2. Il paesaggio delle Cicladi, millenni di muri in pietra
I paesaggi delle isole Cicladi sono una ricchissima testimonianza di come è stata la vita dei popoli dell’Egeo
per migliaia di anni. Per capire la peculiarità delle isole bisogna comprendere anzitutto il loro paesaggio
naturale.
Le isole sono picchi di un terreno montuoso sommerso, con l’eccezione di due isole vulcaniche, Milos e
Thera (Santorini). Il clima è generalmente secco e mite, ma, con l’eccezione di Naxos, il suolo non è molto
fertile: viti, frumento e ulivi sono tra le poche essenze benefiche che il terreno può nutrire. Temperature
più fresche si trovano alle altitudini più elevate, e tendenzialmente queste isole non ricevono un clima
invernale. Durante tutta la stagione estiva non cade una goccia di pioggia, il terreno è quasi completamente
secco, l’erba è gialla e sembra paglia e il caldo è intenso. Bassi arbusti, cardi e cespugli spinosi sono gli
elementi di una vegetazione legnosa e spezzata. Solo lungo gli incavi delle valli, gli oleandri e qualche
eucalipto forestiero sfruttano un distillato di umidità, mentre le poche ombre nette sul suolo invitano
animali e uomini all’attesa.
Durante i mesi invernali il sole più basso e le piogge nell’entroterra rinfrescano e rinvigoriscono le piante, i
prati tornano momentaneamente verdi e i bassi globi spinosi si riempiono di boccioli pronti alla fioritura
primaverile.
E sassi, sassi ovunque. Sono loro i veri protagonisti di queste terre montuose dalla natura di pietraie.
Qualsiasi attività si sia voluta praticare sulle coste, sulle colline e sugli altipiani ha dovuto affrontare il
problema delle pietre, poiché queste tappezzano la terra.
Ora, il punto di partenza è il seguente: i popoli nomadi delle steppe continentali si spostano sempre con il
loro bestiame, che mangia ciò che trova nel suo eterno migrare. Ma quando c’è insediamento, c’è
agricoltura stabile e pascolo stabile. Come vivere, come coltivare e come far pascolare il gregge su questi
ossuti pendii dove ogni passo è un ostacolo?
Ecco vediamo gli antichi abitanti che si piegano e spostano a mano le pietre per liberare il terreno.
Inconsapevoli, compiono quell’antichissimo gesto che per generazioni e generazioni costituirà l’unica via
per sopravvivere su queste terre. Da secoli, questi arcaici abitanti conoscono per tradizione la tecnica di
coltivare le piante commestibili, addomesticate nella notte dei tempi, e questo antico sapere di certo non è
stato abbandonato nelle loro terre d’origine, di là del mare. Viene spontaneo per loro sfruttare le occasioni
che la terra offre, perché pochi sono i regali e perenne la fame. Le pietre raccolte servono per sostenere i
terrazzamenti, così da avere piatte fasce di terra, su cui l’acqua non scorre via come sui pendii. E,
soprattutto, le pietre, impilate in muri, bloccano la via agli animali. È infatti necessario che le capre e le
pecore e gli asini consumino con logica l’erba disponibile, mangiandola quando è alta e lasciandola crescere
quando è bassa. Con le pietre, infatti, si possono creare dei confini: le terre di riferimento di una famiglia o
di un genos vengono recintate, separate e a loro volta ripartite. È necessario anche che gli animali non
invadano i terreni coltivati, e ovviamente che non scappino. Così fecero le prime tribù meglio organizzate,
mentre altre copiavano la tecnica o scomparivano senza risorse. E così faranno per centinaia di anni,
perpetuando questo faticoso artificio di padre in figlio. Dobbiamo immaginare, infatti, che queste
dinamiche sono durate secoli, che niente è avvenuto all’improvviso e che ciò che per noi può sembrare
ovvio, è frutto in realtà di una lunghissima fase di tentativi e miglioramenti.
Le isole Cicladi ancora oggi raccontano questa storia, poiché la vita delle loro genti si è protratta nei secoli
con una organizzazione affine, e con pochi cambiamenti fino agli inizi del XX secolo. Oggi questa autarchia
millenaria è scomparsa, lasciando in eredità millenni di muri in pietra, infiniti monumenti litici
all’ingegnosità del pensiero umano. Pensiero che fa della tecnica una prassi … e forse qualcosa di più.
QUADRO STORICO CRONOLOGICO
IL MARE EGEO DAL NEOLITICO ALLA FINE DEL PERIODO CLASSICO
Già dal periodo preistorico il Mediterraneo Orientale è stato teatro di popolazioni che da una vita nomade
primordiale hanno dato luogo ad insediamenti particolarmente avanzati. La cosiddetta Mezzaluna Fertile
tocca giustappunto le sponde più orientali del suo bacino, e tutte le innovazioni che hanno avuto luogo nel
Vicino Oriente -come l’agricoltura e la scrittura- si sono diffuse con continuità verso occidente, prima
risalendo la valle del Nilo e poi toccando ad una ad una le numerosissime isole del mare Egeo. Le diverse
sponde di questo mare erano in comunicazione tra loro già dal 9000 a.C.
I MARI DI LEVANTE 4000 ANNI FA
L’età del Bronzo si diffonde nel Vicino Oriente a partire dalla metà del III millennio a.C. e si conclude con la
bufera dei “popoli del mare”, nel XII secolo. La sua storia si può certamente scrivere in tono drammatico:
invasioni, guerre, saccheggi, disastri politici, stagnazioni economiche di lunga durata, prime mescolanze di
popoli. Malgrado ciò, imperi, città, nomadi, barbari delle montagne, tutti sono coinvolti in un movimento
d’insieme la cui forza creatrice diffonde un notevole grado di civiltà nonostante tutte le frontiere. In tal
modo si crea una sorta di unità fra le terre e i mari del Mediterraneo Orientale. La storia dell’età del Bronzo
può essere scritta, oltre che sotto il drammatico segno della violenza, anche sotto quello benefico delle
relazioni – relazioni commerciali, diplomatiche e soprattutto culturali. Il Mediterraneo sembrava impegnato
nell’impresa di espandere questo universo culturale in tutto il suo bacino, quando verso la fine del secondo
millennio prima della nostra era delle invasioni dall’enorme portata tagliarono in due lo scenario: la Grecia
e il mar Egeo si trovarono tagliati dal mondo del Medio Oriente. Questa lacerazione conteneva in potenza la
grande scissione culturale del futuro, quella tra Oriente e Occidente.
Nel mondo del Levante del 2000 a.C. gli scambi commerciali erano alla base dell’economia di tutte le
popolazioni, più di quanto potesse esserlo mille anni dopo. Ogni popolazione affacciata sul bacino orientale
del Mediterraneo aveva istituito rapporti di scambio commerciale con le altre. Sicuramente, le città e i
villaggi avevano per necessità un loro ambito produttivo agro-pastorale; questo, però, non era l’unica loro
fonte di sostentamento, né tantomeno l’unico mezzo di produzione degli utensili. La metallurgia del bronzo
ha avuto un ruolo importante, soprattutto dopo il suo incontro con le dense società della Mesopotamia e
dell’Egitto. Esattamente come agli esordi dell’agricoltura, l’innovazione della metallurgia (e anche più tardi,
con il ferro) non nasce all’interno dei paesi più privilegiati. La fusione del rame e le sue leghe si è sviluppata
nella parte settentrionale della Mezzaluna fertile: Iran occidentale, Caucaso, Armenia, Asia Minore, a
partire dal IV millennio. Armi e oggetti vari erano in origine in pietra e legno, materiali facilmente reperibili.
L’utilizzo del metallo, però, costituiva un notevole vantaggio, e per questo veniva barattato, in stato grezzo
o lavorato. Naviganti, mercanti, empori, carovane, rotte marine: il mondo era attraversato da spedizioni
commerciali volte alla ricerca di un benessere dato dallo scambio di tutti i prodotti necessari, a seconda
delle disponibilità e delle risorse. L’Egitto comprava oro dalla Nubia, lo vendeva ai Cretesi, che lo
rivendevano in Siria. Acquistava lapislazzuli dalle foci del golfo persico, la cui popolazione lo aveva
acquistato dalla valle dell’Indo via mare, lungo le sponde dell’Oceano Indiano. Marinai del mare del Nord
scendevano lungo la via dell’ambra e si arruolavano presso le imbarcazioni di Biblo o di Ugarit. Nei palazzi di
Cnosso si tenevano gigantesche anfore (ritrovate) con scorte per 70.000 litri d’olio. Una principessa minioca
è stata trovata nella sua tomba abbellita di gioielli contenenti oro dalla Nubia, pietre preziose dallo
Yorkshire e rubini dall’India. Questa rete si estende da Malta all’Iran, al Turkestan, all’Indo, dai paesi nordici
produttori di rame, stagno e ambra, fino alle profondità nere dei boscimani.
L’arte è qui il grande testimone di un cosmopolitismo che viene fatto iniziare nel 2000 avanti Cristo. Questa
civiltà unitaria coinvolge metà del Mediterraneo, ma il Vicino Oriente è già stato superato. Tale
superamento vede come protagonista l’isola di Creta, che entra nel gioco soltanto per pochi secoli, ma vi
interpreta un ruolo smagliante.
LE TRE CIVILTA’ DELL’EGEO
LA CIVILTÁ CICLADICA
Una interessante cultura Neolitica sorse sulle isole dell’Egeo occidentale intorno al 3500 a.C., con elementi
comuni all’Anatolia e alla Grecia continentale. Un’accurata archeologia ha rilevato che le linee generali di
una popolazione di contadini e pescatori giunse qui dall’Asia Minore già dal 5000 a.C.. Queste popolazioni
basavano il loro sostentamento sulla coltivazione di farro, grano, fagioli, sull’allevamento di pecore, capre e
maiali, e sulla pesca del tonno praticata su piccole imbarcazioni. Il ritrovamento di prodotti artigianali
cicladici (soprattutto rappresentazioni di navi sulla ceramica e piccole barche di pietra) nell'Attica,
nel Peloponneso e in molte altre zone della Grecia testimonia in proposito una notevole abilità nella
costruzione delle imbarcazioni e una predisposizione della popolazione per i commerci marittimi.
La vita nelle Cicladi, in base ad una ricostruzione storica, doveva essere semplice e sobria rispetto alla
vita cretese, come vedremo in seguito. La maggiore originalità artistica è stata attribuita al periodo antico,
che va dal 2600 a.C. al 2000 a.C., mentre nelle fasi successive l'arte entrò nell'influenza minoico-micenea.
Per quanto riguarda la produzione artistica cicladica, i prodotti più pregiati sono stati realizzati in marmo. Si
tratta principalmente di statuette di diversa forma e dimensione che hanno come soggetti donne nude con
le mani sul ventre, musicisti, cacciatori e guerrieri. Le raffigurazioni femminili hanno evidenziato l'insistenza
nella raffigurazione di una dea madre, simboleggiante la fertilità e la fecondità, che venne sempre descritta
nella posizione eretta in atteggiamento ieratico. Generalmente, dai bassorilievi al tuttotondo, i Cicladici
dimostrarono una notevole sensibilità per la forma e per la trasposizione dal reale all'immaginario. I celebri
idoli cicladici, seppur affini agli uscebti dell'antico Egitto, sono di derivazione maggiormente mesopotamica
e venivano utilizzati per lo più ad usi funerari. Le ceramiche più diffuse sono state le brocche e i pissidi
aventi decorazioni geometriche, i kernos in steatite ed i recipienti in pietra levigata. Purtroppo, la maggior
parte dei reperti archeologici si trova nelle collezioni private, a causa degli scavi clandestini.
Fortunatamente sono state ritrovate alcune statuette nelle necropoli, mentre altre, di maggiori dimensioni,
provengono molto probabilmente dalle abitazioni private. Due sono le modalità funerarie scoperte: la
prima prevedeva tombe collettive, mentre la seconda concedeva seppellimenti individuali.
CRETA
Un’isola al centro del mare
Verso la fine del IV millennio prima della nostra era, comincia a risplendere il sole della civiltà su un altro
angolo del globo, come già sull’Egitto menfitico e tebano, e sulla Mesopotamia semitica e sumerica, mentre
il resto del mondo è ancora avvolto nella nebbia cimmeria: le terre dell’Egeo e, tra esse, l’isola di Creta.
I primi abitatori della penisola ellenica furono una gente per noi ancora misteriosa: quella che più tardi i
greci denominarono Pelasgi o anche Carii. Certo erano dei neolitici, probabilmente dei brachicefali
provenienti dall’Anatolia, come significherebbero i nomi superstiti delle numerose località, che essi
andarono occupando. Questi nomi sono caratterizzati da suffissi in -ssos, in -ttos, -inthos (vedi Ilissos,
Kefissos, Parnassos, Tyrinthos, Corinthos), che ricordano altre denominazioni analoghe usate da
popolazioni viventi in Anatolia, nel IV-III millennio a.C.. Quasi con certezza, identiche sono le origini dei
primi abitatori di Creta, dove ricompaiono nomi e vocaboli con le stesse caratteristiche: Cnossos, Tylissos,
labirinthos, hyakintos, erébinthos, ecc.. Altri immigrati sono giunti dalle coste settentrionali dell’Africa. Ma,
assai più che il continente greco, più che le stesse isole egee, Creta era fatta per evolvere e progredire
rapidamente. Creta è la grande isola mediterranea, collocata “nel cuore del negro mare”, come dirà Omero;
essa giace a eguale distanza dalle bocche del Nilo e dalle bocche del Bosforo, dal Golfo Argolico e dalla
Cirenaica, da Cipro e dalla Sicilia, dalla Siria e dall’Italia. Aristotele scriverà che “l’isola sembrava quindi fatta
non solo per dominare le acque intorno a cui si installeranno i Greci ma per conquistare l’impero del mare”,
ossia il Mediterraneo orientale.
Tuttavia, nonostante la comune origine del popolamento, si dice che fino al 3000 a.C. le due civiltà di Creta
e del continente ellenico siano rimaste estranee l’una dall’altra. Si frapponeva fra loro l’impervia penisola
del Peloponneso, semibarbara o quasi completamente spopolata. Fu verso il 3000, proprio nel tempo in cui
le prime dinastie menfitiche riescono a unificare l’Egitto, e i Sumeri a imporsi a buona parte della
Mesopotamia, che, o per evoluzione autoctona, o per effetto di nuove immigrazioni, l’uso dei metalli prese
a diffondersi per tutto l’Egeo, e la grande storia di Creta incominciò.
Rame e ceramica
Gli antichi riassunsero la storia di Creta sotto il nome del potente, leggendario monarca cretese, Minosse, e
i moderni archeologi, seguendone le tracce, hanno distribuito la sua storia in tre periodi: l’Antico( 25001850), il Medio (2000-1570), e il Nuovo Minoico (1570-1450).
Verso l’inizio del III millennio, Creta entra in rapporto con le Cicladi, con l’Asia Minore, con l’Egitto; dalle
Cicladi e dall’Asia Minore ricava l’ossidiana, il marmo, il rame, di cui, del resto, i suoi abitatori scoprono
abbondanti giacimenti nell’isola stessa, nel suo tratto più orientale; dall’Egitto riceve l’avorio, manufatti
industriali e oggetti artistici. Ma non è solo l’industria dei metalli a lanciare l’economia cretese dei primi
secoli del III millennio a.C., è tutta la vita dell’isola ad accendersi di nuovo fulgore. Sotto il fascino di influssi
esterni, sotto lo stimolo di una maggiore agiatezza, le costruzioni vi acquistano una maggiore solidità, una
maggiore eleganza, rivelano “un amore più squisito per la decorazione”; l’industria delle ceramiche
comincia a sfoggiare una vivacità di colori e di disegni prima sconosciuta; dalle officine artigiane esce una
miriade di minuti oggetti in metallo –rame, oro, argento– o in pietra dura, che testimoniano “il buongusto e
la ricchezza di coloro che li usano”.
