2. Il paesaggio delle Cicladi, millenni di muri in pietra I paesaggi delle isole Cicladi sono una ricchissima testimonianza di come è stata la vita dei popoli dell’Egeo per migliaia di anni. Per capire la peculiarità delle isole bisogna comprendere anzitutto il loro paesaggio naturale. Le isole sono picchi di un terreno montuoso sommerso, con l’eccezione di due isole vulcaniche, Milos e Thera (Santorini). Il clima è generalmente secco e mite, ma, con l’eccezione di Naxos, il suolo non è molto fertile: viti, frumento e ulivi sono tra le poche essenze benefiche che il terreno può nutrire. Temperature più fresche si trovano alle altitudini più elevate, e tendenzialmente queste isole non ricevono un clima invernale. Durante tutta la stagione estiva non cade una goccia di pioggia, il terreno è quasi completamente secco, l’erba è gialla e sembra paglia e il caldo è intenso. Bassi arbusti, cardi e cespugli spinosi sono gli elementi di una vegetazione legnosa e spezzata. Solo lungo gli incavi delle valli, gli oleandri e qualche eucalipto forestiero sfruttano un distillato di umidità, mentre le poche ombre nette sul suolo invitano animali e uomini all’attesa. Durante i mesi invernali il sole più basso e le piogge nell’entroterra rinfrescano e rinvigoriscono le piante, i prati tornano momentaneamente verdi e i bassi globi spinosi si riempiono di boccioli pronti alla fioritura primaverile. E sassi, sassi ovunque. Sono loro i veri protagonisti di queste terre montuose dalla natura di pietraie. Qualsiasi attività si sia voluta praticare sulle coste, sulle colline e sugli altipiani ha dovuto affrontare il problema delle pietre, poiché queste tappezzano la terra. Ora, il punto di partenza è il seguente: i popoli nomadi delle steppe continentali si spostano sempre con il loro bestiame, che mangia ciò che trova nel suo eterno migrare. Ma quando c’è insediamento, c’è agricoltura stabile e pascolo stabile. Come vivere, come coltivare e come far pascolare il gregge su questi ossuti pendii dove ogni passo è un ostacolo? Ecco vediamo gli antichi abitanti che si piegano e spostano a mano le pietre per liberare il terreno. Inconsapevoli, compiono quell’antichissimo gesto che per generazioni e generazioni costituirà l’unica via per sopravvivere su queste terre. Da secoli, questi arcaici abitanti conoscono per tradizione la tecnica di coltivare le piante commestibili, addomesticate nella notte dei tempi, e questo antico sapere di certo non è stato abbandonato nelle loro terre d’origine, di là del mare. Viene spontaneo per loro sfruttare le occasioni che la terra offre, perché pochi sono i regali e perenne la fame. Le pietre raccolte servono per sostenere i terrazzamenti, così da avere piatte fasce di terra, su cui l’acqua non scorre via come sui pendii. E, soprattutto, le pietre, impilate in muri, bloccano la via agli animali. È infatti necessario che le capre e le pecore e gli asini consumino con logica l’erba disponibile, mangiandola quando è alta e lasciandola crescere quando è bassa. Con le pietre, infatti, si possono creare dei confini: le terre di riferimento di una famiglia o di un genos vengono recintate, separate e a loro volta ripartite. È necessario anche che gli animali non invadano i terreni coltivati, e ovviamente che non scappino. Così fecero le prime tribù meglio organizzate, mentre altre copiavano la tecnica o scomparivano senza risorse. E così faranno per centinaia di anni, perpetuando questo faticoso artificio di padre in figlio. Dobbiamo immaginare, infatti, che queste dinamiche sono durate secoli, che niente è avvenuto all’improvviso e che ciò che per noi può sembrare ovvio, è frutto in realtà di una lunghissima fase di tentativi e miglioramenti. Le isole Cicladi ancora oggi raccontano questa storia, poiché la vita delle loro genti si è protratta nei secoli con una organizzazione affine, e con pochi cambiamenti fino agli inizi del XX secolo. Oggi questa autarchia millenaria è scomparsa, lasciando in eredità millenni di muri in pietra, infiniti monumenti litici all’ingegnosità del pensiero umano. Pensiero che fa della tecnica una prassi … e forse qualcosa di più. QUADRO STORICO CRONOLOGICO IL MARE EGEO DAL NEOLITICO ALLA FINE DEL PERIODO CLASSICO Già dal periodo preistorico il Mediterraneo Orientale è stato teatro di popolazioni che da una vita nomade primordiale hanno dato luogo ad insediamenti particolarmente avanzati. La cosiddetta Mezzaluna Fertile tocca giustappunto le sponde più orientali del suo bacino, e tutte le innovazioni che hanno avuto luogo nel Vicino Oriente -come l’agricoltura e la scrittura- si sono diffuse con continuità verso occidente, prima risalendo la valle del Nilo e poi toccando ad una ad una le numerosissime isole del mare Egeo. Le diverse sponde di questo mare erano in comunicazione tra loro già dal 9000 a.C. I MARI DI LEVANTE 4000 ANNI FA L’età del Bronzo si diffonde nel Vicino Oriente a partire dalla metà del III millennio a.C. e si conclude con la bufera dei “popoli del mare”, nel XII secolo. La sua storia si può certamente scrivere in tono drammatico: invasioni, guerre, saccheggi, disastri politici, stagnazioni economiche di lunga durata, prime mescolanze di popoli. Malgrado ciò, imperi, città, nomadi, barbari delle montagne, tutti sono coinvolti in un movimento d’insieme la cui forza creatrice diffonde un notevole grado di civiltà nonostante tutte le frontiere. In tal modo si crea una sorta di unità fra le terre e i mari del Mediterraneo Orientale. La storia dell’età del Bronzo può essere scritta, oltre che sotto il drammatico segno della violenza, anche sotto quello benefico delle relazioni – relazioni commerciali, diplomatiche e soprattutto culturali. Il Mediterraneo sembrava impegnato nell’impresa di espandere questo universo culturale in tutto il suo bacino, quando verso la fine del secondo millennio prima della nostra era delle invasioni dall’enorme portata tagliarono in due lo scenario: la Grecia e il mar Egeo si trovarono tagliati dal mondo del Medio Oriente. Questa lacerazione conteneva in potenza la grande scissione culturale del futuro, quella tra Oriente e Occidente. Nel mondo del Levante del 2000 a.C. gli scambi commerciali erano alla base dell’economia di tutte le popolazioni, più di quanto potesse esserlo mille anni dopo. Ogni popolazione affacciata sul bacino orientale del Mediterraneo aveva istituito rapporti di scambio commerciale con le altre. Sicuramente, le città e i villaggi avevano per necessità un loro ambito produttivo agro-pastorale; questo, però, non era l’unica loro fonte di sostentamento, né tantomeno l’unico mezzo di produzione degli utensili. La metallurgia del bronzo ha avuto un ruolo importante, soprattutto dopo il suo incontro con le dense società della Mesopotamia e dell’Egitto. Esattamente come agli esordi dell’agricoltura, l’innovazione della metallurgia (e anche più tardi, con il ferro) non nasce all’interno dei paesi più privilegiati. La fusione del rame e le sue leghe si è sviluppata nella parte settentrionale della Mezzaluna fertile: Iran occidentale, Caucaso, Armenia, Asia Minore, a partire dal IV millennio. Armi e oggetti vari erano in origine in pietra e legno, materiali facilmente reperibili. L’utilizzo del metallo, però, costituiva un notevole vantaggio, e per questo veniva barattato, in stato grezzo o lavorato. Naviganti, mercanti, empori, carovane, rotte marine: il mondo era attraversato da spedizioni commerciali volte alla ricerca di un benessere dato dallo scambio di tutti i prodotti necessari, a seconda delle disponibilità e delle risorse. L’Egitto comprava oro dalla Nubia, lo vendeva ai Cretesi, che lo rivendevano in Siria. Acquistava lapislazzuli dalle foci del golfo persico, la cui popolazione lo aveva acquistato dalla valle dell’Indo via mare, lungo le sponde dell’Oceano Indiano. Marinai del mare del Nord scendevano lungo la via dell’ambra e si arruolavano presso le imbarcazioni di Biblo o di Ugarit. Nei palazzi di Cnosso si tenevano gigantesche anfore (ritrovate) con scorte per 70.000 litri d’olio. Una principessa minioca è stata trovata nella sua tomba abbellita di gioielli contenenti oro dalla Nubia, pietre preziose dallo Yorkshire e rubini dall’India. Questa rete si estende da Malta all’Iran, al Turkestan, all’Indo, dai paesi nordici produttori di rame, stagno e ambra, fino alle profondità nere dei boscimani. L’arte è qui il grande testimone di un cosmopolitismo che viene fatto iniziare nel 2000 avanti Cristo. Questa civiltà unitaria coinvolge metà del Mediterraneo, ma il Vicino Oriente è già stato superato. Tale superamento vede come protagonista l’isola di Creta, che entra nel gioco soltanto per pochi secoli, ma vi interpreta un ruolo smagliante. LE TRE CIVILTA’ DELL’EGEO LA CIVILTÁ CICLADICA Una interessante cultura Neolitica sorse sulle isole dell’Egeo occidentale intorno al 3500 a.C., con elementi comuni all’Anatolia e alla Grecia continentale. Un’accurata archeologia ha rilevato che le linee generali di una popolazione di contadini e pescatori giunse qui dall’Asia Minore già dal 5000 a.C.. Queste popolazioni basavano il loro sostentamento sulla coltivazione di farro, grano, fagioli, sull’allevamento di pecore, capre e maiali, e sulla pesca del tonno praticata su piccole imbarcazioni. Il ritrovamento di prodotti artigianali cicladici (soprattutto rappresentazioni di navi sulla ceramica e piccole barche di pietra) nell'Attica, nel Peloponneso e in molte altre zone della Grecia testimonia in proposito una notevole abilità nella costruzione delle imbarcazioni e una predisposizione della popolazione per i commerci marittimi. La vita nelle Cicladi, in base ad una ricostruzione storica, doveva essere semplice e sobria rispetto alla vita cretese, come vedremo in seguito. La maggiore originalità artistica è stata attribuita al periodo antico, che va dal 2600 a.C. al 2000 a.C., mentre nelle fasi successive l'arte entrò nell'influenza minoico-micenea. Per quanto riguarda la produzione artistica cicladica, i prodotti più pregiati sono stati realizzati in marmo. Si tratta principalmente di statuette di diversa forma e dimensione che hanno come soggetti donne nude con le mani sul ventre, musicisti, cacciatori e guerrieri. Le raffigurazioni femminili hanno evidenziato l'insistenza nella raffigurazione di una dea madre, simboleggiante la fertilità e la fecondità, che venne sempre descritta nella posizione eretta in atteggiamento ieratico. Generalmente, dai bassorilievi al tuttotondo, i Cicladici dimostrarono una notevole sensibilità per la forma e per la trasposizione dal reale all'immaginario. I celebri idoli cicladici, seppur affini agli uscebti dell'antico Egitto, sono di derivazione maggiormente mesopotamica e venivano utilizzati per lo più ad usi funerari. Le ceramiche più diffuse sono state le brocche e i pissidi aventi decorazioni geometriche, i kernos in steatite ed i recipienti in pietra levigata. Purtroppo, la maggior parte dei reperti archeologici si trova nelle collezioni private, a causa degli scavi clandestini. Fortunatamente sono state ritrovate alcune statuette nelle necropoli, mentre altre, di maggiori dimensioni, provengono molto probabilmente dalle abitazioni private. Due sono le modalità funerarie scoperte: la prima prevedeva tombe collettive, mentre la seconda concedeva seppellimenti individuali. CRETA Un’isola al centro del mare Verso la fine del IV millennio prima della nostra era, comincia a risplendere il sole della civiltà su un altro angolo del globo, come già sull’Egitto menfitico e tebano, e sulla Mesopotamia semitica e sumerica, mentre il resto del mondo è ancora avvolto nella nebbia cimmeria: le terre dell’Egeo e, tra esse, l’isola di Creta. I primi abitatori della penisola ellenica furono una gente per noi ancora misteriosa: quella che più tardi i greci denominarono Pelasgi o anche Carii. Certo erano dei neolitici, probabilmente dei brachicefali provenienti dall’Anatolia, come significherebbero i nomi superstiti delle numerose località, che essi andarono occupando. Questi nomi sono caratterizzati da suffissi in -ssos, in -ttos, -inthos (vedi Ilissos, Kefissos, Parnassos, Tyrinthos, Corinthos), che ricordano altre denominazioni analoghe usate da popolazioni viventi in Anatolia, nel IV-III millennio a.C.. Quasi con certezza, identiche sono le origini dei primi abitatori di Creta, dove ricompaiono nomi e vocaboli con le stesse caratteristiche: Cnossos, Tylissos, labirinthos, hyakintos, erébinthos, ecc.. Altri immigrati sono giunti dalle coste settentrionali dell’Africa. Ma, assai più che il continente greco, più che le stesse isole egee, Creta era fatta per evolvere e progredire rapidamente. Creta è la grande isola mediterranea, collocata “nel cuore del negro mare”, come dirà Omero; essa giace a eguale distanza dalle bocche del Nilo e dalle bocche del Bosforo, dal Golfo Argolico e dalla Cirenaica, da Cipro e dalla Sicilia, dalla Siria e dall’Italia. Aristotele scriverà che “l’isola sembrava quindi fatta non solo per dominare le acque intorno a cui si installeranno i Greci ma per conquistare l’impero del mare”, ossia il Mediterraneo orientale. Tuttavia, nonostante la comune origine del popolamento, si dice che fino al 3000 a.C. le due civiltà di Creta e del continente ellenico siano rimaste estranee l’una dall’altra. Si frapponeva fra loro l’impervia penisola del Peloponneso, semibarbara o quasi completamente