CLARITAS RERUM La questione della cosa, della res singularis, è

Rivista di Filosofia Neo-Scolastica, 1-2 (2015), pp. 275-280
Lorenzo Fossati*
© 2015 Vita e Pensiero / Pubblicazioni dell’Università Cattolica del Sacro Cuore
CLARITAS RERUM
La questione della cosa, della res singularis, è stata affrontata da Courtine grazie a
un’analisi profonda di un tema centrale del pensiero heideggeriano, e grazie anche al
riferimento a una pagina meno frequentata della sua opera; oltre ad offrire un’interpretazione di Heidegger, Courtine ha così assecondato il procedimento da lui seguito,
cercando di individuarne i movimenti e valutarne il punto d’arrivo.
La problematica estetica viene qui tipicamente sfruttata come abbrivio per quella
ontologica e metafisica: per Heidegger, in effetti, l’opera d’arte non è né imitazione del reale (Platone) né manifestazione della forma (neoplatonismo), ma posizione,
«istituzione» di una nuova e irriducibile verità ed essenza – anzi istituzione della stessa verità della cosa e manifestazione dell’essere: aj-lhvqeia.
Questo è quanto ci offre la considerazione de La lepre di Dürer (e qui cito Courtine): «Questa lepre qui, individuata, singolare, è allo stesso tempo la sua essenza.
Appartiene alla cosa stessa, quando essa è autenticamente res singularis, di apparire, di co-apparire con la sua essenza piena e intera»1. Lo statuto stesso della realitas
non è più legato all’universale, ante rem, al di qua di ogni Vereinzelung, di ogni
individuazione: ciò che è propriamente ente, ciò che si manifesta è la res singularis,
questa qui, caratterizzata essenzialmente dalla Jediesheit – la haecceitas di Duns
Scoto, il mundus concentratus di Leibniz.
Sviluppando questo concetto, Courtine ha richiamato quello di «epifania» in
Joyce, in connessione con la claritas tomasiana2 – claritas che è un tema portante
dell’opera poetica di un altro grande irlandese, Seamus Heaney, e che costituisce
il filo rosso della sua raccolta Seeing things, «veder cose» (si noti: anche nel titolo
torna il nostro mot clef: «cosa»).
*
Università Cattolica del Sacro Cuore, Milano.
J.-F. Courtine, Res singularis, in questo volume a p. 270.
Sul valore ontologico della claritas, connessa alla integritas e alla debita proportio, come espressione della forma in part. in Tommaso cfr. V. Melchiorre, Eticità dell’arte e senso dell’essere, Vita e Pensiero, Milano 1986, pp. 35-37.
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Nella poesia che dà il titolo al volume – e in cui la parola claritas compare – Heaney
descrive la sua visita all’isola Inishbofinn, e in particolare gli istanti di terrore sulla precaria barchetta che, stipato assieme agli altri visitatori, dal traghetto lo conduce a riva.
Tutto il tempo, mentre
traversavamo la profonda e quieta
acqua in cui la vista andava al fondo,
fu come se guardassi giù da un’altra
barca a mezz’aria, in alto, dalla quale
vedevo tutto il rischio di quel viaggio
dentro il mattino, ed amavo invano
le nostre teste chine, nude, numerate3.
Al di là dell’intrinseco valore letterario dell’opera, mi pare che qui si trovi un caso
esemplare del nostro tema e la possibilità di cogliere l’idea del titolo della poesia: da
un lato, si «vedono cose» nel senso che le cose si vedono davvero, come irriducibili
individualità che si colgono, una volta per tutte, si vede insomma finalmente la realtà (e la si ama); dall’altro, si «vedono cose» anche nel senso che si hanno visioni,
si vedono cioè le immagini tutt’altro che reali del delirio, e però – direi qui: und
dennoch! – questo secondo aspetto vale anche e soprattutto nel senso che si hanno
epifanie sì irreali ma che ci mostrano una volta per tutte l’intima verità ed essenza
del questo qui (e lo si ama)4.
