Essere e Verità da Hegel a Nietzsche

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Seminario per il Dottorato in Scienze Filosofiche (23/02/2012)
Su ‘pensiero ed essere’ nel cominciamento della Logica di
Hegel
Nicola Russo (Università di Napoli “Federico II”)
In questo seminario leggeremo alcune pagine della Logica di Hegel, con l’intenzione di
dimostrare che essa è il testo chiave dell’ontologia moderna e la realizzazione ultima e in qualche
modo definitiva del progetto ontologico platonico e, più in generale, antico 1. Un compimento
talmente integrale, che dopo di essa un’ontologia fondativa non è più possibile, sono possibili solo
un’ontologia negativa, come è innanzitutto quella di Nietzsche, fenomenologica o ermeneutica.
Un compimento nella sua natura ultima moderno e cristiano, non greco, e che tuttavia deve
moltissimo agli antichi, dei quali Hegel aveva una conoscenza molto diretta e profonda, del tutto
evidente già nel suo stesso progetto filosofico, più ancora che nella sue Lezioni di storia della
Filosofia, dove anzi quella conoscenza è in qualche modo orientata e accomodata dialetticamente
alle esigenze sistematiche della filosofia della storia (della filosofia). Ma nelle opere più speculative
di Hegel, a partire proprio dalla Logica, e spesso nelle sezioni in cui polemizza contro la filosofia
moderna, dimostrandone il tradimento delle questioni filosofiche fondamentali, emerge la sua
familiarità soprattutto con i testi platonici e ancor più aristotelici. Familiarità e penetrazione tale –
non comune ai suoi tempi –, che non credo sia azzardato dire, che proprio essa lo abbia messo in
condizione di pensare in maniera più profonda e consapevole, più coerente e complessiva, i principi
dell’idealismo, orientandoli in direzione della sua costruzione sistematica, il cui cardine è proprio la
Logica2.
Logica che è un’ontologia nel senso più rigoroso possibile, nel suo senso originario come
teoria non dell’essere, ma del nesso ontologico: in essa, infatti, Hegel riprende del tutto
esplicitamente e consapevolmente il compito antico di pensare l’unità di logos e on (che nei termini
moderni è quella di soggetto e oggetto, forma e contenuto, pensiero ed essere, certezza e verità…):
ossia legge il pensiero antico precisamente come luogo ove quell’unità è stata intuita e ricercata,
seppure in maniera esteriore e incompiuta 3. E come vedremo mette in relazione questo intento con
una critica alla separazione moderna, che è radicale, ma cui pur riconosce, nella forma più compiuta
del kantismo e poi della prima filosofia idealistica, il merito di aver fatto emergere e imposto una
1
Così anche M. HEIDEGGER, Nietzsche, a cura di F. Volpi, Adelphi, Milano 1994, p. 437: «L’ultimo e al tempo stesso
più grandioso tentativo di pensare, percorrendole, le categorie, cioè i riguardi secondo i quali la ragione pensa l’ente in
quanto tale, è la dialettica di Hegel, a cui egli ha dato forma in un’opera che reca il titolo genuino e adeguato di Scienza
della Logica».
2
D’altro canto, si potrebbe argomentare a contrariis che proprio per questa sua coltivazione della metafisica antica, pur
perseguendo Hegel una filosofia cristiana, abbia finito per immettervi elementi e per darle un orientamento in qualche
modo comunque greco ed estraneo ad un principio della fede cui rimane intrinseco il credo quia absurdum: da qui le
critiche al carattere di perfetta ostensività del divino, proprio dell’Idea assoluta della Logica, che finirebbe per rendere
superflua la rivelazione.
3
Vedi Introduzione, p. 26 (I: 38). Si cita dall’edizione italiana Laterza, tr. di Moni, rivista da Cesa. Tra parentesi,
preceduto dal numero del volume, il numero di pagina dell’edizione tedesca in due volumi della Suhrkamp, sulla base
della quale ho modificato la tr. it. ogni volta che mi è parso necessario.
volta per tutte il «principio soggettivo». Principio a partire dal quale una ricomposizione del nesso
ontologico può darsi e deve darsi non più nello spazio dell’ente, ma in quello del logos, che però è
destinato così a trascendere i limiti dell’intelletto soggettivo e a farsi ragione del reale e reale come
ragione, logos con la lambda maiuscola, Logos come theos.
Questo il progetto complessivo: vediamo ora come si articola nei suoi momenti
fondamentali, concentrandoci proprio sulla questione ontologica.
Cominciamo con alcune annotazioni introduttive, leggendo brani dalle due prefazioni e
dall’introduzione alla Logica, e limitandoci per il momento a mettere in relazione una serie di nomi
e di definizioni hegeliane, che poi approfondiremo entrando nel cuore del testo. Faccio comunque
notare che già queste pagine sono molto importanti, sia per il loro contenuto, sia anche per il
momento in cui sono state scritte: mi riferisco in particolare alla II Prefazione, scritta poco prima
della morte di Hegel e che è la sua ultima parola intorno al sistema.
Nella prima Prefazione, Hegel si rifà subito, immediatamente, al nesso scolastico tra
«ontologia, psicologia razionale, cosmologia e teologia naturale» (3), la cui unità è la Metafisica,
un’unità che, in particolare nella sua forma wolffiana, era stata disarticolata nella Critica della
Ragion pura di Kant. E mette in luce come, ai suoi tempi, alla completa dissoluzione dell’ideale
metafisico, popolarizzata nella vulgata kantiana, corrisponda un analogo svilimento della logica,
ridotta a una scarna dottrina formale delle argomentazioni. Il rapporto tra metafisica e logica è qui
presentato ancora come quello tra due discipline differenti, ossia per come si era storicamente
realizzato sin dal medioevo, ma nell’introdurre la Logica parlando di metafisica Hegel dà un primo
segnale delle sue intenzioni.
Contro quei due eventi, infatti, è proprio quell’unità della metafisica, seppur profondamente
modificata, che egli vuole rifondare, recuperandola dopo la sua dissoluzione kantiana in una forma
del tutto nuova: non più quella del pensiero riflessivo o dogmatico, bensì di quello speculativo. E
l’essenza di questo pensiero si dà nel modo più puro nella coincidenza, che egli vuole esporre, tra
logica e metafisica, e più in particolare tra logica e ontologia: «la scienza logica costituisce la vera e
propria metafisica ossia la pura filosofia speculativa» (5-6). Vale a dire, che essa non ha a che fare
solo con la correttezza formale del collegamento tra proposizioni, né solo con le categorie
dell’intelletto – come nell’analitica trascendentale di Kant –, ma che invece nel suo sviluppo
dialettico – che egli qui chiama «metodo assoluto» e «sviluppo immanente del concetto» – articola
in sé tutti i momenti ideali, ben oltre le sole idee trascendentali della dialettica kantiana – le «pure
essenzialità» dice qui (7) – dell’unità tra razionale e reale, e quindi tutte le forme di quella vecchia
metafisica in un’unità sistematica e speculativa, che attende poi di esplicarsi e compiersi nella
filosofia della natura e in quella dello spirito.
La pretesa di Hegel, insomma, è che il «puro sapere» (ibidem) possa e debba contare solo su
se stesso, senza presupporre nessun oggetto o nessuna legge, nessun metodo estrinseco alla sua pura
esplicazione in sé, come «spirito che pensa la sua essenza»4.
Ma questa coincidenza di logica e metafisica, con cui Hegel apre anche la seconda
prefazione, cosa significa esattamente? In chiave storica, Hegel asserisce che la metafisica e la
logica antiche approcciavano il loro contenuto come un «materiale esterno» 5, mentre la sua «nuova
impresa» è quella di «esporre il regno del pensiero filosoficamente, vale a dire nella sua propria
immanente attività, o, che è lo stesso, nel suo sviluppo necessario» (9; I:19). La Logica, dunque, è
innanzitutto l’autoesposizione del pensiero a se stesso, nel suo movimento puro, in cui metodo e
contenuto coincidono. Non dunque nella sua figura riflessa, come complesso di leggi e forme del
pensiero, ma nella sua dinamica, ossia propriamente come «pensare». La Logica, in tal senso, non è
l’esposizione di pensieri o di forme del pensiero – quale pur diviene depositandosi in parole –, bensì
4
Nell’Introduzione, p. 24 (I: 36), il pensiero è soggetto e oggetto della logica, nella misura in cui essa ha come proprio
contenuto, come proprio “pensato”, quel pensiero stesso che lo pensa.
5
Vedi anche l’introduzione, p. 24 (I: 36), intorno alla distinzione tra forma e materia della conoscenza.
2
lo svolgimento puro del pensare, che nelle preposizioni del giudizio si consegna solo
imperfettamente, in una figura statica, che non corrisponde alla sua natura speculativa.
Si comprende così sin da subito, che se lo scopo è descrivere il puro movimento del
pensiero, la questione preliminare che si pone è quella dell’inizio: da dove prende inizio il pensare?
Domanda che si può anche porre, chiedendo cosa pensa all’inizio il pensare? E come lo
pensa… – domande che come vedremo coincidono.
Troveremo più avanti una trattazione ampia della questione, tuttavia i termini della sua
soluzione sono già presenti qui nella II Prefazione.
Innanzitutto Hegel riconosce nel linguaggio ciò che è propriamente umano dell’umano,
linguaggio che attraversa e condiziona completamente ogni altra sua facoltà ed esperienza: tutto è
intriso di linguaggio e in esso sono già depositate quelle essenzialità, o categorie, che la Logica ha il
compito di esplicare compiutamente, passando dal pensare naturale a quello scientifico, ovvero,
come scrive Hegel, «dal noto al conosciuto» (giacché «il noto, appunto perché è noto, non è
conosciuto», come diceva già nella Fenomenologia). La filosofia è in tal senso una teoria
dell’ovvio, che è contenuto nel linguaggio e che essa deve elevare a scienza.
Ma cosa è contenuto nel linguaggio?
Hegel risponde qui svolgendo una considerazione volta a confutare la tesi che le categorie
dello spirito siano come «mezzi», per la «creazione e lo scambio delle rappresentazioni che vi si
riferiscono»: da un lato come «abbreviazioni» (per la loro universalità), dall’altro come strumenti
per «la più precisa determinazione e ritrovamento dei rapporti oggettivi» (13). In questa tesi,
insomma, le categorie logiche sono distinte sia dalle rappresentazioni, sia dai rapporti oggettivi:
poste due cose oggettivamente identiche, la categoria dell’identità sarà utile per determinare
linguisticamente questo carattere e dunque ordinare e subordinare a tale universale la
rappresentazione che abbiamo di quelle due cose. Di per sé, dunque, dipendendo integralmente «dal
dato stesso», tale determinazione del pensiero non avrebbe «alcuna efficacia determinatrice del
contenuto» (14).
Una simile concezione strumentale del pensiero – che è ancora quella dell’odierna filosofia
analitica – trova espressione nella filosofia critica, così riassume Hegel, nella descrizione di una
relazione a tre termini: noi, con le nostre rappresentazioni delle cose come mezzo tra noi ed esse, e
le cose stesse.
A questa tesi oppone una considerazione estremamente importante, perché vi è insita la sua
concezione della logica come ontologia, differenziando das Ding e die Sache. Due parole che, pur
potendo anche essere tradotte entrambe con “cosa”, hanno valori semantici differenti, che in questo
passo sono particolarmente rilevanti. In prima approssimazione, possiamo dire che Ding è la cosa
concreta, oggettiva, quella “esterna” a noi, la cosa ogni volta nel suo qui ed ora, indipendentemente
dal nostro apprenderla. Die Sache, invece, ha una sfumatura decisamente più astratta e richiama la
cosa nel suo “essere così e così”, “la cosa stessa”, la cosa “in questione”, la “natura” di tal cosa, di
un qualsiasi Ding che si trovi ad essere quella Sache, non semplicemente qui ed ora, nella sua
singolarità indifferente, bensì nella sua propria, specifica determinazione.
Hegel, proprio nella Logica, darà poi determinazioni molto più precise, per esempio nel
paragrafo intitolato Das Ding und seine Eigenschaften, della II sez. della Dottrina dell’essenza,
dove definirà innanzitutto das Ding a partire dal concetto di «esistente», la cui esistenza si pone
come «negative Einheit», unità negativa nella «determinazione immediata» dell’«uno del qualcosa,
das Eins des Etwas». Come a dire: “una” cosa è una “cosa”, a prescindere da cosa sia, per questo
das Ding come «il qualcosa esistente» è distinto dal «qualcosa essente», al quale non è invece
indifferente l’essere ciò che è, la cosa che è, cui qui più da vicino possiamo riferire die Sache (542;
II: 129).