spopolata. Fu verso il 3000, proprio nel tempo in cui le prime dinastie menfitiche riescono a unificare l’Egitto, e i Sumeri a imporsi a buona parte della Mesopotamia, che, o per evoluzione autoctona, o per effetto di nuove immigrazioni, l’uso dei metalli prese a diffondersi per tutto l’Egeo, e la grande storia di Creta incominciò. Rame e ceramica Gli antichi riassunsero la storia di Creta sotto il nome del potente, leggendario monarca cretese, Minosse, e i moderni archeologi, seguendone le tracce, hanno distribuito la sua storia in tre periodi: l’Antico( 25001850), il Medio (2000-1570), e il Nuovo Minoico (1570-1450). Verso l’inizio del III millennio, Creta entra in rapporto con le Cicladi, con l’Asia Minore, con l’Egitto; dalle Cicladi e dall’Asia Minore ricava l’ossidiana, il marmo, il rame, di cui, del resto, i suoi abitatori scoprono abbondanti giacimenti nell’isola stessa, nel suo tratto più orientale; dall’Egitto riceve l’avorio, manufatti industriali e oggetti artistici. Ma non è solo l’industria dei metalli a lanciare l’economia cretese dei primi secoli del III millennio a.C., è tutta la vita dell’isola ad accendersi di nuovo fulgore. Sotto il fascino di influssi esterni, sotto lo stimolo di una maggiore agiatezza, le costruzioni vi acquistano una maggiore solidità, una maggiore eleganza, rivelano “un amore più squisito per la decorazione”; l’industria delle ceramiche comincia a sfoggiare una vivacità di colori e di disegni prima sconosciuta; dalle officine artigiane esce una miriade di minuti oggetti in metallo –rame, oro, argento– o in pietra dura, che testimoniano “il buongusto e la ricchezza di coloro che li usano”. Le sedi della nuova civiltà cretese non sono sparse per tutta l’isola; sono concentrate nelle due zone, orientale e meridionale, intorno alle miniere di rame, ai grandi depositi di argilla, presso i naturali porti di imbarco per l’Egitto e per l’Asia Minore: Zacros, Palecastro, Mochlos, Aghia Triada, Platanos, Cumasa. Tombe a cupola, pitture parietali, oreficeria, sigilli: questi e altri sono le produzioni cretesi di questo periodo. E con Creta si relaziona tutta la costellazione delle Cicladi, che hanno qualche cosa da dare e da ricevere: Melos con la sua ossidiana, Paros e Naxos con il loro marmo, Serifos con il suo rame e il suo piombo, Amorgos con le sua armi, Siros, nel cuore dell’arcipelago, con i suoi buoi, il suo vino, i suoi cereali, le sue imbarcazioni, il suo porto, la comodità degli scali per tutti le navi dirette a Sud, a Nord e a Est. A Ovest il mondo è ancora tutto da scoprire. Bronzo e corna L’avvento dell’età del bronzo (verso il 2400 a.C.) reca una nuova ondata di vitalità allo sviluppo storico di Creta. Lo stagno, elemento fondamentale nella lega del bronzo, non era presente nelle Cicladi, ma è stato scoperto in Italia, in Etruria su per il mar Adriatico, in Gallia, in Spagna, anche nel cuore della Germania – nelle montagne dell’Erzgebirge–, e le prime carovane, stimolate dall’abbondante richiesta, lo trasportavano già alle rive dello Ionio. Ora, Creta era collocata nel punto giusto per conquistare il monopolio di quella rete di viaggi per mare che lo stagno doveva compiere tra la Grecia, l’Asia Minore, le bocche del Nilo e la Siria, di fronte a cui giace la cuprifera Cipro. Essa, dunque, può diventare la massima intermediaria del commercio dei due metalli, che costituiscono l’elemento principale di questa età del bronzo, e, al tempo stesso, il centro della nuova industria, che produrrà tanti capolavori. Ma, per ottenere ciò, occorre che l’Isola disponga di una marina numerosa, che divenga un grande potentato navale, e tale sarà il compito dei Minossi nell’età aurea che ora inizia: l’età che scorre dalla terza fase del Minoico Antico alla metà del Minoico Medio (2400-1750 a.C.). Con la nuova svolta della civiltà di Creta si accompagna uno spostamento dei centri della sua potenza. Le città, i principati dell’est e del sud –Mochlos e Zacros– decadono, e il primato passa alla nuova Mallià, sulla costa settentrionale, a Festos nella regione sud-occidentale, da cui “le navi dalla bruna prora sono spinte verso l’Egitto dal vento e dall’onda” (Odissea, III, 299-300). Ma più ancora alla regale Cnossos. Qui sorgono sontuosi palazzi principeschi, forniti di magazzini, di laboratorii, di atri adorni di colonnati e affreschi. Qui anche i privati cittadini si costruiscono case a più piani; qui i vasai fabbricano gli utensili in argilla, sottili come foglie di metallo, splendenti come maioliche: i “Camares” del monte Ida. A Cnossos gli artisti lavorano vasi montati in oro; gli incisori intagliano figure di uomini e animali nelle gemme. E il commercio cretese allarga il suo respiro. Ampie strade attraversano l’isola da un capo all’altro, munite di viadotti, fornite di alberghi. I marinai e i mercanti cretesi si recano in Cirenaica a ricercarvi spezie esotiche, esportano le produzioni locali nella Grecia continentale, a Cipro, nell’Alto Egitto, a Byblos, in Fenicia; acquistano oggetti dalla lontana Babilonia. E, poiché il commercio richiede agili strumenti per gli scambi, anche l’antica, lenta scrittura geroglifica si va semplificando, si stilizza, si demoticizza. Anche la razza bovina contribuiva largamente alla ricchezza dei Cretesi, ai quali i buoi non servivano solo come animali da macello, poiché per lungo tempo non ebbero altre bestie per tirare i carri. Gli dèi e i morti chiedevano per vittime tori e torelli, le cui corna erano consacrate nei templi e nei luoghi sacri, e i conciatori avevano bisogno di belle pelli dal pelo grigio, bruno o nero, per farne scudi e cinture. Ma tanto splendore, come quello del Primo Impero Babilonese e del Medio Impero Egizio, è destinato a tramontare. Stando alle parole di Corrado Barbagallo, “neanche l’isolamento insulare salverà Creta dai colpi del destino. Il turbine, che ha cominciato a soffiare sulle terre dell’Oriente, asiatico e africano, increspa già le azzurre onde del Mediterraneo. Ancora alcuni secoli, e alla luminosa civiltà dell’Isola privilegiata toccherà la stessa sorte che le civiltà mesopotamiche e nilotiche dei due continenti vicini hanno già sperimentata”. LA CIVILTA’ PRO ELLENICA Diverse tribù elleniche sono stanziate nella Grecia continentale prima del 1900 a.C. Queste popolazioni ellenofone, che costituiscono la civilizzazione Mesoelladica (1900-1600), vivono una Tarda Età del Rame, conoscendo il bronzo senza però poterlo produrre. Intorno al 1900 a.C. le tribù pro elleniche parlavano dialetti che saranno determinanti nella formazione della lingua micenea: il dialetto degli Ioni, degli Eoli, degli Achei. Si può già riscontrare una certa unità delle popolazioni elleniche con una coscienza panellenica. Attraverso le isole dell’Egeo gli ellenici del continente venivano a conoscenza delle grandi tecniche e dei cambiamenti economici che sono alla base delle civiltà delle Cicladi e di Creta. CONTINUA, VEDI EGEO, EPICENTRO… L’INGRESSO DEGLI INDOEUROPEI I primi Achei All’inizio del II millennio nel bacino dell’Egeo non c’e’ separazione tra Oriente ed Occidente: le rotte commerciali istituivano due principali collegamenti; il primo univa Grecia continentale, isole Cicladi, isole Sporadi e Anatolia; il secondo Grecia continentale, Rodi, la Cilicia, Cipro, la costa nord della Siria, la Mesopotamia e l’Iran. [DISEGNO] Dal 2000 al 1900 a.C. nella Grecia continentale irrompe un nuovo popolo. Le sue case, le sue sepolture, le sue asce da guerra, le sue armi di bronzo, i suoi utensili, la sua ceramica (grigio vasellame minio) sono elementi che segnano la rottura con gli uomini e la civiltà dell’età precedente, l’antico Elladico. Questi invasori, i minî, formano l’avanguardia delle tribù che, a ondate successive, verranno a stabilirsi nell’Ellade, si insedieranno nelle isole, colonizzeranno il litorale dell’Asia Minore, si spingeranno in direzione del Mediterraneo occidentale e verso il Mar Nero, per costituire il mondo greco quale lo conosciamo in età storica. Che siano scesi dai Balcani o dalla Russia meridionale, questi antenati dell’uomo greco appartengono a popoli indoeuropei già differenziati nella lingua, e parlano un dialetto greco arcaico. La loro apparizione sulle rive del Mediterraneo non costituisce un fenomeno isolato. Verso la stessa epoca, una spinta parallela si manifesta dall’altra parte del mare, con l’arrivo degli Ittiti indoeuropei in Asia Minore e la loro espansione attraverso l’altopiano anatolico. Sulla costa, nella Troade, la continuità culturale ed etnica che si era conservata per quasi un millennio (inizio di Troia I: tra il 3000 e il 2600) è spezzata all’improvviso. Il popolo che costruisce Troia VI (1900), città principesca più ricca e potente che mai, è parente prossimo dei minî di Grecia, ossia gli avi degli achei. Esso fabbrica lo stesso vasellame grigio, lavorato al tornio e cotto in forni chiusi, che si diffonde nella Grecia continentale, nelle isole Ionie, in Tessaglia e nella Calcidica. Ricchi di cavalli Un altro elemento di civiltà evidenzia l’affinità tra i due popoli sulle due rive dell’Egeo. Con gli uomini di Troia VI fa la sua comparsa nella Troade il cavallo. “Ricca di cavalli”: tale è, nello stile formulare che Omero riprende da un’antichissima formulazione orale, l’epiteto che ricorda l’opulenza del paese di Dardano. La notorietà dei cavalli di Troia, come quella dei suoi tessuti, non fu certo estranea all’interesse che gli achei rivolsero a questa regione già prima della spedizione militare che, distruggendo la città di Priamo (Troia VII a), servì da punto di partenza per la leggenda epica. Come i minî della Troade, questi greci conoscevano il cavallo: dovevano averne praticato l’allevamento nelle steppe in cui avevano soggiornato prima della loro venuta in Grecia. La preistoria del dio Poseidione indica che, prima di regnare sul mare, un Poseidone equino, Hippos o Hippios, nello spirito dei primi elleni come presso altri popoli indoeuropei, associava il tema del cavallo a tutto un complesso mitico: cavalloelemento umido, cavallo-acque sotterranee, mondo infernale, fecondità; cavallo-vento, burrasca, nube, tempesta… [NOTA, vedi Vernant] Su alcune stele funerarie del XVI secolo scoperte a Micene nella tomba delle fosse (1580-1550), scene di battaglia o di caccia rappresentano un guerriero in piedi sul suo carro trascinato da cavalli al galoppo. A quest’epoca i minî, strettamente mescolati alla popolazione locale di origine asianica, si sono stabiliti da tempo nella Grecia continentale. Ma il carro da guerra, un carro leggero tirato da due cavalli, non può essere un apporto cretese. Nell’isola, il cavallo non appare prima del Minoico recente I (1580-1450). Se c’è stato un prestito, in questo casi i debitori saranno i minoici. Per contro, l’uso dei carri rivela ancora le analogie tra il mondo miceneo o acheo, che si sta formando, e il mondo degli ittiti, che verso il XVI secolo adotta questa tattica di combattimento mutuandola dai suoi vicini orientali, gli hurriti di Mitanni, popolazione non indoeuropea che però riconosce la sovranità di una popolazione indo-iranica. Nelle relazioni che si stabilirono all’inizio del XIV secolo tra gli ittiti e coloro che essi chiamano Achaiwoi (gli achei o micenei) ebbero la loro importanza le preoccupazioni di ordine equestre. Tra altri accenni all’Ahhiyawa (l’Acaia), gli archivi reali ittiti di Hattusa informano sul soggiorno di principi achei, tra i quali Tawagalawas (Eteocle?), venuti alla corte per perfezionarsi nella pratica di condurre il carro. Si dovrà accostare al nome del re ittita Mursilis quello dello scudiero di Enomao, Myrtilos, noto per la parte che aveva nella leggenda di Pelope, antenato della dinastia degli Atridi, re di Micene? Enomao regna a Pisa in Elide. Ecc ……………………………………………………………………………………………………… ecc…………………………………………………………………………………………………………………………………………………… ….. Esigendo un apprendistato difficile, la tecnica del carro dovette rafforzare la specializzazione della funzione guerriera, tratto caratteristico dell’organizzazione sociale e della mentalità dei popoli indoeuropei. D’altra parte la necessità di disporre di una riserva numerosa di carri per concentrarli sul campo di battaglia presuppone uno stato accentrato, abbastanza esteso e potente, in cui gli uomini con i carri, quali che siano i loro privilegi, sono sottoposti a un’unica autorità. Tale in effetti doveva essere la forza militare del regno miceneo che, a partire dal 1450 –lo sappiamo dopo la decifrazione della lineare B–, poté dominare Creta, stabilirsi da padrone nel palazzo di Cnosso e tenerlo fino alla sua distruzione finale, nell’incendio del 1400, appiccato forse da una rivolta indigena. Una diffusione capillare L’espansione micenea, che continuò dal XIV al XII secolo, portò gli achei a sostituirsi ai cretesi un po’ dappertutto nel Mediterraneo orientale. Rodi fu infatti colonizzata dagli achei a partire dagli inizi del XIV secolo. È forse in quest’isola, al riparo dagli attacchi dal continente, che si deve situare il regno di Ahhiyawa, il cui monarca è trattato dal re ittita con i riguardi dovuti a un pari. Da Rodi il re di Acaia poteva controllare i punti della costa anatolica dove i suoi uomini erano sbarcati e avevano fondato stabilimenti. La presenza achea è attestata a Mileto (la Milawunda o Milawata ittita), a Colofone, a Claro, più a nord a Lesbo, soprattutto