Grazie di cuore ai relatori e alla moderatrice Didi Leoni che hanno accettato il nostro invito a venire qui a parlare su un tema particolarmente cruciale della nostra epoca. Il convegno nasce dalla constatazione del profondo degrado dei valori etici nella nostra società e dal bisogno di discuterne per sensibilizzare l’opinione pubblica a riflettere sulle cause e sui possibili rimedi. Senza riflessione c’è il rischio che ci si abitui alla situazione attuale e che la perdita dei valori sia accettata come normale, con enorme danno delle generazioni future. Il titolo del convegno : i valori etici negati nella società contemporanea si riferisce alla negazione non in linea di Principi ma di Comportamenti. Anzi spesso i valori sono invocati e strumentalizzati per validare l’azione. Ma poi la realtà dei comportamenti si rivela essere differente. Non ci può essere dicotomia tra principi e comportamenti. Oggi assistiamo ad una dilagante mancanza di limiti e di regole e ad una sempre crescente irrazionalità nell’agire. E’ come se l’umanità, paragonata all’individuo, nel corso dei secoli, non si fosse ancora avviata verso una maturità razionale. Credo che un serio ripensamento sulle fondamenta della società, cioè i valori, debba preludere ad un profondo cambiamento di ciò che non funziona in tutti i settori della società. I relatori, a seconda delle proprie esperienze professionali, esprimeranno il loro autorevole parere su questi temi e a loro chiediamo, qualora lo ritengano opportuno, di proporre alcuni antidoti e principi guida per un cambiamento e rinnovamento in senso etico, per dirla con parole del Prof. Lamberto Maffei, Presidente dell’Accademia dei Lincei, che nello scorso anno ha promosso ai Lincei una serie di incontri con lo stesso tema di questo convegno. Ai punti di vista dei relatori vorrei aggiungere come spunto di riflessione una considerazione: credo che una delle cause basilari della perdita dei valori sia il fatto che la società attuale promuove il narcisismo come valore che dà una precisa impronta alla nostra cultura. Specificando meglio la società promuove il narcisismo antitetico al rispetto dei valori e non quello positivo e creativo necessario al successo dell’azione ed il cui risultato è utile a chi agisce ed anche agli altri o quanto meno non li danneggia. Agire secondo valori vuol dire condividere con gli altri i principi d’azione da rispettare, è sapere dove sono i confini tra bene e male, tra giusto e ingiusto, tra lecito ed illecito, è sapere che esistono dei limiti che non vanno oltrepassati, è agire senza calpestare gli altri, è creare rapporti ed è rispetto per gli altri. Il narcisismo è negazione di tutto ciò: il narcisista agisce mirando unicamente ai suoi scopi, modificando la realtà e calpestando i rapporti con la distorsione delle normali regole di comunicazione attraverso l’uso spudorato delle menzogne fuori da ogni autocritica, non solo sulle implicazioni morali, ma anche sull’irrazionalità dei contenuti. Mancando di un super-io capace di porre limiti morali alla sua condotta, agisce i propri impulsi: non avendo un giusto autocontrollo vive al di fuori e al di sopra delle regole sociali. La società odierna offre meno limitazioni al comportamento in confronto anche solo a venti anni fa, incoraggia ad agire liberamente senza considerazione dell’interesse degli altri, inducendo a pensare che l’assenza di limiti sia libertà e giustizia per gli individui. Ma l’assenza di limiti causa per la società il crollo della sua struttura e il caos, per l’individuo la perdita del Sé e della propria identità. Inoltre la società odierna influenza gli individui con le immagini fasulle create dai massmedia che propongono modelli e miti di potere e successo. Oggi il potere, il successo, la notorietà, l’immagine sostituiscono il senso di dignità di sé e degli altri e il rispetto di sé e degli altri. Ciò comporta mancanza di umanità, caduta in una condizione di irrealtà, svalorizzazione dei sentimenti e soprattutto dell’empatia, sentimento chiave per la convivenza degli esseri umani. 13 Non vogliamo qui ed ora ricercare le colpe della svalutazione dei valori etici, se siano da attribuire all’individuo o alla società: in effetti l’individuo modella la società ed è modellato dalla società. L’importante è avviare il cambiamento della situazione attuale. Penso che il ruolo dei giovani nel rinnovamento sia fondamentale e che sia nostro dovere offrire loro tutti gli strumenti necessari. Una proposta è che vengano insegnati nelle scuole superiori i lineamenti di psicologia, con impostazione psicanalitica, in quanto questa materia è utile alla comprensione di se stessi, degli altri, dei rapporti interpersonali e quindi in qualche modo delle dinamiche sociali. Sarebbe ora che questa disciplina uscisse dal chiuso delle aule accademiche e dagli studi degli addetti ai lavori, per diventare patrimonio utile a tutti. Inoltre credo che sia necessario che ogni settore della società rifondi e osservi un codice etico di comportamento, poiché questa rifondazione è un passaggio obbligato per l’evoluzione dell’umanità verso quella maturità psichica, prima evocata, che consente la gestione pacifica delle risorse spirituali e materiali per lo sviluppo e il progresso. 14 DIDI LEONI (giornalista e conduttrice televisiva) Grazie, grazie ad Alida Tua, un ringraziamento particolare per avermi voluto qui oggi in qualità di moderatrice. Ne approfitto per dire una cosa: come giornalisti -parlo anche per MIMMO CANDITO – siamo stati chiaramente chiamati in causa e abbiamo sicuramente le nostre responsabilità. Per questo il convegno si chiuderà proprio con gli interventi che riguardano l’educazione, la formazione e i mass media. Ovviamente tutti i relatori che sono qui oggi hanno un osservatorio privilegiato. Lo potete vedere dai nomi: relatori assolutamente illustri che svolgono il loro lavoro con grande competenza e quindi ad ognuno di loro per il loro settore specifico verrà chiesto non di delineare quello che sembra abbastanza assodato, cioè la negazione dei valori etici, ma quali possono essere gli strumenti per risolvere la situazione. Anche se chiaramente è molto difficile avere una ricetta per una materia così complessa. Vorrei subito presentare i nostri ospiti, per usare un linguaggio cinematografico, in ordine di apparizione cioè secondo l’ordine del loro intervento. Abbiamo con noi: CORRADO FAISSOLA Presidente UBI Banca. Fino all’anno scorso è stato presidente dell’ABI, Associazione Bancaria Italiana, e da gennaio è Presidente della FEBAF, Federazione delle Banche, delle Assicurazioni e della Finanza. Poi abbiamo GIOVANNI MARIA FLICK Presidente Emerito della Corte Costituzionale, Ministro della Giustizia nel Governo Prodi nel 1996, Professore Ordinario di Diritto Penale alla LUISS, avvocato penalista ed anche rappresentante italiano nella Commissione Europea per i diritti umani. Poi MARIO DEAGLIO, Professore Ordinario di Economia Internazionale presso la facoltà di Economia dell’Università di Torino. Parallelamente alla carriera accademica, lo sappiamo tutti, ha seguito quella di giornalista economico: ha diretto IL SOLE 24 ORE ed è editorialista economico de LA STAMPA. Abbiamo SUA ECCELLENZA MONSIGNOR MARCELO SANCHEZ SORONDO, Arcivescovo e teologo argentino. Dal 1998 è Cancelliere della Pontificia Accademia delle Scienze e della Pontificia Accademia delle Scienze Sociali, Professore Ordinario di Storia della Filosofia presso la Libera Università Maria Santissima Assunta a Roma e Presidente anche del corso di laurea in scienze della formazione presso la stessa università; e poi un imprenditore molto noto MARCO BOGLIONE Cavaliere del Lavoro, fondatore e Presidente di Basicnet S.p.A. una società che raggruppa alcuni dei marchi più prestigiosi e conosciuti dell’abbigliamento sportivo. In passato ha anche fondato la FOOTBALL SPORT MERCHANDISE che è stata una delle prime aziende in Europa a produrre e commercializzare abbigliamento con i marchi delle squadre di calcio. Il dottor Boglione è anche membro del Consiglio per le Relazioni Italia- Stati Uniti. Poi abbiamo MARIO DOGLIANI, Vicerettore dell’Università di Torino e Professore di Diritto Costituzionale. Con lui parleremo ovviamente del ruolo fondamentale dell’educazione per sensibilizzare i giovani riguardo i valori etici. Ultimo ma non l’ultimo MIMMO CANDITO giornalista, scrittore, inviato speciale de LA STAMPA, commentatore di politica internazionale. E’ stato corrispondente di guerra nei principali teatri di conflitto mondiale dall’Afghanistan al Kosovo all’Iraq ed è anche Docente di Linguaggio Giornalistico all’Università di Torino e Presidente di Reporter senza Frontiere. Questi sono i nostri illustri relatori di questa sera. Io darei subito la parola a CORRADO FAISSOLA. La prego di raggiungere il podio: lei è Presidente della FEBAF Federazione delle Banche, delle Assicurazioni, della Finanza, il mondo della finanza è nella tempesta in questo periodo… A lei la parola dottor FAISSOLA. 15 CORRADO FAISSOLA (Presidente UBI Banca e Presidente Federazione ABI_ANIA) Papa Benedetto XVI nel discorso tenuto al Reichstag di Berlino il 22 Settembre ha richiamato il primo libro dei Re della Sacra scrittura. Al giovane Re Salomone, in occasione della sua intronizzazione, Dio concesse di avanzare una richiesta. Che cosa chiederà il giovane Sovrano in questo momento? Successo, ricchezza, una lunga vita, l’eliminazione dei nemici? No, niente di tutto questo! Egli chiede invece “concedi al tuo servo un cuore docile, perché sappia rendere giustizia al tuo popolo e sappia distinguere il bene dal male!” Credo che il concetto di etica debba fondarsi appunto sulla distinzione tra il bene e il male, traducendo in termini concreti questo concetto ed esplicandolo nel contesto sociale e nei diversi settori delle attività umane. Le mie esperienze nel mondo della finanza mi inducono a concentrarmi sugli aspetti che attengono all’attività di coloro che operano in questo settore, settore che negli ultimi anni è stato protagonista di numerosi comportamenti che hanno compromesso non solo la stabilità finanziaria a livello mondiale ma hanno anche arrecato danni rilevantissimi all’economia reale coinvolgendo stati, imprese e famiglie! Per rispondere alle domande implicite nel titolo del nostro convegno è opportuno, analizzare, sia pur brevemente, le cause di natura etica che hanno facilitato e reso possibile i disastri tuttora ben visibili sotto i nostri occhi! Come è comunemente riconosciuto “l’etica” ha una caratterizzazione direttamente sociale oltre che individuale. L’etica sociale è determinata dall’insieme delle regole comunemente accettate su cosa sia da approvare e cosa sia da criticare nel comportamento umano in un dato, contesto storico e sociale (lavoro, amici, famiglia, business comunity). Le scelte dell’uomo sono istintivamente indotte da motivazioni egoistiche: per essere coerenti con l’etica sociale è necessario che le motivazioni egoistiche siano, per così dire, attenuate dalla ricerca del bene comune oltre che del bene proprio! Cipolla in un suo celebre libretto definisce tre tipologie di soggetto umano: l’onesto che tende a realizzare il bene proprio e quello altrui, il malvagio che tende a realizzare il bene proprio a danno degli altri e lo stupido che è incline a ricercare il male altrui a proprio danno. Il giudizio della comunità in cui l’individuo esplica la propria attività è essenziale ai fini di indurre comportamenti “etici”: la globalizzazione dei mercati, le sofisticate tecniche utilizzate a supporto degli affari hanno allontanato il deterrente del “giudizio” della propria comunità rispetto a comportamenti non rispettosi del bene comune. A questo aggiungasi l’accentuarsi di valutazioni positive di una parte importante delle società su obiettivi di mero arricchimento di breve/brevissimo periodo. Quanto sopra detto vale per ogni settore di attività economica: ciò che cambia nella finanza è l’intensità dei nessi tra mercato ed etica. Nella finanza l’etica assume una importanza particolare per diversi motivi. 1) Il mercato finanziario è caratterizzato dalla presenza di ampie assimmetrie informative; dalla possibilità di comportamenti opportunistici (moral hazard) da notevoli esternalità informative i cui effetti si propagano all’ intera economia (specie per la facilità con cui la crisi di un intermediario tende a contagiare gli atri, scaricandosi sul sistema). Gli intermediari, inoltre, possono avantaggiarsi del loro rilevante potere di mercato o trarre profitto dalla difficoltà della clientela nel comprendere determinati prodotti e nell’effettuare scelte razionali. 17 Queste caratteristiche elevano la probabilità che il mercato finanziario, assai più di altri settori, non sia in grado di realizzare “naturalmente” la allocazione ottimale e aumentare il benessere collettivo. 2) La finanza si basa sulla fiducia, si fonda su promesse: il prestito va restituito, il deposito deve poter essere ritirato a vista, la polizza assicurativa va rispettata alla scadenza. Richiede quindi, più di altri settori dell’economia, un corretto rapporto ispirato alla “fiducia”. Le vicende recenti ci ricordano come la sfiducia - fenomeno in gran parte collettivo - tenda a contagiare anche soggetti che ne sembrano immuni. 3) Mercati e intermediari finanziari svolgono alcune funzioni per l’intera economia: aggregano il risparmio, scelgono dove allocarlo, controllano l’uso di queste risorse da parte di chi le riceve; offrono tecniche per trasferire, ripartire e diversificare i rischi; agevolano lo scambio di beni e servizi. La qualità dei loro servizi è quindi cruciale: non solo per l’efficienza e la stabilità del sistema finanziario, ma per l’intera economia. Una buona finanza, infatti alloca il credito su base meritocratica, in funzione della qualità dei progetti da finanziare piuttosto che della ricchezza e delle relazioni sociali esistenti, stimola la crescita, così inducendo la creazione di nuovi posti di lavoro e stabilizzando i redditi delle famiglie; facilita l’accesso all’istruzione per le classi sociali meno abbienti, favorendo così la formazione del capitale sociale. La Banca tradizionale che ha conservato in Italia presenze molto importanti (il nostro sistema bancario ha oltre il 70% del proprio attivo allocato su finanziamenti diretti all’economia reale) garantiva e garantisce che, a fronte del giusto profitto riconosciuto all’ intermediario, possa coesistere altrettanto equo profitto del soggetto finanziato. Ricorrendo ad un esempio concreto, il finanziamento a medio-lungo termine concesso dalla Banca alle famiglie e/o alle imprese, se fondato su criteri meritocratici, consente a queste ultime di trarre vantaggi economici anche per sè. E’ un classico esempio di combinazione tra l’ interesse proprio della Banca finanziatrice e quello del soggetto finanziato. Quando invece l’intermediario finanziario, come è accaduto soprattutto nelle grandi banche internazionali, opera su prodotti e servizi a valore aggiunto nullo, al profitto della Banca corrisponde il danno per altri soggetti. E’ quest’ultimo il classico esempio della distruzione del valore a danno di una delle parti del contratto! Prima di concludere il mio intervento vorrei tentare una risposta al quesito se e che cosa possiamo fare per ricostruire i valori etici nella società contemporanea. Se è vero che la disgregazione sociale correlata alla globalizzazione e al conseguente attenuarsi dei giudizi di merito dei componenti la comunità in cui operiamo, enfatizzando pseudo-valori rappresentati dal successo personale e dall’ arricchimento del singolo a danno della collettività, io penso che si debbano ricercare percorsi che, pur utilizzando compiutamente l’innovazione tecnologica, valorizzino aggregazioni di tipo tradizionale quali la famiglia, la scuola, i gruppi sociali spontanei. Inoltre è necessario l’ assunzione, da parte di coloro che sono investiti di cariche istituzionali o che ricoprono posizioni di vertice nella società degli affari, di precise responsabilità tendenti a influenzare positivamente la società civile: la società civile infatti, come la storia dimostra, è fortemente influenzata e guidata dai movimenti di pensiero che si formano intorno ai “leaders” di ogni singolo contesto ambientale e temporale! Penso che il mondo e l’Italia, in particolare, non possano piu fare a meno di uomini carismatici che si concentrino sul bene comune e non sull’interesse egoistico personale e/o della loro casta! 