Le sedi della nuova civiltà cretese non sono sparse per tutta l’isola; sono concentrate nelle due zone,
orientale e meridionale, intorno alle miniere di rame, ai grandi depositi di argilla, presso i naturali porti di
imbarco per l’Egitto e per l’Asia Minore: Zacros, Palecastro, Mochlos, Aghia Triada, Platanos, Cumasa.
Tombe a cupola, pitture parietali, oreficeria, sigilli: questi e altri sono le produzioni cretesi di questo
periodo.
E con Creta si relaziona tutta la costellazione delle Cicladi, che hanno qualche cosa da dare e da ricevere:
Melos con la sua ossidiana, Paros e Naxos con il loro marmo, Serifos con il suo rame e il suo piombo,
Amorgos con le sua armi, Siros, nel cuore dell’arcipelago, con i suoi buoi, il suo vino, i suoi cereali, le sue
imbarcazioni, il suo porto, la comodità degli scali per tutti le navi dirette a Sud, a Nord e a Est. A Ovest il
mondo è ancora tutto da scoprire.
Bronzo e corna
L’avvento dell’età del bronzo (verso il 2400 a.C.) reca una nuova ondata di vitalità allo sviluppo storico di
Creta. Lo stagno, elemento fondamentale nella lega del bronzo, non era presente nelle Cicladi, ma è stato
scoperto in Italia, in Etruria su per il mar Adriatico, in Gallia, in Spagna, anche nel cuore della Germania –
nelle montagne dell’Erzgebirge–, e le prime carovane, stimolate dall’abbondante richiesta, lo trasportavano
già alle rive dello Ionio. Ora, Creta era collocata nel punto giusto per conquistare il monopolio di quella rete
di viaggi per mare che lo stagno doveva compiere tra la Grecia, l’Asia Minore, le bocche del Nilo e la Siria,
di fronte a cui giace la cuprifera Cipro. Essa, dunque, può diventare la massima intermediaria del
commercio dei due metalli, che costituiscono l’elemento principale di questa età del bronzo, e, al tempo
stesso, il centro della nuova industria, che produrrà tanti capolavori. Ma, per ottenere ciò, occorre che
l’Isola disponga di una marina numerosa, che divenga un grande potentato navale, e tale sarà il compito dei
Minossi nell’età aurea che ora inizia: l’età che scorre dalla terza fase del Minoico Antico alla metà del
Minoico Medio (2400-1750 a.C.).
Con la nuova svolta della civiltà di Creta si accompagna uno spostamento dei centri della sua potenza. Le
città, i principati dell’est e del sud –Mochlos e Zacros– decadono, e il primato passa alla nuova Mallià, sulla
costa settentrionale, a Festos nella regione sud-occidentale, da cui “le navi dalla bruna prora sono spinte
verso l’Egitto dal vento e dall’onda” (Odissea, III, 299-300). Ma più ancora alla regale Cnossos. Qui sorgono
sontuosi palazzi principeschi, forniti di magazzini, di laboratorii, di atri adorni di colonnati e affreschi. Qui
anche i privati cittadini si costruiscono case a più piani; qui i vasai fabbricano gli utensili in argilla, sottili
come foglie di metallo, splendenti come maioliche: i “Camares” del monte Ida. A Cnossos gli artisti lavorano
vasi montati in oro; gli incisori intagliano figure di uomini e animali nelle gemme. E il commercio cretese
allarga il suo respiro. Ampie strade attraversano l’isola da un capo all’altro, munite di viadotti, fornite di
alberghi. I marinai e i mercanti cretesi si recano in Cirenaica a ricercarvi spezie esotiche, esportano le
produzioni locali nella Grecia continentale, a Cipro, nell’Alto Egitto, a Byblos, in Fenicia; acquistano oggetti
dalla lontana Babilonia. E, poiché il commercio richiede agili strumenti per gli scambi, anche l’antica, lenta
scrittura geroglifica si va semplificando, si stilizza, si demoticizza.
Anche la razza bovina contribuiva largamente alla ricchezza dei Cretesi, ai quali i buoi non servivano solo
come animali da macello, poiché per lungo tempo non ebbero altre bestie per tirare i carri. Gli dèi e i morti
chiedevano per vittime tori e torelli, le cui corna erano consacrate nei templi e nei luoghi sacri, e i
conciatori avevano bisogno di belle pelli dal pelo grigio, bruno o nero, per farne scudi e cinture.
Ma tanto splendore, come quello del Primo Impero Babilonese e del Medio Impero Egizio, è destinato a
tramontare. Stando alle parole di Corrado Barbagallo, “neanche l’isolamento insulare salverà Creta dai colpi
del destino. Il turbine, che ha cominciato a soffiare sulle terre dell’Oriente, asiatico e africano, increspa già
le azzurre onde del Mediterraneo. Ancora alcuni secoli, e alla luminosa civiltà dell’Isola privilegiata toccherà
la stessa sorte che le civiltà mesopotamiche e nilotiche dei due continenti vicini hanno già sperimentata”.
LA CIVILTA’ PRO ELLENICA
Diverse tribù elleniche sono stanziate nella Grecia continentale prima del 1900 a.C. Queste popolazioni
ellenofone, che costituiscono la civilizzazione Mesoelladica (1900-1600), vivono una Tarda Età del Rame,
conoscendo il bronzo senza però poterlo produrre. Intorno al 1900 a.C. le tribù pro elleniche parlavano
dialetti che saranno determinanti nella formazione della lingua micenea: il dialetto degli Ioni, degli Eoli,
degli Achei. Si può già riscontrare una certa unità delle popolazioni elleniche con una coscienza panellenica.
Attraverso le isole dell’Egeo gli ellenici del continente venivano a conoscenza delle grandi tecniche e dei
cambiamenti economici che sono alla base delle civiltà delle Cicladi e di Creta.
CONTINUA, VEDI EGEO, EPICENTRO…
L’INGRESSO DEGLI INDOEUROPEI
I primi Achei
All’inizio del II millennio nel bacino dell’Egeo non c’e’ separazione tra Oriente ed Occidente: le rotte
commerciali istituivano due principali collegamenti; il primo univa Grecia continentale, isole Cicladi, isole
Sporadi e Anatolia; il secondo Grecia continentale, Rodi, la Cilicia, Cipro, la costa nord della Siria, la
Mesopotamia e l’Iran. [DISEGNO]
Dal 2000 al 1900 a.C. nella Grecia continentale irrompe un nuovo popolo. Le sue case, le sue sepolture, le
sue asce da guerra, le sue armi di bronzo, i suoi utensili, la sua ceramica (grigio vasellame minio) sono
elementi che segnano la rottura con gli uomini e la civiltà dell’età precedente, l’antico Elladico. Questi
invasori, i minî, formano l’avanguardia delle tribù che, a ondate successive, verranno a stabilirsi nell’Ellade,
si insedieranno nelle isole, colonizzeranno il litorale dell’Asia Minore, si spingeranno in direzione del
Mediterraneo occidentale e verso il Mar Nero, per costituire il mondo greco quale lo conosciamo in età
storica. Che siano scesi dai Balcani o dalla Russia meridionale, questi antenati dell’uomo greco
appartengono a popoli indoeuropei già differenziati nella lingua, e parlano un dialetto greco arcaico. La loro
apparizione sulle rive del Mediterraneo non costituisce un fenomeno isolato. Verso la stessa epoca, una
spinta parallela si manifesta dall’altra parte del mare, con l’arrivo degli Ittiti indoeuropei in Asia Minore e la
loro espansione attraverso l’altopiano anatolico. Sulla costa, nella Troade, la continuità culturale ed etnica
che si era conservata per quasi un millennio (inizio di Troia I: tra il 3000 e il 2600) è spezzata all’improvviso.
Il popolo che costruisce Troia VI (1900), città principesca più ricca e potente che mai, è parente prossimo
dei minî di Grecia, ossia gli avi degli achei. Esso fabbrica lo stesso vasellame grigio, lavorato al tornio e cotto
in forni chiusi, che si diffonde nella Grecia continentale, nelle isole Ionie, in Tessaglia e nella Calcidica.
Ricchi di cavalli
Un altro elemento di civiltà evidenzia l’affinità tra i due popoli sulle due rive dell’Egeo. Con gli uomini di
Troia VI fa la sua comparsa nella Troade il cavallo. “Ricca di cavalli”: tale è, nello stile formulare che Omero
riprende da un’antichissima formulazione orale, l’epiteto che ricorda l’opulenza del paese di Dardano. La
notorietà dei cavalli di Troia, come quella dei suoi tessuti, non fu certo estranea all’interesse che gli achei
rivolsero a questa regione già prima della spedizione militare che, distruggendo la città di Priamo (Troia VII
a), servì da punto di partenza per la leggenda epica.
Come i minî della Troade, questi greci conoscevano il cavallo: dovevano averne praticato l’allevamento
nelle steppe in cui avevano soggiornato prima della loro venuta in Grecia. La preistoria del dio Poseidione
indica che, prima di regnare sul mare, un Poseidone equino, Hippos o Hippios, nello spirito dei primi elleni
come presso altri popoli indoeuropei, associava il tema del cavallo a tutto un complesso mitico: cavalloelemento umido, cavallo-acque sotterranee, mondo infernale, fecondità; cavallo-vento, burrasca, nube,
tempesta… [NOTA, vedi Vernant] Su alcune stele funerarie del XVI secolo scoperte a Micene nella tomba
delle fosse (1580-1550), scene di battaglia o di caccia rappresentano un guerriero in piedi sul suo carro
trascinato da cavalli al galoppo. A quest’epoca i minî, strettamente mescolati alla popolazione locale di
origine asianica, si sono stabiliti da tempo nella Grecia continentale. Ma il carro da guerra, un carro leggero
tirato da due cavalli, non può essere un apporto cretese. Nell’isola, il cavallo non appare prima del Minoico
recente I (1580-1450). Se c’è stato un prestito, in questo casi i debitori saranno i minoici.
Per contro, l’uso dei carri rivela ancora le analogie tra il mondo miceneo o acheo, che si sta formando, e il
mondo degli ittiti, che verso il XVI secolo adotta questa tattica di combattimento mutuandola dai suoi vicini
orientali, gli hurriti di Mitanni, popolazione non indoeuropea che però riconosce la sovranità di una
popolazione indo-iranica. Nelle relazioni che si stabilirono all’inizio del XIV secolo tra gli ittiti e coloro che
essi chiamano Achaiwoi (gli achei o micenei) ebbero la loro importanza le preoccupazioni di ordine
equestre. Tra altri accenni all’Ahhiyawa (l’Acaia), gli archivi reali ittiti di Hattusa informano sul soggiorno di
principi achei, tra i quali Tawagalawas (Eteocle?), venuti alla corte per perfezionarsi nella pratica di
condurre il carro. Si dovrà accostare al nome del re ittita Mursilis quello dello scudiero di Enomao, Myrtilos,
noto per la parte che aveva nella leggenda di Pelope, antenato della dinastia degli Atridi, re di Micene?
Enomao regna a Pisa in Elide. Ecc ………………………………………………………………………………………………………
ecc……………………………………………………………………………………………………………………………………………………
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Esigendo un apprendistato difficile, la tecnica del carro dovette rafforzare la specializzazione della funzione
guerriera, tratto caratteristico dell’organizzazione sociale e della mentalità dei popoli indoeuropei. D’altra
parte la necessità di disporre di una riserva numerosa di carri per concentrarli sul campo di battaglia
presuppone uno stato accentrato, abbastanza esteso e potente, in cui gli uomini con i carri, quali che siano i
loro privilegi, sono sottoposti a un’unica autorità.
Tale in effetti doveva essere la forza militare del regno miceneo che, a partire dal 1450 –lo sappiamo dopo
la decifrazione della lineare B–, poté dominare Creta, stabilirsi da padrone nel palazzo di Cnosso e tenerlo
fino alla sua distruzione finale, nell’incendio del 1400, appiccato forse da una rivolta indigena.
Una diffusione capillare
L’espansione micenea, che continuò dal XIV al XII secolo, portò gli achei a sostituirsi ai cretesi un po’
dappertutto nel Mediterraneo orientale. Rodi fu infatti colonizzata dagli achei a partire dagli inizi del XIV
secolo. È forse in quest’isola, al riparo dagli attacchi dal continente, che si deve situare il regno di Ahhiyawa,
il cui monarca è trattato dal re ittita con i riguardi dovuti a un pari. Da Rodi il re di Acaia poteva controllare i
punti della costa anatolica dove i suoi uomini erano sbarcati e avevano fondato stabilimenti. La presenza
achea è attestata a Mileto (la Milawunda o Milawata ittita), a Colofone, a Claro, più a nord a Lesbo,
soprattutto nella Troade, con la quale le relazioni erano strette, infine sulla costa meridionale, in Cilicia e in
Panfilia. Ancora agli inizi del XIV secolo i micenei si insediarono in forze a Cipro e costruirono a Enkomi una
fortezza simile a quelle in Argolide. Di là raggiunsero la costa siriana, via di passaggio verso la Mesopotamia
e verso l’Egitto. A Ugarit, che commerciava rame con Cipro, nel XV secolo una colonia cretese aveva dato la
sua impronta alla cultura e persino all’architettura della città. Nel secolo seguente essa cedette il posto a un
nucleo miceneo abbastanza nutrito da occupare un quartiere della città. Nello stesso periodo Alalakh,
sull’Oronte, porta dell’Eufrate e della Mesopotamia, diventò un importante centro acheo. Più a Sud, Achei
penetrarono fino in Fenicia, a Biblo e in Palestina. In tutta questa regione fu elaborata una civiltà comune
cipro-micenea, in cui gli elementi minoici, micenei e asiatici erano intimamente fusi, e che disponeva di una
scrittura derivata, come quella sillabica micenea, dalla lineare A. L’Egitto, che aveva mantenuto, specie nel
corso del 1400, un continuo commercio con i cretesi, si aprì ai micenei, che accolse liberamente tra il 1400
e il 1340. Anche qui i Keftiu, i cretesi, a poco a poco scomparvero a vantaggio dei loro concorrenti; Creta
cessò di esercitare la funzione, che aveva avuto nel periodo precedente, d’intermediaria tra l’Egitto e il
continente greco. Forse una colonia micenea era presente a El-Amarna quando Amenhotep IV, conosciuto
sotto il nome di Akhenaton, vi si stabilì tra il 1380 e il 1350, abbandonando l’antica capitale Tebe.
Così in tutte le regioni dove li aveva condotti il loro spirito di avventura, i micenei apparivano strettamente
associati alle grandi civiltà del Mediterraneo orientale, integrati in quel mondo del Vicino Oriente che,
nonostante le sue diversità e la sua ampiezza, costituiva un insieme di scambi e di comunicazioni.
IL REGNO MICENEO
Il re e gli scribi
La vita sociale presso i regni micenei è accentrata attorno al palazzo, la cui funzione è insieme religiosa,
politica, militare, amministrativa ed economica. Il re, infatti, unifica nella sua persona tutti gli aspetti della
sua sovranità. Gli scribi formano una classe professionale fissata nella tradizione: grazie ad una gerarchia
complessa di ispettori, il re controlla e regola tutti i fattori della vita economica e i campi dell’attività
sociale.
Gli scribi contabilizzano nei loro archivi ciò che concerne il bestiame e l’agricoltura, la tenuta delle
terre, valutate in misure di cereali (come canoni di affitto o come razioni di sementi), - i diversi
mestieri specializzati con le assegnazioni da fornire in materie prime e le ordinazioni in prodotti finiti,
- la manodopera, disponibile o occupata, - gli schiavi, uomini, donne e bambini, quelli dei privati e
quelli dei re, - i contributi di ogni generi imposti dal palazzo agli individui e alle collettività, i beni già
consegnati, quelli ancora da ricevere, - le leve degli uomini che certi villaggi devono fornire per
equipaggiare di rematori le navi regie, - la composizione, il comando, il movimento delle unità
militari, - i sacrifici agli dèi, i canoni previsti per le offerte, ecc.