nella Troade, con la quale le relazioni erano strette, infine sulla costa meridionale, in Cilicia e in Panfilia. Ancora agli inizi del XIV secolo i micenei si insediarono in forze a Cipro e costruirono a Enkomi una fortezza simile a quelle in Argolide. Di là raggiunsero la costa siriana, via di passaggio verso la Mesopotamia e verso l’Egitto. A Ugarit, che commerciava rame con Cipro, nel XV secolo una colonia cretese aveva dato la sua impronta alla cultura e persino all’architettura della città. Nel secolo seguente essa cedette il posto a un nucleo miceneo abbastanza nutrito da occupare un quartiere della città. Nello stesso periodo Alalakh, sull’Oronte, porta dell’Eufrate e della Mesopotamia, diventò un importante centro acheo. Più a Sud, Achei penetrarono fino in Fenicia, a Biblo e in Palestina. In tutta questa regione fu elaborata una civiltà comune cipro-micenea, in cui gli elementi minoici, micenei e asiatici erano intimamente fusi, e che disponeva di una scrittura derivata, come quella sillabica micenea, dalla lineare A. L’Egitto, che aveva mantenuto, specie nel corso del 1400, un continuo commercio con i cretesi, si aprì ai micenei, che accolse liberamente tra il 1400 e il 1340. Anche qui i Keftiu, i cretesi, a poco a poco scomparvero a vantaggio dei loro concorrenti; Creta cessò di esercitare la funzione, che aveva avuto nel periodo precedente, d’intermediaria tra l’Egitto e il continente greco. Forse una colonia micenea era presente a El-Amarna quando Amenhotep IV, conosciuto sotto il nome di Akhenaton, vi si stabilì tra il 1380 e il 1350, abbandonando l’antica capitale Tebe. Così in tutte le regioni dove li aveva condotti il loro spirito di avventura, i micenei apparivano strettamente associati alle grandi civiltà del Mediterraneo orientale, integrati in quel mondo del Vicino Oriente che, nonostante le sue diversità e la sua ampiezza, costituiva un insieme di scambi e di comunicazioni. IL REGNO MICENEO Il re e gli scribi La vita sociale presso i regni micenei è accentrata attorno al palazzo, la cui funzione è insieme religiosa, politica, militare, amministrativa ed economica. Il re, infatti, unifica nella sua persona tutti gli aspetti della sua sovranità. Gli scribi formano una classe professionale fissata nella tradizione: grazie ad una gerarchia complessa di ispettori, il re controlla e regola tutti i fattori della vita economica e i campi dell’attività sociale. Gli scribi contabilizzano nei loro archivi ciò che concerne il bestiame e l’agricoltura, la tenuta delle terre, valutate in misure di cereali (come canoni di affitto o come razioni di sementi), - i diversi mestieri specializzati con le assegnazioni da fornire in materie prime e le ordinazioni in prodotti finiti, - la manodopera, disponibile o occupata, - gli schiavi, uomini, donne e bambini, quelli dei privati e quelli dei re, - i contributi di ogni generi imposti dal palazzo agli individui e alle collettività, i beni già consegnati, quelli ancora da ricevere, - le leve degli uomini che certi villaggi devono fornire per equipaggiare di rematori le navi regie, - la composizione, il comando, il movimento delle unità militari, - i sacrifici agli dèi, i canoni previsti per le offerte, ecc. L’accentramento amministrativo e le opere Il sistema “monarchico burocratico” presente in questi centri è indotto a esercitare un controllo sempre più rigoroso, fino ad annotare particolari che a noi sembrano irrilevanti. Si può fare un confronto con i grandi stati fluviali del Vicino Oriente, la cui organizzazione sembra rispondere su vasta scala con lavori di bonifica, di irrigazione, di manutenzione dei canali, indispensabili alla vita agricola. Ma non si può pensare che necessità tecniche di regolazione agraria, secondo un piano complessivo, abbiano potuto suscitare o favorire in Grecia un avanzato accentramento amministrativo. L’economia rurale della Grecia antica appare dispersa alle dimensioni del villaggio; il coordinamento dei lavori non oltrepassa in pratica il gruppo dei vicini. La classe dei guerrieri tra Greci e Ittiti Si possono notare forti analogie con un altro popolo indoeuropeo, quello ittita: attorno al loro re si radunano dignitari di palazzo con funzioni amministrative e poteri militari. Con i combattenti ai loro ordini essi formano il pankus, assemblea che rappresenta la comunità ittita, cioè che raggruppa l’insieme dei guerrieri, con l’esclusione della restante popolazione, secondo lo schema che, nelle società indoeuropee, oppone il guerriero all’uomo del villaggio, pastore o agricoltore che sia. In questa nobiltà guerriera si reclutano gli uomini dei carri, forza principale dell’esercito ittita. Il pankus cade in disuso alla fine del XVI secolo, e la monarchia ittita si avvicina al modello delle monarchie assolute orientali. Rappresentanza del potere Nel quadro dell’economia palaziale, accanto a una divisione dei compiti spesso molto accentuata, a una specializzazione di funzioni con una miriade di sorveglianti e di capi sorveglianti, si constata un fluttuare di attribuzioni amministrative che si accavallano, in quanto ogni rappresentante del re esercita per delega, al suo livello, un’autorità che in via di principio copre senza limitazioni tutto il campo della vita sociale. Il tesoro è nel megaron È necessario delineare i tratti che definiscono più precisamente il caso miceneo e che forse spiegano perché questo tipo di sovranità non sia sopravvissuto in Grecia alla caduta delle dinastie achee. Il confronto con gli ittiti pone in risalto le differenze che separano il mondo miceneo dalla civiltà palaziale di Creta che gli ha servito da modello. Tale contrasto si rivela nelle architetture dei loro palazzi. Quelli di Creta, dedali di camere disposte in apparente disordine attorno a un cortile centrale, sono edificati allo stesso livello del territorio circostante, sul quale si aprono senza difesa, con larghe strade che portano al palazzo. Il maniero miceneo, accentrato sul megaron e sulla sala del trono, è una fortezza cinta di mura, un rifugio di capi, che domina e sorveglia la pianura giacente ai suoi piedi. La sua funzione militare sembra soprattutto difensiva: essa custodisce il tesoro reale in cui, accanto alle riserve normalmente controllate nel quadro dell’economia del paese, si accumulano beni preziosi di altro genere. Si tratta di prodotti di un’industria di lusso: gioielli, coppe, tripodi, caldaie, pezzi d’oreficeria, armi lavorate, lingotti di metallo, tappeti, tessuti ricamati. Simboli di potere, strumenti di prestigio personale, essi esprimono nella ricchezza un aspetto regale. Costituiscono la materia di un generoso commercio che supera largamente le frontiere del regno. Dati e ricevuti in dono, suggellano alleanze matrimoniali e politiche, creano obbligazioni di servizio, ricompensano vassalli, stabiliscono legami di ospitalità sino in paesi lontani; per impadronirsi del tesoro si prepara una spedizione militare, si distrugge una città. Personaggi Alla sommità dell’organizzazione sociale il re porta il titolo di wa-na-ka, anax. Accanto al wa-na-ka, il secondo personaggio del regno, il la-wa-ge-tas, è rappresentato dal capo del laos, il gruppo dei guerrieri. Con la loro uniforme costituita da un mantello speciale, gli e-qe-ta, επέται, i compagni, sono dignitari del palazzo che formano il seguito del re, come nella grande famiglia ittita. Terreni del villaggio e terreni del palazzo Il sistema fondiario appare complesso, e per noi è reso più oscuro dall’ambiguità di molte espressioni. Sembra che il pieno possesso di un terreno, come il suo usufrutto, implicasse, in contropartita, molteplici servizi e prestazioni. Spesso è difficile decidere se un termine ha un significato puramente tecnico (terra incolta, terra dissodata, pascolo trasformato in terra arabile, terra di dimensioni più o meno grandi) o se designa uno statuto speciale. Tuttavia si designa un’opposizione tra due tipi di tenuta, indicanti le due forme diverse che può assumere un ko-to-na, un lotto, una posizione di terra. Le ki-ti-me-na sono ko-to-na dei dignitari, sono terre private, di proprietà; all’opposto vi sono delle ke-ke-me-na ko-to-na, appartenenti al damos, terre comuni dei demi agricoli, proprietà collettiva del gruppo rurale, coltivate secondo il sistema dell’open field e sottoposte forse a ridistribuzione periodica. Anche il codice ittita distingue due tipi di tenute: quella del guerriero, che dipende direttamente dal palazzo, al quale ritorna quando il servizio non è più assicurato Invece gli “uomini dell’utensile”, ossia gli artigiani, dispongono di una terra detta “di villaggio”, che la collettività rurale concede loro per un certo tempo e che recupera alla loro partenza. Anche in India è attestata un’esistenza di un’analoga struttura. Al vaiçya, l’agricoltore (viç, cfr. latino vicus, greco οίκος, il gruppo di case), cioè all’uomo del villaggio, si oppone lo ksatrya, il guerriero (da ksatram: potere, possesso), l’uomo con una tenuta individuale, come il barone miceneo è l’uomo della ki-ti-me-na ko-to-na, della terra avuta in proprietà, contrapposta alla terra comune del villaggio. Le due diverse forme di tenute del suolo rivelerebbero dunque, nella società micenea, una polarità fondamentale: di fronte al palazzo e alla sua corte e ai suoi feudi, s’intravede un mondo rurale organizzato in villaggi dotati di vita propria. Questi “demi” rurali dispongono di una parte delle terre sulle quali sono insediati; , in conformità alle tradizioni e alle gerarchie locali, essi regolano i lavori agricoli, l’attività pastorale, i rapporti di vicinato. METTERE FOTO DI INSEDIAMENTI RURALI Un basileus di provincia È in questo quadro provinciale che appare, contro ogni aspettativa, il personaggio che porta il titolo che normalmente avremmo tradotto con “re”, il pa-si-re-u, il basileus omerico. Egli non è il re nel suo palazzo, ma un semplice signore, padrone di una tenuta rurale e vassallo dell’anax. Questo legame di vassallaggio, in un sistema economico in cui tutto è contabilizzato, riveste una forma di una responsabilità amministrativa: noi vediamo il basileus sorvegliare la distribuzione dell’assegnazione del bronzo destinato ai fabbri che, sul suo territorio, lavorano per il palazzo. E ovviamente contribuisce egli stesso, con altri uomini ricchi del luogo e secondo una porzione fissata, a queste forniture di metallo. Accanto al basileus, un Consiglio degli anziani, la ke-ro-si-ja (γερουσία), conferma questa relativa autonomia di villaggio. Un altro personaggio, il ko-re-te, sembra essere una specie di maggiore di villaggio. Conclusioni generali sulle monarchie micenee: 1. Il loro carattere bellicoso. L’anax si appoggia a un’aristocrazia guerriera, gli uomini dei carri, sottoposti alla sua autorità che formano nell’organizzazione militare del regno un gruppo privilegiato con il suo statuto particolare, con il suo proprio genere di vita. 2. Le comunità rurali sono in rapporto con il palazzo secondo una dipendenza che non è assoluta e possono sussistere al di fuori di esso. Se fosse abolito il controllo reale, il damos continuerebbe a lavorare le stesse terre seguendo le stesse tecniche. Esso nutre i re e i ricchi del luogo con tributi, doni, prestazioni più o meno obbligatorie. 3. L’organizzazione del palazzo, con il suo personale amministrativo, le sue tecniche di contabilità e di controllo, la sua stretta regolamentazione della vita economica e sociale, mostra di essere stata importata dall’esterno. Tutto il sistema si basa sulla scrittura e sulla costituzione di archivi. Scribi cretesi, passati al servizio delle dinastie micenee, trasformando la lineare usata nel palazzo di Cnosso (lineare A) per adattarla al dialetto dei nuovi signori (lineare B), hanno fornito loro i mezzi per stabilire nella Grecia continentale i metodi amministrativi propri dell’economia palaziale. Per i monarchi della Grecia il sistema palaziale rappresentava un notevole strumento di potere. Rendeva anche possibili le grandi avventure in paesi lontani per stabilirsi su nuove terre o per andare a cercare oltremare il metallo o i prodotti di cui il continente greco era privo. Capovolgimento Tutto questo insieme fu distrutto dall’invasione dorica. Essa rompe, per lunghi secoli, i legami tra la Grecia e l’Oriente. Abbattuta Micene, il mare cessa di essere una via di passaggio per trasformarsi in una barriera. Isolato, ripiegato su se stesso, il continente greco torna a una forma di economia puramente agricola. Sotto la spinta delle genti settentrionali, i flussi migratori verso le isole dell'Egeo e le coste dell'Asia Minore portano a un progressivo spopolamento di alcune regioni, in cerca di terre coltivabili e di materie prime. Col tempo emergono dinamiche territoriali quali il progressivo abbandono degli insediamenti palazzi e la conseguente occupazione di nuove mete insediative, quali la pianura, caratterizzata da una relativa carenza di centri abitati. Il mondo omerico non conosce più una divisione del lavoro paragonabile a quella del mondo miceneo, né l’impiego su scala altrettanto vasta della manodopera servile. Ignora le molteplici corporazioni di “uomini dell’utensile” raggruppati nei dintorni del palazzo o residenti nei villaggi per eseguirvi le ordinazioni dei re. Nella caduta dell’impero miceneo, il sistema palaziale crolla totalmente; non si risolleverà mai più. Il termine anax