18 GIOVANNI MARIA FLICK (Presidente Emerito Corte Costituzionale) Valori etici e Costituzione nei centocinquanta anni di unità. Una riflessione sui valori etici negati nella società contemporanea qui (a Torino, nell’aula del Primo Senato del Regno d’Italia) e oggi (nel centocinquantesimo anniversario della proclamazione di quel Regno) non può che prendere le mosse dal percorso unitario nei centocinquanta anni trascorsi. Una vicenda che prese l’avvio dai moti risorgimentali, dalle guerre di indipendenza e da Roma capitale, per concludere con la guerra del ’15-’18 il primo Risorgimento; che proseguì con il fascismo, la seconda guerra mondiale, la sconfitta e una nuova divisione tra il Regno al sud e la Repubblica Sociale al nord; che ritrovò l’unità nel secondo Risorgimento – assai più concentrato del primo – attraverso la Resistenza, la scelta repubblicana, la Costituzione. Quest’ultima è – anche cronologicamente – centrale in quel percorso, sopratutto perché esprime, nei suoi valori fondanti, il passaggio dal primo al secondo Risorgimento. Nel primo, la nazione si è fatta stato attraverso la condivisione di valori come la tradizione, la storia, la lingua, la cultura, l’arte, il territorio («una d’arme, di lingua, d’altare, di memorie, di sangue e di cor» come si esprimeva Alessandro Manzoni, nel 1821). Sono valori in qualche modo elitari, anche se la partecipazione popolare al percorso unitario (dalla spedizione dei Mille alle cinque giornate di Milano, alla grande guerra) è una realtà incontestabile. Ma nel Dna del primo Risorgimento ci stanno già l’aspirazione alla giustizia sociale e alla legalità, il principio personalista, come testimonia la Costituzione della Repubblica Romana del 1849, che delinea ante litteram il nucleo della Costituzione attuale. Nel secondo Risorgimento, la nazione ha recuperato e vivificato lo Stato – dopo le degenerazioni dell’esperienza totalitaria e nazionalista e gli eccessi del liberalismo – attraverso l’affermazione e la condivisione dei valori fondanti della convivenza: il lavoro, la dignità, l’eguaglianza, la solidarietà, il personalismo, il pluralismo, la laicità, il pacifismo, l’unità e l’autonomia. Sono valori frutto di una scelta e di un compromesso alto (non già di un baratto) fra le grandi correnti ideologiche che furono alla base dei partiti di massa e di élite, protagonisti dalla Resistenza: i cattolici, i socialcomunisti, i liberali (penso alle tre firme di De Nicola, di Terracini e di De Gasperi, in calce alla Costituzione). La Costituzione pone al centro del nostro sistema non più lo stato, come durante il fascismo, ma la persona. Essa si apre – nei principi fondamentali – con l’affermazione dei valori cui ho fatto cenno dianzi; e si articola nella conseguente definizione di una serie di rapporti civili, sociali, economici e politici, in cui sviluppa i diritti inviolabili e i doveri inderogabili di solidarietà, tra loro strettamente legati. Quei valori possono essere efficacemente riassunti nel principio di pari dignità sociale ed in quello di laicità: due principi inscindibili, che non possono fare a meno l’uno dell’altro. La dignità, nell’articolo 3 della Costituzione, esprime un valore di contenuto; sottolinea il rapporto tra l’eguaglianza formale di tutti di fronte alla legge e la eguaglianza sostanziale. Quest’ultima si realizza eliminando le disparità di fatto che impediscono la piena partecipazione di tutti (non solo dei cittadini) alla vita pubblica e sociale; che trasformano la diversità – un valore in sé positivo, di identità – in una condizione negativa di inferiorità. La pari dignità sociale rappresenta la chiave di collegamento tra l’eguaglianza e la diversità e il pluralismo – un altro dei valori fondamentali della nostra Costituzione – attraverso la solidarietà; nonché tra l’eguaglianza di tutti e la libertà di ciascuno. La laicità esprime un valore di metodo: non è menzionata esplicitamente nella Costituzione, ma la Corte Costituzionale la ha riconosciuta quale principio fondamentale e immutabile dello Stato, con una sentenza del 1989, dopo la modifica del Concordato con la Chiesa Cattolica nel 1984. La laicità va intesa non soltanto con riferimento al rapporto tra Stato e Chiesa ed alla dimensione religiosa; ma altresì con riferimento al rispetto reciproco – nella consapevolezza dei propri valori e allo stesso tempo nel rispetto dei valori dell’altro – ed al 19 dialogo, in antitesi alla sopraffazione: accettare l’altro per quello che è. E’ un valore che nasce dall’eguaglianza e dalla libertà religiosa, dal rifiuto del laicismo, ma anche da quello del radicalismo, del fanatismo e dell’intolleranza. I valori costituzionali, nella loro condivisione, devono rappresentare ciò che unisce e non ciò che divide. Il riferimento ad essi consente di dare maggior concretezza al patriottismo costituzionale: la consapevolezza di appartenere a una comunità che li fa propri; una comunità della partecipazione, non soltanto della appartenenza. Vi è un nesso tra i vizi, i limiti, i compromessi, il centralismo e il burocraticismo, le carenze della nostra vita unitaria, nel primo come nel secondo Risorgimento. Ma v’è anche un nesso tra gli eroi dell’uno e dell’altro: i martiri delle battaglie e dei moti risorgimentali e gli eroi della Resistenza (penso alle lettere dei condannati a morte); quelli della fedeltà militare (da Cefalonia ai campi di concentramento) e i sacerdoti assassinati nello svolgimento della loro missione; gli eroi della quotidianità nel nostro tempo (Ambrosoli, Falcone, Borsellino, Livatino e i tantissimi altri vittime del terrorismo e della criminalità organizzata, caduti nel compimento del proprio dovere) fra le forze dell’ordine, i magistrati, gli avvocati, i giornalisti, i sindacalisti, i lavoratori: insomma, fra la gente. Ecco perché è giusto – nonostante la crisi; anzi, proprio di fronte alla crisi – celebrare i centocinquanta anni del processo unitario, “riappropriarci” di esso, rivolgendo “la mente al passato e lo sguardo al futuro” per affrontare “l’angoscioso presente”, come ci ricordava recentemente Giorgio Napolitano”. E celebrare quel processo guardando all’evoluzione del patriottismo, che ai valori su cui si unificò l’Italia aggiunge – non sostituisce – i valori proposti dalla Costituzione per la nostra convivenza. Sono valori oggi, forse, più facilmente percepibili di quelli del primo Risorgimento. Rappresentano un motivo di speranza e di fiducia nel futuro del nostro paese, oltre che una ragione convincente per la celebrazione del suo passato; sono radice del passato e garanzia del futuro. Fra i tanti valori che devono ispirare il nostro modo di essere, alcuni mi sembrano particolarmente importanti, per reagire alla crisi: quelli alla base del federalismo solidale, del volontariato e della sussidiarietà, della dimensione europea. Il federalismo inteso non come coefficiente di separazione, di egoismo, di mera competizione, o di deresponsabilizzazione e di incentivo al parassitismo; ma, al contrario, come collegamento tra il principio di prossimità e il principio di responsabilità. Il federalismo inteso come unità nella raccolta delle risorse e nella gestione delle spese, in chiave locale e di prossimità, affiancando ad esse interventi dal centro che assicurino la perequazione, cioè l’eguaglianza nei livelli fondamentali del nostro vivere insieme. Il federalismo inteso come fattore di efficienza e di coesione, ma anche di solidarietà nei termini in cui esso è stato richiamato dalla Conferenza episcopale italiana, nel corso delle discussioni sulla legge istitutiva del c.d. federalismo fiscale. E’ altrettanto fondamentale l’impegno civile e sociale, attraverso il volontariato. Una modifica del titolo V della Costituzione, introdotta nel 2001, ha reso espliciti il principio della sussidiarietà orizzontale e il riconoscimento che – accanto al pubblico e al privato; al collettivo e al profitto individuale – ci deve essere il cosiddetto terzo settore: il sociale, ossia la partecipazione di tutti. Quest’ultima è l’espressione più significativa e concreta del valore costituzionale fondamentale della solidarietà, che salda fra di loro i diritti inviolabili e i doveri inderogabili. Penso ai numerosi esempi che ci vengono offerti quotidianamente dalle strutture e dalle iniziative del volontariato; al contrasto stridente fra le nuove e diffuse forme positive di superamento della contrapposizione già tradizionale fra pubblico e privato, e la melassa indecente di commistione fra loro, cui troppo spesso siamo costretti ad assistere, sopratutto oggi. Infine, un’altra grande risorsa per il recupero dei valori negati dalla società contemporanea è rappresentata dall’impegno europeo. E’ il profilo rappresentato dall’aver cercato di mettere – effettivamente, non soltanto a parole – i diritti fondamentali e la loro tutela al centro della convivenza europea: prima, attraverso la Convenzione europea dei diritti dell’uomo; poi, attraverso la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea. Eppure anche questo profilo – al pari di quello dell’euro, dell’economia e del mercato – sembra entrare in crisi di fronte ai problemi dell’immigrazione, della sicurezza, della perdita del benessere. Abbiamo 20 toccato con mano, nelle polemiche recenti sull’accoglienza dei migranti, il pericolo – di questi tempi concreto – che la pressione dell’immigrazione risvegli degli egoismi nazionalistici, spinga alla reviviscenza delle frontiere, favorisca l’arroccamento dell’Europa e dei suoi stati membri in una inaccettabile “fortezza del benessere”. Quello europeo – al di là della facile retorica – è un impegno senza soluzione di continuità nel passaggio dalla cittadinanza italiana a quella europea, dai valori del patriottismo costituzionale del secondo Risorgimento a quelli del patriottismo europeo. Un “terzo Risorgimento”, nel quale dobbiamo guardare concretamente non più e non soltanto ai diritti particolari del cittadino, ma ai diritti universali dell’uomo, come ci impongono le esperienze delle due guerre mondiali, della Shoah, delle armi di distruzione di massa, del coinvolgimento delle popolazioni civili, da cui sono nati il bisogno di Europa e il suo cammino verso l’unità. L’unità europea da raggiungere non è meno importante dell’unità italiana da conservare. Rappresenta la nuova dimensione dell’eguaglianza, delle diversità, della solidarietà, della dignità, della laicità, con cui siamo chiamati a confrontarci in un mondo globale, segnato dalle migrazioni di massa, dal terrorismo globale e glocale, dalle patologie dell’economia e del mercato, dall’evoluzione e dalle insidie della tecnologia, dai problemi dell’ambiente e dello sviluppo sostenibile: un mondo nel quale possiamo e dobbiamo essere ancora capaci di proporre una testimonianza di valori, come italiani e come europei. Vorrei concludere la riflessione sui valori etici nel percorso unitario del nostro paese in questi centocinquanta anni, con due diverse esperienze torinesi, molto concrete, legate da un nesso che testimonia la continuità di quel percorso e di quei valori. La prima esperienza è quella di don Bosco. Qui a Torino – quando Vittorio Emanuele II venne proclamato Re d’Italia, il 17 marzo 1861 – a poca distanza dal Parlamento Subalpino operava, da poco più di un anno, la Società salesiana fondata da don Giovanni Bosco il 18 dicembre 1859. Il percorso unitario del nostro paese in qualche modo si intreccia con quello dei salesiani: un impegno sul terreno sociale, nell’educazione, nella formazione professionale e civile, nell’istruzione; quasi a controbilanciare – nel primo Risorgimento – gli effetti del non expedit, la tradizionale laicità della vita politica e l’anticlericalismo allora prevalente. Il progetto educativo di don Bosco era (ed è tuttora) quello di formare dei «buoni cittadini in questa terra, perché fossero poi un giorno degni abitatori del cielo». Esso si traduce in un impegno concreto e fattivo nell’assistenza ai giovani, soprattutto emarginati o provenienti dalle classi sociali più deboli, e si sviluppa su scala nazionale e poi mondiale. E’ un impegno articolato sul piano sociale, culturale, scolastico, educativo, religioso, assistenziale, popolare e massmediatico, che – ben si può dire – ha certamente contribuito a fare l’Italia e gli italiani, e compensa largamente l’astensione, l’indifferenza e anzi la contrarietà di don Bosco ai moti risorgimentali. Un impegno fondamentale, in un contesto – quello della Capitale preunitaria – nel quale lo sviluppo industriale si confrontava con tutto il suo seguito di ingiustizie sociali, alienazione, immigrazione, sfruttamento e abbandono dei ragazzi, spesso destinati al carcere e nel migliore dei casi alla strada; un contesto di moti, restaurazioni e rivalutazioni, avvenimenti e turbamenti, in cui la Chiesa raramente era considerata alleata e più spesso nemica da contrastare; ma in cui destava rispetto – anche negli avversari – la santità degli “evangelizzatori dei poveri”. Primo fra essi fu don Bosco con la sua missione – come diceva – a favore della gioventù “povera e abbandonata”, in condizioni di minorità (non di inferiorità): nella stessa linea dei suoi contemporanei Giuseppe Cafasso, con l’assistenza ai carcerati; e Giuseppe Cottolengo, con l’assistenza ai portatori di gravissimi handicap. Una missione che nell’estate del 1854 – durante un’epidemia di colera che investì Torino – indusse il santo a chiedere ai suoi ragazzi un forte impegno nell’assistenza e nel trasporto dei malati: un impegno in cui l’aspetto sociale era strettamente connesso a quello religioso, poiché don Bosco promise ai ragazzi che non sarebbero stati contagiati, se fossero rimasti in grazia di Dio; ed in effetti nessuno di loro (sembra) si ammalò. Quella missione assunse il significato di una vera e propria rivoluzione sociale, quando – dopo la realizzazione dei laboratori di calzoleria e sartoria, legatoria, falegnameria, tipografia e fabbro ferraio – don Bosco riuscì a predisporre e a sottoscrivere alcuni fra i primi contratti di 21 apprendistato in Italia; ad introdurre una disciplina e una tutela del lavoro minorile, sino ad allora sfruttato in modo vergognoso. Un’anticipazione e un’attuazione – accanto alla dimensione religiosa (dare a Dio ciò che gli spetta) – di valori profondamente laici ed espressivi della centralità della persona, nei termini in cui essa è proposta dalla nostra Costituzione: il principio lavorista, quello personalista, quello di eguaglianza e di pari dignità, quello di solidarietà, quello di sussidiarietà. La seconda esperienza torinese che mi sembra significativa, per una riflessione sui valori etici da cogliere nel percorso unitario del nostro paese, è la storia di un gruppo di giovani, assolutamente “normali”, nella Torino delle leggi razziali, della persecuzione antiebraica e della guerra, della resistenza: una storia del secondo risorgimento, quella del gruppo di frequentatori della biblioteca della scuola ebraica, sita presso il tempio di via Sant’Anselmo, che venne distrutto da un bombardamento nel 1942. Un gruppo di ragazzi che a partire dal 1938 dovette confrontarsi con l’esclusione e il rifiuto della società civile; che dovette prendere le distanze dal regime fascista; che salì in montagna prima per passione, poi per fuggire una società che li emarginava, infine per resistere e combattere contro l’invasore nazista e il suo alleato fascista, dopo le prime deportazioni nell’autunno del 1943. E’ una vicenda – descritta da una recente ed efficace mostra “Il tempo in sorte” – che segna la maturazione e la scelta di campo di quei giovani, il loro legame, la riscoperta e la testimonianza dei valori da parte loro, la loro sorte conclusa per molti con la morte e con il campo di sterminio. E’ una vicenda il cui valore si riassume nell’esempio e nell’insegnamento di Primo Levi, il più conosciuto fra i componenti di quel gruppo: “a molti, individui o popoli, può accadere di ritenere, più o meno consapevolmente, che «ogni straniero è nemico»… ma quando questo avviene... allora al termine della catena sta il Lager”. L’insegnamento di Primo Levi è fondamentale. Esso è il miglior commento che io conosca all’articolo 3 della nostra Costituzione: il richiamo alla «pari dignità sociale» e all’eguaglianza «senza distinzioni di sesso, di razza, di lingua, di opinioni politiche, di condizione personale e sociale». Ed è proprio da qui che occorre ripartire per riscoprire quei valori etici che la società contemporanea sembra aver negato o dimenticato. 