A questo punto, sorge però la domanda: ma si dà mai davvero un questo qui? Non
abbiamo sempre e solo a che fare con le cose per mezzo di quei famigerati «concetti
universali», che mentre ci permettono di cogliere (almeno) qualcosa della cosa, necessariamente a un tempo ci portano in un altrove «platonico», ci trascinano nella sfera
degli eide, da cui la filosofia poi cercherà eventualmente di liberarci? Non siamo sempre costretti a reduplicare il questo qui in un’altra cosa, diversa, ideale e quindi non
reale, senza la quale però non avremmo alcun modo di cogliere la cosa? Nel celebre
passo della seconda meditazione, in cui Descartes considera il pezzo di cera che manipola e modifica, egli deve concludere che «è solo mediante la facoltà di giudicare, che
sta nella mia mente, che afferro quel che pensavo di vedere con i miei occhi»5: l’unità
dell’esperienza è data dall’intelletto.
La dialettica che qui prende avvio è seducente e suggestiva, e pare il classico inizio di un’impervia pagina filosofica che – giustamente – problematizza un elemento
scontato della nostra esperienza, anzi in questo caso il più fondamentale, quello cioè
dell’esperienza stessa, per sua natura intenzionalmente rivolta a un oggetto6. Ora ci
3
S. Heaney, Seeing Things, Faber & Faber, London 1991; ed. it. a cura di G. Sacerdoti, Veder cose,
Mondadori, Milano 1997, pp. 38-41, qui p. 41. Di seguito il testo originale (qui particolarmente necessario
trattandosi di un’opera poetica): «All the time / As we went sailing evenly across / The deep, still, seeabledown-into water, / It was as if I looked from another boat / Sailing through air, far up, and could see / How
riskily we fared into the morning, / And loved in vain our bared, bowed, numbered heads».
4
Per un approfondimento non solamente letterario cfr. H. Hart, What is Heaney Seeing in Seeing
Things?, «Colby Quarterly», XXX, (1994), 1, pp. 33-42.
5
R. Descartes, Meditationes de prima philosophia, AT VII, p. 32; tr. it. di E. Lojacono, Meditazioni
sulla filosofia prima, in Id., Opere filosofiche, Utet, Torino 1994, pp. 665-680, qui p. 675.
6
Su questa tensione tra Vorhandenheit e Anwesenheit cfr. M. Marassi, Ermeneutica della differenza.
Saggio su Heidegger, Vita e Pensiero, Milano 1990, pp. 295-305.
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si interroga a quali condizioni si dia nell’esperienza l’oggetto, la cosa, e quindi ci si
pone una di quelle domande che espongono al riso della donna di Tracia7; anzi, per
citare Heidegger, «ci allontaniamo delle cose che sono prossime ancor più di Talete
che pure guardava solo alle stelle. Noi vogliamo andare persino oltre queste, oltre
ogni cosa sino all’incondizionato (Un-bedingten), là dove non ci sono più cose che
offrano uno stabile fondamento (Grund und Boden)»8.
Tale allontanarsi dalle cose davanti ai propri piedi nello sforzo di vedere realmente
le cose è l’origine della domanda metafisica – domanda che nasce dalla meraviglia
(secondo un motivo tradizionale fin da Platone9 e Aristotele10): dallo qaumavzein che si
prova di fronte alle cose, che da esse si sprigiona.
Così Heidegger nel corso dedicato alle Grundfragen der Philosophie (1937-38):
«Il meravigliarsi e il far meraviglia si attengono sempre a cose che saltano agli occhi
perché non abituali, e mettono in risalto queste cose a partire dall’abituale e contro di
esso. […] Il meravigliarsi è un certo non-poter-chiarire (Nicht-erklären-können) e un
certo non-conoscere-il-motivo (Grund-nicht-kennen). Ma questo non-poter-chiarire
[…] è […], in primo luogo ed essenzialmente, un modo di trovar-si di fronte a qualcosa che non può essere chiarita, un essere sollecitati da essa»11. In questa sollecitazione,
in questa assenza di chiarimento della cosa non solo nasce l’esigenza del medesimo,
ma anche in qualche modo si trova, appare la cosa: «Lo stupefare (Er-staunen) […] sa
unicamente di trovare inconsueto il tratto più consueto di tutte e in tutte le cose: l’ente
in quanto essente. […] Lo stupore non volge le spalle all’abituale, ma si volge verso
di esso, però, come verso il tratto più inconsueto del tutto. Nella misura in cui questa
tonalità emotiva raggiunge il tutto e sta nel tutto, prende il nome di tonalità emotiva
fondamentale (Grundstimmung). […] Lo stupore apre l’unica cosa stupefacente che
gli appartiene, ossia: il tutto in quanto tutto, il tutto in quanto l’ente, l’ente nel tutto, il
fatto che esso sia quel che è; l’ente in quanto ente, l’ens qua ens; to on h on»12.