scompare dal vocabolario. Nell’impiego tecnico, per designare la funzione regale, esso è sostituito dalla parola basileus, che una volta designava piuttosto, usata al plurale, una categoria di Grandi. Abolito il regno dell’anax, non si trova più traccia di un controllo esercitato dal re, né di una classe di scribi. La stessa scrittura scompare, come inghiottita nella rovina dei palazzi. Quando i greci la riscopriranno, verso la fine del IX secolo, mutuandola in questo caso dai fenici, non sarà soltanto una scrittura di tipo diverso, fonetico, ma un fatto di civiltà radicalmente diverso: non più la prerogativa di una classe di scribi, ma l’elemento di una cultura comune. Il suo significato sociale e psicologico si sarà così capovolto: la scrittura non avrà più lo scopo di costituire archivi nel segreto di un palazzo; essa servirà ormai a una funzione di pubblicizzazione; permetterà di divulgare, di porre sotto lo sguardo di tutti i vari aspetti della vita sociale e politica. LA CRISI DELLA SOVRANITÀ DEL MEDIOEVO ELLENICO (età del Ferro) Una questione di confine La caduta della potenza micenea, l’espansione dei dori nel Peloponneso, a Creta e fino a Rodi, inaugurano una nuova epoca della civiltà greca. La metallurgia del ferro succede a quella del bronzo. L’incinerazione dei cadaveri sostituisce in larga misura la pratica dell’inumazione. La ceramica subisce trasformazioni molto profonde: abbandona le scene di vita animale e vegetale per una decorazione geometrica. Divisione netta delle parti del vaso, riduzione delle forme a modelli chiari e semplici, obbedienza a princìpi di asciuttezza e di rigore che escludono gli elementi mistici, di tradizione egea – tali sono i tratti del nuovo stile geometrico. Alcuni studiosi riconoscono, in quest’arte spoglia, ridotta all’essenziale, un atteggiamento dello spirito che caratterizza ugualmente le altre innovazioni dello stesso periodo: gli uomini hanno ormai preso coscienza di un passato separato dal presente, diverso da esso (l’età del bronzo, degli eroi, è in contrasto con i tempi nuovi, votati al ferro); il mondo dei morti si è allontanato, tagliato da quello dei vivi (la cremazione ha spezzato il legame del cadavere con la terra); una distanza insormontabile si stabilisce tra gli uomini e gli dèi (la figura del re divino è scomparsa). Così, in tutta una serie di ambiti, una delimitazione più rigorosa dei diversi piani del reale prepara l’opera di Omero, la sua poesia epica che, nel seno stesso della religione, tende a eliminare il mistero. Nuovi equilibri Proviamo a capire la portata delle trasformazioni sociali che hanno avuto ripercussioni dirette sulle strutture del pensiero. Tali trasformazioni sono testimoniate in primo luogo dalla lingua. Da Micene a Omero, il vocabolario dei titoli, dei gradi, delle funzioni militari, del possesso della terra crolla pressoché completamente. Una volta distrutto l’antico sistema, i pochi termini che sussistono, come basileus o témenos, non conservano più lo stesso valore. Ma proprio la scomparsa dell’anax sembra aver lasciato sussistere fianco a fianco le due forze sociali con le quali il suo potere aveva dovuto patteggiare: da una parte le comunità di villaggio, dall’altra un’aristocrazia guerriera le cui più alte famiglie detengono tutte, come privilegio del genos, certi monopoli religiosi. La ricerca di un equilibrio, di un accordo, tra queste opposte forze che sono state liberate dal crollo del sistema palaziale, farà nascere, in un periodo di disordini, una riflessione morale e speculazioni politiche che definiranno una prima forma di “sapienza” umana. Questa sophia appare all’alba del VII secolo; è legata a una pleiadi di personaggi assai strani, circonfusi da un’aureola quasi leggendaria, che la Grecia non cesserà di celebrare come i suoi primi, veri “Sapienti”. Tale sophia ha come oggetto non l’universo della physis ma il mondo degli uomini: quali elementi lo compongano, quali forze lo dividano contro se stesso, come armonizzarle, unificarle in modo che dal loro conflitto nasca l’ordine umano della città. La vita continua Tuttavia, non si deve pensare che il cosiddetto Medioevo Ellenico, etichetta tipica della storiografia dell'Ottocento, sia stato per la Grecia un periodo caratterizzato da oscurantismo culturale ed economico. Al contrario, questa fase vide l'emergere di fenomeni che si svilupperanno a tutto tondo a partire dall'VIII secolo a.C. e che sono alla base della creazione della forma istituzionale della polis. Anche se, sulla scorta delle evidenze archeologiche, gli studiosi moderni hanno optato per un'ipotesi che vede in questa fase il prevalere della pastorizia sull'agricoltura, attività che prevede forme di vita nomade, sarebbe errato pensare a questa fase di transizione come a un'epoca di isolamento o di definitiva interruzione dei traffici. In questo periodo, noto come Età del ferro, si assiste alla nascita della produzione di manufatti in ferro, stimolata anche dalla difficile reperibilità di altri metalli più facilmente lavorabili, come stagno e rame, metalli di cui tuttavia la Grecia non dispone se non in minime quantità, necessari anche per la produzione del bronzo. Unità e molteplicità Scomparso l’anax che, in virtù di una potenza più che umana, unificava e ordinava i diversi elementi del regno, sorgono problemi nuovi: come può nascere l’ordine dal conflitto tra gruppi rivali, dall’affrontarsi di prerogative e di funzioni opposte? Come può una vita comune fondarsi su elementi disparati? Oppure – per riprendere la stessa formula degli orfici – come può, sul piano sociale, l’uno nascere dal molteplice e il molteplice dall’uno? Victor Ehremberg constata che al centro della concezione greca della società c’è una contraddizione fondamentale: lo stato è uno e omogeneo; il gruppo umano è fatto di parti molteplici ed eterogenee. Questa contraddizione resta implicita perché i greci non hanno mai chiaramente distinto stato e società, piano politico e piano sociale. Di qui la confusione di un Aristotele quando tratta dell’unità e pluralità della polis. Vissuta implicitamente nella pratica sociale, questa problematica dell’uno e del molteplice, che si esprime anche in certe correnti religiose, sarà formulata con pieno rigore al livello del pensiero filosofico. QUI GLI AUTORI INIZIANO DIMOSTARE LA LORO TESI SULLO SPAZIO DELL’AGORA E SUL SIGNIFICATO DELLA POLIS COME SOCIETÀ DI EGUALI. MEDIO E TARDO ARCAISMO Verso la fine del IX secolo a.C. si iniziarono ad intravedere le avvisaglie di una progressiva trasformazione politica ed economica che interessò il mondo greco. Le mutate condizioni socio-economiche, dovute all'incremento demografico, al contatto con le popolazioni ricche e progredite delle isole orientali dell'Egeo e delle coste dell'Asia Minore e a una ripresa degli scambi commerciali, indebolirono definitivamente l'istituto monarchico a favore dell'aristocrazia, che nell'VIII secolo a.C. prese il potere in tutta l'area egea. La Polis si conforma Le πόλεις erano veri e propri centri politici, economici e militari, retti da governi autonomi e indipendenti. L'agglomerato urbano era costituito dalla città, solitamente circondata da mura, e dal territorio circostante adibito prevalentemente all'agricoltura e all'allevamento. Il centro vitale della polis era l'agorà, sede del mercato e delle assemblee popolari, assieme all'acropoli, luogo fortificato per la difesa dei cittadini e che ospitava il tempio della divinità tutelare. Secondo alcuni studiosi, la struttura della città-stato, associata alla particolare conformazione geografica del territorio, fu uno dei principali ostacoli all'unità politica greca. I giochi pubblici, invece, contribuirono a rinsaldare l'unità culturale ellenica. Oltre a quelli nemei, istmici e pitici, i più importanti furono i giochi Olimpici in onore di Zeus. Questa manifestazione, che si svolgeva ogni quattro anni ad Olimpia, divenne tanto famosa che la data della I Olimpiade (776 a.C.) servì da punto di partenza della datazione greca. Per quanto riguarda la cittadinanza, come ogni società prevalentemente agricola, essa si estende ai residenti della regione controllata dalla città. Colonizzazione e contrasti Tra l'VIII ed il VII secolo a.C. vi fu un fenomeno migratorio che ebbe notevoli ripercussioni sull'assetto sociale, politico ed economico della Grecia arcaica. Il movimento colonizzatore, causato dai gravi contrasti di classe, dalle guerre tra città e dall'aumento della popolazione, che fece crescere il fabbisogno di terre e materie prime, interessò sia l'area orientale (Tracia e Mar Nero), sia quella occidentale (Magna Grecia, Francia e Spagna). Le conseguenze socio-economiche della colonizzazione greca furono notevoli: l'espansione e l'incremento degli scambi commerciali e delle attività artigianali ed industriali e l'introduzione della moneta favorirono la formazione di una nuova classe di commercianti ed industriali, che progressivamente misero in crisi il predominio stesso dell'aristocrazia. Il mutato assetto sociale ebbe delle inevitabili ripercussioni politiche, in quanto il ceto medio, presa coscienza della propria forza e della propria importanza, cominciò ad avanzare richieste per una parificazione giuridica con la vecchia aristocrazia. I Tiranni Tra il VII e il VI secolo a.C. i continui contrasti sociali, acuiti dal malcontento delle classi meno abbienti, portarono da un lato alla codificazione scritta delle leggi, iniziata nelle colonie, dall'altro al sorgere della tirannide. Così figure semi-leggendarie di legislatori, quali Zaleuco di Locri, Diocle di Siracusa, Caronda di Catania e Dracone di Atene si affiancarono a uomini ambiziosi e senza scrupoli, come Gelone di Siracusa e Policrate di Samo, che con colpi di stato si impadronirono del potere in moltissime città greche. Ben presto alcune di queste, come Corinto, Tebe, Sparta ed Atene, salirono alla ribalta della scena ellenica, espandendo la propria influenza sulle città limitrofe. Ad eccezione di Sparta, una polis estremamente conservatrice che rimase per lungo tempo legata alla costituzione di Licurgo e non conobbe, se non in minima parte, rivolgimenti sociali e fenomeni di emigrazione, le altre poleis greche sperimentarono il governo dei tiranni. A Corinto la famiglia dei Bacchiadi, che governava la città, fu rovesciata da Cipselo (657 circa), il quale assunse il titolo di tiranno trasmettendolo al figlio Periandro. A Sicione un certo Ortagora prese il potere (550 circa) e lo trasmise al figlio Clistene. Ad Atene Pisistrato stabilì un governo tirannico che resse la città con fasi alterne per circa trent'anni (561-528 circa), trasmettendo il potere al figlio Ippia. L'elemento che accomuna tutti i tiranni di prima generazione consiste nella loro appartenenza all'esercito e mostra l'importanza dell'apparato militare nella crisi dell'aristocrazia e nell'ascesa dei tiranni. L’ascesa culturale (troppo sintetico) Alla fine del VI secolo, dopo il rovesciamento della tirannide di Ippia (510), Clistene realizzò una profonda riforma della costituzione ateniese che segnò la nascita della democrazia ad Atene e nel mondo (507). Dagli inizi dell'VIII secolo, la ripresa economica e la reintroduzione definitiva della scrittura mediante l’alfabeto fenicio favorirono l'inizio della grande stagione culturale greca. È a quest'epoca che si può far risalire la composizione scritta dell'Iliade, dell'Odissea, delle opere di Esiodo e della poesia lirica di Alcmane, Callino, Stesicoro e Tirteo. Contemporaneamente, anche la speculazione filosofica iniziò a muovere i primi passi nelle colonie greche orientali ed ebbe tra le figure di spicco pensatori come Talete, Anassimandro,Anassimene, Parmenide ed Eraclito. ETÁ CLASSICA Guerre persiane Nella Ionia (la moderna costa egea della Turchia) le città greche, fra cui Mileto ed Alicarnasso, si ribellarono al giogo persiano dando vita alla rivolta ionia (499 a.C.). Le città rivoltose chiesero aiuto alle grandi poleis della madre patria, ma solo Atene intervenne con appena 20 navi. A queste si unirono 5 vascelli della piccola città di Eretria, situata nell'isola di Eubea. Pur conseguendo iniziali successi, le forze greche soccombettero alle persiane a causa della loro inferiorità. I Persiani, riconquistate tutte le postazioni perdute, cinsero d'assedio Mileto e la rasero al suolo nel 494. Il Gran Re persiano, Dario I, dopo aver ristabilito la sua supremazia sulle città ribelli d'Asia minore, volse le sua attenzione sulle due poleis che avevano contribuito alla rivolta nei suoi confronti, ed inviò dei suoi emissari per portare la richiesta di "acqua e terra": un atto simbolico di grande effetto che significava la sottomissione totale, per mare e per terra. Alcune città, spaventate si sottomisero. Atene, intuito il pericolo chiese aiuto a Sparta, che lo negò, adducendo il pretesto che nella città si stavano celebrando le feste in onore di Apollo, durante le quali era vietato combattere. In realtà Sparta non volle portare aiuto agli Ateniesi, in quanto gli Spartani erano sempre molto restii nell'abbandonare il proprio territorio ed erano preoccupati che Atene diventasse troppo potente. Nel frattempo Dario, approfittando della divisione tra le città greche, inviò una spedizione militare per punire Atene ed Eretria. Nel 490 le truppe Persiane sotto la guida dei comandanti Dati e Artaferne si mossero