22 MARCELO SANCHEZ SORONDO (Cancelliere Pontificia Accademia delle Scienze) L’OSCURAMENTO O ECLISSE DEI VALORI Aspetto teologico, filosofico e culturale La parola «valore» viene del latino volgare valor, connesso con valeo «ho potenza» «sto bene», e, molto probabilmente, con la radice sanscrita bal-a o val-a, che significa appunto forza, dinamismo. Il contrario è l’essere «invalido», ossia quel soggetto che le manca qualcosa che dovrebbe possedere secondo sua natura. Nelle sue varie accezioni, riferito a persona, il valore indica il possesso di virtù intellettuali, morali e professionali, come l’onestà o la purezza di una vita; valore è pure la qualità delle azioni degli esseri umani coscienti e liberi, come gli atti eroici o di santità, oppure il pregio di un'opera umana indipendentemente dal prezzo, come le opere di misericordia; valore hanno anche i beni che non possiedono prezzo, come la luce del sole e l’aria che respiriamo. In filosofia, in teologia e, in generale, nella cultura il valore non ha un significato univoco ma analogo, come la salute che è presente benché in modo diverso nell’equilibrio della natura, nella medicina, e nel medico. Perciò in realtà è meglio parlare dell’oscuramento o dell’eclisse dei valori, perché, in fondo, il valore è come l’essere o c’è o non c’è, to be or not to be. Valore e realtà Dal punto di vista dell’esperienza umana l’ambito dove è più facile individuare la nozione di valore è l'economia. Ciò vale non solo per l'uso moderno di questo termine, ma anche per l'uso antico del termine che, anche nei classici come Platone e Aristotele è riferito, di solito, ad analisi economiche. In un lucido testo che spiega l’origine della moneta, Aristotele nell'Etica Nicomachea osserva che il bisogno costituisce la misura del valore (V, 8, 1133 a 25 ss.). Perciò una visione del valore che prescinda della realtà della natura, dell’ente in generale e del modo di essere dell’uomo nel mondo in particolare, sarebbe difficile da articolare nell'ambito della filosofia ma anche in quello della cultura e della civiltà. Già in Eraclito, nell’aurora dell’occidente, sono presenti assiomi come quello del fr. 112, «la saggezza è la virtù suprema» in cui il valore è ricondotto alla virtù dianoetica e all'etica intera, e a un'etica tutt'altro che dissociata dall’essere e dal divenire della realtà. Infatti, si può ben costatare, il forte rilievo assiologico che gli antichi davano alla stessa realtà: più implicitamente nel pensiero arcaico, mentre esplicitamente soprattutto a partire da Socrate e la sua scuola, con i suoi grandi rappresentanti, Platone e Aristotele. Una visione della gerarchia ed emergenza del valore primo e supremo, che tutto il resto avvalora a misura dei gradi della sua partecipazione, può trovarsi già in quel testo della Repubblica platonica in cui si afferma che il bene «non è essenza, ma qualcosa che, per dignità e potenza, supera di molto l'essenza» (509 b). Lo stesso testo afferma che il bene è ciò da cui gli oggetti conoscibili «derivano non solo l'esser conosciuti, ma anche l'essere e l'essenza». Tale testo, interpretato alla luce della filosofia platonica, e degli altri testi paralleli in cui si parla del fine come ragione ultima delle cose (Phaed., 99 b-c), rivela che per Platone ciò che noi chiameremmo «valore» rappresenta il fondamento per cui ciascuna essenza è ciò che è, e la ragione che fa essere, sia pur nella loro forma partecipata di realtà, anche le cose particolari o i singoli esistenti. Tale bene platonico diventerà in Aristotele il primo motore dell'universo, che, come atto per essenza, muove e causa il divenire e, in qualche modo, suscita e attira a sé come verso l’oggetto amato, non solo perché fine ma anche in quanto motore, lo stesso universo. Così Dio può quindi essere considerato «valore», sia nel senso che è la causa del muoversi e divenire dell’universo, sia nel senso che è sommamente desiderato ed amato, rappresentando il fine ultimo a cui tendono tutte le realtà sia naturali sia intellettuali. Non sorprende, perciò, la bella affermazione del Padre Dante riferentesi a Dio come «lo primo et ineffabile valore» (Paradiso, X, 3), la quale ci presenta il valore personalizzato in una forma che anticipa quella della modernità. 23 L’appartenenza del valore all’essere, che caratterizza la concezione greca, si esprime in San Tommaso con l’aggiunta della nozione cristiana di libertà, sconosciuta nel pensiero classico, mediante la dottrina delle «nozioni trascendentali». I «trascendentali» — verum e bonum — e gli atti umani di conoscenza e libertà, riguardanti la verità e il bene, capaci di realizzare la persona umana, corrispondono precisamente a ciò che noi chiamiamo «valori». Tali «trascendentali», che si possono predicare di ciascuna cosa in quanto è qualcosa, non si aggiungono all'essere — dice San Tommaso — «quasi extranea natura», al modo che la differenza specifica si aggiunge al genere o l'accidentale al soggetto (De Veritate, q. 1, art. 1). Essi aggiungono qualcosa all'essere solamente «nel senso che esprimono un suo modo che nel nome puro e semplice dell'essere rimane inespresso»; non però «uno speciale modo di essere» (questi modi sono le categorie tali come la sostanza, la qualità, la quantità, ecc.) ma «un modo che segue generalmente ogni ente». Uno di questi modi riguarda «la convenienza di un ente ad altro» e questa convenienza è solo comprensibile se si pensa all'anima, «quae quodammodo est omnia» (Ibid.). La convenienza all’essere rispetto alla facoltà appetitiva dell'anima è espressa dal termine bonum, e quella rispetto alla facoltà conoscitiva dal termine verum. Tuttavia perché il bonum è l’ente perfetto e perfettivo (ens perfectum et perfectivum) la facoltà che ha per oggetto il bene, cioè la volontà, è per se stessa capacità aperta all’Assoluto trascendente in quanto fine di ogni fine (ossia fine ultimo) e perciò dotata di libertà padrona dell’atto, dell’oggetto e della configurazione del valore. Infatti: «Il bene, presentandosi come desiderabile, richiama l’idea di causa finale, il cui influsso ha un primato, poiché l’agente non opera se non in vista del fine, e dall’agente la materia viene disposta alla forma: perciò si dice che il fine è causa delle cause (causa causarum). In tal modo, nel causare il bene è prima dell’ente, come il fine è prima della forma» (S. Th., I, 2, 5 ad 1). Anzi: «la potenza alla quale appartiene il fine principale, muove all’atto la potenza alla quale appartiene ciò che è per il fine, cioè il mezzo, come l’arte militare muove a operare l’arte di costruire morsi. E in questo modo la volontà muove se stessa e anche tutte le altre potenze: infatti conosco perché lo voglio, e similmente uso tutte le mie potenze e abiti perché lo voglio» (De Malo, q. 6). Si può dire che l’intelletto precede la volontà, la precede e la guida e si afferma che nihil volitum quin praecognitum (e ciò è evidente non solo col ragionamento ma anche all’osservazione ordinaria come dato di fatto). Sennonché nella sfera esistenziale, che è l’attuarsi della libertà della persona, il rapporto si capovolge ed è la volontà, che prende in mano le redini dell’azione e da «valore» ossia conferisce la qualità morale all’esercizio dell’intelligenza. San Tommaso, contro ogni forma di determinismo sia naturalistico sia intellettualistico, rileva il dominio esistenziale della libertà, e pertanto del riconoscimento del bene come valore, nel comportamento morale della persona. «Si dice buono — egli afferma — ognuno che ha buona volontà poiché mediante la buona volontà noi facciamo uso di tutte le cose che sono in noi. Pertanto non si dice buono l’uomo perché ha una buona intelligenza ma perché ha una buona volontà. La volontà ha per oggetto il fine come oggetto proprio» (S. Th., I, 4, ad 3). Quindi, il valore, come bene riconosciuto dal soggetto umano mediante la sua libertà e come oggetto della volontà, è nella convergenza di tutte le facoltà e abiti, inclusa l’intelligenza, riguardo all’apprensione unitaria dell’ens. Come si vede, questa impostazione del tema è di grande attualità, perché riesce ad arricchire il valore legato all’essere della cultura classica con la nuova nozione cristiana di libertà e viceversa, evitando due scogli. Da una parte, quello di intendere il valore come qualcosa che esista e sussista per conto suo, al modo di creazione pura della soggettività, senza riferimento alla verità, al bene e all’essere, che è la tendenza soggettivistica di quella parte della modernità che segue acriticamente il cogito cartesiano. D’altra parte, si evita di disgiungere il valore dall’attività della valutazione che è l’atto proprio del soggetto umano, mediante l’atto della libertà dell'anima spirituale, che è la tendenza dell’averroismo e in generale del razionalismo classico e moderno. Essere e dover essere Il pensiero di Kant, punto decisivo nello sviluppo della modernità, significa il tentativo più importante, nell’orizzonte di una sostanziale fedeltà al progetto moderno del cogito cartesiano, per il sorgere di un'indagine autonoma sul valore, con il distacco, ancora più netto che in Cartesio, fra i processi della natura e l’attività dello spirito, quelli dominati dalla necessità e questi della libertà, quelli dominati dalla categoria di causa ed effetto, questi dell’imperativo categorico del Sollen. La libertà quindi si determina in se stessa, e ogni diritto e ogni morale si fondano sulla libertà. La razionalità, che non può arrivare alla cosa in sé, è puramente formale 24 e consiste in ciò che quel che deve valere come legge, deve potere essere pensato come legislazione valida universalmente: «Opera — dice Kant — secondo massime che siano suscettibile di diventare leggi universali» (K.d.p.V., Hamburg 1974, p. 36). Tuttavia, Kant corregge il formalismo del Sollen con un’implicazione di contenuto. Infatti, la libertà si fonda nella persona che è fine in sé: «Opera in modo da trattare l’umanità tanto nella tua persona come nella persona del altro, sempre e contemporaneamente come fine e non mai come mezzo» (Grundlegung der Metaphysik der Sitten, in AA, vol. IV, sezione 2, p. 429). E così emerge l’«io penso» come trascendentale a cui fa capo tutta la soggettività e oggettività umana e partire di esso il mondo dei fenomeni naturale, cioè la scoperta dell’ordine cosmico e le sue leggi. Perciò egli può concludere la K.d.p.V. affermando: «due cose riempiono l’animo di ammirazione e di riverenza sempre nuova e crescenti, quanto più spesso e più a lungo il pensiero vi si ferma su: il cielo stellato sopra di me e la legge morale dentro di me». Queste ultime parole nelle quali si compendia quasi tutto il suo pensiero, furono fatte incidere anche sulla sua tomba. Kant usa solo in senso generico la parola «valore» (Wert), dicendo, per esempio, che «tutti gli oggetti delle inclinazioni, hanno soltanto un valore condizionato, perché se le inclinazioni non ci fossero, essi sarebbero senza valore», e che, se non vi fosse altro, «non vi sarebbe assolutamente nulla di valore assoluto» (Ibid., p. 428); nel senso tecnico di valore «assoluto» usa, invece, il termine astratto Wuerde (dignità), più lontano da ogni significato economico e, inoltre, meno soggetto a venire, per così dir, entificato: «Nel regno dei fini tutto ha un prezzo o una dignità... Ciò che si riferisce alle inclinazioni e ai bisogni dell'uomo ha un prezzo di mercato; ciò che favorisce il libero gioco delle nostre facoltà, un prezzo di affezione; ma ciò che costituisce la condizione a cui soltanto qualcosa può costituire uno scopo in se stessa non ha un valore relativo, cioè un prezzo, bensì un valore intrinseco, cioè una dignità» (Ibid., pp. 434-435). La dignità è posseduta, come noto, soltanto dalla legge morale, e dall'essere razionale in quanto persona che ne è il portatore. Lo spostamento d'accento dalla «dignità» al «valore», che si verifica nell'Ottocento e a cui ha contribuito non poco Nietzsche — la cui ultima opera rimasta incompiuta, Der Wille zur Macht (in Werke, Leipzig 1895 ss.), porta come sottotitolo la trasvalutazione di tutti i valori (Eine Umwertung aller Werte) — è anche, implicitamente, uno spostamento d'accento dalla forma al contenuto anche se in Nietzsche per negare la trascendenza ed aprire al nihilismo. Capovolgere in tal senso i valori significa per Nietzsche ritornare a essere fedeli alla «terra», cioè alla natura dionisiaca, al mondo materiale e alla vita biologica, significa abbandonare il «Crocefisso» e riabbracciare Dionisio. Tale capovolgimento deve passare per l’esperienza della «morte di Dio». Ora però la morte di Dio e l’oscuramento dei valori producono l’effetto del vuoto e della notte, come l’area senza il sole, che è riguardo all’essere il nihilismo metafisico, perché viene a mancare l’orientamento alla verità che i valori prima rappresentavano. In tal senso Nietzsche definisce se stesso come «il primo perfetto nihilista d’Europa, che ha già vissuto in sé fino in fondo il nihilismo stesso — che lo ha dietro di sé, sotto di sé, fuori di sé». Inutile dire quanta fortuna abbia avuto questa visione nella cultura attuale che ha recepito Nietzsche non solo dalla filosofia accademica (G. Simmel, K. Jaspers, Heidegger, G. Deleuze, J Derrida, M. Foucault), ma