Si tratta dello stupore che costituisce il trascendimento metafisico dell’esperienza,
che a sua volta definisce l’essenza stessa dell’uomo, come conclude Heidegger alla
7
Impossibile non menzionare qui H. Blumenberg, Der Sturz des Protophilosophen. Zur Komik der
reinen Theorie, in W. Preisendanz - R. Warning (hrsg.), Das Komische, Fink, München 1976, pp. 11-64;
tr. it. di P. Pavanini, La caduta del protofilosofo o della comicità della teoria pura, Pratiche, Parma 1983;
ma anche Id., Das Lachen der Thrakerin. Eine Urgeschichte der Theorie, Suhrkamp, Frankfurt a.M. 1987;
tr. it. di B. Argenton, Il riso della donna di Tracia. Una preistoria della teoria, il Mulino, Bologna 1988.
Sembra quasi chiudere il cerchio tra Blumenberg e il significato dell’epifania (in questo caso di un leone
che misteriosamente appare nel suo studio e che, restando solo a lui visibile, prende a seguirlo nei suoi
spostamenti, quasi fosse un San Gerolamo redivivo) l’eccentrico volume di S. Lewitscharoff, Blumenberg, Suhrkamp, Berlin 2011; tr. it. di P. Del Zoppo, Blumenberg, Del Vecchio, Roma 2013.
8
M. Heidegger, Die Frage nach dem Ding. Zu Kants Lehre von den transzendentalen Grundsätzen (193536), hrsg. von P. Jaeger, Gesamtausgabe, Bd. 41, Klostermann, Frankfurt a.M. 1984, p. 8; ed. it. a cura di V.
Vitiello, La questione della cosa. La dottrina kantiana dei principi trascendentali, Guida, Napoli 1989, p. 46.
9
Platone, Theaetetus 155 D; tr. it. di C. Mazzarelli, Teeteto, in Tutti gli scritti, a cura di G. Reale,
Bompiani, Milano 2000, pp. 191-260, qui p. 206.
10
Aristotele, Metaphysica I, 2, 982 b 12; ed. it. a cura di G. Reale, Bompiani, Milano 2004, p. 11.
11
M. Heidegger, Grundfragen der Philosophie. Ausgewählte «Probleme» der «Logik» (1937-38),
hrsg. von F.-W. von Herrmann, Gesamtausgabe, Bd. 45, Klostermann, Frankfurt a.M. 1984, pp. 157-158;
tr. it. di U.M. Ugazio, Domande fondamentali della filosofia. Selezione di «problemi» della «logica», Mursia, Milano 1988, p. 112.
12
Ibi, pp. 167-169; tr. it., pp. 119-120. Sulla nozione di Stimmung cfr. anche L. Spitzer, Classical and
Christian Ideas of World Harmony, Johns Hopkins Press, Baltimora 1963; tr. it. di V. Poggi, L’armonia del
mondo. Storia semantica di un’idea, il Mulino, Bologna, 1967, 20062.
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fine de Die Frage nach der Ding: «L’uomo va concepito come colui il quale già da
sempre trascende le cose, ed in modo tale che questo trascendere è possibile solo in
quanto le cose ci vengono incontro, e venendoci incontro ci risospingono dietro di noi
stessi, dietro la nostra superficie», rivelando «una dimensione che è tra la cosa e l’uomo, e che si protende oltre le cose e dietro l’uomo»13.
Si tratta dello stupore che proviamo di fronte all’acquarello di una lepre o guardando
a noi stessi sballottati dalle onde del mare irlandese, dello stupore che ha valore epifanico, manifestativo dell’irriducibile identità dell’esistente, della res singularis14 – tema
delle penetranti riflessioni di Courtine, che ho qui tentato di sviluppare ulteriormente.