Ma di tali determinazioni precise già interne alla Logica non abbiamo qui bisogno, ci è
sufficiente tenere das Ding nella prossimità con il concetto di esistenza esterna e die Sache con
quello di essenza e concetto, attendendoci che sia il passo stesso cui mi sto riferendo a darci altre
3
indicazioni (tradurremo Ding con “cosa” e Sache con “cosa stessa”, pur consapevoli di una qualche
arbitrarietà e insufficienza di questa scelta). Ebbene, qui Hegel scrive:
«Quando noi vogliamo parlare delle cose (von den Dingen), chiamiamo la natura o essenza
di esse il loro concetto, e questo è solo per il pensiero; Ora dei concetti delle cose non diremmo
certo che li dominiamo o che le determinazioni di pensiero delle quali essi sono il complesso ci
servano. Al contrario, il nostro pensiero è costretto (muss) a delimitarsi rimanendone aderente
(nach ihnen: verso di loro) e il nostro arbitrio o la nostra libertà non dovrebbero volersi volgere
verso se stessi (nach sich). Nella misura in cui, dunque, il pensiero soggettivo è il nostro atto più
proprio e intimo e il concetto oggettivo delle cose produce la Cosa stessa (der objektive Begriff der
Dinge die Sache selbst ausmacht), noi allora non possiamo essere fuori da quell’atto, non starci
sopra, e tantomeno possiamo elevarci sopra la natura delle cose (Natur der Dinge. scilicet: die
Sache o der Begriff). Da quest’ultima determinazione possiamo però prescindere, essa coincide con
la prima nella misura in cui darebbe una relazione dei nostri pensieri alla Cosa stessa, ma solo come
qualcosa di vuoto, poiché in tal modo la Cosa stessa verrebbe sovrapposta come regola per i nostri
concetti, ma proprio la Cosa stessa, per noi non può essere nient’altro che i nostri concetti di essa.
Quando la filosofia critica intende la relazione tra questi tre terminorum, ponendo i pensieri tra noi
e le Cose stesse come mezzo, nel senso che questo mezzo ci esclude piuttosto dalle Cose stesse,
invece di unirci a loro, a tale punto di vista va contrapposta la semplice considerazione, che proprio
queste Cose stesse, che dovrebbero stare all’altro estremo, al di là di noi e dei pensieri che si
riferiscono a loro, sono loro stesse cose di pensiero (o cose pensate: Gedankendinge) e, nella loro
completa indeterminatezza, solo una cosa di pensiero – la cosiddetta cosa in sé (Ding-an-sich)
dell’astrazione vuota» (15).
È un passo fondamentale, per quanto complesso, poiché definisce in maniera netta la novità
dell’idealismo rispetto alla filosofia critica.
Innanzitutto, Hegel distingue le cose dalla Natura o Essenza delle cose, quindi Ding da
Sache, l’uno esistente dall’uno essente.
Poi dice che l’essenza delle cose è il concetto, Begriff, che è solo per il pensiero! Vale a
dire, che non c’è una natura delle cose esterna al suo concetto, che il pensiero dovrebbe andare a
cercare, tramite l’esperienza e l’astrazione6.
Tuttavia noi non siamo affatto i signori dei concetti, e quindi delle cose stesse: nel pensare le
cose, dobbiamo volgerci verso il loro concetto oggettivo e non arbitrariamente verso di noi, ossia
nel puro pensiero riflessivo o nell’immaginazione: qui ovviamente concetto oggettivo non significa
un concetto esistente come oggetto esterno, Gegenstand, con cui dovremmo venire in contatto e
conoscere. Significa piuttosto concetto dell’oggetto, della cosa (nel senso del genitivo sia soggettivo
che oggettivo), la sua Natura ed Essenza, che è indipendente dal nostro arbitrio e che tuttavia
rimane una determinazione del pensiero.
Infatti, continua Hegel, essendo questo concetto oggettivo a produrre – a portare fuori
(ausmachen) – la cosa stessa, a ossia la natura e l’essenza delle cose, il pensiero soggettivo finisce
per coincidervi, nella misura in cui la cosa stessa, l’essenza, non può più valere come un esterno al
pensiero, che in quanto tale si imporrebbe come regola dei nostri concetti, non essendo invece
null’altro che tali concetti – se appunto sono concetti e non solo rappresentazioni! Come poi
vedremo meglio, in ultima analisi si tratta di un argomento alla Parmenide: se il logos è logos, e non
mera doxa, allora è di un ente, poiché non si dà logos di niente, ma se di un ente allora anche
sempre vero, poiché la verità non è altro che il logos dell’ente…
D’altro canto, nota in conclusione Hegel – ed è un’annotazione importante –, anche la cosa
esterna al pensiero non è altro che una cosa di pensiero, ovvero non solo die Sache, ma anche das
Ding è Gedankending, fino alla pura astrazione della Dingheit, della cosalità della cosa in sé. Vale a
dire che anche la cosa posta come l’assolutamente altro del pensiero, rimane un prodotto del
6
Cfr. anche l’Introduzione, pp. 24 ss. (I: 36 ss.).
4
pensiero stesso, tant’è che poi trova la sua specifica collocazione all’interno dei momenti della
Logica.
Il superamento dell’interdetto kantiano circa l’uso speculativo della ragione si basa proprio
su questo: la potenza speculativa della logica, ossia la sua capacità di trarre da se stessa, senza
l’intervento dell’esperienza del fenomeno, contenuti oggettivi di sapere, si fonda precisamente sul
fatto che il concetto non è di cose, NÉ DI SACHEN, ma è die Sache selbst, è la cosa stessa, è l’essenza
e la natura delle cose. Come a dire che il logos non si limita a cogliere l’essenza, ma è l’essenza
colta. Affidarsi dunque al puro movimento del concetto in se stesso, a partire dalle sue
elementarissime determinazioni, non rappresenta più un uso dialettico e quindi illusorio della
ragione, ma positivamente speculativo: l’autorispecchiamento del razionale espone la compiuta
articolazione razionale del reale. È certo solo la prima parte del sistema, ma in essa è già racchiusa
tutta la verità, la sua Idea.
A questa considerazione, già ricchissima di spunti e sulla quale torneremo, Hegel ne
aggiunge un’altra, che la specifica e precisa. Abbiamo detto che il pensiero non si può porre come
un medio tra noi e le cose, essendo queste, in qualche modo, sostanziate di pensiero. Tale natura
logica delle cose, aggiunge qui Hegel, non può essere neppure pensata come mera «forma esterna»
di un contenuto, «forme che sono al contenuto, ma non sono il contenuto stesso» [an dem Gehalt:
aderenti al contenuto]. A tale tesi Hegel oppone, che se noi togliamo ad un contenuto concreto la
sua determinazione universale – all’uomo Socrate il suo essere uomo, per esempio – di quel
contenuto non rimane più nulla, non è più nulla: «se la natura, l’essenza più propria, il veramente
permanente e sostanziale nella molteplicità e casualità dell’apparire e della transitoria
estrinsecazione è il concetto della cosa, l’universale in essa stessa – così come ogni individuo
umano, nonostante sia un infinitamente peculiare, ha in sé il prius di tutte le sue peculiarità nel fatto
di essere uomo, e ogni singolo animale lo ha nell’essere animale – allora non si saprebbe dire cosa
dovrebbe essere ancora un simile individuo, una volta sottrattogli questo fondamento, lasciandogli
poi quanti altri predicati si volessero».
Il concetto universale è la Grundlage di ogni individuo, e non solo un’astrazione
generalizzante: senza il mio essere uomo, non posso neanche essere quest’uomo. In effetti, Hegel
sta riproponendo qui lo stesso movimento di pensiero, che aveva condotto Platone a porre nelle idee
la verità dei sensibili, nell’essenza quella degli esistenti, innescando quel processo di progressiva
separazione tra la cosa e la sua essenza, che è tipico di tutta la metafisica e rispetto al quale Hegel
rappresenta, entro la metafisica, il più grandioso tentativo di ricomposizione. Una ricomposizione,
come quella più generale tra logos e on, che non può più avvenire, però, sul piano oggettivo, della
cosa, dello on; ma deve realizzarsi ormai puramente su quello concettuale, dell’essenza, del logos.
«Il fondamento indispensabile, il concetto, l’universale, che è lo stesso pensiero, nella
misura in cui si possa astrarre dalla rappresentazione nella parola “pensiero”, non può essere
considerato solo una forma indifferente, che sia applicata ad un contenuto [die an einem Inhalte
sei]. Piuttosto questi pensieri di tutte le cose naturali e spirituali, lo stesso contenuto sostanziale, ne
costituiscono pur nondimeno uno siffatto, da racchiudere in sé varie determinatezze e ancora la
differenza di un’anima e di un corpo, del concetto e di una relativa realtà; il fondamento più
profondo è l’anima per sé, il concetto puro, che è il più intimo degli oggetti, la loro semplice
pulsazione vitale, così come del pensiero soggettivo degli stessi. Portare alla coscienza questa
natura logica, che anima lo spirito, che in esso spinge ed agisce, questo è il compito».
La forma non può essere dunque considerata come semplicemente applicata, in maniera
sostanzialmente arbitraria, ad un contenuto, né ci si può limitare a porre le forme in maniera
indifferente e a stabilire le regole della correttezza delle loro relazioni, come fa la logica formale. La
forma in realtà è il contenuto, poiché nessun contenuto rimane tale senza la propria forma. Tradotto
in termini ontologici, il discorso si configura così: ogni ente ha il proprio fondamento, il veramente
5
permanente e sostanziale, nella sua natura ed essenza, ovvero nel suo logos, poiché il logos non è
altro che la verità di quell’essenza, nei termini hegeliani il suo Begriff. Ma se solo entro il logos si
dà l’essenza e quindi l’essere della cosa, al di fuori non vi è più la cosa e basta, priva di verità, la
molteplicità e casualità dell’apparenza, ma niente affatto, non vi è più niente. Il che, però, non
significa che quella molteplicità sia mera parvenza, inconsistenza, ma proprio il contrario: se tutto
ciò che è, è sul fondamento indispensabile del logos, allora tutto ciò che è, anche l’apparenza più
labile, anche il contenuto più informe, deve essere già sostanziato di logos, già prodotto dal Begriff.
Questo significa il compito hegeliano di reintrodurre il contenuto nella logica, e quindi tutta la
molteplicità delle concrete determinazioni concettuali: riconoscere non solo che il contenuto
essenziale è la forma, ma anche che ogni contenuto è già una forma.
«Si vede subito da sé che quello, che nella prima e più abituale riflessione viene separato,
come contenuto, dalla forma, non deve essere in effetti informe, non privo di una determinazione in
sé – così sarebbe soltanto il vuoto, come l’astrazione della cosa in sé –; ma che al contrario ha
forma in se stesso, anzi una forma dalla quale soltanto riceve vita e sostanza, e che è questa forma
stessa che soltanto si traspone nella parvenza di un contenuto e in tal modo pure nella parvenza di
un che di esterno a tale parvenza. Con questa introduzione del contenuto, nella considerazione
logica, non sono le cose [Dinge], ma la cosa stessa [die Sache], il loro concetto, quel che diventa
oggetto».
Si comprende subito l’immensità di un tale compito, che rende grandioso già solo il progetto
della Logica hegeliana: proponendosi di articolare sistematicamente l’intera molteplicità delle
determinazioni concettuali degli enti, essa è in effetti, come Hegel scriveva proprio all’inizio,
l’intera metafisica come sistema dell’ontologia generalis, cosmologia, psicologia e teologia. Ciò
che poi la differenzia dalla Filosofia della natura e da quella dello Spirito è che, in essa, tale
compito va interpretato nella forma di un’ontologia non più semplicemente generale, ma potremmo
dire universale, la compiuta autoesplicazione del Logos come fondamento del tutto, del Logos come
il tutto e quindi di tutto come logos. Ed è proprio in questa rifusione dell’unità tra logos e on, che si
dà il criterio che rende possibile un compito così immenso: il problema, infatti, che ovviamente si
pone di fronte ad una logica che voglia ricomprendere in sé tutta la molteplicità delle
determinazioni concettuali concrete, è l’identificazione del principio in base al quale poter articolare
e ordinare tale infinita molteplicità. Ed è proprio a ciò, che Hegel si riferisce qui immediatamente:
«In tale contesto, però, ci si può far anche rammentare, che vi è una moltitudine di concetti,
una moltitudine di cose. Ciò attraverso cui però, una tale moltitudine viene delimitata, in parte è
stato già detto prima: il concetto in quanto pensiero in generale, in quanto universale, è la smisurata
abbreviazione a fronte della singolarità delle cose, così come esse oscillano nella loro moltitudine
davanti all’indeterminato intuire e rappresentare».