anche dagli ambienti letterari e poetici (S. George, G. Benn, E Juenger, Th. Mann), dalla psicologia (L. Klages, S. Feud) e dalla politica (nazionalsocialismo, movimento della Rivoluzione conservatrice, e via di seguito fino ai nostri giorni con la solita intolleranza di chi si crede superuomo). In Marx la categoria del valor rimanda agli aspetti monetari del capitalismo. La «sostanza» del valor è il lavoro «astratto». Le merci non esprimono altro che oggettivazione del lavoro vivo del salariato, erogato nel processo di produzione, in merito alla forza-lavoro acquistata dal capitale nel mercato del lavoro. La «forma» del valore rimanda all’espressione monetaria della grandezza di valore nell’«equivalente generale» del profitto: la merce capitalistica deve realizzare più moneta di quella anticipata dal capitale iniziale. Il ciclo monetario del capitale s’intreccia con la natura processuale del lavoro astratto che da potenza di lavoro passa all’atto, prima mediante l’attività del lavoratore in forma «fluida», poi nell’opera ossia nel «cristalo» del lavoro compiuto, infine in espressione monetaria del valore. Valore, trasformazione del processo del lavoro, moneta fanno parte di un medesimo processo concettuale. Quando però la forza-lavoro, acquistata a prezzo minimo, viene attuata in lavoro effettivo, il prodotto cioè l’opera di tale lavoro viene ad avere un valore di scambio superiore al 25 prezzo a cui la forza lavoro è stata acquistata. In tal modo il lavoro, cioè l’atto effettivo del lavoro del salariato, ha prodotto un surplus di valore rispetto a quello che la forza lavoro aveva inizialmente, cioè un valore in più, che Marx chiama «plusvalore». Questo plus valore non va all’operario, a cui va solo il salario, cioè quel prezzo minimo a cui il capitalista borghese acquista la sua forza-lavoro, ma va al padrone, cioè al proprietario dei mezzi di produzione, ovvero degli istrumenti e delle macchine, e ne costituisce il «profitto». E’ qui è forte il riferimento a Kant per il ruolo chiave dell’inversione soggetto-oggetto, e soprattutto a Hegel per la dialettica fra soggetto-oggetto (la forza di lavoro è il vero soggetto, di cui i lavoratori singoli sono oggetto a modo di predicato); soggetto-oggetto come di «totalità» (il capitale e il suo profitto sono il soggetto primario e l’oggetto ultimo che mira a porre integralmente i propri presupposti). Dunque la teoria del valor e plusvalore è simultaneamente, teoria dell’alienazione, dell’astrazione reale e della contraddizione. Perché il capitalismo dipende dal rapporto dialettico della lotta di classe, la forza-lavoro è legata indissolubilmente al lavoratore, mentre il capitale si valorizza solamente «sussumendo» dentro di sé quella alterità che è il lavoro in atto, prodotto dai lavoratori — la nozione del valore è anche teoria della crisi e della rivoluzione. In generale, però, l'indagine postkantiana sul valore cerca di cogliere tale contenuto nella sua pura oggettività, sia come l’essere de jure e non de facto, sia come correlato dell'atto intenzionale valutativo. La prima tendenza rappresentata da W. Windelband sostiene che l’essere de jure, ha la validità normativa nei giudizi valutativi esprimenti il dover essere, e, in ultima istanza, nei valori eterni del Vero, del Buono, del Bello e del Sacro. Questi ultimi sono immediatamente evidenti a quella che viene chiamata nihil volitum quin praecognitumcoscienza delle norme» (Normalbewusstsein), alla quale la coscienza empirica fa riferimento come a suo termine di adeguazione ideale nel formulare giudizi empirici nel campo logico (valore del Vero), etico (valore del Buono), estetico (valore del Bello) e religioso (valore del Sacro). Il neokantismo di Windelband è una filosofia dei valori, fortemente caratterizzata in senso etico, al punto che la stessa logica vi appare come una etica del pensare. La seconda tendenza postkantiana si appoggia alla dottrina dell’intenzionalità della scuola del filosofo austriaco neoaristotelico Brentano, e in particolare alla «teoria dell'oggetto» del Meinong, in Austria, e alla «fenomenologia» di Husserl, in Germania. L’intenzionalità è la proprietà degli atti o fenomeni psichici i quali a differenza dei fenomeni fisici che restano in sé chiusi, si rapportano a un oggetto che le qualifica intrinsecamente. Il fenomeno psichico così è quello che nel suo svolgersi è dato come attività psichica in relazione ad un oggetto. Brentano lo presenta in tutta la sua pienezza nozionale: «Ogni fenomeno psichico è pertanto caratterizzato da ciò che gli Scolastici del Medio Evo chiamano la esistenza intenzionale (ovvero mentale) di un oggetto; ciò che noi chiamamo la relazione ad un contenuto, la direzione verso un oggetto» (Psychologie vom empirischen Standunkt, Leipzig 1924, Bd. I, p. 111 s.). Questo rapporto è primordiale perché da esso dipende se l’atto dello spirito può essere detto vero o falso, buono o cattivo, valido o invalido. Ed è soltanto di questi atti o fenomeni psichici che si pone l’istanza di vero e di falso, di bene e di male ovvero di valore in generale e della sua articolazione in particolare. La fenomenologia del valore La teoria dei valori della Scuola di Brentano è, per molti aspetti, continuata dalla linea speculativa Scheler-Hartmann, il cui tratto caratteristico, però, è l'accentuazione fenomenologica del problema, a entrambi gli autori derivante dal contatto anche con Husserl. Nella concezione di Brentano il momento cognoscitivo dell’apprensione dell’oggetto aveva la precedenza sul momento affettivo che veniva trattato come un che di fondato o derivato. Esso invece è elevato a primario e posto alla radice di ogni atteggiamento psichico da M. Scheler. Egli distingue nettamente tra «valore» e «bene»: i beni sono cose che hanno valore (Wertdinge), e che non vanno confusi con il valore delle cose (Dingwert; cf. Der Formalismus in der Ethik und die materiale Wertethik, Halle 1927, 3 [1916], p. 15). La critica kantiana all'etica materiale vale se riferita a un'etica dei beni o di cose, che renderebbe empirico ogni principio morale subordinato ai beni medesimi; non vale, invece, per un'etica fondata sul valore che, pur non essendo formale, bensì materiale, non è, per questo, qualcosa di empirico. Scheler respinge la coincidenza tra l'opposizione formale-materiale e quella a priori - a posteriori (op. cit., p. 49), e ammette che si possa sentire qualcosa che pure non ha nulla di 26 empirico. È questo, appunto, il caso del valore, precluso all'intelletto (il quale è «cieco per il valore così come l'orecchio per il colore», p. 262), e colto, invece, per via emozionale. L'organo emozionale che ci pone a contatto col valore si articola in un «sentire», che coglie i singoli valori, in un «preferire», che ne stabilisce la gerarchia, e in un «amare», che precede il sentire e il preferire alla scoperta di nuovi valori, «come un pioniere e una guida» (p. 268). Siffatta apprensione emozionale non ha a che fare con la sensibilità empirica, perché il valore è una qualità che sussiste del tutto indipendentemente, non è una proprietà connessa con il portatore (il Werttraeger); tanto è vero, osserva Scheler, che la «sfumatura di valore» di un oggetto, p. es. il carattere simpatico o antipatico di una persona, è colto prima ancora che si colga distintamente l'oggetto stesso (p. 13). E neppure si tratta di un sentimento psicologico, bensì di un «sentimento intenzionale», che è «un originario riferirsi o indirizzarsi a qualcosa di oggettivo», il valore; un «cogliere emozionalmente qualcosa» (Fuehlen von Etwas), diverso da un semplice «stato sentimentale» (Gefuehlszustand, p. 262). Il valore, in quanto oggetto, è bensì per Scheler qualcosa che non sussiste come una realtà scissa dall'atto intenzionale della coscienza, e in particolare della coscienza divina a cui tutti i valori, da ultimo, vanno riferiti: ma l'uomo, in quanto tale, è «solo, per così dire, il luogo e l'occasione dell'emergere del valore»: si può studiare in lui il valore nello stesso senso in cui, p. es., in un uomo che cade si può studiare la legge della caduta dei gravi (p. 273). Il particolare interesse dell'uomo, non come essere biologico, ma come «persona», per lo studio del valore sta nel fatto che «l'uomo è il portatore di una tendenza che trascende tutti i possibili valori vitali, e si indirizza al divino o, più in breve, che esso è il cercatore di Dio» (pp. 301302). L'uomo attraversa da un capo all'altro tutta la gerarchia dei valori a cui il «preferire» è legato, e che da Scheler è costruita così: valori edonistici o sensibili, valori vitali, valori spirituali e valori religiosi. Anche per Nicolai Hartmann, che accetta da Scheler la necessaria trasposizione dell'apriorismo etico in un'«etica materiale dei valori» (Ethik, Berlin 1949, 3 [1926], p. 118), l'apprensione del valore ha carattere emozionale, al tempo stesso che contemplativo; essa è accostata da lui alla contemplazione platonica delle idee (Ibid., p. 120), animata dall'eros (Ibid., p. 174). Hartmann dedica un intero capitolo (cap. 16) all'«aseità» (Ansichsein) del valore che, egli precisa in una nota aggiunta alla 2a ed. (1935), non va confusa con quella della «cosa in sé» kantiana, poiché «è null'altro che l'indipendenza del valore dal fatto che il soggetto lo riconosca e non lo riconosca per tale» (Ibid., pp. 149-151). Il valore sussiste indipendentemente dall'esser riconosciuto, così come a elevato a zero continuerebbe a essere uguale a elevato al uno anche se gli uomini non ne avessero coscienza (Ibid., p. 154). Una prova di ciò sta nel fatto che ci si può sbagliare, e anche riconoscere di aver sbagliato, nella valutazione del valore (Ibid., cap. 16): «non il valore, ma la percezione del valore è variabile» (Ibid., p. 158). Ciò che distingue, però, la posizione di Hartmann da quella di Scheler, più fedele alla fenomenologia originaria, è un assoluto realismo, che porta, tra l'altro, Hartmann a capovolgere l'orientamento religioso scheleriano: il valore non ha bisogno di sussistere per una coscienza; e d'altra parte, secondo Hartmann, l'esistenza di Dio renderebbe impensabile la libertà e la responsabilità dell'uomo, quindi il valore morale. Al contrario, per Hartmann, «l'essere morale non è né Dio, né lo Stato, né qualcos'altro al mondo, ma solo il portatore primario del valore o disvalore, e cioè l'uomo» (Ibid., p. 249). Inoltre Hartmann ritiene essenziale al valore il momento del «dover essere» (Sollen): dover essere ideale nell'aseità del valore, a cui nella sfera del reale corrisponde un «dover essere attuale», ovvero l'esigenza di «attualizzazione» del valore da parte del soggetto (Ibid., p. 182) Reazioni antifenomenologiche La corrente fenomenologica ha avuto un grande merito nel combattere il relativismo, sostenuto, p. es., da G. Simmel che, in un articolo pubblicato in Mélanges de philosophie rélativiste (Paris 1912), fa nascere il valore dall'urto del desiderio contro un ostacolo che ne impedisce la realizzazione (pp. 53-54); o da E. Meyer, che intende il valore come il correlato di un bisogno «costante», tale cioè che, se saziato, non si estingue, e se non saziato non affligge con la violenza propria dei bisogni organici (Sein und Sollen in der Wertphilosophie, in «Kantstudien», 39, 1929); o dal discepolo di Rehmke, J. E. Heyde, che in Wert, eine philosophische Grundlegung (Erfurt 1926) definisce come valore assoluto quel valore che, in luogo di restar relativo al soggetto singolo, s'impone a ogni soggetto: teoria non molto lontana 27 da quella di S. Alexander, che, nella relazione su The Objectivity of Value, presentata al «Congresso Descartes» (Paris 1937), sostiene che l'oggettività deriva al valore dal «consenso» umano, attivato dalla «costrizione esercitata dalle menti consenzienti sulle menti individuali» (cfr. anche Beauty and Other Forms of Value, London 1933). Ma l'ipostatizzazione del valore, sia pure in un modo o in una sfera d'essere diversa da quella dell'essere di fatto, aveva portato la fenomenologia non solo a distinguere, ma a dissociare la realtà del valore dalla realtà di fatto, e da ultimo, con Hartmann, a contrapporre l'esigenza di attuare il valore alla fede in un Dio personale. Ciò accade, soprattutto, perché al valore si finisce con l'assegnare un'altra forma d'essere, accanto a quella dell'essere per cui esistono le cose, ed esiste Dio. Tale entificazione del valore ha, evidentemente, qualcosa di mitico; e l'assunzione di una struttura di valori che dovrebbe offrirsi a priori a una nostra particolare capacità di apprezzarli ha un certo sapore d'arbitrarietà: in realtà i valori si offrono a noi sempre incarnati in singoli oggetti, o persone, o situazioni concrete. Alla fondata esigenza di giustificare la pretesa di assolutezza di certi valori si dovrà, dunque, cercar di soddisfare altrimenti che con l'ipostatizzazione del valore in una sfera a sé. Per queste considerazioni sono sorti, nel corso della fine de novecento e l’inizio del nostro secolo, movimenti d'opposizione all'impostazione fenomenologica del problema. Particolarmente viva l'opposizione nel campo della filosofia tomista che insiste sull'intrinsecità del valore all'essere come tale, in base al principio scolastico che «ens et bonum convertuntur»; contro l'«emozionalismo», inoltre, il tomismo propende per un'apprensione intellettuale del valore. Nell'ambito di questa corrente si possono citare la Philosophie der Werte di S. Behn (Muenchen 1930), l'ampio lavoro storico-sistematico di F. von Rintelen, Der Wertgedanke in der europaeischen Geistesentwicklung (I. Halle 1932), nonché Die moderne Wertethik di M. Wittmann (Muenster 1940), e Wert-Sein-Gott di F. Klenk (Roma 1942). Rintelen oppone al Wert-positivismus una definizione del valore come «contenuto significativo (Sinngehalt) che deve essere realizzato come scopo consapevole o inconsapevole secondo i diversi gradi di perfezione» (op. cit., p. 42); e, nella sua indagine di filosofia della storia, Daemonie des Willens (Magonza 1947), riafferma la sua dottrina nella coincidenza di essere e di valore. Altri preferiscono contrapporre alla fenomenologia un'impostazione formale, come Alfred Stern, secondo cui «il grado di valore assoluto di una volontà è misurato dal grado in cui essa si avvicina al superamento dell'opposizione soggetto-oggetto» (Die philosophischen Grundlagen von Wahrheits, Wirklichkeit, Wert, Muenchen 1932). In La philosophie des valeurs (Paris 1936), Stern qualifica come «fronetismo» (cap. II, pp. 35-39) la propria concezione che, stabilendo come criterio di valore una legge formale della relazione soggetto-oggetto, si propone di superare tanto il relativismo quanto l'assolutismo del valore: il primo, perché la legge formale è oggettiva, il secondo, perché, pur essendo oggettiva, riguarda una relazione (soggetto-oggetto). Al metodo fenomenologico, e in particolare alla classificazione dei valori di Scheler, muove appunti R. Le Senne, il quale osserva che ciò che si lascia classificare gerarchicamente non è tanto il valore come tale, quanto la determinazione particolare in cui esso si individua e si limita. In sé, ogni valore è incomparabile a ciascun altro, e non può essere ritenuto inferiore e tanto meno subordinato ad altri (cf. Qu'est-ce que la valeur?, in «Bulletin de la Société francaise de Philosophie», lugl-dic. 1946). Le Senne — che si oppone non solo al nihilismo, ma anche al naturalismo del valore, che rende il valore simile a una cosa trascurando la sua necessaria relazione con lo spirito valutante, nonché al sociologismo p. es. di Durkheim, al soggettivismo psicologico di Ehrenfels e di Ribot ecc. (in Les valeurs et la valeur in «Actes de la Societé Philosophique de langue française», Louvain-Paris 1948) definisce il valore come relazione tra l'eterna sorgente del valore assoluto e i valori storicamente determinati. Il valore «deve per la sua origine, esserci trascendente»: ma «tale estrinsecità resterebbe sterile se il valore non fosse fatto per discendere nella nostra esperienza: tale discesa può essere spirituale solo grazie al concorso degli spiriti umani, per i quali il valore deve rendersi attuale». «Il valore universale deve rifrangersi, e perfino frazionarsi secondo la diversità di sfumature e la profondità dei tagli consentiti dall'unità e dalla molteplicità relativa degli spiriti» (L' expérience de la valeur, in «Giornale di Metafisica», 1948, pp. 94-96). 