L’accentramento amministrativo e le opere
Il sistema “monarchico burocratico” presente in questi centri è indotto a esercitare un controllo sempre più
rigoroso, fino ad annotare particolari che a noi sembrano irrilevanti. Si può fare un confronto con i grandi
stati fluviali del Vicino Oriente, la cui organizzazione sembra rispondere su vasta scala con lavori di bonifica,
di irrigazione, di manutenzione dei canali, indispensabili alla vita agricola. Ma non si può pensare che
necessità tecniche di regolazione agraria, secondo un piano complessivo, abbiano potuto suscitare o
favorire in Grecia un avanzato accentramento amministrativo. L’economia rurale della Grecia antica appare
dispersa alle dimensioni del villaggio; il coordinamento dei lavori non oltrepassa in pratica il gruppo dei
vicini.
La classe dei guerrieri tra Greci e Ittiti
Si possono notare forti analogie con un altro popolo indoeuropeo, quello ittita: attorno al loro re si
radunano dignitari di palazzo con funzioni amministrative e poteri militari. Con i combattenti ai loro ordini
essi formano il pankus, assemblea che rappresenta la comunità ittita, cioè che raggruppa l’insieme dei
guerrieri, con l’esclusione della restante popolazione, secondo lo schema che, nelle società indoeuropee,
oppone il guerriero all’uomo del villaggio, pastore o agricoltore che sia. In questa nobiltà guerriera si
reclutano gli uomini dei carri, forza principale dell’esercito ittita. Il pankus cade in disuso alla fine del XVI
secolo, e la monarchia ittita si avvicina al modello delle monarchie assolute orientali.
Rappresentanza del potere
Nel quadro dell’economia palaziale, accanto a una divisione dei compiti spesso molto accentuata, a una
specializzazione di funzioni con una miriade di sorveglianti e di capi sorveglianti, si constata un fluttuare di
attribuzioni amministrative che si accavallano, in quanto ogni rappresentante del re esercita per delega, al
suo livello, un’autorità che in via di principio copre senza limitazioni tutto il campo della vita sociale.
Il tesoro è nel megaron
È necessario delineare i tratti che definiscono più precisamente il caso miceneo e che forse spiegano perché
questo tipo di sovranità non sia sopravvissuto in Grecia alla caduta delle dinastie achee. Il confronto con gli
ittiti pone in risalto le differenze che separano il mondo miceneo dalla civiltà palaziale di Creta che gli ha
servito da modello.
Tale contrasto si rivela nelle architetture dei loro palazzi. Quelli di Creta, dedali di camere disposte in
apparente disordine attorno a un cortile centrale, sono edificati allo stesso livello del territorio circostante,
sul quale si aprono senza difesa, con larghe strade che portano al palazzo. Il maniero miceneo, accentrato
sul megaron e sulla sala del trono, è una fortezza cinta di mura, un rifugio di capi, che domina e sorveglia la
pianura giacente ai suoi piedi. La sua funzione militare sembra soprattutto difensiva: essa custodisce il
tesoro reale in cui, accanto alle riserve normalmente controllate nel quadro dell’economia del paese, si
accumulano beni preziosi di altro genere. Si tratta di prodotti di un’industria di lusso: gioielli, coppe, tripodi,
caldaie, pezzi d’oreficeria, armi lavorate, lingotti di metallo, tappeti, tessuti ricamati. Simboli di potere,
strumenti di prestigio personale, essi esprimono nella ricchezza un aspetto regale. Costituiscono la materia
di un generoso commercio che supera largamente le frontiere del regno. Dati e ricevuti in dono, suggellano
alleanze matrimoniali e politiche, creano obbligazioni di servizio, ricompensano vassalli, stabiliscono legami
di ospitalità sino in paesi lontani; per impadronirsi del tesoro si prepara una spedizione militare, si distrugge
una città.
Personaggi
Alla sommità dell’organizzazione sociale il re porta il titolo di wa-na-ka, anax. Accanto al wa-na-ka, il
secondo personaggio del regno, il la-wa-ge-tas, è rappresentato dal capo del laos, il gruppo dei guerrieri.
Con la loro uniforme costituita da un mantello speciale, gli e-qe-ta, επέται, i compagni, sono dignitari del
palazzo che formano il seguito del re, come nella grande famiglia ittita.
Terreni del villaggio e terreni del palazzo
Il sistema fondiario appare complesso, e per noi è reso più oscuro dall’ambiguità di molte espressioni.
Sembra che il pieno possesso di un terreno, come il suo usufrutto, implicasse, in contropartita, molteplici
servizi e prestazioni. Spesso è difficile decidere se un termine ha un significato puramente tecnico (terra
incolta, terra dissodata, pascolo trasformato in terra arabile, terra di dimensioni più o meno grandi) o se
designa uno statuto speciale. Tuttavia si designa un’opposizione tra due tipi di tenuta, indicanti le due
forme diverse che può assumere un ko-to-na, un lotto, una posizione di terra. Le ki-ti-me-na sono ko-to-na
dei dignitari, sono terre private, di proprietà; all’opposto vi sono delle ke-ke-me-na ko-to-na, appartenenti
al damos, terre comuni dei demi agricoli, proprietà collettiva del gruppo rurale, coltivate secondo il sistema
dell’open field e sottoposte forse a ridistribuzione periodica.
Anche il codice ittita distingue due tipi di tenute: quella del guerriero, che dipende direttamente dal
palazzo, al quale ritorna quando il servizio non è più assicurato Invece gli “uomini dell’utensile”, ossia gli
artigiani, dispongono di una terra detta “di villaggio”, che la collettività rurale concede loro per un certo
tempo e che recupera alla loro partenza.
Anche in India è attestata un’esistenza di un’analoga struttura. Al vaiçya, l’agricoltore (viç, cfr. latino vicus,
greco οίκος, il gruppo di case), cioè all’uomo del villaggio, si oppone lo ksatrya, il guerriero (da ksatram:
potere, possesso), l’uomo con una tenuta individuale, come il barone miceneo è l’uomo della ki-ti-me-na
ko-to-na, della terra avuta in proprietà, contrapposta alla terra comune del villaggio.
Le due diverse forme di tenute del suolo rivelerebbero dunque, nella società micenea, una polarità
fondamentale: di fronte al palazzo e alla sua corte e ai suoi feudi, s’intravede un mondo rurale organizzato
in villaggi dotati di vita propria. Questi “demi” rurali dispongono di una parte delle terre sulle quali sono
insediati; , in conformità alle tradizioni e alle gerarchie locali, essi regolano i lavori agricoli, l’attività
pastorale, i rapporti di vicinato. METTERE FOTO DI INSEDIAMENTI RURALI
Un basileus di provincia
È in questo quadro provinciale che appare, contro ogni aspettativa, il personaggio che porta il titolo che
normalmente avremmo tradotto con “re”, il pa-si-re-u, il basileus omerico. Egli non è il re nel suo palazzo,
ma un semplice signore, padrone di una tenuta rurale e vassallo dell’anax. Questo legame di vassallaggio, in
un sistema economico in cui tutto è contabilizzato, riveste una forma di una responsabilità amministrativa:
noi vediamo il basileus sorvegliare la distribuzione dell’assegnazione del bronzo destinato ai fabbri che, sul
suo territorio, lavorano per il palazzo. E ovviamente contribuisce egli stesso, con altri uomini ricchi del
luogo e secondo una porzione fissata, a queste forniture di metallo. Accanto al basileus, un Consiglio degli
anziani, la ke-ro-si-ja (γερουσία), conferma questa relativa autonomia di villaggio. Un altro personaggio, il
ko-re-te, sembra essere una specie di maggiore di villaggio.
Conclusioni generali sulle monarchie micenee:
1. Il loro carattere bellicoso. L’anax si appoggia a un’aristocrazia guerriera, gli uomini dei carri,
sottoposti alla sua autorità che formano nell’organizzazione militare del regno un gruppo
privilegiato con il suo statuto particolare, con il suo proprio genere di vita.
2. Le comunità rurali sono in rapporto con il palazzo secondo una dipendenza che non è assoluta e
possono sussistere al di fuori di esso. Se fosse abolito il controllo reale, il damos continuerebbe a
lavorare le stesse terre seguendo le stesse tecniche. Esso nutre i re e i ricchi del luogo con tributi,
doni, prestazioni più o meno obbligatorie.
3. L’organizzazione del palazzo, con il suo personale amministrativo, le sue tecniche di contabilità e di
controllo, la sua stretta regolamentazione della vita economica e sociale, mostra di essere stata
importata dall’esterno. Tutto il sistema si basa sulla scrittura e sulla costituzione di archivi. Scribi
cretesi, passati al servizio delle dinastie micenee, trasformando la lineare usata nel palazzo di
Cnosso (lineare A) per adattarla al dialetto dei nuovi signori (lineare B), hanno fornito loro i mezzi
per stabilire nella Grecia continentale i metodi amministrativi propri dell’economia palaziale. Per i
monarchi della Grecia il sistema palaziale rappresentava un notevole strumento di potere. Rendeva
anche possibili le grandi avventure in paesi lontani per stabilirsi su nuove terre o per andare a
cercare oltremare il metallo o i prodotti di cui il continente greco era privo.
Capovolgimento
Tutto questo insieme fu distrutto dall’invasione dorica. Essa rompe, per lunghi secoli, i legami tra la Grecia e
l’Oriente. Abbattuta Micene, il mare cessa di essere una via di passaggio per trasformarsi in una barriera.
Isolato, ripiegato su se stesso, il continente greco torna a una forma di economia puramente agricola. Sotto
la spinta delle genti settentrionali, i flussi migratori verso le isole dell'Egeo e le coste dell'Asia Minore
portano a un progressivo spopolamento di alcune regioni, in cerca di terre coltivabili e di materie prime. Col
tempo emergono dinamiche territoriali quali il progressivo abbandono degli insediamenti palazzi e la
conseguente occupazione di nuove mete insediative, quali la pianura, caratterizzata da una relativa carenza
di centri abitati.
Il mondo omerico non conosce più una divisione del lavoro paragonabile a quella del mondo miceneo, né
l’impiego su scala altrettanto vasta della manodopera servile. Ignora le molteplici corporazioni di “uomini
dell’utensile” raggruppati nei dintorni del palazzo o residenti nei villaggi per eseguirvi le ordinazioni dei re.
Nella caduta dell’impero miceneo, il sistema palaziale crolla totalmente; non si risolleverà mai più. Il
termine anax scompare dal vocabolario. Nell’impiego tecnico, per designare la funzione regale, esso è
sostituito dalla parola basileus, che una volta designava piuttosto, usata al plurale, una categoria di Grandi.
Abolito il regno dell’anax, non si trova più traccia di un controllo esercitato dal re, né di una classe di scribi.
La stessa scrittura scompare, come inghiottita nella rovina dei palazzi. Quando i greci la riscopriranno, verso
la fine del IX secolo, mutuandola in questo caso dai fenici, non sarà soltanto una scrittura di tipo diverso,
fonetico, ma un fatto di civiltà radicalmente diverso: non più la prerogativa di una classe di scribi, ma
l’elemento di una cultura comune. Il suo significato sociale e psicologico si sarà così capovolto: la scrittura
non avrà più lo scopo di costituire archivi nel segreto di un palazzo; essa servirà ormai a una funzione di
pubblicizzazione; permetterà di divulgare, di porre sotto lo sguardo di tutti i vari aspetti della vita sociale e
politica.
LA CRISI DELLA SOVRANITÀ DEL MEDIOEVO ELLENICO (età del Ferro)
Una questione di confine
La caduta della potenza micenea, l’espansione dei dori nel Peloponneso, a Creta e fino a Rodi, inaugurano
una nuova epoca della civiltà greca. La metallurgia del ferro succede a quella del bronzo. L’incinerazione dei
cadaveri sostituisce in larga misura la pratica dell’inumazione. La ceramica subisce trasformazioni molto
profonde: abbandona le scene di vita animale e vegetale per una decorazione geometrica. Divisione netta
delle parti del vaso, riduzione delle forme a modelli chiari e semplici, obbedienza a princìpi di asciuttezza e
di rigore che escludono gli elementi mistici, di tradizione egea – tali sono i tratti del nuovo stile geometrico.
Alcuni studiosi riconoscono, in quest’arte spoglia, ridotta all’essenziale, un atteggiamento dello spirito che
caratterizza ugualmente le altre innovazioni dello stesso periodo: gli uomini hanno ormai preso coscienza di
un passato separato dal presente, diverso da esso (l’età del bronzo, degli eroi, è in contrasto con i tempi
nuovi, votati al ferro); il mondo dei morti si è allontanato, tagliato da quello dei vivi (la cremazione ha
spezzato il legame del cadavere con la terra); una distanza insormontabile si stabilisce tra gli uomini e gli dèi
(la figura del re divino è scomparsa). Così, in tutta una serie di ambiti, una delimitazione più rigorosa dei
diversi piani del reale prepara l’opera di Omero, la sua poesia epica che, nel seno stesso della religione,
tende a eliminare il mistero.
Nuovi equilibri
Proviamo a capire la portata delle trasformazioni sociali che hanno avuto ripercussioni dirette sulle
strutture del pensiero. Tali trasformazioni sono testimoniate in primo luogo dalla lingua. Da Micene a
Omero, il vocabolario dei titoli, dei gradi, delle funzioni militari, del possesso della terra crolla pressoché
completamente. Una volta distrutto l’antico sistema, i pochi termini che sussistono, come basileus o
témenos, non conservano più lo stesso valore. Ma proprio la scomparsa dell’anax sembra aver lasciato
sussistere fianco a fianco le due forze sociali con le quali il suo potere aveva dovuto patteggiare: da una
parte le comunità di villaggio, dall’altra un’aristocrazia guerriera le cui più alte famiglie detengono tutte,
come privilegio del genos, certi monopoli religiosi. La ricerca di un equilibrio, di un accordo, tra queste
opposte forze che sono state liberate dal crollo del sistema palaziale, farà nascere, in un periodo di
disordini, una riflessione morale e speculazioni politiche che definiranno una prima forma di “sapienza”
umana. Questa sophia appare all’alba del VII secolo; è legata a una pleiadi di personaggi assai strani,
circonfusi da un’aureola quasi leggendaria, che la Grecia non cesserà di celebrare come i suoi primi, veri
“Sapienti”. Tale sophia ha come oggetto non l’universo della physis ma il mondo degli uomini: quali
elementi lo compongano, quali forze lo dividano contro se stesso, come armonizzarle, unificarle in modo
che dal loro conflitto nasca l’ordine umano della città.
La vita continua
Tuttavia, non si deve pensare che il cosiddetto Medioevo Ellenico, etichetta tipica della storiografia
dell'Ottocento, sia stato per la Grecia un periodo caratterizzato da oscurantismo culturale ed economico. Al
contrario, questa fase vide l'emergere di fenomeni che si svilupperanno a tutto tondo a partire dall'VIII
secolo a.C. e che sono alla base della creazione della forma istituzionale della polis.
Anche se, sulla scorta delle evidenze archeologiche, gli studiosi moderni hanno optato per un'ipotesi che
vede in questa fase il prevalere della pastorizia sull'agricoltura, attività che prevede forme di vita nomade,
sarebbe errato pensare a questa fase di transizione come a un'epoca di isolamento o di definitiva
interruzione dei traffici. In questo periodo, noto come Età del ferro, si assiste alla nascita della produzione
di manufatti in ferro, stimolata anche dalla difficile reperibilità di altri metalli più facilmente lavorabili,
come stagno e rame, metalli di cui tuttavia la Grecia non dispone se non in minime quantità, necessari
anche per la produzione del bronzo.