Questa considerazione, però, rimane insufficiente, poiché seppur assicura la possibilità di
pensare l’infinito nel finito – tema squisitamente hegeliano – non fornisce però ancora il criterio di
tale pensiero, che ha a che fare, come dicevo, con la coincidenza di logos e on. Se infatti ogni
contenuto è già la sua forma, se ogni Sache è già un Begriff, a prescindere dalla sua determinazione
particolare ogni contenuto sarà innanzitutto null’altro che Begriff. Che non è affatto una tautologia,
poiché qui si dà anzi un vero e proprio scarto categoriale: così come prima si è passati dalla cosa
alla sua essenza, quel che si richiede ora è l’essenza di tale essenza, che è quel «concetto puro»
come «il più intimo degli oggetti» di cui abbiamo appena letto. Vale a dire: se l’essere di ogni ente è
il suo logos, l’essere dell’ente è logos, logos e on sono lo stesso. Ciò da cui dunque la Logica deve
iniziare e solamente può iniziare, per poter riaccogliere in sé tutta la molteplicità delle
determinazioni concettuali concrete, è il loro universale, ossia il concetto stesso nella sua pura
coincidenza con l’oggetto, il logos come on, che è ciò da cui in effetti inizia, come vedremo. In tal
senso diviene facilmente comprensibile quel che Hegel scrive subito dopo:
«In parte, però, un concetto è al tempo stesso innanzitutto in lui stesso il concetto, e questo è
solo uno ed è il fondamento sostanziale; per un altro, però, è bensì un concetto determinato, la cui
6
determinatezza è ciò, che appare come contenuto; ma la determinatezza del concetto è una
determinazione formale di questa unità sostanziale, un momento della forma come totalità, del
concetto stesso, che è il fondamento dei concetti determinati. Esso non viene intuito sensibilmente o
rappresentato; è solo oggetto, prodotto e contenuto del pensiero ed è la cosa stessa essente in sé e
per sé, il Logos, la ragione di ciò che è, la verità di ciò che porta il nome delle cose. Al minimo è il
Logos che non deve esser lasciato fuori dalla scienza logica…» (18-19; I: 29-30).
È con questo passo che si conclude la parte più teoretica della seconda Prefazione – che
ricordo essere l’ultima parola di Hegel intorno al suo sistema – ed è un passo tanto chiaro, quanto
complesso e ricchissimo di spunti, di cui dobbiamo limitarci ad accoglierne solo alcuni.
Come ricordiamo, poche righe prima Hegel aveva distinto non la forma dal contenuto, ma
l’anima dal corpo del concetto. Il corpo è ciò che ci appare come contenuto, essendo però invero la
forma determinata del concetto. A prescindere però da ogni forma determinata il concetto è
innanzitutto concetto, che qui viene detto: fondamento e unità sostanziale, forma come totalità, die
Sache essente in sé e per sé, il Logos, la ragione di ciò che è, la verità di ciò che porta il nome delle
cose. Qualcosa di al di là sia dell’intuizione sensibile, che della rappresentazione intellettuale, bensì
oggetto, prodotto e contenuto del pensiero.
Tante definizioni, che alludono tutte ad uno stesso, al tempo stesso semplice ed
estremamente complesso. Per cercare di districarcene, proviamo a partire da una di esse,
riconnettendole mano mano le altre:
«Il Logos, la ragione di ciò che è»: die Vernunft dessen, was ist. Questo was ist (das ist), il
“che è”, è l’ente, to on, sia come totalità degli enti, sia come entità degli enti, essenza dell’ente in
quanto tale, ciò che è tutto quel che è. Non è dunque mai il singolo ente determinato per se stesso,
né la semplice somma di tutti gli enti, bensì la loro verità, che è sempre la risposta alla domanda ti
estin? Che è? Ti to on? Che è l’ente? In tedesco: was ist das, was ist? La verità dell’ente non è
dunque un ente tra gli enti, ma è piuttosto il logos degli enti, il logos che dice (legei) il ti dello on,
qui «la ragione di ciò che è». In questo primo senso, dunque, va inteso qui il Logos come Vernunft
dessen, was ist, come afferramento di ciò che è, del «che è» ciò che è, come verità. Con
l’avvertenza immediata, che tale afferramento non va ridotto, né in Hegel, né tantomeno negli
antichi, al mero pensiero soggettivo, alla nostra singolare intelligenza delle cose, ma sia da
intendersi come Logos oggettivo, ragione dell’ente stesso e non raziocinio intorno agli enti (ed è
anche per questa ragione che Hegel lo scrive qui con la lambda maiuscola). Il dire del Logos, il suo
legein, è un contenere e quindi comprendere originario e fondante ogni dire e comprendere
singolare, è il suo fondamento.
Se è così, però, allora è anche il fondamento dell’ente: la ragione di ciò che è non è solo la
sua verità soggettiva, la conoscenza della sua essenza, ma anche il suo Grund, la ragione per cui è,
causa, ragion sufficiente, principio, ciò in grazia di cui ogni ente si dà, c’è e non solo è ciò che è
(qui il was ist diviene o coincide con la ragione del dass ist, secondo la duplice articolazione dello
stesso tema in Aristotele). L’essenza, in altri termini, ossia il che è una cosa che è, «verità
dell’essere» come è definita nella Logica proprio all’inizio della dottrina dell’essenza, nel suo
svolgimento ultimo, «è determinata in sé e per sé come il fondamento, nel quale l’essere si risolve».
Vale a dire che la verità non rimane solo la mediazione dell’essere nell’intelletto, ossia solo
afferramento soggettivo dell’essenza delle cose, ma si pone come loro oggettivo fondamento ed è in
questa unità che diviene ciò che Hegel chiama concetto. In prima approssimazione, perciò,
possiamo dire che il concetto è il logos dello on sia come essenza, che come principio
dell’esistenza, la ragione di ciò che è sia come verità, che come essere.
Che qui Hegel chiama: «La verità di ciò che porta il nome delle cose: Die Wahrheit dessen,
was den Namen der Dinge führt»: un’espressione molto ermetica, che facciamo bene a non torturare
troppo per costringerla entro un’interpretazione univoca, giacché vuol essere evidentemente sin
dall’inizio evocativa di tanti significati. Ma possiamo almeno aprirla ai suoi vari significati, notando
un paio di cose. Ciò che porta il nome delle cose può valere sia come ciò che ha il nome di “cose”,
ciò che noi chiamiamo con il nome di Dinge, gli esistenti, considerati nella loro verità; sia ciò che
7
tiene in sé e porta a noi il nome di quelle cose, innanzitutto il semplice linguaggio, da elevarsi e
purificarsi alla sua verità. La verità di ciò che porta il nome delle cose, dunque, è sia la verità della
cosiddette cose singole, la Sache di ogni Ding, Sache che è espressa proprio nel nome, che è la
prima elevazione dal singolare all’universale; sia la verità del linguaggio delle cose, la sua intima
natura logica, il Logos universale che è incarnato in ogni linguaggio naturale e che, tramite esso,
pervade ogni momento dell’esperienza soggettiva.
«Al minimo è il logos che non deve esser lasciato fuori dalla scienza logica», nota Hegel
subito. Logos che, nella sua verità, non è né intuizione, né rappresentazione – che appaiono in prima
approssimazione i due poli della denominazione delle cose: noi vediamo alcuni oggetti e
attribuiamo loro nomi, che ci servono come abbreviazioni e note delle loro caratteristiche comuni –
bensì concetto, che è termine che allude alla natura più concretamente essenziale del logos in
quanto attività, concepirsi, generarsi: il concetto è ciò verso di cui il pensiero si volge, essendo sin
dall’inizio un suo prodotto e tutto il suo contenuto: è l’interno, l’esterno e il movimento dall’uno
all’altro; il sapere, l’essere e la verità dell’essere (in quella che è una vera e propria partenogenesi
del logos).
Per tale ragione il concetto è al tempo stesso fondamento sostanziale e unità di tutto ciò che
è così fondato, la cosa stessa essente in sé e per sé e al tempo stesso tutta la molteplicità delle
determinazioni singole dei concetti (e delle cose), la totalità della forma e ogni suo singolo
momento contenutisticamente determinato. Forma dinamica, come «pulsazione vitale», più avanti
dirà «concreta unità vivente» (p. 29), dell’uno e del tutto, generatrice di ogni contenuto molteplice,
che è in effetti null’altro, o nulla di meno, che l’identità infinita di logos e on.
Naturalmente, tutte queste considerazioni intorno alla Logica sono qualcosa di estrinseco e
posteriore ad essa: come Hegel notava nell’Introduzione, la Logica non può presupporre nulla, né
intorno al suo oggetto, né intorno al suo metodo, poiché entrambi, anzi l’unità di entrambi, deve
prodursi solo nel e tramite il suo svolgimento come autoesposizione del pensare puro (23 e poi 37).
Essa deve dunque «cominciare subito dalla cosa stessa». La cosa stessa, però – e Hegel è su ciò del
tutto esplicito –, non è semplicemente il Sein del primo paragrafo, ma già quell’identità infinita di
logos e on (che era il portato ultimo della Fenomenologia dello Spirito). Ma allora perché il
primissimo momento della Scienza della Logica è invece «Sein»?
A ben vedere, ci ritroviamo di fronte a quelle domande che ponevamo, lasciandole in
sospeso: da dove prende inizio il pensare? E cosa e come pensa all’inizio il pensare?
Anche al di fuori di un impianto hegeliano, anche nei termini di un’ontologia negativa, come
sono quelli dell’ipotesi ontologica, l’inizio del pensare è la sua unità immediata con l’essente: essa è
sempre all’inizio, prima di ogni pensiero, precondizione di ogni pensare. E tuttavia il cosa di tale
inizio, se si vuole il primo pensiero in quanto il primo pensato (come più avanti Hegel concede),
non è immediatamente tale unità, bensì solo uno dei suoi lati, quello appunto del «cosa»,
dell’essente, di cui il pensiero è pensiero.
Allo stesso risultato arriviamo anche seguendo l’impostazione generale di questa nostra
lettura: come abbiamo detto, Hegel cerca di rifondare l’unità di logica, ontologia e metafisica sul
fondamento dell’identità tra logos e on. Tuttavia, a differenza degli antichi, egli sposta il fulcro di
questa identità dallo on al logos: poiché dunque è nel logos che va a cadere il baricentro di
quell’unità, poiché è in esso che questa si mostra nella sua compiuta verità, e poiché questo
mostrarsi è l’intero svolgimento della Logica stessa, è in qualche modo ovvio, che nel suo primo
inizio essa debba rimanere sul versante apparentemente opposto, su quello che, pur essendo lo
stesso, lo è nella forma più semplice e immediata e non in quella della mediazione assoluta, quindi
sul piano dello on e non del logos (e teniamo presente che già in un’ottica di filosofia critica il
logos è la potenza mediatrice rispetto a quella da mediarsi, che è l’essente come il dato, il sic et
simpliciter immediato). Di uno on che, tuttavia, rimane sin dall’inizio tutto entro il logos, che è anzi
solo on del logos: lo abbiamo già visto e Hegel lo ribadisce con forza proprio nell’Introduzione:
«der Stoff des Erkenntnisses» non è nessuna «fertige Welt ausserhalb des Denkens» (25, I: 36), vale
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a dire che lo on non è affatto un immediato esterno, bensì l’immediatezza del logos stesso,
quell’immediatezza dalla quale aveva preso le mosse Parmenide nel porre per primo l’identità dei
due. In termini hegeliani lo on è solo il puro in sé del logos, non ancora giunto fino ad essere
l’assolutamente «in sé e per sé essente» che è il «Concetto saputo», che si sa come l’essere,
l’«assolutamente vero» che è insieme «wahrhafte Materie» e «absolute Form» (43).
È comunque proprio a tali questioni che in particolare sono dedicati l’Introduzione e poi
tematicamente l’inizio del I libro: «Quale deve essere il cominciamento della scienza?», di cui
ripercorriamo solo alcuni momenti, poiché quel che abbiamo detto contiene in sé già l’essenziale
del discorso.
L’Introduzione si apre con un agile inquadramento storico, tramite il quale Hegel pone
espressamente la sua Logica e, in generale, il sistema della scienza, come ripresa e compimento, al
termine della modernità ossia nella sua perfetta maturazione, di quello che era stato il compito
originario della filosofia. Egli definisce, infatti, l’antica metafisica a partire precisamente dal nesso
tra logos e on e dal suo concetto di verità: «essa poneva come suo fondamento che ciò, che per
mezzo del pensiero si riconosce delle cose e nelle cose, sia il solo veramente vero in esse, dunque
non le cose nella loro immediatezza, bensì queste solo una volta elevate nella forma del pensiero,
come pensate [Gedachte]. Quella metafisica riteneva perciò che il pensiero e le determinazioni del
pensiero non fossero un che di estraneo agli oggetti, ma anzi fossero la loro essenza, ossia che le
cose e il pensare le cose coincidessero in sé e per sé, che il pensiero nelle sue determinazioni
immanenti e la vera natura delle cose fossero un solo e medesimo contenuto» (26; I: 38).