28 Vivo il senso della partecipabilità del valore ai singoli anche in Lavelle. Per Lavelle il valore sta al bene come l'esistenza sta all'essere: ma mentre bene ed essere non si possono separare, l'esistenza può anche volgersi contro il valore (Introduction a l'ontologie, Paris 1947, p. 99). Il valore è da un lato l'essenza profonda e la ragion d'essere di ciascuna cosa; dall'altro esprime il momento del parteciparsi del bene agli enti particolari e temporali (Ibid., p. 101). Seguendo il fenomenizzarsi psicologico di tale partecipazione, il cap. 7 di Les puissances du moi (Paris 1948), intitolato La rivelazione del valore, senza per nulla fare del piacere o del dolore un criterio del valore, scorge però nella vita affettiva l'attestazione di un nostro prendere parte attiva alla vita dell'universo, senza di cui di valori non si potrebbe parlare: «L'errore più grande è pensare che il valore sia un oggetto che si contempla, mentre, al contrario, è sempre un'azione da farsi e una pratica da seguire» (Ibid., pp. 123-124). Anche chi, d'altra parte, nella più recente filosofia utilizzi per certi aspetti il metodo fenomenologico, come Gaston Berger (cfr. Structure et épanouissement des valeurs, negli «Actes», cit.), innova tuttavia quel metodo profondamente, e cala il valore nella concretezza della vita spirituale: poiché nella coscienza contemporanea è diffusa la convinzione, particolarmente forte proprio a proposito del valore, che il soggetto e la singolarità del suo punto di vista non si lascino «mettere tra parentesi». Da B. Croce il valore o è considerato uno pseudo concetto utile a classificare determinati insiemi di fatti storici, o è ricondotto, nel suo significato positivo, alle consuete quattro categorie in cui la filosofia crociana inquadra la vita dello spirito (cf. lo scritto del 1909: I giudizi di valore, in Saggio sullo Hegel, Bari 1913). Per G. Gentile, valore è l'atto dello spirito, «unificazione di conoscere e volere, di verità e bene, di logica e moralità». La moralità, che nessuno «può fantasticare che abbia valore in sé, senza che egli si adoperi col suo ardore a farla valere attualmente», è, d'altra parte, concepita come «il maggior valore che ci sia, il pregio assoluto, in relazione al quale ogni altra realtà potrà valere»: ora, anche la verità, se ha da esser tale, non potrà essere che questo medesimo assoluto (Sistema di logica, Bari 19222, l. I, cap. 6, § 11, p. 118); quindi il valore è coincidenza di verità e moralità. I movimenti di pensiero o ideologie Dell’estensione culturale e diffusione delle idee filosofiche sui valori sopra esposte nell’ambito del sociale e della politica, due movimenti sono stati i principali protagonisti: uno è l’illuminismo e l’altro è il marxismo. Col nome di «Illuminismo» (corrispondente all'inglese Enlightenment e al tedesco Aufklärung, che significano «illuminazione», e all'espressione francese philosophie des Lumières, che letteralmente significa «filosofia dei lumi», o delle «luci») si suole indicare la tendenza filosofica prevalente nel secolo XVIII, fondata sulla convinzione che la ragione sia la luce capace di «illuminare» o «rischiarare» l'umanità, liberandola dalle tenebre dell'ignoranza, della superstizione e del pregiudizio, e che pertanto gli uomini debbano decidersi a servirsi di essa, rinunciando a farsi guidare da qualsiasi autorità superiore. La «ragione» a cui si fa riferimento non è tanto quella della metafisica (quella che vuole conoscere le «essenze»), ma soprattutto la ragione scientifico-matematica, di cui si sono serviti Galilei e soprattutto Newton per costruire la scienza moderna (la ragione, cioè, che vuole conoscere le «affezioni», vale a dire i comportamenti, le costanti, le leggi della natura). Una ragione, dunque, che non si oppone all'esperienza, ma anzi la presuppone e si muove con nuovi strumenti di conoscenza quasi esclusivamente nell'ambito di questa, come avviene in generale nella «filosofia sperimentale» e in particolare in Locke. Caratteri generali dell'Illuminismo sono pertanto il valore della ragione, cioè di un sapere puramente naturale, costruito interamente dall'uomo (la filosofia, le scienze, le tecniche, le arti), e il rifiuto di ogni rivelazione soprannaturale, in particolare della religione rivelata, o positiva, dei suoi misteri e dei suoi dogmi, considerati altrettante forme di superstizione. Conseguentemente in tal movimento viene esaltata la libertà dell'uomo contro ogni forma di autoritarismo, sia di carattere religioso che di carattere politico, e quindi il rifiuto del dispotismo, della tirannide, della stessa tradizione. Inoltre, l’illuminismo è convinto che esista una natura umana immutabile, costituita appunto dalla ragione, sulla quale si fondano i principali diritti, che è stata spesso repressa dall'autorità e dalla tradizione e che deve invece essere rispettata e difesa. Appartiene anche a questo movimento la convinzione che, grazie alle scoperte della scienza e della tecnica, la storia sia essenzialmente un progresso, sia dal 29 punto di vista materiale che di quello conoscitivo e perfino morale, e che pertanto l'età moderna sia sotto ogni aspetto migliore di quella antica e soprattutto di quella medioevale (ritenuta l'epoca dell'ignoranza e dell'autoritarismo religioso e politico). In fine, è propria dell’illuminismo la tendenza a divulgare le conoscenze, attraverso i dizionari, le enciclopedie, le riviste, i giornali, la conversazione pubblica nei salotti, nei clubs e nelle piazze, al fine di promuovere l'emancipazione di tutti gli esseri umani. Quindi ben oltre il significato filosofico delle loro dottrine, bisogna considerare l’importanza politica del loro progetto di una completa razionalizzazione dell’organizzazione sociale, a partire degli istituti di formazione per continuare in ogni forma di comunicazione. Semplificando l’analisi si potrebbe dire che dal punto di vista sociale l'Illuminismo fu soprattutto la filosofia della classe borghese, impegnata nella rivendicazione dei propri diritti contro il clero e la nobiltà, mentre che dal punto di vista sociopolitico fu la filosofia dei liberali, autori della rivoluzione inglese prima e di quell’americana e francese poi. E dal punto di vista religioso esso fu la filosofia dei «liberi pensatori», disposti ad accettare della religione solo ciò che è dimostrabile razionalmente (la «religione naturale» o «deismo»), oppure pronti a rifiutare qualsiasi religione (ateismo). Le idee dell'Illuminismo trovarono una delle loro più tipiche espressioni nella Massoneria, società segreta che imita nel nome la corporazione medioevale dei «muratori» (in francese maçons), aggiungendovi la qualifica di «liberi», per sottolineare la sua scelta a favore della libertà. La Massoneria si costituì a Londra nel 1717 e si diffuse presto in tutto il mondo (ad essa aderirono artisti come Goethe, filosofi come Voltaire e Diderot, uomini politici come Franklin, San Martin), incorrendo già nel 1738 nella condanna della Chiesa cattolica per la sua negazione degli aspetti soprannaturali del cristianesimo. L'Illuminismo nacque in Inghilterra, dove trovò la situazione politica più favorevole al proprio sviluppo in seguito all'instaurazione della monarchia costituzionale, avvenuta con la rivoluzione del 1688; raggiunse però la sua forma più compiuta, con manifestazioni anche estreme, in Francia, dove divenne il movimento culturale ispiratore della rivoluzione del 1789, ed ebbe importanti sviluppi anche in Germania e in Italia. Con questa visione del mondo, diremmo oggi, secolarizzata non sorprende che fin dagli inizi l’illuminismo abbia fatto dei miracoli e delle profezie il bersaglio principale dei loro attacchi sia negando la loro esistenza o sviandone il significato intesso da Gesù Cristo. Il punto è importante perché nel magistero ordinario della Chiesa cattolica i miracoli e le profezie hanno un valore considerevole in quanto sono l’argomento di credibilità della fede come voleva Cristo stesso: «Se è mediante lo Spirito di Dio che io caccio i demoni, è dunque giunto a voi il regno di Dio» (Mt 12,28). Di fatto è difficile disgiungere la vita del Salvatore dai miracoli e questi continuano ancora come anche le profezie per muovere agli uomini alla conversione, per rinsaldare la fede e scandalizzare ai suoi avversari ed infine a dichiarare certi uomini e certe donne santi, cioè esempi di vita cristiana. Nell’ultimo e più strepitoso miracolo della risurrezione di Lazzaro, morto da quattro giorni e già con i segni della corruzione del corpo, Gesù dichiara alla sorella Marta ch’egli è «la risurrezione e la vita e chi crede in lui non morrà in eterno». «Credi tu questo?». E Marta, trasformata dalla spinta interiore della grazia, gli risponde: «Sì, o Signore, io credo che tu sei il Cristo, il figlio di Dio che deve venire nel mondo». Segue l’incontro con la sorella Maria e Gesù, vedendola piangere, si commosse anche lui profondamente e si sciolse in lacrime. Ripresosi, gridò a gran voce: «Lazzaro, vieni fuori». Ed il morto tornato alla vita, uscì dal sepolcro fra lo stupore dei Giudei presenti (Gv, 10,20 ss.). Era il terzo morto risuscitato da Gesù, dopo la giovinetta Tabita ed il figlio della vedova di Naim. Le circostanze dell’evento che l’evangelista Giovanni, testimone oculare, descrive minutamente, non hanno riscontro in nessuna altra religione. L’avversario più ostinato dei miracoli di Gesù rifiuta anche questo miracolo perché è solo l’evangelista Giovanni a raccontarlo a distanza di sessanta anni dalla morte di Cristo, e dunque considera questo miracolo una mera invenzione dell’evangelista (T. Woolton, A fifth Discourse on the Miracles of our Saviour, London 1728, p.8). A quali estremi può portare il partito preso! La contestazione delle profezie messianiche ha preso vita con lo scritto, pubblicato anonimo, di J. Collins, A Discourse of the Grounds and Reasons of the Christian Religion (London 1724) che suscitò nell’ambiente dei teologi inglesi contemporanei una moltitudine di 30 energiche contestazioni. La tesi del Discourse è sbrigativa: le profezie sono state inventate dagli evangelisti per mostrare l’accordo fra il Vecchio e il Nuovo Testamento ed i riferimenti al Cristo hanno un significato puramente allegorico (cfr. p. 54 ss., spec. p. 61 ss.). E’ sintomatico che ambedue, Woolton come Collins, si riferiscano sia ad un certo Rabbi ebreo sia a Baruch Spinoza (1632-1677), per polemizzare con la religione cristiana; ma, scalzati gli argomenti (storici) delle profezie, dei miracoli e della vita di Cristo, non rimaneva loro che la cosiddetta “religione naturale” che era la posizione di partenza del fondatore del deismo: Herbert de Cherbury. In quanto avversario della religione rivelata ed in particolare del Cristianesimo, il deismo si affermò come critica biblica, sottoponendo i testi sacri, e in particolare il Vangelo di Giovanni, all’esame delle nuove scienze filologico-storiche. Questa opera fu svolta soprattutto da John Roland, e fu successivamente ripresa sul continente con criteri più rigorosi dal Reimarus nei suoi famosi Frammenti di Wolfenbüttel, editi postumi da Lessing. Questi due autori possono essere considerati i fondatori della moderna critica biblica. A questa linea di completa indipendenza dalla teologia patristica e da San Tommaso si è attenuto Kant con il saggio La religione nei limiti della ragion pura, che fu debolmente contestato da Jacobi che oppone al razionalismo ateo di Spinoza una forma di realismo fideistico. Sulla linea del razionalismo religioso deista, fin dagli anni giovanili si è posto invece Fiche con il suo Aphorismen…, ma essendo costretto a difendersi dall’accusa di ateismo, il suo pensiero sfociò in una forma di spinozismo dinamico. Tale approccio razionalista verrà accolto anche da Schelling e soprattutto con più genio e influenza, da Hegel la cui Religionsphilosophie costituisce il testo classico del deismo speculativo in quanto pone Cristo al centro della storia, portatore della libertà per tutti gli uomini, ma lo secolarizza svuotandolo della partecipazione della natura divina come grazia soprannaturale. Marx critica l’ideologia illuminista per essere un pensiero che non si converte radicalmente alla praxis e soprattutto alla prassi rivoluzionaria mistificando la realtà, però conserva dell’illuminismo la visione dell’uomo immanentista, cioè senza alcuna trascendenza religiosa. L’essere umano, secondo Marx, crea la religione, perché è alienato nel suo lavoro e cerca nella religione una consolazione alla miseria reale, cioè economica, in cui si trova. Questo è il significato evidente della famosa espressione: “La religione è il sospiro della creatura oppressa, il sentimento di un mondo senza cuore, lo spirito di situazione in cui lo spirito è assente. Essa è l’oppio del popolo”. Ovviamente, una volta eliminata l’alienazione economica, si prevede che scomparirà spontaneamente anche la religione. Marx elabora un’antropologia sociologica, ossia delle relazione umane nel meccanismo storico del configurarsi delle società basata particolarmente sulle modalità della produzione, che domina tuttora parte della critica della religione secondo il noto principio di Feuerbach che “il segreto (essenza) della teologia è l’antropologia”. Semplificando ancora la complessità della storia si può dire che il pensiero di Marx, e del suo amico Engels, dopo la morte dei suoi autori deviene in Germania la dottrina officiale del partito socialdemocratico, il quale con la Seconda Internazionale (1889-1917) si configurò come il partito guida del movimento socialista europeo che con una molto varia serie d’interpretazioni, procedenti di diverse epoche e configurate secondo differenti tradizioni, temperamenti, circostanze storiche si diffuse con bastante celerità in una parte del globo configurando, con la caduta del nazionalsocialismo europeo dopo la seconda guerra mondiale, il blocco marxista, contrapposto a quello capitalista anglo-americano. La versione più influente del corpo dottrinale di Marx è stata quella di Lenin, che a sua volta è stata reinterpretata in modi diversi. Un’interpretazione ha dato origine al chiamato marxismo-leninismo nella versione della filosofia ufficiale sovietica, la quale ha seguito l’evoluzione della dottrina della rivoluzione permanente propugnata por Trotsky e l’adozione della “linea generale” di carattere stalinista, con le modificazioni poi introdotte dal “deshielo” e