Unità e molteplicità
Scomparso l’anax che, in virtù di una potenza più che umana, unificava e ordinava i diversi elementi del
regno, sorgono problemi nuovi: come può nascere l’ordine dal conflitto tra gruppi rivali, dall’affrontarsi di
prerogative e di funzioni opposte? Come può una vita comune fondarsi su elementi disparati? Oppure – per
riprendere la stessa formula degli orfici – come può, sul piano sociale, l’uno nascere dal molteplice e il
molteplice dall’uno? Victor Ehremberg constata che al centro della concezione greca della società c’è una
contraddizione fondamentale: lo stato è uno e omogeneo; il gruppo umano è fatto di parti molteplici ed
eterogenee. Questa contraddizione resta implicita perché i greci non hanno mai chiaramente distinto stato
e società, piano politico e piano sociale. Di qui la confusione di un Aristotele quando tratta dell’unità e
pluralità della polis. Vissuta implicitamente nella pratica sociale, questa problematica dell’uno e del
molteplice, che si esprime anche in certe correnti religiose, sarà formulata con pieno rigore al livello del
pensiero filosofico.
QUI GLI AUTORI INIZIANO DIMOSTARE LA LORO TESI SULLO SPAZIO DELL’AGORA E SUL SIGNIFICATO DELLA
POLIS COME SOCIETÀ DI EGUALI.
MEDIO E TARDO ARCAISMO
Verso la fine del IX secolo a.C. si iniziarono ad intravedere le avvisaglie di una progressiva trasformazione
politica ed economica che interessò il mondo greco.
Le mutate condizioni socio-economiche, dovute all'incremento demografico, al contatto con le popolazioni
ricche e progredite delle isole orientali dell'Egeo e delle coste dell'Asia Minore e a una ripresa degli scambi
commerciali, indebolirono definitivamente l'istituto monarchico a favore dell'aristocrazia, che nell'VIII
secolo a.C. prese il potere in tutta l'area egea.
La Polis si conforma
Le πόλεις erano veri e propri centri politici, economici e militari, retti da governi autonomi e indipendenti.
L'agglomerato urbano era costituito dalla città, solitamente circondata da mura, e dal territorio circostante
adibito prevalentemente all'agricoltura e all'allevamento. Il centro vitale della polis era l'agorà, sede
del mercato e delle assemblee popolari, assieme all'acropoli, luogo fortificato per la difesa dei cittadini e
che ospitava il tempio della divinità tutelare.
Secondo alcuni studiosi, la struttura della città-stato, associata alla particolare conformazione geografica
del territorio, fu uno dei principali ostacoli all'unità politica greca. I giochi pubblici, invece, contribuirono a
rinsaldare l'unità culturale ellenica. Oltre a quelli nemei, istmici e pitici, i più importanti furono i giochi
Olimpici in onore di Zeus. Questa manifestazione, che si svolgeva ogni quattro anni ad Olimpia, divenne
tanto famosa che la data della I Olimpiade (776 a.C.) servì da punto di partenza della datazione greca. Per
quanto riguarda la cittadinanza, come ogni società prevalentemente agricola, essa si estende ai residenti
della regione controllata dalla città.
Colonizzazione e contrasti
Tra l'VIII ed il VII secolo a.C. vi fu un fenomeno migratorio che ebbe notevoli ripercussioni sull'assetto
sociale, politico ed economico della Grecia arcaica. Il movimento colonizzatore, causato dai gravi contrasti
di classe, dalle guerre tra città e dall'aumento della popolazione, che fece crescere il fabbisogno di terre e
materie prime, interessò sia l'area orientale (Tracia e Mar Nero), sia quella occidentale (Magna
Grecia, Francia e Spagna). Le conseguenze socio-economiche della colonizzazione greca furono notevoli:
l'espansione e l'incremento degli scambi commerciali e delle attività artigianali ed industriali e
l'introduzione della moneta favorirono la formazione di una nuova classe di commercianti ed industriali,
che progressivamente misero in crisi il predominio stesso dell'aristocrazia.
Il mutato assetto sociale ebbe delle inevitabili ripercussioni politiche, in quanto il ceto medio, presa
coscienza della propria forza e della propria importanza, cominciò ad avanzare richieste per una
parificazione giuridica con la vecchia aristocrazia.
I Tiranni
Tra il VII e il VI secolo a.C. i continui contrasti sociali, acuiti dal malcontento delle classi meno abbienti,
portarono da un lato alla codificazione scritta delle leggi, iniziata nelle colonie, dall'altro al sorgere
della tirannide.
Così figure semi-leggendarie di legislatori, quali Zaleuco di Locri, Diocle di Siracusa, Caronda di Catania e
Dracone di Atene si affiancarono a uomini ambiziosi e senza scrupoli, come Gelone di Siracusa e Policrate di
Samo, che con colpi di stato si impadronirono del potere in moltissime città greche. Ben presto alcune di
queste, come Corinto, Tebe, Sparta ed Atene, salirono alla ribalta della scena ellenica, espandendo la
propria influenza sulle città limitrofe.
Ad eccezione di Sparta, una polis estremamente conservatrice che rimase per lungo tempo legata alla
costituzione di Licurgo e non conobbe, se non in minima parte, rivolgimenti sociali e fenomeni di
emigrazione, le altre poleis greche sperimentarono il governo dei tiranni. A Corinto la famiglia dei
Bacchiadi, che governava la città, fu rovesciata da Cipselo (657 circa), il quale assunse il titolo di tiranno
trasmettendolo al figlio Periandro. A Sicione un certo Ortagora prese il potere (550 circa) e lo trasmise al
figlio Clistene. Ad Atene Pisistrato stabilì un governo tirannico che resse la città con fasi alterne per circa
trent'anni (561-528 circa), trasmettendo il potere al figlio Ippia. L'elemento che accomuna tutti i tiranni di
prima generazione consiste nella loro appartenenza all'esercito e mostra l'importanza dell'apparato
militare nella crisi dell'aristocrazia e nell'ascesa dei tiranni.
L’ascesa culturale (troppo sintetico)
Alla fine del VI secolo, dopo il rovesciamento della tirannide di Ippia (510), Clistene realizzò una profonda
riforma della costituzione ateniese che segnò la nascita della democrazia ad Atene e nel mondo (507). Dagli
inizi dell'VIII secolo, la ripresa economica e la reintroduzione definitiva della scrittura mediante l’alfabeto
fenicio favorirono l'inizio della grande stagione culturale greca.
È a quest'epoca che si può far risalire la composizione scritta dell'Iliade, dell'Odissea, delle opere di Esiodo e
della poesia lirica di Alcmane, Callino, Stesicoro e Tirteo. Contemporaneamente, anche la speculazione
filosofica iniziò a muovere i primi passi nelle colonie greche orientali ed ebbe tra le figure di spicco
pensatori come Talete, Anassimandro,Anassimene, Parmenide ed Eraclito.
ETÁ CLASSICA
Guerre persiane
Nella Ionia (la moderna costa egea della Turchia) le città greche, fra cui Mileto ed Alicarnasso, si ribellarono
al giogo persiano dando vita alla rivolta ionia (499 a.C.). Le città rivoltose chiesero aiuto alle
grandi poleis della madre patria, ma solo Atene intervenne con appena 20 navi. A queste si unirono 5
vascelli della piccola città di Eretria, situata nell'isola di Eubea. Pur conseguendo iniziali successi, le forze
greche soccombettero alle persiane a causa della loro inferiorità. I Persiani, riconquistate tutte le postazioni
perdute, cinsero d'assedio Mileto e la rasero al suolo nel 494.
Il Gran Re persiano, Dario I, dopo aver ristabilito la sua supremazia sulle città ribelli d'Asia minore, volse le
sua attenzione sulle due poleis che avevano contribuito alla rivolta nei suoi confronti, ed inviò dei suoi
emissari per portare la richiesta di "acqua e terra": un atto simbolico di grande effetto che significava la
sottomissione totale, per mare e per terra. Alcune città, spaventate si sottomisero. Atene, intuito il pericolo
chiese aiuto a Sparta, che lo negò, adducendo il pretesto che nella città si stavano celebrando le feste in
onore di Apollo, durante le quali era vietato combattere. In realtà Sparta non volle portare aiuto agli
Ateniesi, in quanto gli Spartani erano sempre molto restii nell'abbandonare il proprio territorio ed erano
preoccupati che Atene diventasse troppo potente.
Nel frattempo Dario, approfittando della divisione tra le città greche, inviò una spedizione militare per
punire Atene ed Eretria. Nel 490 le truppe Persiane sotto la guida dei comandanti Dati e Artaferne si
mossero verso l'isola di Eubea e conquistarono Eretria. Con essi c'era Ippia, il figlio dell'ex tiranno di
Atene Pisistrato cacciato dalla città e che sperava nella vittoria persiana per ristabilire la propria egemonia
su di essa.
In seguito i Persiani sbarcarono in Attica e fu lo stesso Ippia a consigliare al Gran Re di schierare l'esercito
nella piana di Maratona, a soli 42 km da Atene: qui nell'aperta pianura la famosa cavalleria persiana
avrebbe potuto manovrare con facilità. Gli Ateniesi si stanziarono sulle colline che dominavano la piana. I
Greci in 11000 dopo alcuni giorni di esitazione si strinsero in falange e portarono per primi l'attacco contro
30000 Persiani. I primi erano guidati dal nobile Milziade, che in quell'occasione rivestiva la carica
di polemarco, un arconte con funzioni militari. Alla fine morirono solamente 200 Greci e ben 6000 Persiani.
La vittoria dei Greci fu annunciata da Fidippide ad Atene.
Dieci anni dopo il successore di Dario, Serse I, guidò contro i Greci un grande esercito, il cui numero colpì
l'immaginazione dei Greci, non abituati a simili cifre: si diceva che l'esercito di Serse ammontasse a un
milione di uomini e che per rifornirsi d'acqua avesse seccato il fiume Scamandro, nella Troade. In realtà
pare più probabile che si aggirasse intorno ai 100.000 soldati, una cifra comunque enorme per le piccole
città-stato greche. I Greci stabilirono un primo sbarramento alle Termopili, un passo facile da difendere in
caso di inferiorità numerica. Dopo tre giorni di battaglia i Persiani scoprirono un passaggio che aggirava lo
schieramento nemico e presero alle spalle i Greci. Per coprire la ritirata dell'intero esercito, il re spartano
Leonida tenne impegnati i Persiani sacrificando se stesso e 300 Spartani che preferirono morire piuttosto
che fuggire. Superate le Termopili, Serse avanzò verso l'Attica. Nel frattempo,Temistocle, vista
l'impossibilità di sconfiggere via terra l'avanzata persiana, fece evacuare Atene ed organizzò una flotta per
opporsi a quella persiana. L'esercito di Serse diede alle fiamme Atene, ma la flotta ateniese, forte di 310
navi, impegnò quella persiana, che raggiungeva le 1207 unità, e la sconfisse duramente a Salamina, nel 480.
Serse ritornò in Persia lasciando al comando delle truppe Mardonio con il compito di riprendere l'offensiva
in primavera.
Nel 479, l'esercito greco comandato dallo spartano Pausania sconfisse i Persiani a Platea costringendoli a
ritirarsi. Contemporaneamente, una flotta greca comandata dall'ateniese Santippo sconfisse la flotta
persiana a Micale. La seconda guerra persiana si concluse effettivamente nel 478 quando i Greci
espugnarono la città di Sesto che costituiva l'ultima piazzaforte persiana in Europa.
Egemonia di Atene
Dopo la vittoria sui Persiani, nel 477, Atene, consolidata la propria supremazia navale, si fece promotrice
dell'istituzione della Lega di Delo, una confederazione di città greche, che aveva per scopo il mantenimento
di una marina da guerra per la continuazione della guerra. Sparta, alleata di Atene dai tempi delle guerre
persiane, accettò che Atene assumesse il comando della Lega in quanto allora non era interessata ad
esercitare la propria egemonia al di fuori del Peloponneso. Coloro che erano contrari all'alleanza tra le due
città e comprendevano che esse avrebbero prima o poi lottato per l'egemonia assoluta sulla Grecia furono
giustiziati o esiliati. Lo spartano Pausania fu murato vivo dentro il tempio di Atena Calcieca nel 471 circa,
mentre Temistocle fuggì da Atene per non subire la stessa sorte e dopo lunghi viaggi nel Peloponneso e
nello Ionio, nel 465 si recò alla corte del Re Persiano dove trascorse gli ultimi anni della sua vita.
Nel 466 la Lega di Delo colse la sua più importante vittoria quando la flotta, al comando di Cimone,
sconfisse quella persiana presso il fiume Eurimedonte, in Licia.
Poco dopo, nel 465, l'isola di Taso si ribellò all'egemonia ateniese, ma dopo un assedio di due anni fu
conquistata da Cimone e riportata all'interno della Lega.
Nel 463 Sparta chiese aiuto ad Atene contro i Messeni che si erano ribellati alla sua autorità ed erano
assediati sul monte Itome. Tuttavia, a causa del sospetto che gli Ateniesi potessero favorire i ribelli, gli
Spartani rimandarono a casa il contingente ateniese nel 462. Atene ne fu molto irritata ed
ostracizzò Cimone, il quale era stato il maggiore alleato di Sparta ed il principale promotore della missione.
In conseguenza dell'uscita di scena di Cimone, Atene mutò radicalmente politica estera: strinse alleanza con
Argo ed i Tessali, i quali erano stati alleati dei Persiani o comunque neutrali ai tempi delle guerre persiane.
Questa alleanza portò Atene in rotta di collisione con Sparta, di cui Argo era un'acerrima rivale per
l'egemonia nel Peloponneso.
All'esterno Atene impegnò la Lega in una difficile spedizione in Egitto in soccorso di una rivolta locale
contro i Persiani, ma l'esito fu disastroso: nel 454 circa le truppe ateniesi furono circondate e totalmente
sconfitte dai Persiani. Prendendo a pretesto questa disfatta per rianimare tra i Greci la paura di una nuova
invasione persiana, Atene trasferì il tesoro federale dall'isola di Delo al Partenone, rafforzando così la
propria egemonia all'interno della Lega.
Intorno al 460 comparve sulla scena ateniese Pericle, capo del partito popolare. La sua azione politica si
rivolse verso il rafforzamento delle istituzioni democratiche, alle quali avrebbero potuto accedere anche i
cittadini delle classi meno abbienti. In politica estera accentuò l'egemonia ateniese all'interno della lega di
Delo, trasformandola di fatto in un impero coloniale, controllato dalla sua potente flotta. Nell'età di Pericle
la cultura e le arti ebbero un grande sviluppo: vissero in questo periodo i
drammaturghi Eschilo, Aristofane, Euripide e Sofocle, i filosofi Aristotele, Platone e Socrate, gli
storici Erodoto, Tucidide e Senofonte, il poeta Simonide e lo scultore Fidia.
Guerra del Peloponneso
La crescita della potenza ateniese entrò presto in conflitto con la Lega peloponnesiaca, guidata da Sparta.
Un primo scontro tra le due città si concluse nel 445 con un pace trentennale, di poco posteriore alla pace
di Callia, stipulata tra Atene e la Persia.