verso l'isola di Eubea e conquistarono Eretria. Con essi c'era Ippia, il figlio dell'ex tiranno di Atene Pisistrato cacciato dalla città e che sperava nella vittoria persiana per ristabilire la propria egemonia su di essa. In seguito i Persiani sbarcarono in Attica e fu lo stesso Ippia a consigliare al Gran Re di schierare l'esercito nella piana di Maratona, a soli 42 km da Atene: qui nell'aperta pianura la famosa cavalleria persiana avrebbe potuto manovrare con facilità. Gli Ateniesi si stanziarono sulle colline che dominavano la piana. I Greci in 11000 dopo alcuni giorni di esitazione si strinsero in falange e portarono per primi l'attacco contro 30000 Persiani. I primi erano guidati dal nobile Milziade, che in quell'occasione rivestiva la carica di polemarco, un arconte con funzioni militari. Alla fine morirono solamente 200 Greci e ben 6000 Persiani. La vittoria dei Greci fu annunciata da Fidippide ad Atene. Dieci anni dopo il successore di Dario, Serse I, guidò contro i Greci un grande esercito, il cui numero colpì l'immaginazione dei Greci, non abituati a simili cifre: si diceva che l'esercito di Serse ammontasse a un milione di uomini e che per rifornirsi d'acqua avesse seccato il fiume Scamandro, nella Troade. In realtà pare più probabile che si aggirasse intorno ai 100.000 soldati, una cifra comunque enorme per le piccole città-stato greche. I Greci stabilirono un primo sbarramento alle Termopili, un passo facile da difendere in caso di inferiorità numerica. Dopo tre giorni di battaglia i Persiani scoprirono un passaggio che aggirava lo schieramento nemico e presero alle spalle i Greci. Per coprire la ritirata dell'intero esercito, il re spartano Leonida tenne impegnati i Persiani sacrificando se stesso e 300 Spartani che preferirono morire piuttosto che fuggire. Superate le Termopili, Serse avanzò verso l'Attica. Nel frattempo,Temistocle, vista l'impossibilità di sconfiggere via terra l'avanzata persiana, fece evacuare Atene ed organizzò una flotta per opporsi a quella persiana. L'esercito di Serse diede alle fiamme Atene, ma la flotta ateniese, forte di 310 navi, impegnò quella persiana, che raggiungeva le 1207 unità, e la sconfisse duramente a Salamina, nel 480. Serse ritornò in Persia lasciando al comando delle truppe Mardonio con il compito di riprendere l'offensiva in primavera. Nel 479, l'esercito greco comandato dallo spartano Pausania sconfisse i Persiani a Platea costringendoli a ritirarsi. Contemporaneamente, una flotta greca comandata dall'ateniese Santippo sconfisse la flotta persiana a Micale. La seconda guerra persiana si concluse effettivamente nel 478 quando i Greci espugnarono la città di Sesto che costituiva l'ultima piazzaforte persiana in Europa. Egemonia di Atene Dopo la vittoria sui Persiani, nel 477, Atene, consolidata la propria supremazia navale, si fece promotrice dell'istituzione della Lega di Delo, una confederazione di città greche, che aveva per scopo il mantenimento di una marina da guerra per la continuazione della guerra. Sparta, alleata di Atene dai tempi delle guerre persiane, accettò che Atene assumesse il comando della Lega in quanto allora non era interessata ad esercitare la propria egemonia al di fuori del Peloponneso. Coloro che erano contrari all'alleanza tra le due città e comprendevano che esse avrebbero prima o poi lottato per l'egemonia assoluta sulla Grecia furono giustiziati o esiliati. Lo spartano Pausania fu murato vivo dentro il tempio di Atena Calcieca nel 471 circa, mentre Temistocle fuggì da Atene per non subire la stessa sorte e dopo lunghi viaggi nel Peloponneso e nello Ionio, nel 465 si recò alla corte del Re Persiano dove trascorse gli ultimi anni della sua vita. Nel 466 la Lega di Delo colse la sua più importante vittoria quando la flotta, al comando di Cimone, sconfisse quella persiana presso il fiume Eurimedonte, in Licia. Poco dopo, nel 465, l'isola di Taso si ribellò all'egemonia ateniese, ma dopo un assedio di due anni fu conquistata da Cimone e riportata all'interno della Lega. Nel 463 Sparta chiese aiuto ad Atene contro i Messeni che si erano ribellati alla sua autorità ed erano assediati sul monte Itome. Tuttavia, a causa del sospetto che gli Ateniesi potessero favorire i ribelli, gli Spartani rimandarono a casa il contingente ateniese nel 462. Atene ne fu molto irritata ed ostracizzò Cimone, il quale era stato il maggiore alleato di Sparta ed il principale promotore della missione. In conseguenza dell'uscita di scena di Cimone, Atene mutò radicalmente politica estera: strinse alleanza con Argo ed i Tessali, i quali erano stati alleati dei Persiani o comunque neutrali ai tempi delle guerre persiane. Questa alleanza portò Atene in rotta di collisione con Sparta, di cui Argo era un'acerrima rivale per l'egemonia nel Peloponneso. All'esterno Atene impegnò la Lega in una difficile spedizione in Egitto in soccorso di una rivolta locale contro i Persiani, ma l'esito fu disastroso: nel 454 circa le truppe ateniesi furono circondate e totalmente sconfitte dai Persiani. Prendendo a pretesto questa disfatta per rianimare tra i Greci la paura di una nuova invasione persiana, Atene trasferì il tesoro federale dall'isola di Delo al Partenone, rafforzando così la propria egemonia all'interno della Lega. Intorno al 460 comparve sulla scena ateniese Pericle, capo del partito popolare. La sua azione politica si rivolse verso il rafforzamento delle istituzioni democratiche, alle quali avrebbero potuto accedere anche i cittadini delle classi meno abbienti. In politica estera accentuò l'egemonia ateniese all'interno della lega di Delo, trasformandola di fatto in un impero coloniale, controllato dalla sua potente flotta. Nell'età di Pericle la cultura e le arti ebbero un grande sviluppo: vissero in questo periodo i drammaturghi Eschilo, Aristofane, Euripide e Sofocle, i filosofi Aristotele, Platone e Socrate, gli storici Erodoto, Tucidide e Senofonte, il poeta Simonide e lo scultore Fidia. Guerra del Peloponneso La crescita della potenza ateniese entrò presto in conflitto con la Lega peloponnesiaca, guidata da Sparta. Un primo scontro tra le due città si concluse nel 445 con un pace trentennale, di poco posteriore alla pace di Callia, stipulata tra Atene e la Persia. Nel 431 iniziò la guerra vera e propria, interrotta dalla pace di Nicia del 421. Questa fase fu caratterizzata dalle annuali invasioni peloponnesiache dell'Attica che avevano l'obiettivo di costringere Atene alla resa distruggendo le sue campagne ed i suoi raccolti. Il progetto spartano fallì perché Atene si riforniva di grano via mare in Eubea e nel Mar Nero. Alle invasioni peloponnesiache gli Ateniesi risposero con sistematiche incursioni lungo le coste del Peloponneso, saccheggiando e devastando le terre degli Spartani e dei loro alleati. Neppure la peste del 430-428, durante la quale morì Pericle, riuscì a piegare Atene. Anzi, nel 425 gli Ateniesi guidati dal demagogo Cleone riuscirono a catturare 292 Spartani, tra cui 120 spartiati (l'élite politica e militare spartana), mettendo in grave difficoltà Sparta. Questa rispose nel 424 inviando nella Calcidica un esercito comandato da Brasida, il quale occupò la città di Anfipoli che rivestiva un'enorme importanza per Atene per via dei suoi boschi da cui gli Ateniesi traevano il legname per costruire la loro potente flotta. Lo storico Tucidide, allora comandante militare della regione, fu esiliato da Atene per non essere riuscito a difendere Anfipoli dall'attacco spartano. Nel 422 Cleone tentò di riconquistare la preziosa città, ma sia lui sia Brasida caddero in battaglia. Ormai stanche della guerra e private dei loro generali più bellicosi, Atene e Sparta stipularono la pace di Nicia nella primavera del 421 che pose fine alla prima fase della guerra del Peloponneso. Nel 418, Atene stipulò un'alleanza con le città di Argo, Elea e Mantinea con l'obiettivo di indebolire il controllo spartano sul Peloponneso, ma Sparta sconfisse l'esercito di Atene ed Argo nella battaglia di Mantinea. Alla vittoria spartana seguì il rovesciamento del governo democratico di Argo e l'instaurazione di un governo oligarchico filospartano, il quale però ebbe vita breve e già nel 417 ad Argo tornarono al potere i democratici riportando la città sulle sue tradizionali posizioni antispartane. Nel 415 Alcibiade riuscì a convincere gli Ateniesi a compiere un'ambiziosa spedizione in Sicilia con l'obiettivo di rendere tributaria l'isola rafforzando Atene nei confronti di Sparta e dei suoi alleati. A causa di rivalità interne, appena sbarcato in Sicilia Alcibiade fu richiamato ad Atene per difendersi dall'accusa di aver profanato i sacri Misteri Eleusini. Il generale ateniese, anziché consegnarsi alla propria patria per il processo, preferì cercare asilo presso gli Spartani in modo da poter vendicarsi dei suoi oppositori interni che lo avevano costretto all'esilio. Privata del suo comandante più valido, la spedizione ateniese si concluse nel 413 con un totale fallimento: l'esercito fallì l'assedio a Siracusa e fu quasi completamente annientato. Dopo la sfortunata spedizione ateniese contro Siracusa, numerosi alleati di Atene defezionarono e passarono dalla parte di Sparta. Quest'ultima ottenne inoltre l'alleanza ed il prezioso sostegno finanziario del Re di Persia grazie al quale poté armare una flotta con la quale mise in difficoltà Atene sul mare. Di fronte a questi gravi problemi, nel 411 ad Atene si impose un regime oligarchico che fu però rifiutato dai marinai, di fede democratica, della flotta ateniese di stanza nell'isola di Samo, i quali si proclamarono legittimi rappresentanti di Atene e richiamarono dall'esilio Alcibiade. Sospettato di trattare la resa agli Spartani, il governo oligarchico di Atene fu rovesciato ai primi del 410 fu restaurata la democrazia. Nonostante la distruzione del suo esercito in Sicilia, Atene riuscì ad armare nuovamente una flotta agguerrita con cui inflisse anche pesanti sconfitte agli Spartani, come nella battaglia di Cizico, nel 410, nella quale cadde anche il comandante spartano Mindaro. Nel 407 a Nozio, in Ionia, il generale spartano Lisandro sconfisse la flotta ateniese di Antioco, un luogotenente di Alcibiade cui era stato ordinato di non accettare battaglia dagli Spartani. Pur avendo disobbedito ad un ordine di Alcibiade, quest'ultimo fu ritenuto responsabile della sconfitta ed esiliato definitivamente. Nel 406 Atene vinse la flotta spartana presso le isoleArginuse, ma i comandanti ateniesi furono accusati di aver abbandonato i naufraghi e furono pertanto giustiziati. Per via di lotte intestine la città si privò in questo modo di un collegio di generali vittoriosi di cui in quel momento aveva un disperato bisogno. Nel 405 Lisandro sorprese la flotta ateniese presso Egospotami, sui Dardanelli e la distrusse completamente. In seguito alla sconfitta subita nella battaglia di Egospotami, Atene fu assediata e nel 404 fu occupata dagli Spartani, che vi instaurarono un governo oligarchico (regime dei trenta tiranni). Sparta impose inoltre la distruzione delle Lunghe Mura che congiungevano Atene al Pireo, lo scioglimento della Lega delio-attica e l'ingresso di Atene nella Lega peloponnesiaca. Pochi mesi dopo si arrese anche l'isola di Samo, ultima roccaforte ateniese nell'Egeo e la guerra poté dirsi conclusa. L'anno seguente, nonostante la grave crisi istituzionale ed economica, il regime democratico fu restaurato sotto la guida di Trasibulo di Atene. Egemonia di Sparta e Tebe La fine della guerra peloponnesiaca lasciò Sparta, che poteva contare sull'appoggio persiano, padrona della Grecia. La supremazia spartana fu, tuttavia, di breve durata, a causa del malcontento delle altre città per la politica filopersiana e per i contrasti socio-politici interni. Nel 401 Sparta inviò in Asia un corpo di 13.000 mercenari per sostenere Ciro il Giovane nel suo tentativo di rovesciare il fratello Artaserse II e salire così sul trono dell'impero persiano. Nella Battaglia di Cunassa Ciro fu sconfitto ed ucciso. I mercenari greci compirono un'avventurosa ritirata in Grecia narrata sa Senofonte nell’Anabasi. L'aiuto concesso da Sparta al ribelle Ciro fornì il pretesto al Re Artaserse II per rivendicare la sovranità sulle città greche dell'Asia Minore. Sparta rispose inviando un esercito sotto il comando del re Agesilao con il compito di difendere la libertà delle poleis asiatiche. Il Re sfruttò l'insofferenza delle città greche verso l'egemonia spartana ed inviò loro del denaro per finanziare una guerra contro Sparta in modo che quest'ultima fosse costretta a ritirarsi dall'Asia Minore. Nell'estate del 395 la guerra scoppiò e Tebe, aiutata da Atene, sconfisse ad Aliarto lo spartano Lisandro che rimase sul campo. In seguito a questa vittoria si formò un'alleanza tra Tebe, Atene, Argo e Corinto in funzione antispartana e, dal momento che la sede della lega era Corinto, il conflitto fu detto guerra corinzia. La guerra si concluse nella primavera del 387, con la "pace del re" o trattato di Antalcida, le cui clausole sancivano il dominio persiano sulle città dell'Asia minore e l'autonomia delle città greche della madrepatria. Sparta, che pure era designata come la paladina di tale pace, ne approfittò per rafforzare la propria egemonia sulle altre poleis. Nel 385 distrusse Mantinea, mentre nel 382occupò proditoriamente la rocca Cadmea di Tebe imponendo un