Due mi paiono essere allora le questioni fondamentali che sono state sollevate e che
meritano di esser messe a fuoco per chiarire la «cosa trattata». Le direi appunto fondamentali non perché a queste si debbano ridurre i molti spunti offerti dal suo contributo,
quanto piuttosto perché mi sembrano quelle che ne costituiscono lo sfondo e che quindi
sono maggiormente in grado di stimolare ulteriori ampliamenti e specificazioni.
La prima questione riguarda il rapporto tra l’individuale e l’universale.
La domanda circa le condizioni di possibilità della cosa singolare, su che cosa cioè
costituisca la cosa in quanto cosa («was, das Ding zum Ding be-dingt»), deve condurre a un principio di determinazione, cioè a una «causa». Nel caso dell’opera d’arte si
determinerebbe una sorta di coincidenza tra singolare e universale, di novità che si sprigiona, che ci permetterebbe di cogliere l’individualità nella sua singolare irripetibilità. Ma in che senso questo può essere un caso paradigmatico dell’ente in generale, o
dell’esperienza che l’uomo fa dell’essere? Heidegger richiama Duns Scoto, che ha ben
chiarito come «l’essere-individuale (das Individuelles-Sein) non coincid[a] con l’essere-un-oggetto-in-genere (das Überhaupt-ein-Gegenstand-Sein)»15. Ma la nozione scotista di haecceitas (presente senz’altro a Heidegger), rendendo conto della «cosalità della
cosa», si mantiene a un livello concettuale che permette di chiarificare l’esperienza ed
è significativa di una diversa comprensione o concettualizzazione dell’esperienza: ci si
potrebbe allora chiedere quali siano i guadagni della riflessione heideggeriana rispetto a
un approccio «onto-teologico» all’individualità16. Del resto, al momento di concludere,
anche Courtine si richiama «positivamente» a Tommaso e a Duns Scoto.
E questo ci porta alla seconda questione, che riguarda il rapporto tra esperienza
e pensiero.
Certamente l’esperienza è sempre dell’individuale, ma esso è colto attraverso una
raffigurazione, una concettualizzazione, che appunto rimanda a una dimensione che
trascende l’hic et nunc, il Solches-Jetzt-Hier: da un lato, l’esperienza dell’individuale
Heidegger, Die Frage nach dem Ding, p. 246; ed. it., p. 255.
Su questo cfr. R. Diodato, L’invisibile sensibile. Itinerari di ontologia estetica, Mimesis, Milano Udine 2012, in part. pp. 102-103.
15
M. Heidegger, Die Kategorien- und Bedeutungslehre von Duns Scotus (1915), hrsg. von F.-W. von
Herrmann, Gesamtausgabe, Bd. 1, Klostermann, Frankfurt a.M. 1972, pp. 189-412, qui p. 252; tr. it. di A.
Babolin, La dottrina delle categorie e del significato in Duns Scoto, Laterza, Roma-Bari 1974, p. 64. Sulla
dissertazione heideggeriana e in particolare sulla lettura dei trascendentali e dell’analogia in relazione alla
teoria del giudizio, cfr. M. Lenoci, Autocoscienza, valori, storicità. Studi su Meinong, Scheler, Heidegger,
Franco Angeli, Milano 1992, pp. 226-238.
16
Mi pare mantengano la loro pertinenza le questioni poste in S. Vanni Rovighi, L’interpretazione
heideggeriana di Kant, in L. Pelloux (a cura di), L’esistenzialismo. Saggi e studi, Studium, Roma 1943,
pp. 173-184.
13
14
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avrebbe un valore epifanico di qualcosa di altro e, dall’altro, non si darebbe se non per
mezzo di tale altro da sé, che è appunto il concetto (e questo parrebbe valere anche
nel caso dell’esperienza estetica) – kantianamente: i concetti senza le intuizioni sono
vuoti, le intuizioni senza i concetti sono cieche. Ma «cosa» non è appunto il concetto più generale, qualcosa cioè che nell’esperienza in quanto tale non si dà, ma solo
in un particolare sguardo (metafisico) sull’esperienza? Questo tema si riconnette a
quella che si può definire la moderna «mentalizzazione» dell’ontologia – penso qui
a Suarez, di cui Courtine è autorevole interprete17 – per cui si pone a fondamento di
essa la nozione di Ding, di cosa, di ente in generale, di cui poi si dovranno indagare le
effettive modalità di essere, in questo negando in qualche modo il primato all’esperienza dell’essere attuale, esistente (Aristotele). Si pone allora qui l’interrogativo se il
tentativo di riguadagnare l’individualità da parte dell’ontologia non sia strutturalmente votato al fallimento, certamente, ma senza vedere in questo una «colpa», quanto
piuttosto la necessità derivante dal tipo di indagine intrapresa; vale la pena insomma
sottolineare lo scarto tra individuale e universale, tra esperienza e pensiero, o piuttosto
non è meglio analizzare come e in che termini tale scarto sia strutturale e cognitivamente vantaggioso (quando non necessario)?