Nel 431 iniziò la guerra vera e propria, interrotta dalla pace di Nicia del 421. Questa fase fu caratterizzata
dalle annuali invasioni peloponnesiache dell'Attica che avevano l'obiettivo di costringere Atene alla resa
distruggendo le sue campagne ed i suoi raccolti. Il progetto spartano fallì perché Atene si riforniva di grano
via mare in Eubea e nel Mar Nero. Alle invasioni peloponnesiache gli Ateniesi risposero con sistematiche
incursioni lungo le coste del Peloponneso, saccheggiando e devastando le terre degli Spartani e dei loro
alleati. Neppure la peste del 430-428, durante la quale morì Pericle, riuscì a piegare Atene. Anzi, nel 425 gli
Ateniesi guidati dal demagogo Cleone riuscirono a catturare 292 Spartani, tra cui 120 spartiati (l'élite
politica e militare spartana), mettendo in grave difficoltà Sparta. Questa rispose nel 424 inviando nella
Calcidica un esercito comandato da Brasida, il quale occupò la città di Anfipoli che rivestiva un'enorme
importanza per Atene per via dei suoi boschi da cui gli Ateniesi traevano il legname per costruire la loro
potente flotta. Lo storico Tucidide, allora comandante militare della regione, fu esiliato da Atene per non
essere riuscito a difendere Anfipoli dall'attacco spartano. Nel 422 Cleone tentò di riconquistare la preziosa
città, ma sia lui sia Brasida caddero in battaglia. Ormai stanche della guerra e private dei loro generali più
bellicosi, Atene e Sparta stipularono la pace di Nicia nella primavera del 421 che pose fine alla prima fase
della guerra del Peloponneso.
Nel 418, Atene stipulò un'alleanza con le città di Argo, Elea e Mantinea con l'obiettivo di indebolire il
controllo spartano sul Peloponneso, ma Sparta sconfisse l'esercito di Atene ed Argo nella battaglia di
Mantinea. Alla vittoria spartana seguì il rovesciamento del governo democratico di Argo e l'instaurazione di
un governo oligarchico filospartano, il quale però ebbe vita breve e già nel 417 ad Argo tornarono al potere
i democratici riportando la città sulle sue tradizionali posizioni antispartane.
Nel 415 Alcibiade riuscì a convincere gli Ateniesi a compiere un'ambiziosa spedizione in Sicilia con
l'obiettivo di rendere tributaria l'isola rafforzando Atene nei confronti di Sparta e dei suoi alleati. A causa di
rivalità interne, appena sbarcato in Sicilia Alcibiade fu richiamato ad Atene per difendersi dall'accusa di aver
profanato i sacri Misteri Eleusini. Il generale ateniese, anziché consegnarsi alla propria patria per il
processo, preferì cercare asilo presso gli Spartani in modo da poter vendicarsi dei suoi oppositori interni
che lo avevano costretto all'esilio. Privata del suo comandante più valido, la spedizione ateniese si concluse
nel 413 con un totale fallimento: l'esercito fallì l'assedio a Siracusa e fu quasi completamente annientato.
Dopo la sfortunata spedizione ateniese contro Siracusa, numerosi alleati di Atene defezionarono e
passarono dalla parte di Sparta. Quest'ultima ottenne inoltre l'alleanza ed il prezioso sostegno finanziario
del Re di Persia grazie al quale poté armare una flotta con la quale mise in difficoltà Atene sul mare. Di
fronte a questi gravi problemi, nel 411 ad Atene si impose un regime oligarchico che fu però rifiutato dai
marinai, di fede democratica, della flotta ateniese di stanza nell'isola di Samo, i quali si proclamarono
legittimi rappresentanti di Atene e richiamarono dall'esilio Alcibiade. Sospettato di trattare la resa agli
Spartani, il governo oligarchico di Atene fu rovesciato ai primi del 410 fu restaurata la democrazia.
Nonostante la distruzione del suo esercito in Sicilia, Atene riuscì ad armare nuovamente una flotta
agguerrita con cui inflisse anche pesanti sconfitte agli Spartani, come nella battaglia di Cizico, nel 410, nella
quale cadde anche il comandante spartano Mindaro.
Nel 407 a Nozio, in Ionia, il generale spartano Lisandro sconfisse la flotta ateniese di Antioco, un
luogotenente di Alcibiade cui era stato ordinato di non accettare battaglia dagli Spartani. Pur avendo
disobbedito ad un ordine di Alcibiade, quest'ultimo fu ritenuto responsabile della sconfitta ed esiliato
definitivamente. Nel 406 Atene vinse la flotta spartana presso le isoleArginuse, ma i comandanti ateniesi
furono accusati di aver abbandonato i naufraghi e furono pertanto giustiziati. Per via di lotte intestine la
città si privò in questo modo di un collegio di generali vittoriosi di cui in quel momento aveva un disperato
bisogno. Nel 405 Lisandro sorprese la flotta ateniese presso Egospotami, sui Dardanelli e la distrusse
completamente. In seguito alla sconfitta subita nella battaglia di Egospotami, Atene fu assediata e
nel 404 fu occupata dagli Spartani, che vi instaurarono un governo oligarchico (regime dei trenta tiranni).
Sparta impose inoltre la distruzione delle Lunghe Mura che congiungevano Atene al Pireo, lo scioglimento
della Lega delio-attica e l'ingresso di Atene nella Lega peloponnesiaca. Pochi mesi dopo si arrese anche
l'isola di Samo, ultima roccaforte ateniese nell'Egeo e la guerra poté dirsi conclusa.
L'anno seguente, nonostante la grave crisi istituzionale ed economica, il regime democratico fu restaurato
sotto la guida di Trasibulo di Atene.
Egemonia di Sparta e Tebe
La fine della guerra peloponnesiaca lasciò Sparta, che poteva contare sull'appoggio persiano, padrona della
Grecia. La supremazia spartana fu, tuttavia, di breve durata, a causa del malcontento delle altre città per la
politica filopersiana e per i contrasti socio-politici interni.
Nel 401 Sparta inviò in Asia un corpo di 13.000 mercenari per sostenere Ciro il Giovane nel suo tentativo di
rovesciare il fratello Artaserse II e salire così sul trono dell'impero persiano. Nella Battaglia di Cunassa Ciro
fu sconfitto ed ucciso. I mercenari greci compirono un'avventurosa ritirata in Grecia narrata sa Senofonte
nell’Anabasi. L'aiuto concesso da Sparta al ribelle Ciro fornì il pretesto al Re Artaserse II per rivendicare la
sovranità sulle città greche dell'Asia Minore. Sparta rispose inviando un esercito sotto il comando del
re Agesilao con il compito di difendere la libertà delle poleis asiatiche. Il Re sfruttò l'insofferenza delle città
greche verso l'egemonia spartana ed inviò loro del denaro per finanziare una guerra contro Sparta in modo
che quest'ultima fosse costretta a ritirarsi dall'Asia Minore.
Nell'estate del 395 la guerra scoppiò e Tebe, aiutata da Atene, sconfisse ad Aliarto lo spartano Lisandro che
rimase sul campo. In seguito a questa vittoria si formò un'alleanza tra Tebe, Atene, Argo e Corinto in
funzione antispartana e, dal momento che la sede della lega era Corinto, il conflitto fu detto guerra
corinzia.
La guerra si concluse nella primavera del 387, con la "pace del re" o trattato di Antalcida, le cui clausole
sancivano il dominio persiano sulle città dell'Asia minore e l'autonomia delle città greche della madrepatria.
Sparta, che pure era designata come la paladina di tale pace, ne approfittò per rafforzare la propria
egemonia sulle altre poleis. Nel 385 distrusse Mantinea, mentre nel 382occupò proditoriamente la rocca
Cadmea di Tebe imponendo un regime filospartano. Nel 379 un gruppo di esuli tebani, tra i quali Pelopida,
rovesciò il regime filospartano ed instaurò la democrazia a Tebe stringendo alleanza con Atene.
Nel 378 lo spartano Sfodria tentò senza successo di occupare Atene con un blitz notturno, ma fu scoperto.
L'incidente spinse Atene e Tebe a dichiarare guerra a Sparta. Nella primavera del 377 Atene fondò
la Seconda Lega Navale in funzione antispartana e tornò ad essere una potenza navale. Nel 376 il
generale Cabria sconfisse la flotta spartana a Nasso, liberando Atene dal blocco navale nemico. L'anno
dopo, nel 375, il generale Timoteo sconfisse nuovamente la flotta spartana ad Alizia, dopodiché la marina
spartana scomparve dai mari. Nel frattempo l'ascesa di Tebe preoccupò Atene, al punto da spingerla a
riavvicinarsi a Sparta ormai indebolita. La distruzione di Platea ad opera dei Tebani nel 373 inimicò
definitivamente Atene e Tebe.
Nel giugno del 371 le parti in conflitto si riunirono a Sparta per una conferenza di pace, ma Tebe pretese di
giurare (oggi diremmo "firmare") in nome di tutta la Beozia, in chiara violazione della Pace del Re che
stabiliva il principio dell'autonomia delle poleis. Ne seguì un nuovo conflitto tra Sparta e Tebe che si
concluse con la sconfitta spartana nella battaglia di Leuttra del luglio 371.
Il risultato della battaglia sancì la fine della supremazia di Sparta, costretta a sciogliere la Lega
peloponnesiaca, e l'affermazione di Tebe come potenza egemone in Grecia. Atene si schierò apertamente
con Sparta per contenere l'ascesa di Tebe. Negli anni seguenti, sotto la guida del generale Epaminonda, i
Tebani invasero più volte il Peloponneso: nell'inverno 370/369 assediarono la stessa Sparta senza riuscire
ad occuparla, mentre nell'estate del 369 staccarono la Messenia dalla Laconia, infliggendo un durissimo
colpo alla potenza di Sparta che da quasi quattro secoli dominava la Messenia. Nel 367 Epaminonda riuscì
per breve tempo ad ottenere l'alleanza dell'Acaia sottraendo la regione all'influenza spartana, ma in seguito
l'arroganza tebana portò alla rottura dell'alleanza.
Contemporaneamente, il generale Pelopida rafforzava l'egemonia di Tebe in Tessaglia combattendo contro
il tiranno Alessandro di Fere. L'egemonia tebana durò fino a quando furono vivi i suoi due generali di
maggior spicco, Pelopida ed Epaminonda. Il primo cadde in battaglia nel 364, mentre il secondo invase
nuovamente il Peloponneso nel 362 rimanendo sul campo di battaglia di Mantinea, che pure fu una vittoria
per Tebe su Ateniesi e Spartani alleati.
Come rileva Senofonte, dopo tale battaglia, in Grecia, si verificò tutt'altro che un consolidamento
dell'egemonia di Tebe vincitrice almeno sulla carta, ma aumentò solamente la confusione nelle relazioni
diplomatiche, in quanto nessuna polis era più in grado di emergere sulle altre, mancando i due
generali Pelopida e Epaminonda che fino a quel momento ne avevano deciso indirettamente l'andamento
diplomatico.
2b
Un’applicazione archeologica sull’isola di Tinos:
il sito di Xobourgos
Nel 1939 furono scoperti un intero corpo di pithi decorati in rilievo ed un arcaico insediamento esteso e
fortificato lungo il fianco meridionale delle rocce granitiche della collina di Xobourgos. Vennero alla luce
anche un cimitero del periodo Classico e un complesso di edifici che fu immediatamente identificato come
un santurio di Demetra, più specificatamente come un Thesmophorion.
Xobourgos è un sito di difesa naturale , al centro della parte meridionale dell’isola di Tinos. La collina, che
consiste in una imponente rocca granitica, si alza ad un’altitudine di 557 metri, e dalla sua cima la vista
spazia sui più importanti collegamenti viari dell’isola e su gran parte delle sue coste. Il sito presenta inoltre
dei fertili terrazzamenti lungo il pendio sud-orientale, ed un buon apporto di acqua dal terreno.
È facile capire, quindi, perché la collina fu scelta come sito del castello medievale durante l’occupazione
veneziana, e come insediamento principale durante i difficili anni della Prima Età del Ferro (1050-700 a.C.).
Il sito presenta un muro di fortificazione del periodo Arcaico che si collega ad un precedente circuito di
muratura ciclopica. Gli scavi hanno portato alla
luce pratiche di culto della Prima Età del Ferro
precedentemente sconosciute.
Secondo l’evidenza archeologica, il sito sembra
essere stato abitato subito dopo la fine dell’
Età del Bronzo, quando gli abitanti degli
insediamenti costieri, minacciati dai pirati, si
spostarono nell’entroterra verso luoghi più
protetti: siamo intorno al 1110 a.C. Quest’area
fu quindi inizialmente pensata come luogo di
difesa, e per questo si costruì un enorme muro ciclopico, parti
del quale tuttora esistenti. Il muro racchiudeva una piccola area
estesa su due terrazzamenti del pendio meridionale del
complesso roccioso. Simili muri esistono a partire dalle ultime
fasi del mondo Miceneo nella Grecia continentale, ed in qualche
insediamento del breve Medioevo Ellenico cretese: essi
racchiudono aree definite “siti di rifugio”. A Xobourgos il muro
ciclopico si estende, lungo i due terrazzamenti, sul più alto
pendio accessibile della collina. Parti di questo muro
sopravvivono lungo il bordo occidentale dei due terrazzamenti
racchiusi, ma dopo intensive analisi superficiali dell’area è stato
possibile identificare la continuità del circuito anche lungo i bordi
meridionali e orientali del complesso. Il blocco di roccia verticale
sul lato nord del sito incrementa le sue caratteristiche difensive,
andando a costituire un’area altamente fortificata.
La scelta di un sito isolato e dal difficile accesso, circondato da un
massiccio muro di fortificazione, è la più tipica caratteristica degli
insediamenti di rifugio costruiti nella
fase di declino del mondo minoicomiceneo, durante gli anni travagliati
che seguirono la distruzione dei
palazzi. Xobourgos rappresenta
un’importante fonte per
comprendere meglio questo
periodo, essendo uno dei pochi siti di
questo tipo al di fuori di Creta.
Di particolare interesse è anche la
cava di pietra, identificata dai segni
degli attrezzi di escavazione sulla
roccia granitica, sul confine del lato
settentrionale dell’area fortificato
dalle mura ciclopiche. Le cave di
granito sono estremamente rare
nell’Egeo, e l’esempio di Xobourgos
offre interessanti informazioni
riguardo agli utensili e alle tecniche
di escavazione del granito nella
Prima Età del Ferro.
Lungo il terrazzamento del lato meridionale, recenti scavi hanno portato alla luce parti di un muro di
fortificazione del periodo Arcaico, sovrapposto in tempi successivi ad alcuni fossi più arcaici destinati al
focolare, ad un’urna funeraria, ad una eschara (luogo del focolare) e ad altre costruzioni della Prima Età del
Ferro.
Queste più antiche costruzioni sono apparentemente contemporanee alla parte -non scavata- nordorientale del muro ciclopico, e da esse si può dedurre l’esistenza di un importante complesso di culto che
era in uso dall’inizio delle Dark Ages (Medioevo Ellenico, 1100 a.C.) fino alla metà dal VII secolo.
La pratica di questo culto consisteva nell’accensione di un fuoco in piccole o grandi aperture rettangolari,
nelle quali venivano gettate offerte. Il rituale era concluso con il lancio nel focolare di una pila di massi con
il compito di estinguere il fuoco. Un’interessante caratteristica di questo rituale era l’utilizzo frequente di
un grande ciottolo colorato: esso era la pietra finale aggiunta al piccolo tumulo di sassi formatosi sul fuoco,
a completezza di tutta la dinamica ruotante attorno al focolare. Ciottoli più piccoli erano gettati in ogni
orifizio cultuale del terreno, apparentemente come sostituti dell’acqua di mare e del suo carattere
purificante. Queste“pire a fossa” venivano recintate in gruppi da dieci all’interno di specifici muri
perimetrali: per ora sono venuti alla luce quattro recinti di questo tipo, la maggior parte dei quali giace
nello strato sotto il livello del circuito del muro ciclopico del Periodo Arcaico.