regime filospartano. Nel 379 un gruppo di esuli tebani, tra i quali Pelopida, rovesciò il regime filospartano ed instaurò la democrazia a Tebe stringendo alleanza con Atene. Nel 378 lo spartano Sfodria tentò senza successo di occupare Atene con un blitz notturno, ma fu scoperto. L'incidente spinse Atene e Tebe a dichiarare guerra a Sparta. Nella primavera del 377 Atene fondò la Seconda Lega Navale in funzione antispartana e tornò ad essere una potenza navale. Nel 376 il generale Cabria sconfisse la flotta spartana a Nasso, liberando Atene dal blocco navale nemico. L'anno dopo, nel 375, il generale Timoteo sconfisse nuovamente la flotta spartana ad Alizia, dopodiché la marina spartana scomparve dai mari. Nel frattempo l'ascesa di Tebe preoccupò Atene, al punto da spingerla a riavvicinarsi a Sparta ormai indebolita. La distruzione di Platea ad opera dei Tebani nel 373 inimicò definitivamente Atene e Tebe. Nel giugno del 371 le parti in conflitto si riunirono a Sparta per una conferenza di pace, ma Tebe pretese di giurare (oggi diremmo "firmare") in nome di tutta la Beozia, in chiara violazione della Pace del Re che stabiliva il principio dell'autonomia delle poleis. Ne seguì un nuovo conflitto tra Sparta e Tebe che si concluse con la sconfitta spartana nella battaglia di Leuttra del luglio 371. Il risultato della battaglia sancì la fine della supremazia di Sparta, costretta a sciogliere la Lega peloponnesiaca, e l'affermazione di Tebe come potenza egemone in Grecia. Atene si schierò apertamente con Sparta per contenere l'ascesa di Tebe. Negli anni seguenti, sotto la guida del generale Epaminonda, i Tebani invasero più volte il Peloponneso: nell'inverno 370/369 assediarono la stessa Sparta senza riuscire ad occuparla, mentre nell'estate del 369 staccarono la Messenia dalla Laconia, infliggendo un durissimo colpo alla potenza di Sparta che da quasi quattro secoli dominava la Messenia. Nel 367 Epaminonda riuscì per breve tempo ad ottenere l'alleanza dell'Acaia sottraendo la regione all'influenza spartana, ma in seguito l'arroganza tebana portò alla rottura dell'alleanza. Contemporaneamente, il generale Pelopida rafforzava l'egemonia di Tebe in Tessaglia combattendo contro il tiranno Alessandro di Fere. L'egemonia tebana durò fino a quando furono vivi i suoi due generali di maggior spicco, Pelopida ed Epaminonda. Il primo cadde in battaglia nel 364, mentre il secondo invase nuovamente il Peloponneso nel 362 rimanendo sul campo di battaglia di Mantinea, che pure fu una vittoria per Tebe su Ateniesi e Spartani alleati. Come rileva Senofonte, dopo tale battaglia, in Grecia, si verificò tutt'altro che un consolidamento dell'egemonia di Tebe vincitrice almeno sulla carta, ma aumentò solamente la confusione nelle relazioni diplomatiche, in quanto nessuna polis era più in grado di emergere sulle altre, mancando i due generali Pelopida e Epaminonda che fino a quel momento ne avevano deciso indirettamente l'andamento diplomatico. 2b Un’applicazione archeologica sull’isola di Tinos: il sito di Xobourgos Nel 1939 furono scoperti un intero corpo di pithi decorati in rilievo ed un arcaico insediamento esteso e fortificato lungo il fianco meridionale delle rocce granitiche della collina di Xobourgos. Vennero alla luce anche un cimitero del periodo Classico e un complesso di edifici che fu immediatamente identificato come un santurio di Demetra, più specificatamente come un Thesmophorion. Xobourgos è un sito di difesa naturale , al centro della parte meridionale dell’isola di Tinos. La collina, che consiste in una imponente rocca granitica, si alza ad un’altitudine di 557 metri, e dalla sua cima la vista spazia sui più importanti collegamenti viari dell’isola e su gran parte delle sue coste. Il sito presenta inoltre dei fertili terrazzamenti lungo il pendio sud-orientale, ed un buon apporto di acqua dal terreno. È facile capire, quindi, perché la collina fu scelta come sito del castello medievale durante l’occupazione veneziana, e come insediamento principale durante i difficili anni della Prima Età del Ferro (1050-700 a.C.). Il sito presenta un muro di fortificazione del periodo Arcaico che si collega ad un precedente circuito di muratura ciclopica. Gli scavi hanno portato alla luce pratiche di culto della Prima Età del Ferro precedentemente sconosciute. Secondo l’evidenza archeologica, il sito sembra essere stato abitato subito dopo la fine dell’ Età del Bronzo, quando gli abitanti degli insediamenti costieri, minacciati dai pirati, si spostarono nell’entroterra verso luoghi più protetti: siamo intorno al 1110 a.C. Quest’area fu quindi inizialmente pensata come luogo di difesa, e per questo si costruì un enorme muro ciclopico, parti del quale tuttora esistenti. Il muro racchiudeva una piccola area estesa su due terrazzamenti del pendio meridionale del complesso roccioso. Simili muri esistono a partire dalle ultime fasi del mondo Miceneo nella Grecia continentale, ed in qualche insediamento del breve Medioevo Ellenico cretese: essi racchiudono aree definite “siti di rifugio”. A Xobourgos il muro ciclopico si estende, lungo i due terrazzamenti, sul più alto pendio accessibile della collina. Parti di questo muro sopravvivono lungo il bordo occidentale dei due terrazzamenti racchiusi, ma dopo intensive analisi superficiali dell’area è stato possibile identificare la continuità del circuito anche lungo i bordi meridionali e orientali del complesso. Il blocco di roccia verticale sul lato nord del sito incrementa le sue caratteristiche difensive, andando a costituire un’area altamente fortificata. La scelta di un sito isolato e dal difficile accesso, circondato da un massiccio muro di fortificazione, è la più tipica caratteristica degli insediamenti di rifugio costruiti nella fase di declino del mondo minoicomiceneo, durante gli anni travagliati che seguirono la distruzione dei palazzi. Xobourgos rappresenta un’importante fonte per comprendere meglio questo periodo, essendo uno dei pochi siti di questo tipo al di fuori di Creta. Di particolare interesse è anche la cava di pietra, identificata dai segni degli attrezzi di escavazione sulla roccia granitica, sul confine del lato settentrionale dell’area fortificato dalle mura ciclopiche. Le cave di granito sono estremamente rare nell’Egeo, e l’esempio di Xobourgos offre interessanti informazioni riguardo agli utensili e alle tecniche di escavazione del granito nella Prima Età del Ferro. Lungo il terrazzamento del lato meridionale, recenti scavi hanno portato alla luce parti di un muro di fortificazione del periodo Arcaico, sovrapposto in tempi successivi ad alcuni fossi più arcaici destinati al focolare, ad un’urna funeraria, ad una eschara (luogo del focolare) e ad altre costruzioni della Prima Età del Ferro. Queste più antiche costruzioni sono apparentemente contemporanee alla parte -non scavata- nordorientale del muro ciclopico, e da esse si può dedurre l’esistenza di un importante complesso di culto che era in uso dall’inizio delle Dark Ages (Medioevo Ellenico, 1100 a.C.) fino alla metà dal VII secolo. La pratica di questo culto consisteva nell’accensione di un fuoco in piccole o grandi aperture rettangolari, nelle quali venivano gettate offerte. Il rituale era concluso con il lancio nel focolare di una pila di massi con il compito di estinguere il fuoco. Un’interessante caratteristica di questo rituale era l’utilizzo frequente di un grande ciottolo colorato: esso era la pietra finale aggiunta al piccolo tumulo di sassi formatosi sul fuoco, a completezza di tutta la dinamica ruotante attorno al focolare. Ciottoli più piccoli erano gettati in ogni orifizio cultuale del terreno, apparentemente come sostituti dell’acqua di mare e del suo carattere purificante. Queste“pire a fossa” venivano recintate in gruppi da dieci all’interno di specifici muri perimetrali: per ora sono venuti alla luce quattro recinti di questo tipo, la maggior parte dei quali giace nello strato sotto il livello del circuito del muro ciclopico del Periodo Arcaico. Questo impressionante complesso religioso fu costruito dalla popolazione che affidava la sua protezione al muro ciclopico, e rappresenta uno dei più vividi aspetti delle attività religiosa della Dark Age conservata nelle Cicladi e forse nell’intero Egeo. Tutte le costruzioni di quest’area di culto, inclusi i focolari, i tumuli di pietra e i recinti, sono ben conservate. I focolari, scavati nella roccia viva, e i piccoli tumuli di pietra vennero sepolti nella terra per creare una superficie piana su cui in seguito verrà costruito il muro Arcaico. I focolari più antichi possono essere datati, grazie al ritrovamento di frammenti di ceramica Attica al loro interno, al Periodo ProtoGeometrico (X secolo a.C.). Tali orifici sono disposti all’interno di recinti in pietra ben costruiti, subito a Sud del punto in cui probabilmente si apriva il portale del muro ciclopico. Anche oggi il sentiero passa per questa antica apertura. La parte orientale del Complesso Principale Leggermente più a Est si trova un altro recinto che racchiude alcuni larghi pozzi risalenti al Periodo Geometrico. Due o tre di queste aperture sono collegate tra loro attraverso stretti canali, formando così unità distinte. I muri di recinzione e i focolari collegati indicano che anche qui erano praticate attività di culto, e mostrano come la complessa struttura della società di Xobourgos, nel Periodo Geometrico, fosse di tipo tribale. Tra i focolari fu trovata un’urna funeraria; questa indica che le attività cultuali praticate in questo distaccamento erano direttamente relazionate al mondo dei morti e possono avere avuto anche un carattere funerario. Le offerte trovate all’interno dei focolari comprendono frammenti di ceramica, pesi per telai e vari oggetti di metallo: coltelli e pugnali di bronzo, spade di ferro e altri oggetti di mestieri maschili; ma anche gioielli, come spille e fibule, suggerendo la presenza di donne presso il santuario. I focolari erano marcati in antichità o da un grande masso o -più frequentemente- da una piccola lastra rotonda che veniva usata come tavolo per le offerte (altare). Il punto focale dell’attività di culto di quest’area consisteva in un grande cuore rettangolare del tipo meglio conosciuto come eschara. Ossa di animali e frammenti di paioli in ceramica trovati nella eschara indicano che un’importante passaggio del rituale consisteva nella consumazione del pasto. La eschara, definita da lastre di scisto sui quattro lati, conteneva al suo centro il pozzo-pira (focolare) colmo di cenere bianca. Un enorme deposito di cenere con ossa bruciate e ceramiche rotte, trovato nei pressi della eschara, mostra la continuità del suo utilizzo lungo il Periodo Geometrico. Di fronte alla eschara si trova una lunga panchina. Altri piccoli focolari intorno al focolare centrale sottolineano l’estrema importanza del fuoco nelle attività di questo luogo sacro. Ceramica del Tardo Periodo Geometrico trovata nel livello superiore alla eschara indica il terminus ante quem della costruzione del focolare: entro il 750 a.C. circa. Il Secondo Recinto Scavi eseguiti più a Est rispetto al deposito di cenere portarono alla luce altri gruppi di focolari scavati nel terreno, circondati da recinti rettangolari ben costruiti che chiudono le rispettive zone su tre lati, con il quarto lato, quello settentrionale, chiuso dalla roccia verticale. L’entrata di questi recinti è sul lato orientale, dove un sentiero conduceva ad una massiccia porta, come ne suggerisce ancora oggi la soglia. Al centro del passaggio sorge un focolare sormontato da una pietra circolare usata come altare. Dentro il recinto vi sono anche altri focolari, scavati direttamente nella roccia, ad eccezione di uno che risulta essere appoggiato sulla roccia e definito nella sua circolarità da una serie di piccole pietre. Al centro del recinto si trova un focolare poco profondo trovato colmo di cenere bianca, con una pietra verticale al centro, avente l’aspetto di un baetyl (cippo). Presso il muro di fondo del recinto venne trovato un deposito di vasi contenente semi di fagioli. Il recinto è stato datato, grazie alla ceramica ritrovata, tra l’ultimissima fase del Periodo Geometrico e l’inizio del VII secolo. Non è chiaro se il recinto avesse avuto una copertura o meno: i focolari suggeriscono uno spazio all’aria aperta. Ma la grande soglia e pezzi di metope di ceramica ivi trovati fanno pensare all’esistenza di un tetto. Appare, quindi, come l’utilizzo dell’area con il focolare precedette un piccolo edificio a tempio del VII secolo. Il Terzo Recinto Più a Est, lungo il terrazzamento, è stata scoperta un’altra interessante costruzione. Al suo interno si trova una coppia di focolari, i quali ebbero due distinte fasi di utilizzo. I due pozzi furono originariamente scavati nella roccia stessa vicino al muro di contenimento, mentre il terreno della stanza venne pavimentato con lastre di scisto per formare un percorso conducente ai focolari. Al centro di quest’area lastricata, un incavo nel suolo contiene una grande pietra circolare, che doveva essere usata come tavolo per le offerte, a giudicare dai resti di conchiglie rotte di murex truncullus rinvenute nei pressi. Nei focolari gemelli è stata trovata della ceramica risalente al Tardo Periodo Geometrico. Fra i ritrovamenti figurano anelli d’ossa, pesi per telai in terracotta, oggetti di