Qui dunque das wahrhaft Wahre, il veramente vero, non è né dal solo lato dell’ente, la sua
entità ed essenza oggettiva, né dal solo lato del logos, il suo intendimento, intellezione e
dichiarazione circa la cosa, bensì è l’unità dei due, la cosa in quanto Gedacht, pensato.
Un’unità, ancora statica, che viene distrutta nella modernità dall’«intelletto riflettente», che
contro la ragione «fa valere la sua veduta che la verità riposi sulla realtà sensibile, che i pensieri
siano soltanto pensieri […] e che la ragione, nella misura in cui rimane in sé e per sé, produca solo
spettri cerebrali [Hirngespinste]. In questa rinuncia della ragione a se stessa, il concetto della verità
va perduto, la ragione è ridotta a conoscere soltanto una verità soggettiva, soltanto l’apparenza,
soltanto un che cui la natura della cosa stessa non corrisponde. Il sapere è ricaduto nell’opinione»
(26 s.; I: 38).
Come vediamo la questione gira sempre intorno agli stessi termini: logos, on, aletheia… E il
suo punto chiave è proprio il fatto che «il concetto di verità è andato perduto»: è questa la critica
fondamentale di Hegel tanto al razionalismo cartesiano, quanto a Kant (basta leggere, al riguardo, i
primi par. dell’Enciclopedia). Quel concetto, che nella sua essenza la metafisica antica aveva colto:
le cose e il pensare le cose coincidono, il pensiero e la natura autentica delle cose sono lo stesso, il
logos che dice cosa sono le cose e l’essere delle cose sono uno, non vi è essere delle cose al di fuori
del logos che lo dice, non vi è logos senza un esser-vero e un vero essere delle cose.
La perdita di questo concetto della verità, però, non è un fatto accidentale, ma riposa su una
necessità del pensiero, o meglio su una sua aporia fondamentale, che la metafisica antica non era
stata in grado di risolvere e che può venire in luce e così anche essere espressamente affrontata solo
dopo l’esilio moderno del sapere nell’intelletto riflettente.
Nella metafisica antica, infatti, le determinazioni del pensiero rimangono una affianco
all’altra e non risultano essere il prodotto del pensiero stesso nel suo movimento necessario e
unitario: la ragione di ciò è nel fatto, che esse sono intimamente contraddittorie e che quella
filosofia – basata sul principio di non contraddizione – non ha i mezzi dialettici per risolverla
positivamente. Contraddizione di cui pur essa è certamente sin dall’inizio consapevole – l’opera
cruciale, per lo stesso Hegel, è rispetto a ciò il Parmenide di Platone –, ma che rimane una vera e
propria aporia, la mancanza di una via d’uscita, che comporta il continuo fallimento dei tentativi di
dare una figura compiuta a quella unità: fallisce Platone con la sua teoria delle idee, che restano
pure essenze negative rispetto alle cose (per usare qui i termini già della Logica), ma
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sostanzialmente fallisce pure Aristotele, poiché solo in Dio, l’ente sommo come pensiero di
pensiero, quell’unità è perfetta, e non nell’essere in generale.
È in relazione a ciò, che acquista il suo senso e significato storico-filosofico l’opera
dell’intelletto riflettente, grazie alla quale «venne scorto il necessario contrasto delle
determinazioni dell’intelletto con se stesso» e si fece progressivamente chiara la potenza del
negativo entro la ragione e anche il nuovo livello di sintesi che andava ricercato: la considerazione
delle «forme logiche» non come «determinazioni fisse», che «cadono l’una fuori dall’altra», ma
nella loro «unità organica», che deriva dallo «spirito» come «loro concreta unità vivente» (29; I:
41).
Qualcosa che, scrive Hegel, non abbiamo bisogno di anteporre alla Logica a mo’ di
presupposizione estrinseca o arbitraria, poiché si è già mostrato nella sua necessità interna, come
rigorosa deduzione, tramite la Fenomenologia dello spirito. Il cui risultato – ma andrà poi misurata
la coerenza di quanto qui scrive Hegel con quanto scriveva nella Fenomenologia – viene qui così
riassunto: «il sapere assoluto è la verità di tutte le modalità della coscienza, perché, come risultò dal
suo svolgimento, solo nel sapere assoluto si è completamente risolta la separazione dell’oggetto
dalla certezza di sé, e la verità è divenuta eguale a questa certezza, così come questa alla verità. La
scienza pura presuppone perciò la liberazione dall’opposizione della coscienza. Essa contiene il
pensiero nella misura in cui esso è insieme anche la cosa stessa in sé; ovvero la cosa stessa in sé
nella misura in cui essa è insieme anche il puro pensiero. Come scienza, la verità è la pura
autocoscienza che si sviluppa e ha la forma del Sé, che l’essente in sé e per sé è concetto saputo, il
concetto in quanto tale, però, è l’essente in sé e per sé». «Pensare oggettivo», «assoluto vero» e
«vera materia», «forma assoluta»… Ed è in grazia di tutto ciò, che la Logica è il «sistema della
ragione pura, come il regno del puro pensiero. Questo regno è la verità, come essa è in sé e per sé
senza velo. Ci si può quindi esprimer così, che questo contenuto è l’esposizione di Dio, com’egli è
nella sua eterna essenza prima della creazione della natura e di uno spirito finito» (31; I: 43 s.).
Sono pagine celebri, soprattutto nelle ultime loro affermazioni, che qui non è necessario
commentare più di tanto, poiché nelle loro varie asserzioni o sono già sufficientemente chiare, o
troveranno più avanti occasioni migliori per essere chiarite. Quel che è anche superfluo
sottolinearvi, giacché vi è espresso in maniera così netta, quasi ridondante, è appunto il nostro
assunto iniziale: la Logica, come Scienza pura, comincia, si fonda e si regge sul nesso ontologico,
sull’unità di logos e on.
Ed è proprio su tale presupposto che Hegel costruisce la Partizione generale della logica,
che qui espone nell’Introduzione, in un passo molto denso: la logica è «scienza del pensare puro»,
che ha per suo principio il «puro sapere, l’unità non astratta, ma nella stessa misura concreta e
vivente, in cui l’opposizione della coscienza fra un soggettivo essente per sé [für sich Seienden] ed
un secondo simile essente [solchen Seienden], oggettivo, viene in essa conosciuta in quanto
superata e altresì l’essere viene conosciuto come puro concetto in se stesso e il puro concetto come
il veramente essere [si legga più agevolmente «essente»: das wahrhafte Sein]. Questi perciò sono i
due momenti contenuti nel logico. Ma essi, ora, sono conosciuti come inseparabilmente essenti
[untrennbar seiend], e non come nella coscienza ciascuno anche come essente per sé; solo in grazia
di ciò, ossia che nello stesso tempo sono conosciuti come differenti (e tuttavia non essenti per sé), la
loro unità non è astratta, morta, immobile, bensì concreta. Questa unità produce [ausmacht] il
principio logico al tempo stesso quale elemento [Element], in maniera tale che lo sviluppo di quella
differenza, che è così egualmente in lui, soltanto all’interno di questo elemento si pone innanzi a sé
[e avanza: vor sich geht]» (43; I: 57).
L’unità di logos e on, quindi, non è solo il principio e l’inizio, ma lo spazio complessivo,
l’elemento, quasi l’atmosfera entro cui e di cui si nutre tutto lo sviluppo della logica, entro cui essa
rimane, articolandone però tutte le forme molteplici e progressive: la differenza degli inseparabili si
deduce a partire, entro e di fronte a se stessa (ausmachen, innerhalb, vor-sich-gehen). Forme che
sono sempre anche quell’unità, pure laddove sia solo uno dei suoi lati a venire in evidenza, come
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avviene proprio nel primo momento della logica dell’essere. Come poi mostreremo da vicino,
infatti, se così non fosse, se non vi fosse sin dall’inizio non solo l’essere, ma anche già il pensiero
dell’essere, verrebbe a mancare il principio propulsore di tutto il movimento della Logica, il suo
Lebenspuls. Ma è lo stesso Hegel a dirlo già qui esplicitamente:
«Le precedenti determinazioni per sé essenti, come soggettivo e oggettivo, o anche pensare
ed essere, oppure concetto e realtà, o comunque le si possa determinare a partire da uno sguardo
retrospettivo, ora nella loro verità, ossia nella loro unità, sono degradate a forme. Nella loro
differenza, quindi, restano già in se stesse l’intero concetto, e questo viene posto nella partizione
solo sotto le sue proprie determinazioni. Così è l’intero concetto, che una volta è da considerarsi
come concetto essente e un’altra volta come concetto. Lì è solo concetto in sé, della realtà o
dell’essere, qui è concetto in quanto tale, concetto essente per sé». Per cui la Logica si divide in
«logica del concetto in quanto essere e del concetto in quanto concetto».
Sulla posizione specifica della Dottrina dell’essenza non è qui il caso di spendere molte
parole, tanto più che rientra comunque nella logica del concetto come essere. È invece proprio su
questa dizione che è opportuno soffermarci: la «dottrina dell’essere» – Die Lehre vom Sein: ciò a
cui siamo soliti dare il nome di “ontologia” – viene infatti del tutto fraintesa, se non la si considera
sin dall’inizio comunque come una logica del concetto, del concetto in sé in quanto essere, e non
dell’essere sic et simpliciter, come qualcosa di separabile dal suo concetto (e come?). Essa è così
certamente un’ontologia, occupa anzi propriamente, in questo suo primo momento, il posto che
occupava l’ontologia generalis nella tradizione metafisica – Hegel lo dice esplicitamente poche
pagine dopo: la logica oggettiva deve prendere il posto dell’«ontologia, la parte dell’antica
metafisica che doveva ricercare la natura dell’ente (Ens) in generale» (47; I: 61) –, ma in nessun
modo come discorso “intorno” o “sopra” l’essere, bensì già come discorso intorno all’unità
dell’essere con il concetto. Il che, lo si è detto, non rappresenta affatto una forma derivata,
peculiare, tarda, romantica dell’ontologia – per quanto ovviamente debba a ciò la sua particolare
figura –, ma sin dall’inizio la sua vera natura.
Solo quando si è perso il senso della domanda antica intorno allo on, si può ritenere che
l’ontologia sia stata e sia una mera teorizzazione astratta intorno all’essere, un discorso che parla
dell’essere, così come la teologia è un discorso che parla di Dio. Se nella filosofia antica non esiste
la parola “ontologia” forse è proprio per questo, se nella gigantomachia peri tes ousias ai
physiologoi non si contrappongono gli ontologoi o ousiologoi o ideologoi, bensì «gli amanti delle
idee», non è certo perché la lingua greca non fosse sufficientemente elastica da permettere tali
termini, ma perché quei termini sarebbero stati insufficienti, giacché la prote philosophia non si è
mai occupata dell’essere, dell’essenza o delle idee presi a sé come oggetti esterni di una
considerazione teorica (così come avviene nella teoria dell’oggetto e nell’ontologia tassonomica in
auge ai nostri tempi), bensì sempre del nesso ontologico, dell’unità ineludibile di logos e on, ovvero
della verità.
È così in Parmenide, in Eraclito, in Platone, in Aristotele…: l’episteme che theorei to on
kath’auto è episteme tes aletheias, sempre inscindibile, in tutte le sue varie forme, dalla
considerazione dello on hos alethos…. La ousia, per non dire del to ti en einai (il ti estin…), e
quindi già l’idea platonica (anzi essa ancor più univocamente), è proprio il logos dello on, è lo
alethos ontos on, l’essenzialmente essente come veramente vero, che è solo per il logos, proprio
come in Hegel il concetto, come natura ed essenza della cosa, è solo per il pensiero. Hegel espone
così niente affatto una propria dottrina innovativa, ma pretende solamente di voler afferrare a fondo
il modo in cui la filosofia ha pensato la natura della “verità”. Una comprensione matura e profonda,
che ha come incarnato lo scopo di tutti gli sforzi ad essa precedenti e così si può porre, e si pone,
costantemente in confronto con la storia della filosofia, avendo la piena consapevolezza della sua
posizione entro quella storia, posizione sicuramente originale, ma che non è il mostrarsi di un nuovo
principio, bensì l’inverarsi del primo, il suo giungere alla piena autotrasparenza e fondarlo, che si
pone ad un tempo come inizio e fine del sapere e insieme del reale.