In chiusura, vorrei aggiungere quasi a margine un’ultima considerazione.
Se abbiamo richiamato la meraviglia, lo qaumavzein di fronte alle cose, per meglio
apprezzare il ruolo che gioca in Heidegger, in particolare cercando di approfondire il
collegamento tra la problematica estetica e quella ontologico-metafisica, vale la pena
ricordare che nel primo Libro della Metafisica dalla meraviglia poi si passa – o poi
si pretende di passare – a qualcosa che non sia più tale, giacché, per Aristotele, «il
possesso di questa scienza», cioè della metafisica, «deve porci in uno stato contrario a
quello in cui eravamo all’inizio delle ricerche. Infatti […] tutti cominciano dal meravigliarsi che le cose stiano in un determinato modo», ma «bisogna pervenire allo stato
d’animo contrario, il quale è anche il migliore. […] E così avviene, appunto, […] una
volta che si sia imparato: di nulla un geometra si meraviglierebbe di più che se la diagonale fosse commensurabile al lato»18. Lo scopo della filosofia dovrebbe insomma
essere quello di rivelarci – nei limiti del possibile – le cause delle cose, la loro strutturale necessità, il loro non poter essere diverse da come sono19.
Se in Heidegger la meraviglia sembra avere una valenza metafisica «intrinseca»,
essa è invece solo un primo passo che va aufgehoben, superato, per chi si richiama a una
tradizione diversa e si assume almeno in parte il rischio di sottoscrivere una posizione
«onto-teologica», ritenendo con questo di far tesoro del monito di Arthur Schnitzler: «Tiefsinn hat nie ein Ding erhellt; Klarsinn schaut tiefer in die Welt»20, che così
tradurrei: «Mai cosa fu chiarita dalla profondità di pensiero; a penetrare più profondamente il mondo è la chiarezza di pensiero» – ed ecco qui, ancora una volta, la claritas.
17
Di Courtine vorrei almeno citare il capitale Suárez et le système de la métaphysique, PUF, Paris
1990; ed. it. a cura di C. Esposito, Il sistema della metafisica. Tradizione aristotelica e svolta di Suárez,
Vita e Pensiero, Milano 1999.
18
Aristotele, Metaphysica I, 2, 983 a 11-21; ed. it., pp. 13-15.
19
Sul legame in Aristotele tra qaumavzein, ajporein e soqiva cfr. M. Heidegger, Platon: Sophistes
(1924-25), hrsg. von I. Schüßler, Gesamtausgabe, Bd. 19, Klostermann, Frankfurt a.M. 1992, pp. 125128; ed. it. a cura di N. Curcio, Il «Sofista» di Platone, Adelphi, Milano 2013, pp. 161-164.
20
A. Schnitzler, Buch der Sprüche und Bedenken. Aphorismen und Fragmente, Phaidon-Verlag,
Wien 1927, p. 7.
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Abstract
Il contributo approfondisce la lettura di Heidegger offerta da Cortine in relazione alla questione
della «cosa», attingendo alla metafisica aristotelica e soffermandosi sul rapporto tra individuale
e universale, e tra esperienza e pensiero.
Parole chiave: Martin Heidegger, estetica, meraviglia, onto-teologia, claritas
The paper goes into the reading of Heidegger offered by Courtine in relation to the question of
«thing», drawing on Aristotelian metaphysics and focusing on the relationship between individual and universal, and between experience and thought.
Keywords: Martin Heidegger, Aesthetics, Wonder, Onto-Theology, Claritas