dal periodo poststalinista, per passare per la trasparenza di Gorbachoff e finire con la caduta del muro di Berlino nel 1989. Altra interpretazione ha dado origine a dottrine filosofico-politiche non sovietiche, come quelle di Mao Tse-tung e Tito, e ad altra interpretazione prima politicamente pro-sovietiche e poi procinese, però culturalmente indipendenti, come quella di Fidel Castro, anche questa in chiaro processo di cambiamento seguendo un’originale recezione dell’indicazione di Giovanni Paolo II nel suo viaggio a Cuba “il mondo deve aprirsi a Cuba e Cuba al mondo”. Un tentativo di reagire dentro il marxismo alla cristallizzazione di questo come “visione del mondo proletaria” (Weltanschaung proletaria), assurto a rango di dottrina ufficiale, solo suscettibile e interpretabile a partire dalla classe politica dominante, adoperato come 31 istrumento di educazione di massa e come compendio di un approccio sedicente scientifico ai problemi dell’uomo e della società, viene compiuto col movimento che si chiamerà, in contrapposizione a quello sovietico, il marxismo occidentale (K. Korsch, G. Lukas). Una ripresa delle tematiche più filosofiche e meno economiche del marxismo può essere rintracciata nella elaborazione del cosidetto marxismo critico, sviluppato nella scuola di Francoforte (H. Marcuse, M. Horkheimer, T. Adorno, J. Habermas). A questa accezione programmatica più aperta del marxismo può appartenere la opera di A. Gransci, ravvisabile soprattutto nei Quaderni del carcere. Il crollo del muro di Berlino, nell’autunno del 1989, motivato da molte cause ma anche certamente dal magistero profetico e azione pratica del grande beato Giovanni Paolo II che è riuscito a dare un nuovo corso alla storia, può essere considerato come l’evento che simbolicamente chiude la parabola storico-teorica del marxismo. La ripresa dei valori oggi E' chiaro che il Papa Giovanni Paolo II, grande e benedetto al pari di San Gregorio Magno, è riuscito a sconfiggere il comunismo ateo in Europa centrale, ma non è riuscito, almeno nello stesso modo, a invertire e guarire questa tendenza malsana dell’ateismo positivista occidentale alimentato dalle ideologie della modernità, specialmente nei luoghi che una volta erano pieni di fede, come lo dimostrano, fra l’altro, le magnifiche cattedrali che s’innalzano verso il cielo in forma di preghiera, in tutto il vecchio mondo, con una varietà di stili e di bellezza incomparabile. Purtroppo dobbiamo constatare, specialmente in Europa, il diffondersi di una secolarizzazione che porta all’emarginazione di Dio dalla vita, ad una crescente eclisse dei valori fondamentali, alla disgregazione del valore essenziale per la vita sociale, quale la famiglia, e alla degradazione ambientale. Si assolutizza una libertà senza impegno per la verità e per il bene, frutto di certe posizioni della filosofia moderna, e si coltiva come ideale il benessere individuale attraverso la ricerca e il consumo di beni materiali ed esperienze effimere, trascurando la qualità delle relazioni con le persone e i valori umani più profondi. Si riduce l’amore a emozione sentimentale e a soddisfazione di pulsioni istintive, senza impegnarsi a costruire legami duraturi di appartenenza reciproca e senza apertura alla vita. Siamo chiamati a contrastare tale mentalità! Così Papa Benedetto XVI, fin dall'inizio del suo pontificato, ha messo al centro della sua missione petrina e del suo magistero il programma di ricominciare da Dio e da Cristo Salvatore (su cui ha scritto in maniera significativa due libri importanti e di successo, il secondo di recente pubblicazione), e il conseguente scopo di suscitare, a partire dalla rinnovata preghiera e dalle verità del Credo vissute, la gioia profonda della Fede, Speranza e Carità nella Chiesa e in ognuno dei cristiani con l'ulteriore vantaggio per tutte le persone di buona volontà e la pace nel mondo. L’indicata caduta delle ideologie, la crescente secolarizzazione, il relativismo, il nichilismo pratico e l’eclissi dei valori indubbiamente hanno portato a vivere in un periodo di grande tensione e ansietà. Nonostante la ricchezza totale della terra abbia raggiunto livelli mai visti prima, nei paesi ricchi c’è una generale insicurezza, agitazione, insoddisfazione mentre per un quinto dell’umanità, specialmente per i bambini poveri del mondo, c’è fame vera e crescente. Negli Stati Uniti, in Europa e in Nord Africa gran parte dei cittadini crede che i loro paesi non siano «sulla retta via». C’è una sensazione di fallimento del «sistema» e la convinzione che perfino in democrazie consolidate il processo elettorale non riesca a mettere le cose a posto – quantomeno non senza una forte pressione sociale anche di piazza. Il movimento di protesta che ha avuto inizio in Tunisia a gennaio, e che si è poi esteso prima all’Egitto e poi alla Spagna, ha raggiunto adesso una dimensione globale, tanto che sono state occupate Wall Street e le piazze di diverse città americane. Con le crisi che si susseguono, create dai “guru” della finanza e sostenute dagli astuti politici per il proprio rendiconto, il più delle volte formati nelle migliori università d’America, il pessimismo è alle stelle e lo stesso vale per tanti altri popoli che seguono acriticamente il cosiddetto consenso di Washington. Adesso sappiamo che quei guru affaristi e quei politici furbi non hanno disatteso soltanto le aspettative della società, ma addirittura le loro. Gli indignados sono solo la punta dell’iceberg di un’insoddisfazione e protesta sociale diffusa che denuncia la deriva intollerabile dell’enorme aumento delle disuguaglianze, delle promesse di equità non mantenute e di retribuzioni non meritate. Vi è un tema conduttore, che viene espresso dal movimento «Occupiamo Wall Street» con una semplice frase: «Siamo il 99%». Una deriva che oltre ad essere un disvalore, può favorire la 32 “decostruzione” sociale perché è una protesta che non si traduce quasi mai in scelte concrete di riforme. Anzi mentre ci si indigna, le fratture sociali aumentano e, se si evidenziano gli effetti malefici, non si riesce ad avere consapevolezza delle cause e delle soluzioni vere, a rischio di aggiungere violenza alla violenza, sofferenza alla sofferenza. A Madrid, ad esempio, molti degli indignados polemizzavano con i giovani convocati da Papa Benedetto XVI per riprendere da Cristo il cammino di quei valori meno visibili però essenziali per la compattezza della società come sono la fede, la speranza e la carità cristiana. In un simile contesto, è arrivato il tempo di riconsiderare quali siano quei valori che possiamo considerare le fonti basilari di felicità nella nostra vita individuale, sociale, politica ed economica. La ricerca sfrenata di guadagni sempre più elevati sta portando a livelli di diseguaglianza e ansia spirituale mai visti prima piuttosto che rendere le persone più felici o più soddisfatte della propria vita. Il progresso economico è un valore e può migliorare la qualità della vita in molti sensi, ma unicamente se è perseguito insieme ad altri valori in una gerarchia rispondente alla natura umana composta di corpo e anima, che cerca beni di mercato e non di mercato, materiali e spirituali. Siamo invitati, paesi, popoli e singoli individui, sulla base di una dichiarazione fatta a luglio dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite e in vista dell’incontro a Rio de Janeiro della conferenza delle stesse Nazioni Unite sullo sviluppo sostenibile (Rio+20), ad esaminare come le politiche nazionali possano promuovere la felicità che viene senza dubbio con il ritorno ai valori. Tutti possiamo ritrovarci nella comune convinzione dell’importanza di perseguire la felicità invece che il solo prodotto interno lordo. Ci dobbiamo porre la questione di ieri, di oggi e di sempre, con la quale già Aristotele apre la sua Etica e la sua Politica, e cioè quella di come raggiungere quella felicità che “tutti gli esseri umani naturalmente desiderano”, fondata sulle valutazioni forti in un mondo contemporaneo caratterizzato da una rapida urbanizzazione, crescente comunicazione mass mediatica, capitalismo globale e degrado ambientale. La prima questione centrale dell’ordine morale non è soltanto che cosa devo fare, bensì come vorrei condurre la mia vita al cospetto di Dio, di me stesso, degli altri, e del mio habitat? Che la questione dei valori sociali, come la giustizia e la equità, appartenga a questo interrogativo, Aristotele lo attesta già dall’inizio della sua Etica Nicomachea, quando sostiene che la ricerca della felicità non arresta la sua traiettoria nella solitudine della propria perfezione, ma nel contesto della città, della Polis. I valori sociali e la politica indirizzata al bene comune, costituiscono così, in un certo qual modo, l’architettonica dell’etica. Si tratta quindi di sapere come la nostra vita sociale ed economica nella città globale possa essere riorganizzata in maniera tale da ricreare i valori di contemplazione, di preghiera, di comunità, di equità, di fraternità, di fiducia e sostenibilità ambientale che permettono la felicità. L’agenda dei valori per la felicita’ Alla luce di quanto detto sullo sviluppo crescente della riflessione filosofico - teologica sui valori nel corso della storia e dell’importanza decisiva che i valori hanno per ogni pensatore essenziale dall’inizio del pensare con punte altissime in ogni tempo, e aspirando di fare prevalere la dimensione dialogica e sociale sulla pura dimensione «monologica» e accademica, che più volte la tradizione filosofica riflessiva avvantaggia, osiamo proporre un’agenda sul da farsi da considerare tuttavia provvisoria e perfettibile. Secondo, il perseguimento accanito del Prodotto Interno Lordo al punto da escludere qualsiasi altro obiettivo è anch’esso un percorso che preclude il raggiungimento della felicità. Bisogna far funzionare insieme sia la macroeconomia sia la microeconomia, cioè cercare il bene comune in generale e i beni comuni concreti che costituiscono la vita buona di ciascuna persona e non solo di un gruppo o classe che sia. Negli Stati Uniti, in gran parte d’Europa, nell’Occidente in generale, ma non solo, il famoso PIL è aumentato considerevolmente negli ultimi quarant’anni, ma altrettanto non ha fatto la felicità della gente. Al contrario, inseguire acriticamente il PIL ha portato a grandi disuguaglianze di ricchezza e di potere, alimentato l’espansione della povertà nelle nazioni più povere, negli strati più bassi della società di tutte le popolazioni, intrappolando milioni di bambini del globo in condizioni di estrema povertà e causando un serio degrado ambientale. 33 Terzo, la felicità si raggiunge attraverso un approccio alla vita che riesca a riscoprire una sana gerarchia dei valori, sia da parte degli individui sia delle società. Ogni sforzo in questa direzione deve basarsi sulle salde virtù individuali e sociali della verità, della libertà, della giustizia, del primato del bene comune sugli egoismi e interessi particolari, della fraternità e, soprattutto della carità, che è la madre e la perfezione di ogni virtù cristiana e umana. Cinquant’anni or sono, già il beato Giovanni XXIII proponeva codeste virtù a tutti gli uomini di buona volontà nella sua grande Enciclica Pacem in terris dopo essere riuscito a mettere pace fra l’USA e l’Unione Sovietica nel conflitto di Cuba, evitando una guerra nucleare. Infatti, noi esseri umani – dotati di un corpo e di un’anima immortale con intelligenza e libertà nella scelta dei valori – siamo infelici se ci vengono negati i nostri bisogni materiali primari, ma siamo anche più infelici se, nelle nostre priorità, la ricerca di livelli di reddito sempre più alti prende il posto della preghiera, della famiglia, della propria responsabilità vocazione e professionale, degli amici, della comunità, della fraternità. Come società nazionale e globale, una cosa è organizzare politiche economiche per mantenere costante il miglioramento degli standard di vita che permettono gli sviluppi di altre dimensioni delle persone, un’altra è di subordinare tutti i valori della società al raggiungimento del profitto. Tuttavia, in generale, la politica occidentale e orientale emergente (per quello che ne possiamo sapere) sta permettendo sempre di più agli interessi aziendali e finanziari di dominare tutte le altre aspirazioni: preghiera, verità, onestà, fiducia, fraternità, generosità, salute mentale e fisica, e sostenibilità ambientale. In America e non solo – affermano economisti rispettabili e seriamente preoccupati – i contributi delle imprese e della finanza alle campagne elettorali stanno minando il processo democratico e tali contributi fomentano, molte volte, perfino leggi che vanno contro i principi non negoziabili della dignità umana, quali il rispetto per la vita di ogni persona dal concepimento fino al momento della sua morte naturale e il matrimonio fra un uomo e una donna. L’aumento della disuguaglianza e delle leggi contro la dignità umana è il risultato di una spirale viziosa: il criticato «uno per cento» dei cittadini ricchi usa la propria ricchezza per modellare la legislazione in modo da proteggere ed aumentare la propria fortuna e influenza. La Corte Suprema americana, nella famosa decisione Citizens United, ha legittimato l’uso da parte delle corporation di fondi per influenzare la direzione della politica. Quarto, un certo tipo di capitalismo mondiale che tende a prevalere, alimentato da una volontà di potenza nietzschiana (e del conseguente relativismo e nichilismo se non teorico almeno pratico), e in definitiva mosso dal solo profitto, presenta molte minacce dirette alla felicità. Sta distruggendo l’ambiente naturale attraverso il riscaldamento globale e altri tipi di inquinamento sulla base di una falsa filosofia moderna che incoraggia la strumentalizzazione della natura (res extensa), sottomettendola ad un dominio che la tratta come fosse solo qualcosa di materiale, come una specie di plastica, con cui si può fare tutto senza rispetto dei suoi processi e delle sue leggi, al solo beneficio del profitto. Il risultato è che la natura trova varie forme di resistenza, non ultimo la mucca pazza e il cambiamento climatico, mentre nell’uomo si genera uno stato di disorientamento, d’indifferenza e di sradicamento riguardo al suo habitat, o una visione caotica in cui la natura diviene parte della crisi di senso dell’uomo. Altrettanto si deve dire delle centrali nucleari e soprattutto degli armamenti in generale – e delle armi nucleari in particolare – che stanno indebolendo la fiducia sociale e la stabilità mentale, con un apparente aumento della depressione clinica. Nel frattempo, uno sfrenato afflusso di propaganda da parte dell’industria petrolifera e delle lobby nucleari e degli armamenti riesce a mantenere molte persone all’oscuro di queste gravi situazioni. Gran parte dei mass media è diventata canale di sbocco dei “messaggi aziendali”, molti dei quali sono apertamente anti-scientifici e anti-sostenibilità ambientale, con la conseguente crescita di dipendenze da consumo. Si consideri, ad esempio, come l’industria dei fast food usa oli, grassi, zucchero e altri additivi alimentari per creare dipendenze insalubri al cibo. I produttori non possono non essere consapevoli che ciò contribuisce all’obesità che porta fra l’altro alle malattie cardiovascolari, una delle cause principali d’invalidità permanente o di morte. Si dà il paradosso