Questo impressionante complesso religioso fu costruito dalla popolazione che affidava la sua protezione al
muro ciclopico, e rappresenta uno dei più vividi aspetti delle attività religiosa della Dark Age conservata
nelle Cicladi e forse nell’intero Egeo. Tutte le costruzioni di quest’area di culto, inclusi i focolari, i tumuli di
pietra e i recinti, sono ben conservate.
I focolari, scavati nella roccia viva, e i piccoli tumuli di pietra vennero sepolti nella terra per creare una
superficie piana su cui in seguito verrà costruito il muro Arcaico. I focolari più antichi possono essere datati,
grazie al ritrovamento di frammenti di ceramica Attica al loro interno, al Periodo ProtoGeometrico (X secolo
a.C.). Tali orifici sono disposti all’interno di recinti in pietra ben costruiti, subito a Sud del punto in cui
probabilmente si apriva il portale del muro ciclopico. Anche oggi il sentiero passa per questa antica
apertura.
La parte orientale del Complesso Principale
Leggermente più a Est si trova un altro recinto che racchiude alcuni larghi pozzi risalenti al Periodo
Geometrico. Due o tre di queste aperture sono collegate tra loro attraverso stretti canali, formando così
unità distinte. I muri di recinzione e i focolari collegati indicano che anche qui erano praticate attività di
culto, e mostrano come la complessa struttura della società di Xobourgos, nel Periodo Geometrico, fosse di
tipo tribale. Tra i focolari fu trovata un’urna funeraria; questa indica che le attività cultuali praticate in
questo distaccamento erano direttamente relazionate al mondo dei morti e possono avere avuto anche un
carattere funerario.
Le offerte trovate all’interno dei focolari comprendono frammenti di ceramica, pesi per telai e vari oggetti
di metallo: coltelli e pugnali di bronzo, spade di ferro e altri oggetti di mestieri maschili; ma anche gioielli,
come spille e fibule, suggerendo la presenza di donne presso il santuario. I focolari erano marcati in
antichità o da un grande masso o -più frequentemente- da una piccola lastra rotonda che veniva usata
come tavolo per le offerte (altare).
Il punto focale dell’attività di culto di quest’area consisteva in un grande cuore rettangolare del tipo meglio
conosciuto come eschara. Ossa di animali e frammenti di paioli in ceramica trovati nella eschara indicano
che un’importante passaggio del rituale consisteva nella consumazione del pasto. La eschara, definita da
lastre di scisto sui quattro lati, conteneva al suo centro il pozzo-pira (focolare) colmo di cenere bianca. Un
enorme deposito di cenere con ossa bruciate e ceramiche rotte, trovato nei pressi della eschara, mostra la
continuità del suo utilizzo lungo il Periodo Geometrico.
Di fronte alla eschara si trova una lunga panchina. Altri piccoli focolari intorno al focolare centrale
sottolineano l’estrema importanza del fuoco nelle attività di questo luogo sacro. Ceramica del Tardo
Periodo Geometrico trovata nel livello superiore alla eschara indica il terminus ante quem della costruzione
del focolare: entro il 750 a.C. circa.
Il Secondo Recinto
Scavi eseguiti più a Est rispetto al deposito di cenere portarono alla luce altri gruppi di focolari scavati nel
terreno, circondati da recinti rettangolari ben costruiti che chiudono le rispettive zone su tre lati, con il
quarto lato, quello settentrionale, chiuso dalla roccia verticale. L’entrata di questi recinti è sul lato
orientale, dove un sentiero conduceva ad una massiccia porta, come ne suggerisce ancora oggi la soglia. Al
centro del passaggio sorge un focolare sormontato da una pietra circolare usata come altare. Dentro il
recinto vi sono anche altri focolari, scavati direttamente nella roccia, ad eccezione di uno che risulta essere
appoggiato sulla roccia e definito nella sua circolarità da una serie di piccole pietre. Al centro del recinto si
trova un focolare poco profondo trovato colmo di cenere bianca, con una pietra verticale al centro, avente
l’aspetto di un baetyl (cippo). Presso il muro di fondo del recinto venne trovato un deposito di vasi
contenente semi di fagioli. Il recinto è stato datato, grazie alla ceramica ritrovata, tra l’ultimissima fase del
Periodo Geometrico e l’inizio del VII secolo. Non è chiaro se il recinto avesse avuto una copertura o meno: i
focolari suggeriscono uno spazio all’aria aperta. Ma la grande soglia e pezzi di metope di ceramica ivi trovati
fanno pensare all’esistenza di un tetto. Appare, quindi, come l’utilizzo dell’area con il focolare precedette
un piccolo edificio a tempio del VII secolo.
Il Terzo Recinto
Più a Est, lungo il terrazzamento, è stata scoperta un’altra interessante costruzione. Al suo interno si trova
una coppia di focolari, i quali ebbero due distinte fasi di utilizzo. I due pozzi furono originariamente scavati
nella roccia stessa vicino al muro di contenimento, mentre il terreno della stanza venne pavimentato con
lastre di scisto per formare un percorso conducente ai focolari. Al centro di quest’area lastricata, un incavo
nel suolo contiene una grande pietra circolare, che doveva essere usata come tavolo per le offerte, a
giudicare dai resti di conchiglie rotte di murex truncullus rinvenute nei pressi. Nei focolari gemelli è stata
trovata della ceramica risalente al Tardo Periodo Geometrico. Fra i ritrovamenti figurano anelli d’ossa, pesi
per telai in terracotta, oggetti di metallo, molte pentole e vasi di pregio importati dalla vicina isola di Paros.
Qualche frammento di ceramica attica del Tardo Geometrico rinvenuto nella cenere testimonia
l’importanza dei due focolari gemelli e del loro carattere sacro. È interessante il fatto che entrambi i focolari
a pozzo fossero stati chiusi in superficie da tumuli di pietre contenenti un sasso bianco l’uno, e un sasso
nero l’altro.
I due focolari gemelli caddero apparentemente in disuso per qualche tempo, poiché sopra di essi giaceva
uno strato di terra di 40 centimetri. L’area fu di nuovo utilizzata in seguito, con l’apertura di una nuova
coppia di pire a pozzo, sempre affiancate, le quali vennero considerate monumentali, come mostra un
recinto in pietra attorno ad ognuna di esse. Uno dei due recinti contiene anche una pietra-altare, mentre
l’altro una strana stele. Il rituale qui praticato era esattamente uguale a quello degli altri focolari del sito:
l’accensione di un fuoco nell’apertura, la deposizione di offerte al suo interno, e quindi il consumo di un
pasto sacrificale, evidenziato dalle ossa di animali rinvenute. La maggior parte delle ossa proviene da
pecore e capre, ma anche da uccelli e bovini. Questi focolari sono quindi una testimonianza di un rituale
molto particolare basato sull’utilizzo del fuoco, praticato a Xobourgos durante la Prima Età del Ferro. Pire a
pozzo sacrificali sono state scoperte solo in poche altre isole, come Naxos e Amorgos. Ad ogni modo, in
nessun altro sito delle Cicladi o altrove è
stato trovato un complesso di focolari così
ben conservato, per di più all’interno di
recinti contenenti eschara, più tardi
sostituiti da edifici simili a templi, come
suggerito dalle metope di argilla.
Il Thesmophorion
Non è chiaro chi fosse il destinatario del culto del santuario di Xobourgos. Un aiuto ci è giunto dal
ritrovamento di un altro eschara all’interno del Thesmophorion. Questo edificio consiste in un santuario
eretto pochi metri più a Est rispetto agli altri edifici, fuori dal principale cancello di accesso all’insediamento
Arcaico. Questo santuario fu identificato come un Thesmophorion nel 1995. La parte scavata consiste di
quattro unità architettoniche affiancate, ma probabilmente il complesso era anticamente più esteso su
entrambi i lati. La parte centrale del santuario consiste in un piccolo edificio a tempio pavimentato con un
mosaico di ciottoli (II). A una distanza di pochi metri a Ovest del tempio vi è un altare (I), mentre sul lato a
Est si trova un eschara (III). Questo complesso dall’aspetto sacro è affiancato su entrambi i lati corti da una
serie di stanze. All’interno della cella del tempio vennero trovate alcune lampade e delle placche d’argilla
con rilievi di protomi femminili, assieme a frammenti di vasi attici rappresentanti il graffito Δ : è stato
dedotto che qui veniva praticato il culto della dea dell’agricoltura Demetra, protettrice della donna e della
famiglia.
L’analisi della muratura del Thesmophorion fa
risalire l’edificio al Periodo Classico. Ad ogni
modo, i ritrovamenti all’interno dell’edificio
includono un certo numero di pithoi in rilievo del
Tardo Geometrico del periodo Orientaleggiante.
La maggior parte di questi è decorata con
soggetti mitologici e offre un ricco corpus di
alcune tra le prime scene figurative dell’arte
greca. Studi più approfonditi sui ritrovamenti e
sulla struttura dell’edificio suggeriscono che il
santuario visse più di una fase di attività
religiosa. La fase più antica riguarda lo eschara
ed i pithoi in rilievo, quando il complesso doveva essere soltanto un santuario all’aperto con il culto
accentrato attorno al focolare. Dal momento che tutti i ritrovamenti hanno come oggetto di
rappresentazione una divinità femminile, la cui versione successiva è stata identificata con la dea Demetra,
è lecito supporre che la prima inquilina del santuario fosse l’antica “Grande Dea Madre”. L’adozione delle
divinità olimpiche nell’Egeo fu graduale, al punto che alcuni dèi, fra cui Demetra stessa, non furono
introdotti nel nuovo Pantheon prima della fine del VII o addirittura del VI secolo. Fino ad allora, il ruolo e le
caratteristiche della Grande Dea aveva inglobato quelle di altre dèe come Artemide o Atena. Durante la
Prima Età del Ferro, le divinità femminili che presero il posto della Dea Madre vennero raffigurate in modi
simili fra loro, ossia come “Potniai” (“Padrona”, “Signora”), spesso come dèe alate affiancate da animali
simboleggianti la natura e i cicli della vita. La maggior parte dei più antichi pithoi a rilievo rinvenuti a
Xobourgos rappresenta in un modo o nell’altro una “Potnia”, e sono attribuiti con ogni probabilità al primo
santuario del focolare a cielo aperto.
Il Muro
Nei Periodi Arcaico e Classico l’insediamento di Xobourgos, nato come sito-rifugio, crebbe di dimensione e
il suo abitato si espanse al di fuori delle mura ciclopiche. Alcune trincee rivelano la presenza di case lungo
tutto il lato sud-orientale delle pendici della collina, mentre più in basso, ai piedi del colle, è venuto alla luce
un cimitero del Periodo Classico. Un piccolo edificio del Periodo Arcaico situato all’interno delle mura fu
restaurato in Periodo Classico, età in cui ospitò funzioni pubbliche.
All’alba del VI secolo a.C. l’insediamento di Xobourgos, denominato “Polis” nelle iscrizioni, era il centro
principale dell’isola. In questi anni suoi abitanti costruirono un nuovo muro di fortificazione, il muro detto
Arcaico, per affrontare la minaccia dell’immanente invasione persiana nell’Egeo.
La costruzione del muro Arcaico iniziò presso le pendici sud-orientali della collina, dove si erano diffusi i
nuovi quartieri residenziali. In rigorosa adesione al bordo del terrazzamento, il muro correva in direzione
Nord-Ovest, per unirsi colà al muro ciclopico, di modo che la fortificazione potesse comprendere sia l’antico
che il nuovo insediamento. Avvenne così che l’area sacra posta a Sud-Ovest del muro ciclopico venne
sacrificata per la costruzione del nuovo circuito difensivo. I focolari, le eschara e le altre costruzioni sacre
vennero sepolti per poter realizzare il muro sopra di essi. Nonostante lo scavo per le fondazioni del muro
Arcaico distrusse parte dei santuari, il complesso rimase in massima parte ben conservato sotto lo strato di
terra, che lo coprì fino ai nostri giorni.
2c
IL PROFILO STORICO DI NAXOS ATTRAVERSO L’ANTICO SANTUARIO DI GIROULA A SANGRI’
Un interessante santuario si trova sulla cima di una piccola collina circondata dalla valle di
Sangrì, nel centro-ovest di Naxos. Questa piccola e fertile valle è sempre stata una delle aree
di Naxos più favorevoli allo sviluppo di insediamenti. Nel periodo Arcaico un importante
santuario crebbe sulla cima di questa collina per l’adorazione di divinità associate alla
fertilità della terra. L’odierno tempio di marmo, costruito intorno al 530 d.C., rappresenta
uno stadio cruciale nello sviluppo dell’architettura classica.
Prima dell’inizio degli scavi, una piccola chiesa dedicata a San Giovanni, costruita con pietre
antiche, testimoniava la presenza di una ben più lunga storia. Nella regione circostante,
infatti, sono state trovate tracce di piccoli insediamenti antichi.
Lo spazio del santuario, rialzato sopra la pianura che giunge fino al mare, era definito da
pietre verticali che delimitavano l’area sacra. Al suo interno, sono state trovate lame di
ossidiana e ceramica del periodo miceneo che però non sembra avesse avuto una funzione
religiosa. Gli elementi trovati indicano che la pratica di adorazione ha avuto origine intorno
all’800 a.C..
Nei tempi antichi in questa valle una popolazione agricola viveva sparsa in piccole unità
(VEDI IMMAGINE). Nell’VIII secolo a.C., un culto di divinità della terra (divenute poi Demetra
e Kore) era praticato sopra la collina, per assicurare la fertilità della terra circostante. Questo
centro religioso e il suo culto formarono il legame essenziale che univa gli sparsi abitanti in
una comunità sociale e politica. L’attività del culto originario (IN MARRONE NELLA TAVOLA)
aveva luogo all’aria aperta, su una combinazione di terrazze naturali e artificiali, dove furono
aperti pozzi per le offerte ed eretti recinti temporanei e capanne. Offerte ad Apollo dalla
fase più antica indicano l’intenzione degli abitanti della valle di essere associati alla divinità
ionia di Delos al tempo della loro integrazione nel sistema sociale della emergente città stato
ionica di Naxos.
Intorno al 530 a.C., durante la tirannia di Lygdamis (essa stessa conseguenza delle rivolta
della popolazione rurale), l’area di Giroula era particolarmente prosperosa, e nel suo centro
religioso fu costruito un tempio interamente in marmo (IN NERO NELLA TAVOLA).
Il tempio, dedicato a Demetra e ad Apollo, era frequentato dalla popolazione agropastorale
della campagna di Naxos, mentre altri abitanti avevano come riferimento il tempio di Apollo
a Delos. Le offerte a Febo avevano luogo presso il tempio di Demetra per esprimere
l’orientazione sociale della popolazione agricola e la loro opinione politica.
Lygdamis incrementò l’opposizione esistente tra popolazione agricola e popolazione urbana.
Egli fece costruire il tempio di Apollo presso Hora (l’attuale Portara) e nel 530 a.C. il tempio
di Giroula. Questo tempio presenta un carattere rurale, con connotati architettonici…
Era un edificio rettangolare, con ecc ecc VEDI CARTELLO.
L'angolo ovest della facciata è stato fondato in proposito, sulla roccia di uno dei pozzi per le
offerte dell'adorazione primitiva, operazione significativa in cui l’offerta alla divinità della
fertilità è in continuità con la tradizione precedente, ponendo l’edificio in un punto stabile e
purificato.
Per la costruzione dell'edificio è stata utilizzata un'impalcatura, di cui sono stati trovati i fori
nella roccia ad intervalli regolari intorno al tempio.
Il punto più pericoloso delle fondazioni era quello dell'angolo ovest; presso tutti i punti critici
delle fondazioni sono state trovate tracce di sacrifici per propiziare il buon successo
dell’opera.