metallo, molte pentole e vasi di pregio importati dalla vicina isola di Paros. Qualche frammento di ceramica attica del Tardo Geometrico rinvenuto nella cenere testimonia l’importanza dei due focolari gemelli e del loro carattere sacro. È interessante il fatto che entrambi i focolari a pozzo fossero stati chiusi in superficie da tumuli di pietre contenenti un sasso bianco l’uno, e un sasso nero l’altro. I due focolari gemelli caddero apparentemente in disuso per qualche tempo, poiché sopra di essi giaceva uno strato di terra di 40 centimetri. L’area fu di nuovo utilizzata in seguito, con l’apertura di una nuova coppia di pire a pozzo, sempre affiancate, le quali vennero considerate monumentali, come mostra un recinto in pietra attorno ad ognuna di esse. Uno dei due recinti contiene anche una pietra-altare, mentre l’altro una strana stele. Il rituale qui praticato era esattamente uguale a quello degli altri focolari del sito: l’accensione di un fuoco nell’apertura, la deposizione di offerte al suo interno, e quindi il consumo di un pasto sacrificale, evidenziato dalle ossa di animali rinvenute. La maggior parte delle ossa proviene da pecore e capre, ma anche da uccelli e bovini. Questi focolari sono quindi una testimonianza di un rituale molto particolare basato sull’utilizzo del fuoco, praticato a Xobourgos durante la Prima Età del Ferro. Pire a pozzo sacrificali sono state scoperte solo in poche altre isole, come Naxos e Amorgos. Ad ogni modo, in nessun altro sito delle Cicladi o altrove è stato trovato un complesso di focolari così ben conservato, per di più all’interno di recinti contenenti eschara, più tardi sostituiti da edifici simili a templi, come suggerito dalle metope di argilla. Il Thesmophorion Non è chiaro chi fosse il destinatario del culto del santuario di Xobourgos. Un aiuto ci è giunto dal ritrovamento di un altro eschara all’interno del Thesmophorion. Questo edificio consiste in un santuario eretto pochi metri più a Est rispetto agli altri edifici, fuori dal principale cancello di accesso all’insediamento Arcaico. Questo santuario fu identificato come un Thesmophorion nel 1995. La parte scavata consiste di quattro unità architettoniche affiancate, ma probabilmente il complesso era anticamente più esteso su entrambi i lati. La parte centrale del santuario consiste in un piccolo edificio a tempio pavimentato con un mosaico di ciottoli (II). A una distanza di pochi metri a Ovest del tempio vi è un altare (I), mentre sul lato a Est si trova un eschara (III). Questo complesso dall’aspetto sacro è affiancato su entrambi i lati corti da una serie di stanze. All’interno della cella del tempio vennero trovate alcune lampade e delle placche d’argilla con rilievi di protomi femminili, assieme a frammenti di vasi attici rappresentanti il graffito Δ : è stato dedotto che qui veniva praticato il culto della dea dell’agricoltura Demetra, protettrice della donna e della famiglia. L’analisi della muratura del Thesmophorion fa risalire l’edificio al Periodo Classico. Ad ogni modo, i ritrovamenti all’interno dell’edificio includono un certo numero di pithoi in rilievo del Tardo Geometrico del periodo Orientaleggiante. La maggior parte di questi è decorata con soggetti mitologici e offre un ricco corpus di alcune tra le prime scene figurative dell’arte greca. Studi più approfonditi sui ritrovamenti e sulla struttura dell’edificio suggeriscono che il santuario visse più di una fase di attività religiosa. La fase più antica riguarda lo eschara ed i pithoi in rilievo, quando il complesso doveva essere soltanto un santuario all’aperto con il culto accentrato attorno al focolare. Dal momento che tutti i ritrovamenti hanno come oggetto di rappresentazione una divinità femminile, la cui versione successiva è stata identificata con la dea Demetra, è lecito supporre che la prima inquilina del santuario fosse l’antica “Grande Dea Madre”. L’adozione delle divinità olimpiche nell’Egeo fu graduale, al punto che alcuni dèi, fra cui Demetra stessa, non furono introdotti nel nuovo Pantheon prima della fine del VII o addirittura del VI secolo. Fino ad allora, il ruolo e le caratteristiche della Grande Dea aveva inglobato quelle di altre dèe come Artemide o Atena. Durante la Prima Età del Ferro, le divinità femminili che presero il posto della Dea Madre vennero raffigurate in modi simili fra loro, ossia come “Potniai” (“Padrona”, “Signora”), spesso come dèe alate affiancate da animali simboleggianti la natura e i cicli della vita. La maggior parte dei più antichi pithoi a rilievo rinvenuti a Xobourgos rappresenta in un modo o nell’altro una “Potnia”, e sono attribuiti con ogni probabilità al primo santuario del focolare a cielo aperto. Il Muro Nei Periodi Arcaico e Classico l’insediamento di Xobourgos, nato come sito-rifugio, crebbe di dimensione e il suo abitato si espanse al di fuori delle mura ciclopiche. Alcune trincee rivelano la presenza di case lungo tutto il lato sud-orientale delle pendici della collina, mentre più in basso, ai piedi del colle, è venuto alla luce un cimitero del Periodo Classico. Un piccolo edificio del Periodo Arcaico situato all’interno delle mura fu restaurato in Periodo Classico, età in cui ospitò funzioni pubbliche. All’alba del VI secolo a.C. l’insediamento di Xobourgos, denominato “Polis” nelle iscrizioni, era il centro principale dell’isola. In questi anni suoi abitanti costruirono un nuovo muro di fortificazione, il muro detto Arcaico, per affrontare la minaccia dell’immanente invasione persiana nell’Egeo. La costruzione del muro Arcaico iniziò presso le pendici sud-orientali della collina, dove si erano diffusi i nuovi quartieri residenziali. In rigorosa adesione al bordo del terrazzamento, il muro correva in direzione Nord-Ovest, per unirsi colà al muro ciclopico, di modo che la fortificazione potesse comprendere sia l’antico che il nuovo insediamento. Avvenne così che l’area sacra posta a Sud-Ovest del muro ciclopico venne sacrificata per la costruzione del nuovo circuito difensivo. I focolari, le eschara e le altre costruzioni sacre vennero sepolti per poter realizzare il muro sopra di essi. Nonostante lo scavo per le fondazioni del muro Arcaico distrusse parte dei santuari, il complesso rimase in massima parte ben conservato sotto lo strato di terra, che lo coprì fino ai nostri giorni. 2c IL PROFILO STORICO DI NAXOS ATTRAVERSO L’ANTICO SANTUARIO DI GIROULA A SANGRI’ Un interessante santuario si trova sulla cima di una piccola collina circondata dalla valle di Sangrì, nel centro-ovest di Naxos. Questa piccola e fertile valle è sempre stata una delle aree di Naxos più favorevoli allo sviluppo di insediamenti. Nel periodo Arcaico un importante santuario crebbe sulla cima di questa collina per l’adorazione di divinità associate alla fertilità della terra. L’odierno tempio di marmo, costruito intorno al 530 d.C., rappresenta uno stadio cruciale nello sviluppo dell’architettura classica. Prima dell’inizio degli scavi, una piccola chiesa dedicata a San Giovanni, costruita con pietre antiche, testimoniava la presenza di una ben più lunga storia. Nella regione circostante, infatti, sono state trovate tracce di piccoli insediamenti antichi. Lo spazio del santuario, rialzato sopra la pianura che giunge fino al mare, era definito da pietre verticali che delimitavano l’area sacra. Al suo interno, sono state trovate lame di ossidiana e ceramica del periodo miceneo che però non sembra avesse avuto una funzione religiosa. Gli elementi trovati indicano che la pratica di adorazione ha avuto origine intorno all’800 a.C.. Nei tempi antichi in questa valle una popolazione agricola viveva sparsa in piccole unità (VEDI IMMAGINE). Nell’VIII secolo a.C., un culto di divinità della terra (divenute poi Demetra e Kore) era praticato sopra la collina, per assicurare la fertilità della terra circostante. Questo centro religioso e il suo culto formarono il legame essenziale che univa gli sparsi abitanti in una comunità sociale e politica. L’attività del culto originario (IN MARRONE NELLA TAVOLA) aveva luogo all’aria aperta, su una combinazione di terrazze naturali e artificiali, dove furono aperti pozzi per le offerte ed eretti recinti temporanei e capanne. Offerte ad Apollo dalla fase più antica indicano l’intenzione degli abitanti della valle di essere associati alla divinità ionia di Delos al tempo della loro integrazione nel sistema sociale della emergente città stato ionica di Naxos. Intorno al 530 a.C., durante la tirannia di Lygdamis (essa stessa conseguenza delle rivolta della popolazione rurale), l’area di Giroula era particolarmente prosperosa, e nel suo centro religioso fu costruito un tempio interamente in marmo (IN NERO NELLA TAVOLA). Il tempio, dedicato a Demetra e ad Apollo, era frequentato dalla popolazione agropastorale della campagna di Naxos, mentre altri abitanti avevano come riferimento il tempio di Apollo a Delos. Le offerte a Febo avevano luogo presso il tempio di Demetra per esprimere l’orientazione sociale della popolazione agricola e la loro opinione politica. Lygdamis incrementò l’opposizione esistente tra popolazione agricola e popolazione urbana. Egli fece costruire il tempio di Apollo presso Hora (l’attuale Portara) e nel 530 a.C. il tempio di Giroula. Questo tempio presenta un carattere rurale, con connotati architettonici… Era un edificio rettangolare, con ecc ecc VEDI CARTELLO. L'angolo ovest della facciata è stato fondato in proposito, sulla roccia di uno dei pozzi per le offerte dell'adorazione primitiva, operazione significativa in cui l’offerta alla divinità della fertilità è in continuità con la tradizione precedente, ponendo l’edificio in un punto stabile e purificato. Per la costruzione dell'edificio è stata utilizzata un'impalcatura, di cui sono stati trovati i fori nella roccia ad intervalli regolari intorno al tempio. Il punto più pericoloso delle fondazioni era quello dell'angolo ovest; presso tutti i punti critici delle fondazioni sono state trovate tracce di sacrifici per propiziare il buon successo dell’opera. Ci fu continuità nell'adorazione della divinità sotterranea, attraverso le offerte presso i pozzi sacri. Poco dopo l'erezione del tempio, venne aperto un profondo pozzo rettangolare per le offerte. L'attività' venne concentrata presso questo invaso, mentre i pozzi più antichi sono stati collegati a quello nuovo attraverso dei canali, oppure sono caduti in disuso. Dopo il III secolo a.C. il tempio vive un periodo di declino: sotto l'occupazione romana, parte dell'edificio del tempio viene abbattuto. Con l'avvento del Cristianesimo a Naxos, il tempio viene trasformato in chiesa (IN GIALLO NELLA TAVOLA). In una prima fase l'edificio non subì grandi cambiamenti, mentre più avanti vive un’importante ricostruzione. Il cortile divenne un nartece laterale; fu aperta un’entrata sul lato ovest; tre navate furono create nel sekos da un doppio colonnato, e l’edificio fu esteso sui lati sud ed est. A questa seconda chiesa venne aggiunto, sul lato meridionale, un piccolo monastero che utilizzava il grande pozzo rettangolare come spazio centrale. Venne annesso un secondo complesso di spazi per l'ingresso. Alle stanze meridionali fu infatti aggiunto un cortile circolare e, più a sud, altri in cui sono stati ritrovati resti di utensili per la produzione della ceramica, del vino e dell’olio. Queste installazioni erano operative dal VI al’VIII secolo d.C. e la vita di tutto il complesso monacale termina in tale periodo. L’adorazione, ad ogni modo, continua con la piccola chiesetta di San Giovanni costruita nell'abside della vecchia chiesa, intorno al suo altare. Nel 1977, con l'inizio degli scavi archeologici, la chiesa venne trasferita nel posto attuale. RITROVAMENTI Non ci sono stati numerosi ritrovamenti per due motivi: 1. l'edificio subì un cambiamento radicale con la costruzione della basilica; 2. il territorio è stato oggetto di coltivazione fino agli anni moderni. - ascia in ossidiana del periodo 5300-3200 a.C. parte di un oleificio in marmo protocicladico (non ci sono verifiche a riguardo) presenza verificata dell'ultima fase del periodo miceneo (1200-1050 a.C.) e del periodo Geometrico verificata pratica di adorazione continua ed intensa dal periodo postgeometrico (730) in poi, con ceramica tipica di Naxos abbandono del sito nell'VIII secolo d.C. a causa di pirati che hanno portato, nelle Cicladi, alla diminuzione dei territori sotto il controllo dell'impero bizantino Hestia e Hermes: spazio chiuso e spazio aperto Come abbiamo visto, tra il 1100 e il 700 a.C., la vita degli abitanti dell’arcipelago Cicladico era basata essenzialmente sull’autarchia economica e produttiva. La tecnica di recingere i terreni mediante muri a secco per un intelligente sfruttamento dei pascoli era ormai assodata da diverse generazioni. Un abitante dell’isola di Amorgos molto probabilmente si sentiva ereditario di una conoscenza pratica che accompagnava l’uomo dall’inizio dei tempi. Era una vita semplice ma faticosa e, come in ogni cultura contadina, il sapere pratico era quotidianamente messo in gioco nella gestione delle proprie risorse. Le famiglie, organizzate in piccolissime comunità (anche mono-famigliari), vivevano in un piccoli gruppi di costruzioni cubiche dalla semplicità quasi preistorica: edifici a pianta quadrata o rettangolare con una porta, realizzati con pietre a secco, con il tetto