11
Retrocedere fondante, Rückgang, che Hegel tematizza proprio nella Logica, che è anzi
propriamente, e in un senso del tutto generale e universale, il suo movimento ed esito ultimo. Cosa
che diciamo proprio in relazione alla circostanza che qui, pur avendo oramai chiarito il compito
della Logica, i suoi presupposti e la sua struttura di fondo, Hegel inizia il primo libro della Dottrina
dell’essere con ancora diverse pagine di carattere non solo espositivo (darlegend, ossia
speculativo), ma di nuovo introduttivo (riflessivo), dedicate al problema del «cominciamento», che
abbiamo detto essere un tema cruciale e che ritorna alla fine della Logica, dove essa viene definita
proprio come quel progresso tramite il quale il concetto torna al suo cominciamento, fondandolo
regressivamente e fondandosi in quanto quello stesso cominciamento 7. Sono dunque pagine molto
importanti, nelle quali, però, rispondendo preventivamente a certe critiche, a possibili
fraintendimenti, e nel precisare il senso dei primi paragrafi, così come farà anche subito dopo di
essi, in 4 lunghe annotazioni, pur mostrando grande sicurezza dei suoi mezzi speculativi, Hegel non
riesce a sfatare del tutto, forse neanche di fronte a se stesso, un’impressione di ambiguità. Acuita
dal fatto che, sia nell’Introduzione, che nelle Prefazioni, egli ha continuamente ribadito che il
concetto della scienza si dà nella scienza stessa e che tutte le premesse non sono che anticipazioni di
carattere più o meno storico e riflessivo. Ma se così è, perché la scienza, che dovrebbe avere in sé le
ragioni del suo inizio, fatica tanto a cominciare? Perché tante pagine e tante anticipazioni prima dei
tre paragrafetti che esauriscono il passaggio dall’essere al divenire? Tante parole sembrano avere
qui il compito di nascondere qualcosa, piuttosto che di esporlo…
Proprio trattandosi, in una certa misura, di considerazioni a posteriori, per comprenderne il
senso è necessario se non altro incominciare quel cammino già compiuto e leggere prima di esse
almeno i paragrafi iniziali cui si riferiscono, ovvero precisamente il tanto evocato cominciamento.
A. ESSERE
A. SEIN
Essere, puro Essere, – senza nessun’altra
determinazione. Nella sua indeterminata
immediatezza esso è uguale soltanto a se stesso
e anche non diseguale contro Altro, non ha
alcuna diversità né dentro di sé, né verso
l’esterno […]. È l’indeterminatezza e il vuoto
puro. Non vi è niente di intuibile in lui, se qui si
può parlare di intuire; oppure è solo questo
puro, vuoto intuire stesso. E vi è altrettanto poco
in lui da pensare, ovvero è allo stesso modo solo
questo pensare vuoto. L’Essere, l’immediato
indeterminato è in effetti Niente e non più, né
meno che Niente.
Sein, reines Sein, – ohne alle weitere
Bestimmung. In seiner unbestimmten
Unmittelbarkeit ist es nur sich selbst gleich und
auch nicht ungleich gegen Anderes, hat keine
Verschiedenheit innerhalb seiner noch nach
außen […]. Es ist die reine Unbestimmtheit und
Leere. – Es ist nichts in ihm anzuschauen, wenn
von Anschauen hier gesprochen werden kann;
oder es ist nur dies reine, leere Anschauen
selbst. Es ist ebensowenig etwas in ihm zu
denken, oder es ist ebenso nur dies leere
Denken. Das Sein, das unbestimmte
Unmittelbare ist in der Tat Nichts und nicht
mehr noch weniger als Nichts.
B. NICHTS
Nichts, das reine Nichts; es ist einfache
Gleichheit mit sich selbst, vollkommene
Leerheit, Bestimmungs- und Inhaltslosigkeit;
Ununterschiedenheit in ihm selbst. – Insofern
Anschauen oder Denken hier erwähnt werden
kann, so gilt es als ein Unterschied, ob etwas
oder nichts angeschaut oder gedacht wird.
Nichts Anschauen oder Denken hat also eine
Bedeutung; beide werden unterschieden, so ist
(existiert) Nichts in unserem Anschauen oder
B. NIENTE
Niente, il puro Niente; è semplice eguaglianza
con se stesso, vuotezza compiuta, mancanza di
determinazione e di contenuto; indifferenza in
lui stesso. Nella misura in cui l’intuire o pensare
possa essere qui menzionato, allora vale come
una differenza, se viene intuito o pensato
qualcosa oppure niente. Intuire o pensare Niente
ha dunque un significato. Entrambi vengono
differenziati, così Niente è (esiste) nel nostro
intuire o pensare; o piuttosto è lo stesso intuire e
7
Cfr. p. 954, ove si parla di «regressivo fondare il cominciamento».
12
pensare vuoto, e quello stesso vuoto intuire o
pensare che è il puro Essere. – Niente è così la
stessa determinazione o piuttosto mancanza di
determinazione e così in generale lo stesso, che
è il puro Essere».
C. DIVENIRE
a. Unità dell’Essere e Niente
Il puro Essere e il puro Niente è dunque lo
stesso. Ciò che è la verità, non è né l’Essere, né
il Niente, bensì che l’Essere in Niente e il
Niente in Essere – non trapassa, ma è già
trapassato. Ma altrettanto è la verità non la loro
indifferenza, bensì che essi non sono lo stesso,
che essi sono assolutamente differenti, e tuttavia
altrettanto inseparati e inseparabili, e che
immediatamente ognuno svanisce nel suo
contrario. La loro verità è dunque questo
movimento dell’immediato svanire dell’uno
nell’altro: il Divenire».
Denken; oder vielmehr ist es das leere
Anschauen und Denken selbst und dasselbe
leere Anschauen oder Denken als das reine Sein.
– Nichts ist somit dieselbe Bestimmung oder
vielmehr Bestimmungslosigkeit und damit
überhaupt dasselbe, was das reine Sein ist.
C. WERDEN
a. Einheit des Seins und Nichts
Das reine Sein und das reine Nichts ist also
dasselbe. Was die Wahrheit ist, ist weder das
Sein noch das Nichts, sondern dass das Sein in
Nichts und das Nichts in Sein – nicht übergeht,
sondern übergangen ist. Aber ebensosehr ist die
Wahrheit nicht ihre Ununterschiedenheit,
sondern dass sie nicht dasselbe, dass sie absolut
unterschieden, aber ebenso ungetrennt und
untrennbar sind und unmittelbar jedes in seinem
Gegenteil verschwindet. Ihre Wahrheit ist also
diese Bewegung des unmittelbaren
Verschwindens des einen in dem anderen: das
Werden.
Notiamo innanzitutto che Sein e Nichts sono scritti entrambi da Hegel con l’iniziale
maiuscola, il che equivale a porli in tedesco come sostantivi, cosa che è molto importante tenere
presente sin da subito. Ciò che è in gioco – per quanto all’inizio, per ottime ragioni, sia detto solo
Sein, e non das Sein; che però compare subito nello stesso paragrafo, in realtà ripetutamente (das,
das…) – è insomma l’essere come un Essere, e non come “essere di un che”; e altrettanto niente
come il Niente, e non niente di un che, come Hegel chiarisce a fondo nella I Nota al capitolo.
Per questa ragione, seppure non lo possiamo dire un Ente, tuttavia dobbiamo pensare questo
Sein nella vicinanza all’Ens medievale, e quindi anche al to on antico, poiché è in questa vicinanza
che esso nasce, come Hegel mostra quando paragona questi primi momenti al puro pensiero
parmenideo dello on e all’ontologia medievale dell’Ens. Certo, enfaticamente, non dobbiamo
pensarlo né come einai e assolutamente non come l’essere heideggeriano.
E per questa stessa ragione, analogamente non seguo l’uso di tradurre Nichts con nulla,
poiché in quanto contrario dell’ente, esso è propriamente il Niente.
Inoltre, del tutto preliminarmente, faccio notare come in entrambi i primi due momenti, il
passaggio all’altro, anzi l’esser già passato nell’altro, si realizza tramite il pensiero: nel primo caso
in quanto «pensiero vuoto», nel secondo caso in quanto «pensare niente». Senza questa presenza
immediata del pensiero, l’immediato svanire dell’essere in niente e viceversa non si darebbe. La
ragione profonda di ciò, che è anche la ragione di tale immediatezza dello svanire, sta nel fatto che
proprio il pensiero è la potenza del negativo, che fa di ognuno dei due il proprio opposto. Dal punto
di vista del cominciamento, questo significa che l’unità infinita di logos e on è la stessa unità
immediata di Sein und Nichts!!! Il logos, ponendosi immediatamente in sé come on, è già il niente
di quell’Essere, è già la sua inquietudine concettuale, il suo movimento e divenire8.
Dicevamo, dunque, che in questi pochi passi e nelle tante pagine che Hegel scrive su di essi,
rimane qualcosa di ambiguo, l’impressione di un non detto o non chiarito. Dico subito di che si
tratta, in una semplice formula, cui poi cercherò di dare contenuto: della riduzione, necessaria e
8
È nell’attualismo gentiliano che tale carattere compare nella sua piena esplicazione, laddove il pensiero è detto
enfaticamente «non-essere».
13
tuttavia problematica, del concetto di essere, che non deve essere solamente spogliato dalla sua
identità saputa con il pensiero (che qui si mostra come identità e differenza immediata con il
niente), ma anche da ogni altra determinazione, finendo così, però, per svuotarsi talmente di
significato, che la sua stessa posizione come cominciamento appare in un’ultima analisi arbitraria o
coincidente sic et simpliciter con le condizioni formali di un cominciamento assoluto (questione che
Hegel affronta esplicitamente dopo poche pagine).
Torniamo dunque a partire da tale premessa a quanto sul cominciamento Hegel scrive
introducendolo. Senza affrontare un’analisi specifica ed esauriente del rapporto tra Logica e
Fenomenologia, molto complesso, tuttavia qui un confronto tra le due opere è necessario: Hegel
infatti pone esplicitamente la Fenomenologia come premessa della Logica e, tuttavia, giacché è con
la Logica che inizia la Scienza propriamente detta, la «scienza pura» (53), il suo cominciamento
deve essere al tempo stesso immediato. Coincidenza di mediazione e immediatezza che non è per
nulla problematica, né per noi riguardo a ciò che stiamo cercando di comprendere, né tanto meno
per Hegel, che scrive qui: «non v’ha nulla, nulla né in cielo né nella natura né nello spirito né
dovunque si voglia, che non contenga tanto l’immediatezza quanto la mediazione» (52). Quel che si
tratta piuttosto di capire, ed è a tale scopo che riprendiamo qui gli esiti della Fenomenologia, è in
che rapporto la premessa mediata della Logica sia con il suo cominciamento immediato, cosa
avviene in questo cominciamento, rispetto al quale Hegel ha posto la condizione metodologica che
esso debba coincidere con il Principio (Prinzip), nel senso che «quello che è il Prius per il pensiero
deve essere anche il Primo nell’andamento del pensiero» (52).
Condizione che non parrebbe proibitiva: in fondo, il primum della Logica è stato già detto e
ripetuto più volte: la coincidenza di logos e on, di Denken e Sein, che era appunto il portato della
Fenomenologia dello Spirito. In queste pagine Hegel scrive – e lo fa nei termini di
un’«esposizione» (Darlegung) speculativa e non di semplice riflessione –: «il cominciamento è
logico, in quanto dev’esser fatto nell’elemento del pensiero che è liberamente per sé, cioè nel
sapere puro. Esso è quindi mediato dal fatto che il sapere puro è l’ultima, assoluta verità della
coscienza», quale è venuta in luce nella Fenomenologia, l’Idea che si «è determinata come la
certezza fattasi verità, si è determinata cioè come la certezza che da un lato non sta più di contro
all’oggetto, ma lo ha reso interno, lo conosce come se stessa, dall’altro lato poi ha anche
abbandonato il sapere di sé come qualche cosa che stia di contro all’oggettività e ne sia soltanto la
negazione, si è espropriata di questa soggettività ed è una con questo suo espropriarsi. […] In
quanto è venuto a fondersi in quest’unità, il sapere puro ha tolto via ogni relazione a un altro e a una
mediazione. È quello che non ha in sé alcuna differenza. Questo indifferente cessa così appunto di
essere sapere. Quel che si ha dinanzi non è che semplice immediatezza», che nella sua «vera
espressione» è il «puro essere»: «come per sapere puro non s’ha da intender altro che il sapere
come tale, in maniera cioè affatto astratta, così anche per essere puro non s’ha da intender altro che
l’essere in generale; l’essere, e niente più, senz’alcun altra determinazione e riempimento».
Ma il punto è proprio questo:
– Che significa «Essere in generale, L’Essere e niente più»? Niente più oltre cosa?
– Ed è questo che la Fenomenologia ci ha consegnato o non piuttosto il «sapere assoluto»?
Vale a dire che l’identità di logos e on, l’unità perfetta dei due, è davvero tale da cancellare
qualsiasi relazione tra essi e quindi ribaltarsi nel puro immediato e indifferente Essere?