Ci fu continuità nell'adorazione della divinità sotterranea, attraverso le offerte presso i pozzi
sacri. Poco dopo l'erezione del tempio, venne aperto un profondo pozzo rettangolare per le
offerte. L'attività' venne concentrata presso questo invaso, mentre i pozzi più antichi sono
stati collegati a quello nuovo attraverso dei canali, oppure sono caduti in disuso.
Dopo il III secolo a.C. il tempio vive un periodo di declino: sotto l'occupazione romana, parte
dell'edificio del tempio viene abbattuto.
Con l'avvento del Cristianesimo a Naxos, il tempio viene trasformato in chiesa (IN GIALLO
NELLA TAVOLA). In una prima fase l'edificio non subì grandi cambiamenti, mentre più avanti
vive un’importante ricostruzione. Il cortile divenne un nartece laterale; fu aperta un’entrata
sul lato ovest; tre navate furono create nel sekos da un doppio colonnato, e l’edificio fu
esteso sui lati sud ed est. A questa seconda chiesa venne aggiunto, sul lato meridionale, un
piccolo monastero che utilizzava il grande pozzo rettangolare come spazio centrale. Venne
annesso un secondo complesso di spazi per l'ingresso. Alle stanze meridionali fu infatti
aggiunto un cortile circolare e, più a sud, altri in cui sono stati ritrovati resti di utensili per la
produzione della ceramica, del vino e dell’olio. Queste installazioni erano operative dal VI
al’VIII secolo d.C. e la vita di tutto il complesso monacale termina in tale periodo.
L’adorazione, ad ogni modo, continua con la piccola chiesetta di San Giovanni costruita
nell'abside della vecchia chiesa, intorno al suo altare. Nel 1977, con l'inizio degli scavi
archeologici, la chiesa venne trasferita nel posto attuale.
RITROVAMENTI
Non ci sono stati numerosi ritrovamenti per due motivi: 1. l'edificio subì un cambiamento
radicale con la costruzione della basilica; 2. il territorio è stato oggetto di coltivazione fino
agli anni moderni.
-
ascia in ossidiana del periodo 5300-3200 a.C.
parte di un oleificio in marmo protocicladico (non ci sono verifiche a riguardo)
presenza verificata dell'ultima fase del periodo miceneo (1200-1050 a.C.) e del
periodo Geometrico
verificata pratica di adorazione continua ed intensa dal periodo postgeometrico
(730) in poi, con ceramica tipica di Naxos
abbandono del sito nell'VIII secolo d.C. a causa di pirati che hanno portato, nelle
Cicladi, alla diminuzione dei territori sotto il controllo dell'impero bizantino
Hestia e Hermes: spazio chiuso e spazio aperto
Come abbiamo visto, tra il 1100 e il 700 a.C., la vita degli abitanti dell’arcipelago Cicladico era basata
essenzialmente sull’autarchia economica e produttiva. La tecnica di recingere i terreni mediante muri a
secco per un intelligente sfruttamento dei pascoli era ormai assodata da diverse generazioni. Un abitante
dell’isola di Amorgos molto probabilmente si sentiva ereditario di una conoscenza pratica che
accompagnava l’uomo dall’inizio dei tempi.
Era una vita semplice ma faticosa e, come in ogni cultura contadina, il sapere pratico era quotidianamente
messo in gioco nella gestione delle proprie risorse. Le famiglie, organizzate in piccolissime comunità (anche
mono-famigliari), vivevano in un piccoli gruppi di costruzioni cubiche dalla semplicità quasi preistorica:
edifici a pianta quadrata o rettangolare con una porta, realizzati con pietre a secco, con il tetto in pietra o in
legno ricoperto di terra e sassi, senza pavimento. La vita era essenzialmente all’aperto. Intorno alle
costruzioni, piccoli recinti delimitavano gli spazi delle attività stanziali, che necessitavano di essere nei
pressi del costruito: la tosatura delle pecore, la mungitura delle capre,la filatura delle vesti, la macinatura
del raccolto. La lana veniva raccolta in vasche di pietra rettangolari, così come il mosto, mentre i semi
dell’orzo e del grano venivano disposti sul pavimento di pietra di un’aia circolare delimitata da piatte pietre
verticali. Al suo interno, veniva fatto camminare in cerchio un bue i cui zoccoli macinavano i grani. Nei
pressi della casa venivano anche piantati fichi e melograni.
Questo spazio raccolto, in cui le distanze erano minimizzate il più possibile per risparmiare fatica, era il
luogo di vita e di lavoro della donna. Relazionata, come spesso accadeva, nell’ambito della casa e dei lavori
domestici, la donna si occupava di tutti i lavori manuali che non richiedevano grandi spostamenti, ma che
venivano spesso praticati sull’uscio di casa o a presso il focolare.
Intorno a questo piccolo addensamento di spazi, si apriva in tutte le direzioni un paesaggio più ampio. Delle
lunghe vie dipartivano dall’insediamento, delimitate sui due fianchi da muretti a secco. Lungo questi
percorsi, grandi recinzioni – sempre in muratura a secco – delimitavano aree di terreno più vaste, collegate
da strette aperture. In alcuni di questi recinti pascolavano le pecore o le capre, mentre altri venivano
lasciati senza animali per la ricrescita dell’erba e degli arbusti. Altri recinti, più contenuti, ospitavano
piantagioni di ulivi e di viti o campi di orzo, ed erano spesso terrazzati a causa della costante montuosità dei
terreni.
Lungo questi sinuosi tracciati si spostavano gli uomini, dediti alla gestione e alla conduzione degli animali.
Rocce, recinti, prati, terreni incolti, aree boschive, uliveti: gli uomini spaziavano senza limite al di là
dell’orizzonte delle case, in compagnia degli animali e dei venti estivi. Diversissimi erano i suoi compiti, e il
continuo spostamento lungo le vie o da un recinto all’altro era quotidiano.
Due diversi tipi di vita per due diverse scale di spazio. Uno: chiuso e confinato attorno al focolare
domestico, saldo, sempre presente, base sicura in cui conservare gli approvvigionamenti. L’altro: disperso,
sconfinato, variabile, sempre dinamico, fatto di aperture e di chiusure, di passaggi stretti e di dilatazioni
spaziali. È un forte dualismo quello che caratterizza l’esperienza della spazialità nell’Egeo di 3000 anni fa.
Gli abitanti del 1000 a.C., che abbiamo prima immaginato spartirsi i lavori tra uomo e donna, insegneranno
le rispettive tecniche ai loro figli. Così era successo prima di loro e così succederà in seguito, per generazioni
e generazioni. L’esperienza che questi vivono, in un dualismo di cortili raccolti e direttrici sconfinate, è per
loro una chiave di lettura che definisce ontologicamente lo spazio intorno a loro. Per essi, infatti, ciò che
costituisce l’ordine del loro mondo diviene una legge integrante dell’universo cognitivo con cui
interpretano il cosmo tutto. Nella concezione degli antichi greci, lo spazio chiuso dei lavori domestici e lo
spazio aperto delle greggi sono spazi reali, ordinati, sono forme fondanti.
----------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------Sul piedistallo della grande statua di Zeus ad Olimpia, Fidia aveva rappresentato i dodici dei. Tra il Sole e la
Luna, le dodici divinità, raggruppate a due a due, si ordinano in sei coppie: un dio - una dea. In questa serie
di otto coppie divine, ce n’è una che costituisce un problema: Hermes - Hestia. Perché appaiarli? Non c’è
niente nella loro genealogia, né nella loro leggenda, che possa giustificare questa associazione.
L’Associazione Hermes - Hestia, regolare nell’arte plastica, ha in realtà un significato propriamente
religioso, ed esprime una struttura ben determinata del pantheon greco. Nell’Inno omerico a Hestia la dea
viene invocata assieme ad Hermes, e i due esprimono sentimenti di affinità: “Entrambi abitate nelle belle
dimore degli uomini che vivono sulla superficie della terra, con sentimenti di mutua amicizia”. Tale
associazione risponde ad una affinità di funzione: le due potenze divine, presenti negli stessi luoghi,
svolgono, l’una accanto all’altra, attività complementari. Essi sono entrambi in relazione con lo spazio
terrestre, con l’abitato di un’umanità sedentaria. Vediamo in primo luogo il significato che gli antichi greci
davano a queste due figure.
Che Hestia – nome proprio della dea, ma anche nome comune designante il focolare - risieda nella casa, è
cosa naturale: in mezzo al mégaron quadrangolare, il focolare miceneo, di forma rotonda, segna il centro
dell’abitato umano. Il focolare circolare, fissato nel suolo, è come l’ombelico che permette alla casa di
radicarsi nella terra. E’ simbolo e pegno di fissità, di immutabilità, di permanenza. In quanto punto fisso,
centro a partire dal quale lo spazio umano si orienta e si organizza, Hestia, per i poeti e i filosofi, potrà
identificarsi con la terra, immobile al centro del cosmo.
Hermes è legato anche lui ma in modo diverso all’abitato degli uomini e più generalmente alla distesa
terrestre. Contrariamente agli dei lontani che risiedono in un aldilà, Hermes è un dio vicino che frequenta
questo mondo. Egli rappresenta, nello spazio e nel mondo umano, il movimento, il passaggio, il mutamenti
di stato, le transizioni, i contatti tra elementi estranei. Colui per il quale non esistono né chiusura, né
recinto, né confine: “Scivola obliquamente attraverso la serratura, simile alla brezza autunnale, come la
nebbia”.
Egli è presente anche presso l’entrata delle città, sul confine degli stati, agli incroci delle vie (Hermes
Trikephalos, Tetrakephalos), lungo le piste, per segnare la strada (Hermes Hodios), sulle tombe, le porte che
aprono l’accesso al mondo infernale. Dio errante, padrone delle strade, sulla terra e verso la terra: egli
guida, in questa vita, i viaggiatori. Guida il coro delle Charites, introduce una dopo l’altra le stagioni, fa
passare dalla veglia al sonno, dal sonno alla veglia, dalla vita alla morte, da un mondo all’altro. Presente in
mezzo agli uomini, Hermes è allo stesso tempo inafferrabile, ubiquitario, non è mai là dov’è, appare
improvvisamente per scomparire.
I diversi tratti che compongono la fisionomia del dio sembrano ordinarsi meglio quando lo si considera nei
suoi rapporti con Hestia. Se per la coscienza religiosa dei greci le due divinità costituiscono una coppia è che
esse sono situate sullo stesso piano, che la loro azione si applica allo stesso campo del reale, che esse
assumono delle funzioni connesse.
Il ruolo di Hestia consiste nel troneggiare, perennemente immobile, al centro dello spazio domestico. Ciò
implica, come elemento solidale ed opposto, Hermes, il dio veloce che regna sullo spazio del viaggiatore. A
Hestia l’interno, il chiuso, il fisso, il ripiegarsi del gruppo umano su se stesso; a Hermes l’esterno, l’apertura,
la mobilità, il contatto con l’altro da sé. Si può dire che la coppia Hermes-Hestia esprima, nella sua polarità,
la tensione esistente all’interno della rappresentazione arcaica dello spazio: lo spazio esige un centro, un
punto fisso, dotato di valore privilegiato: è la casa rurale, dove vive e presiede la donna e dove si
conservano i prodotti; a partire da esso si possono orientare e determinare delle direzioni, tutte diverse
qualitativamente; ma lo spazio si presenta contemporaneamente come luogo del movimento, il che implica
una possibilità di transizione e di passaggio da qualsiasi punto a qualsiasi altro: è l’ambito dell’uomo
pastore e agricoltore, conduttore delle greggi, in contatto con l’esterno.
Il pensiero religioso dei greci taglia e ordina i fenomeni distinguendo diversi tipi di agenti, confrontando e
contrapponendo forme di attività. In questo sistema, lo spazio e il movimento non sono ancora individuati
come concetti astratti. Rimangono impliciti, perché fanno corpo con altri aspetti del reale più concreti e
dinamici. Se Hestia appare capace di “centrare” lo spazio, se Hermes può “mobilizzarlo”, è perché essi
presiedono, come potenze divine, a un complesso di attività che concernono, certo, la sistemazione del
suolo e l’organizzazione dello spazio, ma che, in quanto praxis, hanno costituito la cornice entro la quale si
è elaborata, nella Grecia arcaica, l’esperienza della spazialità.
Possiamo riconoscere tra il fisso e il mobile, il chiuso e l’aperto, il dentro e il fuori, una polarità che non
soltanto si attesta nel sistema delle istituzioni domestiche, ma si scrive addirittura nella natura dell’uomo e
in quella della donna. Questa stessa polarità la ritroviamo a livello delle potenze divine, in una struttura del
pantheon. Nè Hermes, nè Hestia, possono essere posti isolatamente. Essi assumono le loro funzioni sotto
forma di una coppia: l’esistenza dell’uno implica l’esistenza dell’altro, sono opposti e complementari, in
tensione tra loro.
Rigonfiamento del suolo o pietra ovoidale, l’omphalos, in raporto con la terra, rappresenta allo stesso
tempo un punto centrale, una tomba, un serbatoio di anime e di vita. La parola omphalos designa, a parte
l’ombelico, il cordone ombelicale che lega il bambino alla madre. Occorre notare il significato religioso di
certe forme geometriche. Come l’omphalos - e contrariamente allo “Hermes quadrangolare”- il focolare di
Hestia è rotondo. Si può ritenere che il cerchio caratterizzi in Grecia le potenze ctonie ed insieme femminili,
legate all’immagine della Terra-Madre che racchiude nel suo seno i morti, le generazioni umane e le
crescite vegetali. Hestia rimane associata a un tipo di costruzione a forma di rotonda.
In contrasto con l’aria aperta dell’esterno - splendente di sole e di luce durante il giorno, oscurata da una
paurosa opacità durante la notte - , lo spazio del focolare, femminile e ombroso, implica, nel chiaroscuro dei
carboni accesi, sicurezza, tranquillità e perfino una mollezza indegna dello stato virile. Nelle pitture vascolari,
la regola vuole che i personaggi femminili si oppongano a quelli maschili come pelle bianca a pelle bruna.
La casa, come la terra e come la donna, riceve e fissa nel suo seno le ricchezze che l’uomo vi porta. Nel
recinto della dimora albergano anche i beni domestici che possono esservi concentrati, immagazzinati,
conservati. L’oikos ha una tendenza alla tesaurizzazione: questa tendenza si manifesta, già nell’età micenea,
attraverso la costituzione di riserve alimentari immagazzinate nelle giare del celliere e l’accumulazione di beni
preziosi, chiusi nei forzieri dei thalamos. Nell’ambito di una economia distributiva, ogni casa appare legata ad
un lotto di terra, separato e differenziato, ogni focolare familiare vuole poter disporre pienamente del suo
spazio patrimoniale, da cui trae il suo sostentamento e che lo distingue dagli altri gruppi domestici.
Tesoro e greggi si oppongono tra di loro, sul piano dei valori economici, così come l’interno e l’esterno, il
fisso e il mobile, il recinto domestico e lo spazio aperto dell’agròs. Ciò che i Greci chiamano agròs, è per
opposizione al mondo della città, alla casa e perfino ai campi coltivati, l’ambito pastorale, i terreni destinati
al percorso, lo spazio libero dove si conducono le bestie e dove si cacciano gli animali selvatici, la campagna
lontana e selvaggia, animata dalle greggi. Del resto, la parola che designa il bestiame, pròbaton, significa,
propriamente, ciò che cammina, si sposta. La formula keimèlia te kaì pròbasis (che esprime, attraverso
l’antinomia di keìmai, “giacere”, e di probainò, “avanzare”, il duplice aspetto della fortuna considerata nel
suo insieme) sottolinea chiaramente il contrasto tra la ricchezza che “giace” nella casa e quella che
“cammina” nella campagna.