che, mentre l’obesità colpisce ormai un terzo degli americani (e il resto del mondo ricco può finire allo stesso modo, a meno che i paesi non pongano restrizioni alle pratiche aziendali pericolose, rivolta ai bambini, di cibi dannosi alla salute e che creano dipendenza), i paesi poveri soffrono di crescenti carestie e di un’alimentazione non sufficientemente sana. 34 Il problema non è solamente il cibo. La pubblicità di massa contribuisce a generare molte altre dipendenze che implicano pesanti costi per la sanità pubblica, quali l’eccessiva esposizione televisiva e informatica, il gioco d’azzardo, l’uso di sostanze stupefacenti, il consumo di sigarette, e l’alcolismo. Mentre ci sia il profitto si cerca di guardare altrove! Altro detonante di decostruzione sociale che crea dipendenze ancora più gravi è la rivoluzione sessuale che ci propone la pratica del sesso in ogni modo e circostanza possibile come un valore quasi assoluto, senza alcun rapporto con la famiglia e col vero amore al suo interno. Naturalmente anche qui intervengono i moderni strumenti di comunicazione di massa, che, invece di servire per il flusso e il riflusso della verità e del bene, ingigantiscono vecchi e nuovi disordini sessuali, ingannando e schiavizzando la psiche e i corpi dei giovani e non solo. Basti pensare all’utilizzo propagandistico e indiscriminato del corpo femminile, sfruttato anche qui per il puro profitto, con immagini e posizioni perfino grottesche che nulla hanno a vedere con la vera bellezza. È ora che i popoli delle varie nazioni arginino energicamente la dipendenza dalla prostituzione che non rispetta la tanto proclamata realtà che l’uomo e la donna hanno la stessa dignità e costituisce un grave crimine contro l’umanità, nonché l’ampia diffusione di materiale dal contenuto erotico o pornografico, anche in Internet, che sta nuocendo seriamente alla serenità perfino dei minori. Quinto, per promuovere la felicità, dovremmo identificare i numerosi fattori diversi dal PIL in grado di elevare o comprimere il benessere sociale nella misura dei valori. La maggior parte dei paesi investe per misurare il PIL, ma spende poco per mettere a fuoco le cause della salute a rischio, dell’abbandono della fiducia sociale, del deterioramento dell’educazione e del degrado ambientale. Poco si investe nella ricerca delle fonti di energia rinnovabili che hanno accompagnato l’uomo durante tutta la sua esistenza sulla terra, come l’aria, il sole e la forza dell’acqua, mentre oggi si prevede che queste saranno l’energia del futuro se vogliamo sopravvivere e lasciare alle future generazioni un habitat sano. Malgrado le molte affermazioni e le numerose dichiarazioni di intenti, formulate dalle Nazioni Unite e da altre agenzie, e sebbene sforzi significativi siano stati compiuti in alcune nazioni, poco si investe in conoscere ed in elevare i livelli di istruzione ed educazione che permangono straordinariamente disuguali nella popolazione mondiale, nonostante le risorse necessarie per il miglioramento di tale situazione non sembrino fuori dalla nostra portata. Nel corso dell’ultimo decennio uno speciale motivo di preoccupazione è stata la divergente e crescente disuguaglianza, concomitante con la globalizzazione e collegata alle politiche nel campo dell’istruzione, tra paesi sviluppati o emergenti, e paesi che si trovano in una condizione di stagnazione, ovvero che sono bloccati nella trappola della povertà. Vista la crescente importanza dell’educazione, ora più che mai nella storia dell’uomo, perché gli essere umani, con la democrazia, ogni volta sono più responsabili dell’avvenire comune, un’analoga fonte di preoccupazione è rappresentata dal grande e spesso crescente divario tra le scuole frequentate dai vari ceti sociali, dove frequentemente emergono percorsi educativi differenziati e separati. Ancora più allarmante è il fatto che in tutto il mondo circa 200 milioni di bambini e ragazzi che dovrebbero ricevere un’istruzione di base non vengono neanche iscritti a scuola né vengono incoraggiati a farlo. Una volta compresi questi fattori della salute, dell’educazione, della mancanza di fiducia sociale, del declino ambientale, se si è liberi si può agire e reagire. L’inseguimento folle dei profitti aziendali minaccia tutti noi. Per essere al sicuro, dovremmo sostenere la crescita economica e lo sviluppo, ma soltanto in un contesto più ampio: quello che promuove la sostenibilità ambientale, la educazione, l’eguaglianza in opportunità e i valori della testimonianza della verità, della giustizia, dell’onestà e della generosità, che la fiducia sociale richiede. La ricerca della felicità nella terra non dovrebbe essere confinata nel bel regno dei sogni. Sesto, molti contemporanei ritengono che l’influsso del Cristianesimo come pure di altre religioni consista nel plasmare una determinata cultura e un determinato stile di vita nella società. Un gruppo di credenti segnala, attraverso il proprio comportamento, certe forme di vita sociale, che vengono adottate da altre persone, imprimendo così alla società un carattere specifico. Quest’idea non è errata, ma non esaurisce la visione che la Chiesa cattolica ha di se stessa a partire dall’insegnamento e dalla prassi di Gesù Cristo. Senza dubbio, la Chiesa è anche una comunità culturale che influenza le società nelle quali è presente. Tuttavia, essa è convinta di non avere solo creato valori comuni in diverse forme nei vari Paesi, e di essere 35 stata a sua volta plasmata dai loro veri valori di verità, di bene e di bellezza, perché pensa che la grazia supponga la natura e perfezioni il perfettibile della cultura. La Chiesa cattolica è consapevole di conoscere, attraverso la sua fede, la verità sull’uomo e quindi di avere il dovere di intervenire a favore dei valori che sono validi per l’uomo in quanto tale, indipendentemente dalle varie culture. Essa distingue fra l’ordine naturale della creazione e l’ordine soprannaturale della grazia che fa capo a Cristo Salvatore, fra la verità della ragione (sia scientifica sia filosofica, cui la fede il più delle volte apre gli occhi e alle quali l’uomo in quanto uomo può accedere anche a prescindere dalla fede) e la specificità della sua fede cristiana. Come diceva il filosofo spagnolo Ortega y Gasset ci sono popoli che parlano del futuro per la loro giovinezza e vitalità ascendente, per esempio, l’Argentina e il Brasile, altri che sono sette volti centenari e hanno contribuito con diversi valori universali al progresso dell’umanità, ma ci sono quelli popoli ancestrali dove l’uomo si è riscoperto a se stesso in quanto essere umano e fra queste popoli privilegiati c’è Italia. Perché l’Italia poi è la sede degli Apostoli Paolo e Pietro, e dei suoi successori, si può aggiungere che anche la fede cristiana si è radicata e sviluppata singolarmente in Italia in merito ai grandi santi e dottori arrivando a rappresentare i valori più profondi dell’identità italiana, le sue vere radici vive. Fortunatamente, un patrimonio fondamentale di tutti i valori umani universali è divenuto comune nelle dichiarazioni sui diritti dell’uomo dopo la Seconda Guerra Mondiale e nella maggior parte delle costituzioni da quel periodo, perché delle persone illuminate, dopo gli errori e orrori della dittatura, hanno saputo riconoscere la loro validità universale, che si basa sulla loro verità antropologica formulata da San Tommaso con la dottrina dello ius gentium e l’hanno tradotta in diritto vigente. Oggi, nell’agenda per la ripresa dei valori fondamentali dell’essere umano, la Chiesa, ossia l’assemblea dei credenti guidata dalla gerarchia che fa capo al Papa, considera suo dovere primario la nuova evangelizzazione, andando, secondo gli esempi degli Apostoli, sia dalla fede alla ragione che dalla ragione alla fede, per aprire gli uomini alla relazione di salvezza con Dio e Cristo, ma anche per promuovere e difendere, nella totalità della nostra società, le verità e i valori, nei quali è in gioco la dignità dell’uomo e il suo habitat, l’ecologia umana e ambientale. E lo vuole fare seguendo l’esempio degli apostoli Pietro e Paolo che si stabilirono in Roma, in modo che la nuova evangelizzazione segua il modello di quella fondanti degli Apostoli. Infine una nota di ottimismo e di speranza sull’Italia e la sua capacità di rinascere come l’ave fenix alla pienezza dei suoi valori in ogni difficile circostanza sia perché sempre ha saputo riemergere dalle grave difficoltà nel crocevia della storia sia per le ragioni di esperienza tre volte millenaria di umanità sopra esposte ma soprattutto perché con San Tommaso possiamo dire: «E’ per questo fondamento di Cristo, degli apostoli e delle loro dottrine, che soltanto la Chiesa di Pietro (al quale toccò in eredità l’Italia quando gli apostoli furono mandati a predicare) fu sempre salda nella fede. Mentre nelle altre parti, o non esiste o è inquinata da molti errori, la Chiesa di Pietro è invece fiorente per la sua fede ed immune da eresie. Né c’è da meravigliarsene, perché il Signore disse a Pietro: “Io ho pregato per te, che non venga meno la tua fede (Lc 22,32)”». DIDI LEONI: Ora io lancio una piccola provocazione a Marco Boglione. Lei, nel sottotitolo di un suo libro, dice che “imprenditore è bello”. L’imprenditore etico è bello, immagino; ma è possibile? 36 MARCO BOGLIONE (Presidente BasicNet SpA) Io direi piuttosto il contrario: imprenditore “non etico” non è possibile, senza contare che tanti chiamano “imprenditore” gente che non lo è affatto. Ho scritto questo libro, “Piano piano che ho fretta. Imprenditore è bello”, perché quando qualcuno mi chiede qual è la fortuna della mia vita, rispondo che sono state due: una è stata quella di incontrare una persona come Maurizio Vitale (l’imprenditore che a cavallo tra gli anni Sessanta e Settanta creò i marchi Robe di Kappa e Jesus Jeans, n.d.r.), che mi ha aperto un pezzo di mondo; l’altra è che, anche grazie a questa persona, oggi faccio il mestiere che sognavo di fare quando avevo 15 anni. Quando avevo 15 anni sognavo di fare l’imprenditore, ero un bravo ragazzo, un bravo bambino, e quindi avevo tutti i miei valori etici a posto. Io penso che ci sia un solo modo di fare l’imprenditore, quello vero, che non ha niente a che vedere con gli imprenditori di cui si è parla sovente sui giornali: molti sono semplicemente dei trafficoni, dei trafficanti che vengono pizzicati dal telegiornale a fare cose illegali, e quando non hanno un mestiere preciso li chiamano “imprenditori”. Si è parlato tanto di finanza creativa, ma viene da sorridere a pensarci. Quelli non sono imprenditori né creativi: l’imprenditore è una persona che aggrega, che trasforma, e soprattutto che sogna moltissimo. È stato citato prima Steve Jobs, che io – da imprenditore – non finirò mai di ringraziare, perché ha dimostrato con i fatti di poter fare l’azienda con la più grande capitalizzazione al mondo rimanendo se stesso, rimanendo lo stesso ragazzo che era, senza piegarsi alle consuetudini del “così fan tutti” della grande finanza e dell’industria. Steve Jobs si è tenuto su i suoi jeans e ha continuato a sognare, a rinnovare, fino a dimostrare che, così facendo, si riesce non solo a galleggiare e a “sbarcare il lunario”, ma si riesce a vincere a tutti gli effetti. All’inizio ero un po’ perplesso a parlare di etica. Non è la mia materia. Poi, però, ci ho ragionato su e alla fine sono venuto, perché penso che chi fa il mio mestiere lo fa perché pensa che sia etico. Sono convinto che sia etico fare l’imprenditore in un sistema moderno, consolidato e globale, come quello attuale, che si basa su tre paradigmi: democrazia, mercato e capitale. Se noi riuscissimo a far funzionare questa equazione, l’etica sarebbe una conseguenza del buon funzionamento del sistema, che non è il semplice liberismo “arraffa-arraffa”. Questo sistema (democrazia-mercato-capitale, ndr) non è naturale, ma è stato inventato dall’uomo pro domo sua; è un paradigma di gestione della cosa sociale che si basa su questi tre capisaldi, che sono appunto: l’impianto democratico; il mercato visto non come opportunità di liberismo, ma come strumento (poi quando uno ne inventa uno migliore, noi non siamo contrari a priori; anche se, finora, i risultati ci dicono che questo è ancora il sistema migliore); infine il capitale, che deve essere considerato etico, e non – come spesso ancora si sente dire – lo “sterco del diavolo”. Il capitale è altamente etico, ecco perché io credo di fare un mestiere molto etico, e quindi di poter parlare oggi di etica. Il nostro mestiere, l’imprenditore, è utile proprio per capire che l’etica non è una causa ma una conseguenza: essere etici deve convenire, se vogliamo veramente che l’etica ritorni centrale, e io credo che non ci sia altra opzione. Una società senza etica è come un computer senza software, un bel computer che spara numeri a casaccio. Quindi sicuramente l’etica ci vuole. Ma, anche in merito a quello che è successo a livello di globalizzazione, sarebbe pretenzioso e presuntuoso cercare di convincere tutti alla stessa etica. Qualcuno ha il suo Sant’Agostino, altri hanno il proprio Buddha. Perciò è impossibile, in un regime di globalizzazione, convincere tutti a essere buoni – e quindi etici – perché nella migliore delle ipotesi se ne convincerebbe soltanto una parte. Invece bisogna convincere tutti che essere etici conviene, che è poi ciò che io, nel mio piccolo, ho sempre fatto. Io ho sempre pensato che pagare le tasse convenisse e che rispettare le leggi convenisse, e ciò per ragioni etiche molto elevate, quali ad esempio la libertà. 