– E ancora: questo essere come l’irrelato, immediato, indifferente e semplice, entro cui
letteralmente collassa il Logos, piuttosto che alienarsi o oggettivarsi, è ancora quello della
Fenomenologia? E se non lo è, perché non può più esserlo?
Sono tre domande differenti, le ultime due poste per cercare di dare una risposta alla prima,
che è naturalmente quella decisiva: cerchiamo insomma dal confronto con la Fenomenologia
indicazioni per comprendere cosa diviene l’Essere nel I momento della Logica. Tenendo presente
innanzitutto proprio questo: che si tratta appunto di un momento nella forma del concetto. Al
14
riguardo, leggiamo proprio nella Fenomenologia, insieme ad altre considerazioni importanti su cui
torneremo tra poco, ciò che differenzia, da un punto di vista speculativo, le figure della coscienza
dai concetti della scienza: «Se nella fenomenologia dello spirito ogni momento è la differenza del
sapere e della verità e il movimento in cui lo spirito si supera, la scienza per contro non contiene
questa differenza né il superamento di essa; anzi, siccome il momento ha la forma del concetto, il
momento stesso unifica in immediata unità la forma oggettiva della verità e quella del Sé cui è
intrinseco l’atto del sapere» (Fen. II, 303)9.
Su questa «immediata unità» di verità e sapere nei momenti del concetto torneremo, poiché
è evidentemente una determinazione molto importante rispetto all’assunto di fondo su cui stiamo
insistendo, ma cerchiamo ora di rispondere alle ultime due domande poste, ossia se il «sapere» e
l’«essere» della Logica sono ancora quelli della Fenomenologia.
In essa, il primo momento è quello della certezza sensibile, ovvero del «Sapere
dell’immediato o dell’essente», di un «puro essere della cosa», Sein der Sache, che è anche qui,
come nel primo momento della Logica, «einfache Unmittelbarkeit», semplice immediatezza, se non
che qui si tratta di «uno posto in quanto il semplice immediatamente essente, o in quanto un entità,
l’oggetto [eines als das einfache unmittelbar seiende, oder als das Wesen gesetzt, der Gegenstand]»,
ciò che sta immediatamente di fronte alla sensibilità, di cui la certezza sa solo questo: che è, «es
ist». Nella sua peripezia attraverso le varie figure dell’oggetto e della coscienza, questa fa
l’esperienza – e noi acquisiamo così «la scienza» di tale esperienza –, che quella immediatezza
esterna dell’oggetto come l’altro della coscienza è illusoria. Il sapere assoluto è innanzitutto il
«superamento dell’oggetto della coscienza» (II: p. 287), che nel riconoscerne la nullità, non per
questo lo distrugge, ma anzi propriamente lo pone, tramite il doppio movimento di alienazione di sé
nella cosa e superamento di quell’alienazione nella consapevolezza di essere la cosa stessa.
Vale la pena citare per intero un passo dell’ultimo capitolo della Fenomenologia molto
chiaro al riguardo: «L’alienazione dell’autocoscienza pone la cosalità (die Dingheit), onde
l’alienazione ha un significato non solo negativo, ma anche positivo, e ciò non solo per noi o in sé,
ma anche per l’autocoscienza stessa. Per essa il negativo dell’oggetto o l’autotogliersi di
quest’ultimo ha un significato positivo, ovvero essa sa quella nullità dell’oggetto, perché, da una
parte essa aliena se stessa: – infatti in questa alienazione pone sé come oggetto o, in forza
dell’inscindibile unità dell’esser-per-sé, pone l’oggetto come se stessa. E, d’altra parte, in quest’atto
è contenuto l’altro momento onde essa ha anche tolto e ripreso in se medesima quell’alienazione e
oggettività, essendo dunque presso di sé nel suo esser-altro come tale». Tramite questo movimento
della coscienza, essa stabilisce «una relazione all’oggetto secondo la totalità delle determinazioni di
questo», totalità che «rende l’oggetto, in sé, un’entità spirituale» (ein geistigen Wesen e più oltre
Wesenheit; II: 551s.). Tradotto nei termini che stiamo usando: to on kath’auto è logos o forse ancor
meglio nous, intelletto come spirito.
Qualcosa che, però, nel contesto della Fenomenologia non può essere esposto nel puro
elemento del concetto; – ed è qui che si apre lo scarto con la Logica, poiché la coscienza non è
ancora il concetto unitario di quell’essenza spirituale nella sua totalità, ma solo le sue molteplici
esperienze. Ancora nei termini del rapporto tra sapere ed essere, Hegel elenca così le determinazioni
fondamentali di quella totalità che è l’oggetto, mettendo in campo tutta una serie di termini che
ritroveremo nella Logica: «L’oggetto è in parte essere immediato o una cosa in genere
(unmittelbares Sein oder ein Ding überhaupt), che corrisponde alla coscienza immediata; in parte
un divenir-altro di sé, cioè la sua relazione o il suo essere per altro ed esser-per-sé, la
determinatezza (Bestimmtheit), che corrisponde alla percezione; in parte Essenza (Wesen) o
l’universale, che corrisponde all’intelletto. […] Secondo queste tre determinazioni la coscienza
deve sapere l’oggetto come se stessa. Ma questo non è il sapere come puro concepire l’oggetto […].
Nella coscienza in quanto tale l’oggetto non appare ancora come l’essenzialità spirituale, quale fu
9
La Fenomenologia dello spirito (Fen.) è citata nell’edizione in due volumi de La nuova Italia, a cura di E. De Negri.
Come per ogni altra opera, qualora il confronto con il testo originale lo richieda, la traduzione è stata modificata.
15
da noi testé espressa; e il comportamento della coscienza verso l’oggetto non è la considerazione di
esso in questa totalità in quanto tale, né nella pura forma concettuale di quest’ultima» (Fen. II: 288).
È tale considerazione propriamente il compito della Logica, in qualche modo ripetere il
percorso della Fenomenologia, ricapitolando i momenti di quella totalità – questa volta però
assumendoli sin dall’inizio come momenti del concetto, ovvero pensando sin dall’inizio quella
totalità in quanto tale, come unità – avendo attinto la pura dimensione concettuale, e quindi
superato del tutto l’opposizione e anche la ricomposizione tra una coscienza e il suo oggetto.
Il discorso è molto chiaro e da esso appare anche chiara l’esigenza di non procedere, nella
Logica, tramite una progressione di relazioni di un sapere a un saputo, bensì lungo la dialettica dei
momenti dell’unitotalità che è l’essere in quanto concetto. E così anche – giacché è il concetto in
ultima istanza la vera natura dell’essente, ossia è il logos che, nell’identità di on e logos, rimane il
baricentro – di partire dal puro essere, per andare a terminare, nell’esposizione compiuta della sua
essenza, nel concetto puro: Hegel esprime spesso la cosa dicendo, come fa anche in queste pagine,
che nello sviluppo della scienza «l’andare innanzi è un cammino all’indietro entro il fondamento,
verso l’originario e il vero – ein Rückgang in den Grund, zu dem Ursprünglichen und Wahrhaften –
dal quale quello, con cui si era incominciato, dipende ed è, infatti, prodotto – hervorgebracht:
portato innanzi», originario e vero che è appunto il sapere assoluto che produce l’essere, il logos
che si fa on: «così – scrive di seguito – si conosce lo spirito assoluto (che si mostra qual concreta ed
ultima somma verità di ogni essere) come quello che al termine dello sviluppo liberamente si
estrinseca e si emancipa nella forma di un essere immediato – si risolve cioè alla creazione di un
mondo. […] L’essenziale per la scienza non è tanto che il cominciamento sia un puro immediato,
quanto che l’intera scienza è in se stessa una circolazione, in cui il Primo diventa anche l’Ultimo e
l’Ultimo anche il Primo»10.
Tutto questo è evidente, e tuttavia, per quanto possiamo comprenderne le esigenze diciamo
anche sistematiche, dal punto di vista teoretico è comunque opportuno constatare come nel
passaggio dalla Fenomenologia alla Logica, ciò che nella Fenomenologia vale senz’altro
immediatamente come “essere” non è in alcun modo l’Essere che la Logica pone come suo primo
momento ed il cui senso – o mancanza di senso – ci lascia perplessi. Nella prima opera, infatti, dove
si parte dalla coscienza immediata di un che, di un dieses, abbiamo visto che essere è
immediatamente l’essere di una cosa, l’essere come una cosa (unmittelbares Sein oder ein Ding
überhaupt). Nell’Introduzione alla Fenomenologia, Hegel scrive che la coscienza «distingue da sé
un alcunché al quale in pari tempo si rapporta», ove «l’essere di un alcunché per una coscienza è il
sapere», da cui «distinguiamo l’esser-in-sé: il rapportato al sapere viene altrettanto distinto da esso
e posto come essente anche fuori di questo rapporto; il lato di tale in sé dicesi verità». Momento
della verità in realtà ambiguo: «la coscienza sa qualcosa (weiss Etwas); questo oggetto è l’essenza o
l’in sé; ma esso è l’in sé anche per la coscienza; e con ciò entra in gioco l’ambiguità di quel vero»
(Fen. I, 76), che è poi ciò che mette in movimento lo sviluppo dialettico.
Quel che però qui più ci interessa è altro e riguarda proprio questo Etwas, che Hegel scrive
con l’iniziale maiuscola e in corsivo, per evidenziarne la rilevanza teoretica e indicarne la funzione
logica, che non è riducibile a quella di un esistenziale, come avviene nella logica formale per le
funzioni del tutto e del qualcuno, ma è quella di un sostanziale, ossia per sottolineare che in ogni
etwas del pensiero è pensato un essente, un ente: Sein. Ebbene, questo essente, che si presenta
innanzitutto nella figura del qualcosa, Etwas, dello hekaston, è immediatamente l’oggetto della
coscienza, nelle varie forme in cui si dà ad essa un simile oggetto e che abbiamo enumerato: ein
Ding überhaupt, Bestimmtheit, Wesen. Queste tre forme, a ben vedere, corrispondono a tre modi
elementari in cui pensiamo l’essere, modi che nella filosofia analitica odierna sono distinti come
diverse accezioni e funzioni logiche del verbo essere – esistenziale, copulativa, predicativa,
identitaria… – mentre nell’ontologia classica e ancora qui in Hegel, per tutta una serie di ottime
10
Log. 56 s.; I: 70 (a p. 57 si legge che l’ultimo, che è il vero essere del primo, è tuttavia anche il suo risultato,
«un’ulteriore determinazione del cominciamento stesso», diciamo il suo inveramento, con il quale il cominciante non è
tolto, ma conosciuto nella sua vera essenza).
16
ragioni, sono pensate inscindibilmente nell’unità dell’essere: l’esserci qui di “quest’uno
qualunque”; il questo come ente determinato, come “questo e non altro”; l’essenza di tale ente, il
suo essere “questo così e così”. Nei termini antichi to hen, to on e he ousia, l’uno, l’ente e l’essenza.
In quelli medievali: existentia, ens ed essentia…
Nel primo momento della Logica non troviamo esplicitamente nessuno di questi termini, che
vi compariranno solo successivamente, uno dopo l’altro, nelle loro varie articolazioni. Ciò che ci
viene posto dinanzi è la «semplice immediatezza» nella quale si è capovolta la mediazione assoluta
del sapere. Non abbiamo più a che fare con qualcosa, un uno, che è un ente, ossia un essente, bensì
con «Sein überhaupt, l’essere in generale; l’essere, e niente più, senz’alcun altra determinazione e
riempimento», non l’essere di una cosa o semplicemente ein Etwas, ein Ding, ma Essere e basta. Al
di là, però, di quelle tre accezioni, tramite cui per noi, ossia al logos, si dà qualcosa come essere,
che significa «essere e basta»? Se non è né l’esistere di uno, né l’individuarsi di un che, né l’entità
di un ente, cos’è «essere e niente più»? «Senz’alcun altra determinazione», scrive Hegel, ma a parte
quale determinazione? Poiché posto così, avendogliele tolte preliminarmente tutte, non ne ha
alcuna. Se non, precisamente, quella dell’indeterminazione. Ma per quale ragione mai l’essere
dovrebbe essere innanzitutto semplice immediatezza? E che significa semplice immediatezza? Non
è l’immediatezza stessa, in fondo, un’espressione dell’intelletto (55), una riflessione e non un
concetto puro? Tant’è che non può dirsi in termini positivi, ma solo come negazione, come il “non
mediato” e quindi sempre in riferimento al suo opposto? Né possiamo semplicemente sfuggire a tali
domande, rispondendo che, proprio come la Logica mostra subito, questo essere è precisamente
niente: «quando si è astratto da tutto non resta nulla» (91), lo stesso Hegel critica tale riduzione dei
primi movimenti della Logica, che renderebbe del tutto arbitrario cominciare dall’essere, piuttosto
che dal niente.