Seguendo la strada già percorsa da Detienne e Vernant, abbiamo lasciato il campo delle pure
rappresentazioni religiose e abbiamo orientato la nostra indagine verso le pratiche sociali a cui gli dei
appaiono legati da rapporti di interdipendenza. Si può dire che questo insieme di pratiche istituzionali, che
gravitano attorno al focolare posto come centro fisso, traducono un aspetto dell’esperienza arcaica dello
spazio presso i Greci. In quanto costituiscono un sistema di condotte, regolato e ordinato, esse implicano
un’organizzazione mentale dello spazio.
Nella visione degli abitanti delle isole dell’Egeo, ai valori spaziali legati a un centro, immobile e chiuso su sé
stesso, corrispondevano regolarmente i valori opposti di una distesa aperta, mobile, tutta percorsi, contatti
e transizioni. Spazio chiuso e spazio aperto diverranno, da pure esperienze pratiche, delle categorie
valorizzate, sacralizzate e, infine, concettualizzate.
Acropoli “dei coltelli”
Introduzione al capitolo 4
All’inizio del VI secolo a.C., in Grecia, il pensiero astronomico non poggia ancora su un lungo seguito di
osservazioni ed esperienze; non si appoggia ad una radicata tradizione scientifica. Le poche conoscenze
astronomiche non le hanno elaborate loro, ma le hanno prese dai paesi vicini del Vicino Oriente, in
particolare dai Babilonesi. Dunque ci troviamo davanti al paradosso seguente: i Greci fonderanno la
cosmologia e l’astrologia; daranno loro un orientamento che deciderà la sorte di queste discipline per tutta
la storia dell’Occidente. Eppure non erano stati loro a dedicarsi, da secoli, ad un lavoro minuzioso
d’osservazione degli astri, a scrivere su tavolette, come hanno fatto i Babilonesi, effemeridi segnalanti le
fasi della luna, il sorgere ed il tramonto delle stelle. Perché i Greci hanno situato i saperi presi da altri popoli
in una intelaiatura nuova ed originale?
L’astronomia babilonese, molto sviluppata, possiede tre caratteri fondamentali:
1) Resta integrata ad una religione astrale. Per esempio essi sono convinti che a seconda della
posizione di Venere, per loro la dea Ishtar, il destino degli uomini si svolgerà in un senso o
nello’altro. Osservando il cielo, essi possono penetrare le intenzioni degli dèi.
2) Coloro che hanno il compito di osservare gli astri appartengono alla categoria degli scribi. Questi
lavorano al servizio del re per elaborare un calendario religioso che detterà i momenti in cui il re
dovrà compiere i suoi riti.
3) Quest’astronomia ha un carattere essenzialmente aritmetico. I Babilonesi possono prevedere
empiricamente un’eclissi, ma non si rappresentano i movimenti degli astri nel cielo secondo un
modello geometrico. L’astronomia, presso di loro, non è proiettata in uno schema spaziale.
Su questi tre punti, l’astronomia greca segna, fin dall’origine, una frattura radicale. C’è, in Talete,
Anassimandro, Anassimene, uno sforzo di spiegare l’ordine dell’universo in modo positivo e razionale,
senza il minimo riferimento a divinità o a pratiche rituali.
Anassimandro scrive: “ed è lecito pensare che quello che a noi appare come l’alto costituisca, per gli
abitanti degli antipodi, il basso, e quel che forma la nostra destra per loro si trovi a sinistra”. In altre parole,
le direzioni dello spazio non hanno più un valore assoluto. La struttura dello spazio, al centro della quale
risiede la terra, è di tipo veramente matematico.
Alla luce di queste considerazioni, viene spontaneo domandarsi il motivo per cui in un periodo di tempo
relativamente breve – meno di cent’anni – diversi sapienti greci abbiano saputo trarre così avanzate ed
interessanti conclusioni di tipo matematico e geometrico, quali quelle di Pitagora ed Euclide. Inoltre, come
abbiamo visto, il contesto in cui viveva la popolazione greca all’alba del VII secolo a.C. presentava da un lato
la formazione della struttura della polis, con le sue assemblee, i suoi mercati e le sue colonie; dall’altro però
era ereditaria di una cultura millenaria di pesca, agricoltura e pastorizia. Anzi, quest’ultima era la pratica
predominante all’interno di un’economia di autosufficienza durante i lunghi e travagliati secoli dei periodi
Geometrico ed Arcaico, quando cioè si adagiarono lentamente sulle sponde dell’Egeo le diverse
stratificazioni culturali delle popolazioni e delle civilizzazioni qui giunte. Durante questi anni di
sedimentazione, gli abitanti dell’Ellade si trovarono tagliati fuori dal mondo del Medio Oriente. Sono anni di
chiusura, di interruzione dei lontani traffici, e , soprattutto, anni in cui queste tribù di pastori trovarono
dentro la loro attività e la loro stessa vita quotidiana gli elementi strutturali di un nuovo pensiero
panellenico. Questa lacerazione conteneva in potenza la grande scissione culturale del futuro, quella tra
Oriente e Occidente.
+ scuola francese
+ carmelo ottaviano
5. Metis, intelligenza intuitiva, prima del logos filosofico.
La percezione e l’assunzione del paesaggio, “l’altro da sé”, nel proprio pensiero e nella propria
interpretazione del reale, si sosteneva al primo punto, può essere costitutivo della persona e del pensiero.
Ora si analizzerà se può divenire parte integrante di una civiltà e di una filosofia.
Sono debitore agli studi di Marcel Detienne e Jean-Pierre Vernant (8) della comprensione di una Grecia che
attraverso le fasi preliminari dell’intelligenza intuitiva, della prassi, dei mestieri, della pesca, dell’artigianato,
costruirà il pensiero, i miti, la logica della filosofia.
Per l’avanzamento degli studi sulle realtà concrete, sono fondamentali le analisi condotte dai due studiosi
francesi, non sulle formulazioni circa il logos, non sulle razionali definizioni della filosofia (anche se
ampiamente citate per approfondire l’origine dei termini) ma sulle connessioni tra mito, mestieri,
osservazione della natura, per recuperare come e dove siano state coniate, dall’osservazione, le parole ed
abbiano avuto origine le formulazioni ed il sistema del pensiero.
Per fare qualche esempio di questo metodo, riprendo da “Le astuzie dell’intelligenza nell’Antica Grecia ”,
capitolo IV.9, dove si spiega perché Efésto abbia i piedi storti e sia zoppo. La potenza di Efèsto viene
sottolineata dal privilegio di una direzione doppia e divergente: per dominare le potenze mutevoli e fluide
come il fuoco, i venti, il minerale, con i quali il fabbro deve misurarsi, l’intelligenza e la Métis di Efésto
devono essere più mobili e polimorfe e racchiudere in sé le virtù dell’obliquo e del curvo: virtù possedute in
sommo grado dal granchio (che cammina storto e la cui forma é quella della tenaglia, strumento principe
del fabbro) e dalla foca, quei mostri per metà immersi nell’elemento marino, con il quale la metallurgia dei
Greci sembra aver stretto anticamente rapporti profondi.
Riprendiamo un altro esempio, particolarmente efficace, nel cap. IV.8 del testo citato: “Tra le espressioni
che la lingua greca utilizza per rendere la nozione di tramare, progettare meditare, ce ne sono alcune che
fanno appello a immagini di caccia e di pesca: s’intreccia un’astuzia (métin plékein) come si fabbrica,
intrecciando, una nassa o una trappola da caccia; si ordisce un piano (metin uphainein) come si tesse una
rete da pesca o da caccia. Ma c’è una terza espressione che fa concorrenza alle prime due: costruire
un’astuzia, tektainésthai métin. Tektainésthai è un verbo che designa la lavorazione del legno e l’attività del
carpentiere. Si medita e si costruisce un’astuzia come si dispongono i differenti pezzi di legno che
costruiscono la trappola o lo strumento dell’inganno. Tale è precisamente il famoso cavallo di Troia:
contemporaneamente astuzia di guerra, ispirata a Ulisse da Atena, e strumento di legno, fabbricato da Epeo
con l’aiuto della stessa divinità. Nella nave come nel carro, prodotti e strumenti dell’intelligenza di Atena,
una sola è la métis all’opera, che concepisce e fabbrica essa stessa gli arnesi che realizzano i suoi progetti ”
(9).
Non mi risulta che Detienne e Vernant si siano occupati delle attività dei contadini, ai tracciati dei muri a
secco sul terreno, ai disegni geometrici che questi infiniti muri hanno impresso ai luoghi per dividere,
ripartire ordinatamente, rendere utile la parzializzazione di un tutto precedentemente uniforme ..... Eppure
anche da questa realtà concreta ha origine un pensiero geometrico, una applicazione circa l’unità e la parte,
una serie di considerazioni per cui possiamo ritenere che quel primo disegno impresso alle superfici del
mondo fisico che quotidianamente si vive, definisca luoghi di applicazione di pensiero, speculazione,
filosofia.
6. Intuizioni e prassi mentali dall’antico paesaggio agro-pastorale greco.
Il paesaggio della pastorizia si forma per assolvere a necessità funzionali. Le pietre vengono rimosse e
accatastate per dar spazio all’erba; ma le pietre sono la struttura, le ossa della terra: il primo criterio
imposto ai luoghi è di riordino, gli elementi analoghi vengono messi insieme. La civiltà cretese-micenea
viene a noi con le pietre costruite, sovrapposte e combacianti, del sepolcro di Micene, ma queste forme
vengono centinaia d’anni più tardi rispetto al raccogliere i sassi e metterli su uno stesso mucchio. Sono
operazioni da tempi lunghi, lenti, disposizioni che valgono per secoli e per millenni. E’ lecito trasferire
questo gesto del mettere insieme le pietre all’intuizione che analogamente si mettono insieme i pensieri di
uno stesso genere ? Cioè si inizia a catalogare ?
Vengono formati recinti per racchiudere i gruppi di animali; da un recinto si forma il passaggio ad un altro
recinto per la conta delle bestie e per l’opportunità dei tempi di sfruttamento delle singole porzioni di
terreno; la successione degli spazi recintati viene a formare il bordo di un percorso. Il percorso, definito da
due muri paralleli, organizza gli spazi a scala più ampia; i percorsi s’incrociano formando angoli retti oppure
impreviste, diverse, angolazioni. L’estensione dei campi recintati sembra occupare tutto il pendio a vista
d’occhio, ma c’è sempre un oltre, che è discontinuo rispetto alla realtà definita dalle suddivisioni. Questi ed
altri infiniti pensieri hanno origine nell’osservare le superfici su cui è stata estesa la prima, elementare,
colonizzazione umana.
Vengono costruiti terrazzamenti dove le esigenze per seminativi e alberi richiedono un pendio meno
scosceso: anche questo è lavoro di muri in pietra a secco con cui si formano dislivelli, si suddividono altezze,
di realizzano collegamenti verticali, sperimentando l’intervento in uno spazio a tre dimensioni.
Di questo mondo, solo accennato, restano, nelle terre d’impronta greca, i segni primordiali tracciati per
imprimere una logica di lavoro di pastorizia, tra nomadismo pre-neolitico e pastorizia sedentaria, ancor
prima delle colture. Poi si viene meglio stabilizzando l’agricoltura, definendo un tempo che ha le cadenze
lente dell’anno.
A questi accenni di proiezioni storiche si unisce l’esperienza diretta, attuale, di questi spazi: capre o pecore
addossate contro un muro in un angolo d’ombra, silenziose ti guardano con occhi attoniti, comunicandoti,
per immedesimazione, un attonito spavento. Le capre rimuovono le pietre e fanno brecce nei muri. I muri
aperti rimangono così per anni e il varco viene occluso con rovi secchi e legni: è il tempo per riflettere su
una realtà che sembra definitiva ma non lo è. Parallela alla definizione geometrica degli spazi ed alla
ripartizione razionale delle superfici, nell’osservazione di queste definizioni sempre inadeguate, fa breccia
la percezione della discontinuità del tempo e dello spazio. Questo tema della discontinuità, antitesi
inquietante ad ogni definizione apollinea nella cultura greca, è tema caro ad Ottaviano, un fronte fecondo
del suo pensiero (10). E’ significatvo che il capitolo Nono de “La Tragicità del reale”, capitolo sul quale
nell’introduzione Ottaviano invita il lettore a soffermarsi con attenzione, sia stato intitolato “Spazio e
tempo come lo “sboconcellamento” dell’individuo”. Allora possiamo supporre che la “malinconia” giunge a
filo diretto dal paesaggio, dalla inadeguatezza di quell’impronta umana sul mondo, fissata, ma mai
completa, in quel disegno organizzatore delle terre.
Nella esperienza diretta dei paesaggi dell’antica Grecia, ove il silenzio o solamente il vento accompagna lo
sguardo che perlustra linee infinite di muri e pietre, mulattiere di sassi tra pareti di sassi, a chi compare in
questi silenzi si è portati a chiedere, come in un testo dei tragici greci “O voi che incedete, ditemi, siete
uomini o dei?” Ma è solo l’intensità assorta di quel paesaggio di proiettate geometrie che trasforma il
nostro sentimento rispetto ad altri viventi.
Quanto il pensiero greco sia formato da quei paesaggi si è solo provato ad accennare e supporre; è un
settore aperto ad indagini simili a quelle condotte su altri aspetti da Detienne e Vernant. La nascita della
geometria come speculazione del pensiero, nelle terre greche di Sicilia, non può essere estranea alla
costante presenza di un paesaggio tutto tracciati e suddivisioni, grande foglio aperto per quei disegni che
noi pensiamo si traccino solo sulla carta. Pitagora e la sua scuola sono da pensare all’interno di un
quotidiano universo cognitivo composto da forme geometriche impresse ai terreni lavorati. Ma da questa
geometria nasce un’attitudine razionale e logica, pianificatoria e programmatoria della realtà
pensata. Nello stesso tempo, assieme agli aspetti logici vi sono quelli di impressioni emotive che da questi
paesaggi scaturiscono, essi pure fondamenti di filosofia.
PAGINA 7 VEDI
2500 2400
1800
1570
Civiltà Micenea
ETA’ DEL RAME
Civiltà Proto Elladica
2100 2000
1450
1200
1000
go
ra
an
dr
o
146
39
0
ETA’ DEL BRONZO
Dori, Ioni, Etoli, Beoti, Tessali, Magnesi
Civiltà Greca
Età del Ferro
P. Geometrico
lingua: ?
provenienza: Anatolia
scrittura: nessuna
323
lingua: proto- ellenica
provenienza: nord dei Balcani e Asia
scrittura: (geroglifica) Lineare B, appresa dai cretesi
lingua: dialetti pre-ellenici
provenienza: nord dei Balcani e Asia?
scrittura: nessuna
Civiltà Cicladica
Al
es
s
600
+
760
Pi
ta
850
+
on
e
do
io
So
l
2800
3000
Es
er
o
1000
Om
a
1100
Gu
er
ra
di
Tr
oi
3000
Romani
lingua: ellenica
provenienza: nord della Grecia
scrittura: (alfabetica) greca, mutuata dai fenici
Arcaico
Classico
Ellenistico
ETA’ DEL RAME
Dori, Ioni, Etoli, Beoti, Tessali, Magnesi
Civiltà Greca
Età del Ferro
Popoli ellenici
Civilità Micenea
Età del Bronzo
lingua: proto-ellenica
provenienza: nord dei Balcani e Asia
scrittura: Lineare B, appresa dai cretesi
Civilità Minoica
Età del Rame
Età del Bronzo
lingua: cretese
provenienza: ?
scrittura: (geroglifica) Lineare A e lineare B
Antico Minoico
Popoli ellenici
Civilità Micenea
Medio M. Nuovo M. vedi sopra
Età del Bronzo
P. Geometrico
Romani
lingua: ellenica
provenienza: nord della Grecia
scrittura: (alfabetica) greca, mutuata dai fenici
Arcaico
Classico
Ellenistico