37 Tranne in pochissimi momenti, nel mondo occidentale cosiddetto civilizzato le leggi sono sempre state fatte per aumentare il tasso di libertà, non per ristringerlo. Si parla sempre di etica, ma secondo me non c’è nessuna etica negata. Certo, non bisogna arrivare a pensare di avere solo diritti, altrimenti le cose non funzionano. Se per ragioni di etica uno pensa che si abbiano tutti i diritti, ecco che poi uno sente di avere anche il diritto di non rispettare la legge, ed è naturale – a questo punto – che vada tutto in crisi. Quindi bisogna fare un ragionamento, forse un po’ provocatorio, almeno per quanto riguarda il nostro Paese, ed è questo: se tu vai dal panettiere, lui ti dà il pane non perché è buono, ma perché gli conviene. Questa cosa è vera e sacrosanta: il panettiere ti dà il pane perché a lui conviene. Quindi, per un imprenditore, essere etico è l’unico modo per fare il proprio mestiere, altrimenti gli tocca fare qualcos’altro: “arraffare” in fretta e poi “telare”... Io credo che sia importantissimo per un imprenditore agire correttamente, e l’ho detto tante volte: io sento di essere etico non perché sono buono, ma perché sono furbo. Tutti gli atteggiamenti fortemente etici che adotto nei confronti del mercato – per esempio la lealtà, la gratitudine, il mettere prima le persone che hanno più bisogno in azienda rispetto a quelle che ne hanno meno, i più deboli anziché i più forti, e così via – mi tornano a casa come pagamento della fatica che ho fatto, e quindi anche con il sacrosanto profitto. Proprio come quello del fornaio: un profitto che io non ho nessuna voglia né intenzione di nascondere, perché non c’è niente di male. Anzi. In un sistema di “democrazia+mercato+capitale”, la democrazia e la cosa pubblica sono lì, apposta, per ridistribuire la ricchezza prodotta dagli imprenditori. Per questa ragione il problema dell’etica negata non esiste, perché – a un certo punto – qualcuno ha inventato la democrazia e mica l’ha inventata perché ci fosse caos: l’ha inventata perché ci fosse sempre qualcuno nella cabina di pilotaggio del Paese, anche se oggi – se usciamo e chiediamo a un ragazzo che cos’è la democrazia – lui risponde “ciò che mi consente di fare e dire quello che voglio”, che poi è esattamente il contrario di ciò per cui la democrazia è stata inventata. Anche per questo motivo, oggi, soprattutto ai giovani, manca la speranza… Se tu oggi vai da un ragazzo e gli chiedi “che cos’è il lavoro: un diritto o un dovere?”, lui ti risponde “è un diritto perché io sono italiano e, come dice la Costituzione, ho diritto a lavorare”. Sbagliatissimo: lui ha il dovere di lavorare! Oggi c’è bisogno che qualcuno dica a questi ragazzi, che sentono sempre che gli manca qualcosa (e che sono anche gli anelli deboli della nostra catena sociale, perché non hanno l’esperienza), che hanno già tantissime cose. Sarebbe il caso che questi ragazzi cominciassero a chiedersi che cosa possono fare loro per la società, mentre c’è sempre qualcuno pronto a dire loro che la società gli fa mancare qualcosa. Ecco, forse con questo sistema si potrebbe innescare un meccanismo virtuoso, come quello del fornaio, e potrebbe ricominciare a esserci – se non un’aspettativa – almeno una speranza di benessere. Sarebbe ora che i comportamenti rientrassero a cinghia di trasmissione di quel motore (democrazia+mercato+capitale) che, obiettivamente, ha dato grandissimi risultati in termini socio-culturali. Adesso c’è forse un po’ più di liberismo, associato a una comunicazione fuori controllo, ma credo che – in tutta la storia dell’uomo – non abbiamo mai sperimentato una situazione di benessere diffuso, di diritti e di libertà come quella che abbiamo a disposizione oggi. È non è cosa di poco conto. Grazie. DIDI LEONI: Grazie a Marco Boglione. Allora essere etici conviene: lei ci permette di usare gratuitamente questo slogan per una campagna, magari da indirizzare ai giovani? MARCO BOGLIONE Quasi quasi vi pago… All’interno dell’azienda (BasicNet, ndr) abbiamo una piccolissima casa editrice che ha pubblicato un libro proprio su questo tema. Si intitola “Contro l’azienda etica. Per il bene comune”: un piccolo trattato sul fatto che bisogna essere etici non perché siamo buoni, ma perché siamo smart (furbi, svegli, intelligenti, ndr). È una lettura che vi consiglio vivamente, a Torino potete trovare il libro alla Luxemburg: costa solo 8 euro, e oltretutto ve lo rimborsiamo con uno sconto di pari importo nei nostri negozi… 38 MIMMO CANDITO (Giornalista e scrittore) Sono invitato a compiere un processo di sintesi di quanto è stato detto, ma ho qualche perplessità perché tanta varietà di interventi, tale diversità di collocazioni culturali e ideologiche, rendono presuntuoso, oltre che fortemente penalizzante per la qualità di interventi, immaginare una sintesi. Però, certo, di fronte alla nettezza del tema che è stato proposto alla nostra attenzione non posso non partire da quello che ormai è diventato un territorio attraversato comunemente da tutti, e cioè la definizione di Zygmunt Bauman del vivere noi oggi in una società liquida, una società nella quale mancano sostanzialmente gli ancoraggi che finora avevano consentito un andamento in qualche modo organico dei processi della storia e dello sviluppo delle società; si naviga, quindi, all’interno di un percorso di cui poco si conosce e che poco può offrire alla elaborazione diretta, conseguente. Tanto più che, come dice ancora lo stesso Bauman, viviamo in un tempo “puntillistico”, un tempo nel quale ogni momento viene vissuto come autonomo, un punto chiuso, una monade serrata e indifferente a tutto ciò che precede e tutto ciò che seguirà, annullando in qualche misura il concetto della Storia e il valore stesso della conoscenza come capacità di valorizzare gli elementi essenziali del processo evolutivo - non soltanto cronologico - del tempo. Nel mondo rapido e onnivoro dell’elettronica, son saltate via le categorie sulle quali tutti quanti noi abbiamo costruito la “conoscenza”, cioè le categorie del Tempo e dello Spazio; e diventa quindi difficile fare un percorso cognitivo coerente e consapevole, perché il cambiamento che stiamo vivendo si pone con i caratteri propri della mutazione genetica. In quest’aula di un Parlamento che mi piace ricordare come la radice della mia, della nostra, identità di italiani che si riconoscono nel percorso sì contraddittorio della storia nazionale, ma un percorso che ha trovano nella Costituzione repubblicana la sintesi alta di tutte le storie che hanno preceduto il nostro tempo di oggi, in quest’aula ci appare manifesto con una rapida occhiata che l’età media dei presenti supera, e di molto, i 15 anni o i 20 anni anagrafici; questo vuol dire che fuori da quest’aula c’è tutto un mondo di “giovani”che noi presumiamo di conoscere, magari anche di rappresentare, ma che forse, forse, non conosciamo autenticamente. Uno studio recente, un’analisi sollecitata da MTV, ha individuato una nuova categoria sociale, quella della “net generation” o, se preferite, dei “digital born”, cioè di coloro che sono nati e che vivono da tempo nell’era digitale, la stessa che ha portato, appunto, alla società fluida e al tempo puntillistico; da questo studio venivano a disegnarsi dei ritratti di giovani - coloro che qui ora non ci sono - piuttosto interessanti, in rottura con i “pregiudizi” che spesso ci accompagnano nell’analisi dei movimenti giovanili. Questi ritratti anticipavano in larga parte quello che poi, negli ultimi tempi, si è espresso concretamente con il fenomeno degli Indignados, gruppi spontanei di individui che non si riconoscono nel progetto dominante delle società sviluppate, società fondate sul dominio mercantile del capitale e della speculazione finanziaria. Ne veniva il profilo complessivo di una società post-ideologica, che si riconosce poco quindi nelle valutazioni che invece ne erano state generalmente fatte in forma, diciamo, pregiudiziale. Questa discrasia tra un’ottica di lettura della realtà diversa dalla identità della realtà mi porta un po’ a servirmi delle riflessioni che nascono dalla mia esperienza professionale nell’ambito dei problemi politici internazionali. Possiamo prendere come esempio d’uso per aiutarci a riflettere su questa discrasia che crea misconoscenza della realtà il concetto della “stabilità” (la stabilità strategica, o la stabilità 39 politica, o la stabilità diplomatica): sarà molto facile che siamo portati a considerarlo come un valore astratto, teorico, anche a-storico, ma sempre in sé positivo, la “stabilità” come dato progettuale immutabile, mentre invece la sua identità può vivere – ed essere dunque strumento d’uso - soltanto all’interno d’una cornice di interessi e di fenomeni i di netta concretezza, dove la positività diventa inevitabilmente un giudizio storicamente relativo. Guardiamo a quanto sta accadendo in questo tempo d’oggi in un paese cardine del Grande Medio Oriente, sulle coste del Golfo. L’Iran è un Paese fortemente interessato alla “destabilizzazione” (cioè a una messa in crisi della attuale “stabilità”) nell’area medio orientale perché, in difesa dei propri interessi nazionali, ritiene di avere una grande capacità potenziale di sviluppo della propria presenza in quel terreno, in quello scacchiere, e tenta dunque di guadagnarsi un ruolo legittimamente più forte all’interno degli equilibri geopolitici nell’area. Noi nel nostro mondo, che puntiamo tutto sulla stabilità quale essa è ora, vediamo questo tentativo dell’Iran come un elemento negativo, critico, da condannare. Ma è una condanna da dare in assoluto, pregiudizialmente, perché conflittuale con la stabilità? oppure una condanna come risultato d’un giudizio che ha alla base la difesa di interessi politici di parte, storicamente determinati? Rientriamo allora all’interno della tematica di questo convegno, e le considerazioni appena fatte riportiamole alla problematica di questi giovani che in qualche misura tendono a non riconoscersi nelle definizioni dell’etica che sono state date così dottamente qui, giovani che appaiono negarla mentre ricercano un’etica “altra” nel gioco della stabilità/destabilizzazione (per essere più chiari: etica=stabilità e altro=destabilizzazione). Non intendo esprimere su questa dialettica un giudizio valutativo, ma piuttosto intendo richiamare la necessità di non sottrarsi al confronto restandocene asserragliati sulla navicella delle nostre certezze, delle nostre sicurezze quando parliamo di etica e di valori. E’ stato fatto qui un percorso molto dotto, molto interessante, sull’evoluzione del concetto di valore e di etica; però, rispetto a questi giovani, cosa offre la politica quale strumento per la realizzazione concreta di questi “valori”, in una società e in un tempo definiti? Qui,negli interventi che mi hanno preceduto, la politica si è autorappresentata con una identità forte, orgogliosamente alta. Ma, nella realtà del nostro oggi, vediamo che fuori da questa sala, lontano da questa piazza, la politica si manifesta invece in una forma molto diversa, molto più povera di etica e di valori, spesso negatrice di questi principi che tanto esalta nelle parole, e i giovani la vedono per come essa si realizza concretamente, al di là delle definizioni alte che le vengono date, qui o altrove. E anche la Chiesa, che qui ha rivendicato un ruolo straordinario di interprete legittima e coerente dei principi che sostanziano l’eticità del vissuto, come si misura con il silenzio invece lungamente praticato su quanto andava accadendo nel nostro Paese? sul detrimento quotidiano che la politica praticava dei valori dell’etica? Questa discrasia, questo linea netta di frattura tra valori enunciati e pratica vissuta, questo, i giovani lo vedono; e legittimamente lo mettono in discussione , e lo rifiutano. “Destabilizzano” ciò che noi rivendichiamo come “stabilità”. Il nostro compito, allora, è tentare di capire perché stia accadendo questo, capire cioè perché siamo qui a discutere di etica, e di valori negati, nella nostra società. 40 Qualche tempo fa è apparso su un grande quotidiano nazionale il racconto di un episodio molto interessante, visibile ancora in un filmato che credo circoli in Youtube. C’è uno studente che sta intervistando una sua insegnante, e mettendole il microfono davanti alla bocca le chiede: “Professoressa ma lei quanto guadagna dalla scuola?”. Qui, in questa nostra sala, ci sono molti professori, che sanno bene quanto sia amaro il loro salario come misura del riconoscimento che viene dato al loro compito di costruzione di un sapere, e sanno bene come sia inevitabile riconoscersi nella risposta che la professoressa dà alla domanda. “Sai, ovviamente il nostro stipendio non è adeguato all’impegno che ci viene richiesto”. Arriva allora la seconda domanda dello studente: “Ma lei, professoressa, ha mai pensato di fare la prostituta e guadagnare di più?”. La professoressa si stupisce, resta imbarazzata: “Ma insomma, cosa c’entra questa cosa qui? Che domande fai?”. Il ragazzo incalza, reso libero dallo sbandamento della sua insegnante, ponendo una terza domanda ancora più provocatoria. Una società è tale – cioè, è “societas” – quando i suoi “soci” vi si riconoscono, riconoscono le identità e i ruoli che la fanno “societas”. Se questo riconoscimento salta, se saltano i valori che la identificano, essa non è più una società, ma un accozzaglia si soggetti individuali (che tali sono anche quando legati da interessi corporativi). Ora, non v’è dubbio che la reazione di quell’insegnante sarebbe dovuta essere ben altra, già alla impertinenza, anzi alla spudoratezza, della seconda domanda. Perchè è la debolezza della reazione a questa domanda che porta poi alla incredibile formulazione della terza. Ma la reazione non sarebbe dovuta essere tanto a difesa della stessa insegnante quanto a difesa di ciò che essa rappresenta: lei non era lei, in quel momento, lei era la Scuola, il Sapere, la Cultura, la civiltà di un popolo. Di una società. Se non si dà riconoscimento e forza alla identità dei ruoli, se non se ne difendono le ragioni e l’operare, allora cessa di esistere anche la “societas”. Quindi, nell’ambito di questo convegno, simbolicamente, è la reazione impacciata, debole, incerta, della professoressa che finisce per togliere forza alla credibilità dei valori che in quell’aula e in quel momento l’insegnante professava. Se non v’è coerenza tra ruoli assegnati e capacità di interpretazione , allora serve a poco denunciare la “negazione” dei valori e dell’etica: sarà solo un “piangersi addosso” che non porterà ad alcuna efficacia d’intervento se non è accompagnato da una responsabilizzazione. Ma c’è dell’altro. I ragazzi di oggi sono portatori “naturali” (i digital born) di un sapere che per noi “adulti” qui riuniti è, invece, un progetto, una conquista, e non sempre riuscita. Questo sapere è il sapere digitale, l’uso rapido e pragmatico della comunicazione informatica, il possesso di un linguaggio che noi avvertiamo come estraneo alle nostre abitudini della comunicazione sociale. Siamo dunque noi, che dovremmo essere i depositari e i comunicatori del Sapere, siamo noi che invece finiamo per dipendere dai nostri ragazzi; se ne produce, di conseguenza, un ribaltamento dei ruoli, che non può non incidere drammaticamente sulla qualità della rappresentazione della cultura dell’etica, e della affermazione dei valori, che qui stasera sono stati illustrati da tutti noi Perdiamo, dunque, autorevolezza, e credibilità. Con ancora un’aggiunta di peso. I ragazzi di oggi (la net generation, i digital born) hanno quasi sempre una loro paghetta settimanale, una loro autonomia economica; e quindi, non dipendono se non indirettamente da coloro che sono “i portatori dei valori”. 41 Questa “indipendenza” finisce, anch’essa, per rafforzare un sentimento di alterità che poi, nei comportamenti, si traduce in distacco e in rifiuto tendenziale di identificazione con la società degli “adulti”, quella che è portatrice dei “valori” (di quella “stabilità” che definivo). Il modello di riferimento su cui è stata costruita l’attuale identità dell’etica è oggi in crisi, e se appare in crisi il modello allora è in crisi anche l’identità definita dell’etica; e, di seguito, i suoi valori si mostrano incapaci di dare una risposta funzionale alle attese e alle aspettative di larga parte della società del nostro tempo, la net generation ma non solo quella. La classe de-ideologizzata che veniva disegnata dallo studio de Mtv - la classe degli “indignados” e dei disoccupati cronici impossibilitati a trovare un lavoro – manifesta apertamente il suo distacco (l’alterità) da questa società e dunque dai valori nei quali essa (spesso soltanto a parole) dice di identificarsi. Nell’aprire questo intervento citavo Bauman, e la società liquida, e il tempo puntillistico. L’ecosistema nel quale si manifesta la crisi dei valori riflette il mutamento delle identità che noi qui, quest’oggi, abbiamo tentato di rappresentare. La ricognizione delle difficoltà di relazionarsi all’interno d’una accelerazione straordinaria dei fenomeni sociali ha costituito il tessuto dei nostri interventi; credo che ne usciamo tutti con una più intensa consapevolezza di quanto drammaticamente estese siano le dimensioni della problematicità analizzata da tutti noi. 42