Ogni serio tentativo di comprendere un pensiero essenziale, anche laddove si approssima ai
limiti di quel pensiero, ossia laddove quel pensiero esperimenta i suoi propri limiti, entra in attrito
con le sue aporie fondamentali ed è costretto a fingersi una via d’uscita e così pure a mostrarla, non
può mai ridursi ad una confutazione sic et simpliciter. In filosofia, anzi, vi è tanto poco qualcosa
come una confutazione, quanto poco vi è qualcosa come una dimostrazione. Accontentarsi di aver
mostrato l’inconseguente, il vago o l’incompleto, il sottaciuto o seppellito, insomma, vuol dire
spesso non aver compreso affatto la questione. Per questo, nel mettere anche noi il dito nella piaga,
vi cerchiamo non l’assicurazione di una fede o di una malfidanza, ma anzi proprio il contrario:
vogliamo capire cosa quel pensiero ha propriamente tentato, cosa gli è magari anche riuscito,
seppure non sia quel che vogliamo tentare noi stessi. E la piaga, a dispetto di quel che lo stesso
Hegel lamentava, e in gran parte a ragione, ossia l’accanimento dei suoi critici intorno ai primi due
momenti della Logica, che offuscava tutto il suo ulteriore edificio, notevolissimo, entro il quale si
dava, ai suoi occhi, il suo vero contenuto e guadagno, non è affatto marginale.
Il problema, certo, non era quello tanto stigmatizzato all’epoca, ossia il trapasso dell’essere
nel niente, che è piuttosto un punto di forza, assolutamente essenziale non solo alla Logica, ma a
tutta la dialettica hegeliana e, più in generale, alla dialettica filosofica tout court. Semmai, ma con
diverse limitazioni, ciò che qui si presenta, per esprimerci nei termini di Heidegger, è una
perplessità circa il «senso dell’essere», questione di cui Hegel aveva sentore, se proprio nel
ragionare intorno alle aporie della posizione dell’essere in quanto il semplice immediato, nota come
voler andare al di là di ciò, ossia attribuire all’essere una qualche altra determinazione, al di là di
esso: essere e basta, significherebbe null’altro che voler dire l’essere dell’essere e quindi
condannarsi ad un regresso infinito (82). Il che non implica che dovremmo prendere la sua
soluzione come senz’altro adeguata, ma appunto cercare di comprendere cosa è stato tentato con
essa, a quale difficoltà immanente del pensiero – che è proprio il suo non poter uscire dal circolo
magico dell’essere – egli ha cercato di ovviare con la sua posizione dell’immediato indeterminato e
cosa, in tale posizione, egli abbia effettivamente posto.
17
Quel che, infatti, una lettura complessiva della Logica mostra, è che in questo “Essere e
basta” con cui essa comincia, a dispetto della sua immediatezza e vuotezza in linea di principio, è
già contenuta l’unità indifferenziata di quelle tre accezioni dell’essere che dicevamo, non ancora
determinatasi, ma già presente, solo in base alla quale esso può già valere, pur nella sua piena
indifferenza e completa astrattezza, come il «Positivo», come essere e non come niente. E insieme
l’unità dell’essere con la potenza del negativo del Logos.
Nel semplice, infatti, che a ben vedere precede l’immediato, che è tale proprio a partire da
quella semplicità, nell’Einfach: l’uno uno non affetto da null’altro, né internamente, né
esternamente, è dato già questo: che il semplice è. Uno è…
Nei termini di un’ontologia già andata a ritroso verso le sue elementari condizioni di
possibilità, ovvero di necessità, questo significa null’altro che aver posto quel che è imposto (in
quanto preposto): ognuno è un uno come un ente (hekaston hen einai hos on). Il semplicemente
immediato, il primo, ciò che è ancor prima di venire pensato, di essere visto, tuttavia già è: questo è
il «puro Essere» dello Logica, l’esser già di tutto ciò che immediatamente… è. È tale la costrizione
del pensiero, che anche il prima del primo occhio che si è aperto, come diceva al contrario
Schopenhauer, lo pensiamo già immediatamente come essente, essente stato, anche il prima di ogni
prima e il suo avvenire: la creazione ex nihilo come riempimento del vuoto originario – nei termini
scientifici contemporanei il Big Bang – è per noi un essente nella forma di un evento localizzato da
se stesso e temporalmente determinato (il «qui ed ora» della Fenomenologia come primi elementi
dell’oggetto della certezza), il prima ancora non esitiamo a definirlo «nulla quantistico» e ad
attribuirgli determinazioni d’essere –; e anche l’Idea assoluta in sé di Hegel, il Padre che è prima di
tutto, prima del tutto, è propriamente Essere: Colui che è, di cui la Logica articola il pensiero.
Niente di ciò che è pensabile, insomma, a partire dal niente stesso11, sfugge alla costrizione
dell’essere. Essere è in tal modo, davvero, l’immediato indeterminato: ogni cosa, anche ogni non
cosa, tutto e il contrario di tutto, immediatamente e del tutto a prescindere da come sia fatto, da cosa
sia o non sia, da qualsiasi altra determinazione, «weitere Bestimmung», è…
Essere e basta, senza nessun’altra determinazione o riempimento…: si comprende
facilmente l’abisso che è quest’inizio della Logica, il chaos che spalanca agli occhi. Cosicché nulla
è più comprensibile del fatto che tale abisso divenga e sia immediatamente anche il Niente, proprio
niente. E tuttavia si comprende anche come qui sia pensato l’assolutamente differente dal niente
(cfr. il paragrafo del Werden e la II Anm., 79 ss.), tutta la positività dell’essere, la concretezza del
mondo e del suo pensiero. Un tutto che innanzitutto, immediatamente, deve essere pensato prima di
ogni sua ulteriore determinazione, specificazione e riduzione: überhaupt –; e questo prima di tutto,
per il logos, è l’ente, to on, l’essente, nel lessico hegeliano Sein. Dove non solo non è pertinente,
malamente riflessivo, ma del tutto impossibile distinguere valenze, significati o sensi: Sein è Sein
und sonst Nichts. Niente è fuori dall’essente, del tutto in generale l’essere è essere o altrimenti
niente12.
E tuttavia in questo essere e basta non c’è solo tale immediatezza del singolo e del tutto, del
singolo che è tutto, c’è anche il suo modo, ovvero l’unità dei suoi modi, come “uno, ente ed
essenza”: solo che qui essa è ancora occultata, ancora chiusa in se stessa, nel suo «interno non
ancora evidente» per usare un’espressione della Fenomenologia (II, 289). E non ancora evidente
non solo per le esigenze del cominciamento assoluto, non solo per metodo e in linea di principio,
ma più fondamentalmente poiché quei modi devono imporsi incondizionatamente, ossia non come
ipotesi del logos, bensì come autoteticità dell’essere! Vale a dire che il puramente affermativo di
questo positivo che è il puro essere deve esporsi da sé e non come un’affermazione del logos.
Questo è il Doppio gioco di Hegel: egli eguaglia on e logos, nell’asserzione fondamentale: to on è –
essenzialmente: in verità – logos. E tuttavia richiede allo on stesso, che esso dimostri
quell’equazione! È il semplice immediato, il prima di tutto del tutto indeterminato, che deve
11
12
Cfr. p. 91: «il pensiero del niente – vale a dire il suo cadere nell’essere».
Propriamente neanche non-essere: cfr. I Anm., p. 71 ss.
18
arrotolarsi su se stesso, in continui capovolgimenti, estraniazioni e reimpossessamenti, per arrivare
al puro Logos e dimostrarsi Idea.
Da questo punto di vista, la ricapitolazione che la Logica è rispetto alla Fenomenologia
dello spirito sottrae a questa ogni evidenza di soggettività per porre nel puro elemento dell’essere
l’ipotesi del logos e così dimostrare a partire dall’essere, che esso è null’altro che pensiero e quindi
sottrarre al pensiero l’onere della prova e con esso il dubbio, inestinguibile, che tale asserto
corrisponda solo alle condizioni del suo proprio essere pensiero, ossia valga solo per lui e non
immediatamente e indeterminatamente per ogni cosa.
Nessun altra posizione dello spirito può vantare una simile compiutezza, assolutezza e
universalità: ogni altra, ossia ancora affetta da una qualche differenza tra il pensiero e la sua cosa, è
continuamente esposta a tale differenza e non può mai farsene o fargliene completamente carico.
Qui invece avvengono entrambe le cose: nella misura in cui la coscienza, con la Fenomenologia, si
è fatta carico del differente, nella stessa misura o ancor più, con la Logica, a farsene carico è tutto il
differente dallo spirito, che conferma così compiutamente la loro reciproca indifferenza.
Ma riprendiamo il testo dal punto dove lo abbiamo lasciato, ricordando solo
preliminarmente la richiesta metodologica di Hegel: il Prius per il pensiero deve anche essere il
primo nel suo andamento. Prius che è tale in vari modi: innanzitutto è quell’ente che, come
abbiamo visto, il pensiero si trova sempre già davanti, sempre già prima di tutto. Ma il Prius di cui
qui parla Hegel è anche inteso esplicitamente come il Principio, arche e fondamento del tutto,
«cominciamento oggettivo», dice Hegel, e non solo soggettivo, ossia «cominciamento d’ogni cosa»,
il «vero» e l’«assoluta ragion d’essere di tutto» (51 s.). Nella Fenomenologia abbiamo visto che in
prima approssimazione questo lato della Verità è quello dell’essere in sé di un essente per la
coscienza, in termini antichi il ti estin che il logos enuncia di un on, il «che è» di un qualsiasi ente.
Assunto però l’ente non come il singolo che ogni volta ho di fronte, ma nella sua totalità, quindi
astraendo da qualsiasi determinazione particolare, la «ragion d’essere di tutto», il principio di ogni
cosa e del vero – vero che nella sua stessa verità non è il semplice in sé, bensì concetto, ovvero
l’intero in sé e per sé – è precisamente ragione d’essere, ragione dell’essere, ragion pura del puro
essere: logos dello on kath’auto, in quanto tale.
Considerazione cui Hegel si approssima nella seconda parte della sua esposizione circa il
cominciamento, dove, dopo aver mostrato il suo carattere mediato dal risultato della
Fenomenologia, argomenta circa quello immediato: a partire dalla Fenomenologia «l’essere è il
cominciante mostrato come quello che è sorto per via di mediazione, e propriamente per via di una
mediazione tale, che è nello stesso tempo il suo proprio togliersi; colla presupposizione del puro
sapere quale risultato del sapere finito, cioè della coscienza. Ma se non si deve fare alcuna
presupposizione, se il cominciamento stesso si deve prendere immediatamente, allora esso si
determina solo per ciò che esso deve essere il cominciamento della logica, del pensare per sé. Non
si ha altro, allora, salvo la decisione, che si può considerare anche un arbitrio, di voler trattare il
pensare come tale. Così il cominciamento deve essere assoluto o, ciò che in questo caso significa lo
stesso, un cominciamento astratto. Non può così presupporre nulla [ovvero nessun ente in
particolare], non deve essere mediato da nulla, né avere alcuna ragion d’essere. Anzi, deve essere
esso stesso la ragion d’essere o il fondamento di tutta la scienza. Dev’esser quindi semplicemente
un immediato [ein Unmittelbares] o, piuttosto, soltanto l’immediato stesso [das Unmittelbares
selbst]. Come non può avere una determinazione di fronte ad altro, così non può nemmeno avere
alcuna determinazione in sé, non può racchiudere alcun contenuto, perché comporterebbe una
distinzione e relazione di diversi l’uno dall’altro e così una mediazione. Il cominciamento è dunque
il puro essere».
In questa esposizione del cominciamento in quanto immediato, la risposta alla domanda sul
primo pensato viene a coincidere con quella sul primo pensare, ossia come dicevamo oggetto e
metodo, cosa e come, si dimostrano esattamente lo stesso. Il pensare in quanto tale, astraendo da
tutto ciò che è, assolvendosi da qualsiasi contenuto e determinazione, non affidandosi a nulla, è
19
innanzitutto l’immediato indeterminato e così puro essere. Un argomento che non appare del tutto
ineccepibile: vediamo, infatti, che enunciata l’esigenza di cominciare immediatamente, la si traduce
nella richiesta che il cominciante sia semplice immediatezza, «semplicemente un immediato», che
poi viene subito elevato al rango dell’Immediato semplice, che ovviamente non è la stessa cosa. Si
deduce, insomma, un po’ sofisticamente, dalla mancanza di determinazione del cominciamento del
pensiero, che viene richiesta in linea di principio, la determinazione propria e primaria dell’essere
quale l’immediato semplice, l’immediato indeterminato.
Per quanto problematica come deduzione, però, essa è ovviamente coerente con la
precedente e quindi anche con la concezione della verità che sin dall’inizio è agente in entrambe:
come abbiamo visto, infatti, Hegel pone la verità innanzitutto dal lato dell’essere e non
dell’adeguazione dell’intelletto all’essere, che è invece definisce lato del sapere. Il movimento dello
spirito, però, è proprio quello del toglimento di tale differenza, ove, come si diceva nella
Fenomenologia, «la certezza si fa verità». Che non significa, semplicemente, che giunge al vero,
bensì, molto più radicalmente, che è il vero ossia, come comunque continua a valere, l’essere
stesso. Il sapere puro, come quello che ha tolto la differenza tra sapere e saputo, si fa dunque
immediatamente verità, ossia essere puro. Apparentemente analoga alla tesi aristotelica della
Metafisica circa il nesso tra ente e verità, quella di Hegel è piuttosto la riproposizione, speculare e
assolutamente radicalizzata, dell’equazione parmenidea tra noein ed einai: lì pensare ed essere sono
lo stesso poiché il pensiero non può pensare non-essenti, me eonta, e quindi ogni volta, in quanto
necessariamente pensiero di un ente, è anche necessariamente vero (secondo la lezione del Sofista
di Platone). Hegel pone esplicitamente e più volte Parmenide come il vero inizio della filosofia, il
suo cominciamento storico, che è uguale a quello logico, ossia l’essere puro, cominciamento
rispetto al quale il suo Sistema è esplicitamente il compimento, ossia l’inveramento di tutto il
movimento del pensiero, inveramento che non è altro che l’avvenuto passaggio dall’einai al noein,
che non cancella la loro identità, ma la traspone nell’ambito puramente logico, del pensare in
quanto tale, il cui movimento assoluto, ovvero svolto solo entro se stesso, è nella sua interezza la
verità stessa e, così, principio e fondamento di ogni essere. Questo capovolgimento è reso possibile
proprio dal fatto che, a differenza di ciò che avviene nella filosofia moderna e, in particolare in
quella critica, la verità è posta innanzitutto nell’in sé dell’oggetto e solo successivamente nel per sé
della coscienza di quell’in sé. È infatti grazie a ciò che, quando il movimento si compie nel
concetto, ossia ha annullato la differenza della coscienza, come qui nella Logica è assunto sin
dall’inizio, la verità del pensiero non è più solamente il sapere vero della cosa, ossia adeguato ad
essa, bensì la cosa stessa, invero la totalità di ogni cosa.
Nel primo momento della Logica questa equazione compare ancora nel suo grado
elementarissimo, anzi come pura astrazione, quindi priva di verità, che per Hegel è sempre una
verità concreta e mai il semplice frutto dell’astrazione o della riflessione. Nel discutere della
dialettica di Essere e Niente, infatti, Hegel ribadisce ripetutamente il carattere del tutto astratto di
questi primi due momenti e così la loro vuotezza di contenuti e determinazioni, che li rende, presi
isolatamente ognuno per sé, propriamente irreali, meri Gedankendinge, cose di pensiero, così come
lo è la «cosa in sé» kantiana. Ed è un’annotazione che non dobbiamo dimenticare, pena il
fraintendimento del concetto di divenire, di cui essere e nulla non sono momenti reali. Tuttavia,
come dicevamo all’inizio di tutto il nostro discorso sul cominciamento, l’ambiguità rimane, nel
senso che quella vuotezza dell’immediato indeterminato che è l’essere, così come lo è il niente, in
realtà non è proprio vuota, nella misura in cui quei due termini non cessano di avere un senso, di
averne anzi molti e contrastanti, che però proprio per gli assunti metodologici, come abbiamo
ripetuto, in linea di principio non possono essere esplicati. Nella lettura dei primi paragrafi si ha
così l’impressione che essere e nulla siano nomi vuoti, indifferenti, dunque in ultima analisi
arbitrari, quali però non sono e non possono essere, proprio se il concetto di divenire deve aver
senso solo grazie a loro. In essi c’è qualcosa di dunque ben più determinato di quanto le esigenze
del cominciamento non permettano di far emergere, qualcosa che bisogna arguire e dedurre dalla
loro funzione speculativa e non limitarsi a presentire.
20
Per questo il capitolo su «Quale deve essere il cominciamento della scienza?» è tanto
significativo, così come lo sono le annotazioni al primo capitolo. In esse, per esempio, e
precisamente nella III, leggiamo un passo molto indicativo: qui Hegel nota che, come puro risultato
di astrazione l’essere è «als Unbestimmte bestimmt», determinato come indeterminato, tal che
insomma sia «l’indeterminatezza a produrre la sua determinatezza», una contrapposizione che rende
quell’indeterminatezza «il determinato o negativo, e invero il puro negativo, del tutto astratto.
Questa indeterminatezza o negazione astratta, che così l’essere ha in se stesso, è ciò che la
riflessione esterna, così come l’interna, esprime quando lo pone equivalente al niente, lo chiarisce
come una vuota cosa di pensiero, niente. Oppure, si può anche dire, poiché l’essere è il privo di
determinazioni, non è la determinatezza (affermativa) che è, non essere, bensì niente. Nella pura
riflessione dell’inizio, come essa è prodotta in questa logica con l’essere in quanto tale, il trapasso è
ancora nascosto; poiché l’essere è posto solo come immediato, il niente esplode in lui solo
immediatamente».
È un passo notevole, squisitamente speculativo per tutte le contraddizioni dialettiche che
contiene, il cui susseguirsi rende molto chiaro, piuttosto che il contrario, quel che Hegel qui pensa e
ci aiuta a comprendere quel residuo ambiguo della dialettica dell’essere. Astrattamente il
determinato e l’indeterminato sono entrambi sia positivi che negativi: il determinato è positivo
poiché pone una determinazione (e in ciò finito), dunque negativo poiché nello stesso tempo nega
quelle differenti, tutto ciò che quella determinazione non è (il genere infinito del me einai come
heteron ancora del Sofista). L’indeterminato è positivo, poiché accoglie indifferentemente tutto, e
tuttavia si determina così come mancanza di determinazione, e dunque è negativo. L’essere del
primo momento della Logica vuol essere, nella sua semplice indeterminatezza, ossia appunto non
escludendo niente, l’incondizionatamente affermativo e tuttavia proprio per questo patisce la
negazione in se stesso. Ma è proprio questa sua natura affermativa che è intesa, ma non detta, nel
primo momento della Logica: è questo il verborgen, che fa esplodere la contraddizione immediata
del niente: «poiché l’essere è il privo di determinazioni, non è la determinatezza (affermativa) che è,
non essere, bensì niente». In questa frase, che pur nella sua natura squisitamente speculativa rientra
nelle annotazioni – a ragion veduta, poiché in essa non è taciuto ciò che nel primissimo inizio non
poteva ancora essere pronunciato –, Hegel in sostanza sta dicendo cosa c’è veramente nel puro
essere del cominciamento, ciò che in esso è celato, ma già pensato, pregiudicato: la pura
affermatività della determinatezza, «la determinatezza (affermativa) che è».
Non un determinato, ma Bestimmtheit, determinatezza affermativa, “certità”, ossia è il darsi,
porsi, affermarsi, esserci di un certo, di un qualche certo e di qualsiasi certo, ossia è insieme l’essere
di questo e di ogni questo, è il così e così di ognuno, ogni qui e ogni ora, ogni forma e ogni
mancanza di forma, è tutto in tutti i sensi e tutti i modi, totalità del tutto, che anche in ogni sua
negazione afferma. Ma da un essere così inteso Hegel non poteva partire, poiché in esso avrebbe
anche terminato, senza mai raggiungere il concetto, che è questo stesso essere solo alla fine della
sua esposizione e, in quella fine, integralmente come concetto, che non è altro che il movimento
stesso della sua esposizione, della sua autodeduzione. Ma non è solo per tale ragione, che al posto
dell’essere come determinatezza affermativa Hegel pone uno straccio vuoto…: come ho detto sin
dall’inizio, come Hegel ribadisce quando afferma che il cominciamento è logico, che nulla è
premesso se non la decisione di affidarsi al pensare in quanto tale, come si legge quando si tiene
presente che la «dottrina dell’essere» è la «logica del concetto come essere», sin dal primo
momento, sin già nella sua semplice indeterminatezza, l’essere è quel concetto che si pensa, che è
pensando se stesso, e che quindi non può più perdersi nell’immediatamente essente come unitotalità
di ciò che è, non può lasciarsi negare dall’immediatamente essente, ma deve al contrario negarlo,
per poterlo porre nuovamente come la propria verità: è questa potenza del negativo, l’elemento
propriamente speculativo della Logica, che ha bisogno di abbandonare innanzitutto l’essere alla sua
vuotezza astratta, per potersene reimpossessare alla fine come un proprio prodotto, alla sua nullità,
per poterlo creare ex nihilo.
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Non è certo per nulla estraneo a tutto ciò l’elemento cristiano, che anzi Hegel espone
esplicitamente, proprio rinviando alla creazione – e ricordiamo che la Logica vuole essere
propriamente l’esposizione di Dio prima della creazione, ossia l’articolazione compiuta del Logos
come Idea che si fa mondo della natura e spirito, liberamente…
Al di là, però, dell’elemento propriamente religioso, è nella stessa dinamica dell’ontologia
moderna (e quindi in qualche modo comunque cristiana e post-cristiana) che vanno ricercate le
ragioni più strettamente teoretiche di questa posizione: lo abbiamo visto, Hegel ha esplicitamente di
mira la rifondazione di una metafisica come Scienza, unità organica e sistematica di ontologia,
cosmologia, psicologia e teologia, ma una simile unità non può più fondarsi sull’elemento
cosmoteologico degli antichi, non dopo Cartesio e Kant. Il che, però, in Hegel non comporta
solamente o primariamente l’integrazione del «soggetto» nell’autoesposizione dell’essere: se per la
Fenomenologia la definizione heideggeriana del sistema hegeliano come «onto-teo-egologia» può
avere ancora le sue buone ragioni, rispetto alla Logica bisogna notare che l’elemento propriamente
soggettivo, l’ego del cogito, non vi ha affatto la stessa centralità 13. Il Logos che qui prende la parola,
infatti, non è più quello della coscienza, ma spirito assoluto, ovvero intelletto divino, logos che si fa
mondo e tuttavia in ciò rimane il Logos. Da tal punto di vista la Logica come ontologia, se proprio
dobbiamo inventarci definizioni, è teo-logica e logodicea.
Il cuore pulsante della Logica, insomma, è l’identità logos-theos, identità che si mostra in
quanto tale precisamente come unità di logos e on, ove è il logos il principio produttivo e quindi
divino. Non vi è forse nulla di più chiaro di ciò, che la citazione dalla Metafisica di Aristotele
(1072b18-30), che Hegel pone alla fine dell’Enciclopedia delle scienze filosofiche e quindi a
coronamento del sistema, citazione che ha in poche frasi il suo fulcro: tauton nous kai noeton. To
gar dektikon tou noetou kai tes ousias nous, energei de echon. Una frase, che Hegel
sottoscriverebbe integralmente con un’unica sostituzione: ponendo al posto del «dektikon»:
paragon… Non semplicemente «Lo stesso è l’intelletto e l’intelligibile. Ciò che accoglie
l’intelligibile e l’essenza è intelletto, che è in atto avendoli», bensì: «ciò che produce l’intelligibile e
l’essenza…». E, infatti, nella Storia della Filosofia, commentando questo stesso passo, Hegel
scrive: «il pensiero, essendo l’immoto che muove, ha un oggetto, che però si converte in attività,
giacché il suo contenuto stesso è un pensato, cioè esso stesso un prodotto del pensiero, e quindi del
tutto identico con l’attività del pensiero […]. Il più eccellente non è il pensato, ma è l’energia stessa
del pensiero: l’attività dell’accogliere produce ciò, che appare come se dovesse essere accolto […].
Se noi nel nostro linguaggio designiamo l’assoluto e il vero come l’unità della soggettività e
dell’oggettività, che perciò non è né l’una, né l’altra, come altresì è l’una e l’altra; Aristotele si è
travagliato in queste forme speculative, anche ai giorni nostri profondissime, e le ha espresse con la
maggiore determinatezza che si possa richiedere»14.
13
Indicative sono le critiche a Fichte, che punteggiano in vari luoghi questo testo, evidenziando l’insufficienza dell’Io
come principio.
14
Cfr. Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio, tr. it. di B. Croce, Laterza, Roma-Bari 1984, pp. 566 s. e
Lezioni sulla storia della filosofia (1825-26), tr. it. di R. Bordoli, Laterza Roma-Bari 2009, pp. 309 ss.
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