in pietra o in legno ricoperto di terra e sassi, senza pavimento. La vita era essenzialmente all’aperto. Intorno alle costruzioni, piccoli recinti delimitavano gli spazi delle attività stanziali, che necessitavano di essere nei pressi del costruito: la tosatura delle pecore, la mungitura delle capre,la filatura delle vesti, la macinatura del raccolto. La lana veniva raccolta in vasche di pietra rettangolari, così come il mosto, mentre i semi dell’orzo e del grano venivano disposti sul pavimento di pietra di un’aia circolare delimitata da piatte pietre verticali. Al suo interno, veniva fatto camminare in cerchio un bue i cui zoccoli macinavano i grani. Nei pressi della casa venivano anche piantati fichi e melograni. Questo spazio raccolto, in cui le distanze erano minimizzate il più possibile per risparmiare fatica, era il luogo di vita e di lavoro della donna. Relazionata, come spesso accadeva, nell’ambito della casa e dei lavori domestici, la donna si occupava di tutti i lavori manuali che non richiedevano grandi spostamenti, ma che venivano spesso praticati sull’uscio di casa o a presso il focolare. Intorno a questo piccolo addensamento di spazi, si apriva in tutte le direzioni un paesaggio più ampio. Delle lunghe vie dipartivano dall’insediamento, delimitate sui due fianchi da muretti a secco. Lungo questi percorsi, grandi recinzioni – sempre in muratura a secco – delimitavano aree di terreno più vaste, collegate da strette aperture. In alcuni di questi recinti pascolavano le pecore o le capre, mentre altri venivano lasciati senza animali per la ricrescita dell’erba e degli arbusti. Altri recinti, più contenuti, ospitavano piantagioni di ulivi e di viti o campi di orzo, ed erano spesso terrazzati a causa della costante montuosità dei terreni. Lungo questi sinuosi tracciati si spostavano gli uomini, dediti alla gestione e alla conduzione degli animali. Rocce, recinti, prati, terreni incolti, aree boschive, uliveti: gli uomini spaziavano senza limite al di là dell’orizzonte delle case, in compagnia degli animali e dei venti estivi. Diversissimi erano i suoi compiti, e il continuo spostamento lungo le vie o da un recinto all’altro era quotidiano. Due diversi tipi di vita per due diverse scale di spazio. Uno: chiuso e confinato attorno al focolare domestico, saldo, sempre presente, base sicura in cui conservare gli approvvigionamenti. L’altro: disperso, sconfinato, variabile, sempre dinamico, fatto di aperture e di chiusure, di passaggi stretti e di dilatazioni spaziali. È un forte dualismo quello che caratterizza l’esperienza della spazialità nell’Egeo di 3000 anni fa. Gli abitanti del 1000 a.C., che abbiamo prima immaginato spartirsi i lavori tra uomo e donna, insegneranno le rispettive tecniche ai loro figli. Così era successo prima di loro e così succederà in seguito, per generazioni e generazioni. L’esperienza che questi vivono, in un dualismo di cortili raccolti e direttrici sconfinate, è per loro una chiave di lettura che definisce ontologicamente lo spazio intorno a loro. Per essi, infatti, ciò che costituisce l’ordine del loro mondo diviene una legge integrante dell’universo cognitivo con cui interpretano il cosmo tutto. Nella concezione degli antichi greci, lo spazio chiuso dei lavori domestici e lo spazio aperto delle greggi sono spazi reali, ordinati, sono forme fondanti. ----------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------Sul piedistallo della grande statua di Zeus ad Olimpia, Fidia aveva rappresentato i dodici dei. Tra il Sole e la Luna, le dodici divinità, raggruppate a due a due, si ordinano in sei coppie: un dio - una dea. In questa serie di otto coppie divine, ce n’è una che costituisce un problema: Hermes - Hestia. Perché appaiarli? Non c’è niente nella loro genealogia, né nella loro leggenda, che possa giustificare questa associazione. L’Associazione Hermes - Hestia, regolare nell’arte plastica, ha in realtà un significato propriamente religioso, ed esprime una struttura ben determinata del pantheon greco. Nell’Inno omerico a Hestia la dea viene invocata assieme ad Hermes, e i due esprimono sentimenti di affinità: “Entrambi abitate nelle belle dimore degli uomini che vivono sulla superficie della terra, con sentimenti di mutua amicizia”. Tale associazione risponde ad una affinità di funzione: le due potenze divine, presenti negli stessi luoghi, svolgono, l’una accanto all’altra, attività complementari. Essi sono entrambi in relazione con lo spazio terrestre, con l’abitato di un’umanità sedentaria. Vediamo in primo luogo il significato che gli antichi greci davano a queste due figure. Che Hestia – nome proprio della dea, ma anche nome comune designante il focolare - risieda nella casa, è cosa naturale: in mezzo al mégaron quadrangolare, il focolare miceneo, di forma rotonda, segna il centro dell’abitato umano. Il focolare circolare, fissato nel suolo, è come l’ombelico che permette alla casa di radicarsi nella terra. E’ simbolo e pegno di fissità, di immutabilità, di permanenza. In quanto punto fisso, centro a partire dal quale lo spazio umano si orienta e si organizza, Hestia, per i poeti e i filosofi, potrà identificarsi con la terra, immobile al centro del cosmo. Hermes è legato anche lui ma in modo diverso all’abitato degli uomini e più generalmente alla distesa terrestre. Contrariamente agli dei lontani che risiedono in un aldilà, Hermes è un dio vicino che frequenta questo mondo. Egli rappresenta, nello spazio e nel mondo umano, il movimento, il passaggio, il mutamenti di stato, le transizioni, i contatti tra elementi estranei. Colui per il quale non esistono né chiusura, né recinto, né confine: “Scivola obliquamente attraverso la serratura, simile alla brezza autunnale, come la nebbia”. Egli è presente anche presso l’entrata delle città, sul confine degli stati, agli incroci delle vie (Hermes Trikephalos, Tetrakephalos), lungo le piste, per segnare la strada (Hermes Hodios), sulle tombe, le porte che aprono l’accesso al mondo infernale. Dio errante, padrone delle strade, sulla terra e verso la terra: egli guida, in questa vita, i viaggiatori. Guida il coro delle Charites, introduce una dopo l’altra le stagioni, fa passare dalla veglia al sonno, dal sonno alla veglia, dalla vita alla morte, da un mondo all’altro. Presente in mezzo agli uomini, Hermes è allo stesso tempo inafferrabile, ubiquitario, non è mai là dov’è, appare improvvisamente per scomparire. I diversi tratti che compongono la fisionomia del dio sembrano ordinarsi meglio quando lo si considera nei suoi rapporti con Hestia. Se per la coscienza religiosa dei greci le due divinità costituiscono una coppia è che esse sono situate sullo stesso piano, che la loro azione si applica allo stesso campo del reale, che esse assumono delle funzioni connesse. Il ruolo di Hestia consiste nel troneggiare, perennemente immobile, al centro dello spazio domestico. Ciò implica, come elemento solidale ed opposto, Hermes, il dio veloce che regna sullo spazio del viaggiatore. A Hestia l’interno, il chiuso, il fisso, il ripiegarsi del gruppo umano su se stesso; a Hermes l’esterno, l’apertura, la mobilità, il contatto con l’altro da sé. Si può dire che la coppia Hermes-Hestia esprima, nella sua polarità, la tensione esistente all’interno della rappresentazione arcaica dello spazio: lo spazio esige un centro, un punto fisso, dotato di valore privilegiato: è la casa rurale, dove vive e presiede la donna e dove si conservano i prodotti; a partire da esso si possono orientare e determinare delle direzioni, tutte diverse qualitativamente; ma lo spazio si presenta contemporaneamente come luogo del movimento, il che implica una possibilità di transizione e di passaggio da qualsiasi punto a qualsiasi altro: è l’ambito dell’uomo pastore e agricoltore, conduttore delle greggi, in contatto con l’esterno. Il pensiero religioso dei greci taglia e ordina i fenomeni distinguendo diversi tipi di agenti, confrontando e contrapponendo forme di attività. In questo sistema, lo spazio e il movimento non sono ancora individuati come concetti astratti. Rimangono impliciti, perché fanno corpo con altri aspetti del reale più concreti e dinamici. Se Hestia appare capace di “centrare” lo spazio, se Hermes può “mobilizzarlo”, è perché essi presiedono, come potenze divine, a un complesso di attività che concernono, certo, la sistemazione del suolo e l’organizzazione dello spazio, ma che, in quanto praxis, hanno costituito la cornice entro la quale si è elaborata, nella Grecia arcaica, l’esperienza della spazialità. Possiamo riconoscere tra il fisso e il mobile, il chiuso e l’aperto, il dentro e il fuori, una polarità che non soltanto si attesta nel sistema delle istituzioni domestiche, ma si scrive addirittura nella natura dell’uomo e in quella della donna. Questa stessa polarità la ritroviamo a livello delle potenze divine, in una struttura del pantheon. Nè Hermes, nè Hestia, possono essere posti isolatamente. Essi assumono le loro funzioni sotto forma di una coppia: l’esistenza dell’uno implica l’esistenza dell’altro, sono opposti e complementari, in tensione tra loro. Rigonfiamento del suolo o pietra ovoidale, l’omphalos, in raporto con la terra, rappresenta allo stesso tempo un punto centrale, una tomba, un serbatoio di anime e di vita. La parola omphalos designa, a parte l’ombelico, il cordone ombelicale che lega il bambino alla madre. Occorre notare il significato religioso di certe forme geometriche. Come l’omphalos - e contrariamente allo “Hermes quadrangolare”- il focolare di Hestia è rotondo. Si può ritenere che il cerchio caratterizzi in Grecia le potenze ctonie ed insieme femminili, legate all’immagine della Terra-Madre che racchiude nel suo seno i morti, le generazioni umane e le crescite vegetali. Hestia rimane associata a un tipo di costruzione a forma di rotonda. In contrasto con l’aria aperta dell’esterno - splendente di sole e di luce durante il giorno, oscurata da una paurosa opacità durante la notte - , lo spazio del focolare, femminile e ombroso, implica, nel chiaroscuro dei carboni accesi, sicurezza, tranquillità e perfino una mollezza indegna dello stato virile. Nelle pitture vascolari, la regola vuole che i personaggi femminili si oppongano a quelli maschili come pelle bianca a pelle bruna. La casa, come la terra e come la donna, riceve e fissa nel suo seno le ricchezze che l’uomo vi porta. Nel recinto della dimora albergano anche i beni domestici che possono esservi concentrati, immagazzinati, conservati. L’oikos ha una tendenza alla tesaurizzazione: questa tendenza si manifesta, già nell’età micenea, attraverso la costituzione di riserve alimentari immagazzinate nelle giare del celliere e l’accumulazione di beni preziosi, chiusi nei forzieri dei thalamos. Nell’ambito di una economia distributiva, ogni casa appare legata ad un lotto di terra, separato e differenziato, ogni focolare familiare vuole poter disporre pienamente del suo spazio patrimoniale, da cui trae il suo sostentamento e che lo distingue dagli altri gruppi domestici. Tesoro e greggi si oppongono tra di loro, sul piano dei valori economici, così come l’interno e l’esterno, il fisso e il mobile, il recinto domestico e lo spazio aperto dell’agròs. Ciò che i Greci chiamano agròs, è per opposizione al mondo della città, alla casa e perfino ai campi coltivati, l’ambito pastorale, i terreni destinati al percorso, lo spazio libero dove si conducono le bestie e dove si cacciano gli animali selvatici, la campagna lontana e selvaggia, animata dalle greggi. Del resto, la parola che designa il bestiame, pròbaton, significa, propriamente, ciò che cammina, si sposta. La formula keimèlia te kaì pròbasis (che esprime, attraverso l’antinomia di keìmai, “giacere”, e di probainò, “avanzare”, il duplice aspetto della fortuna considerata nel suo insieme) sottolinea chiaramente il contrasto tra la ricchezza che “giace” nella casa e quella che “cammina” nella campagna. Seguendo la strada già percorsa da Detienne e Vernant, abbiamo lasciato il campo delle pure rappresentazioni religiose e abbiamo orientato la nostra indagine verso le pratiche sociali a cui gli dei appaiono legati da rapporti di interdipendenza. Si può dire che questo insieme di pratiche istituzionali, che gravitano attorno al focolare posto come centro fisso, traducono un aspetto dell’esperienza arcaica dello spazio presso i Greci. In quanto costituiscono un sistema di condotte, regolato e ordinato, esse implicano un’organizzazione mentale dello spazio. Nella visione degli abitanti delle isole dell’Egeo, ai valori spaziali legati a un centro, immobile e chiuso su sé stesso, corrispondevano regolarmente i valori opposti di una distesa aperta, mobile, tutta percorsi, contatti e transizioni. Spazio chiuso e spazio aperto diverranno, da pure esperienze pratiche, delle categorie valorizzate, sacralizzate e, infine, concettualizzate. Acropoli “dei coltelli” Introduzione al capitolo 4 All’inizio del VI secolo a.C., in Grecia, il pensiero astronomico non poggia ancora su un lungo seguito di osservazioni ed esperienze; non si appoggia ad una radicata tradizione scientifica. Le poche conoscenze astronomiche non le hanno elaborate loro, ma le hanno prese dai paesi vicini del Vicino Oriente, in particolare dai Babilonesi. Dunque ci troviamo davanti al paradosso seguente: i Greci fonderanno la cosmologia e l’astrologia; daranno loro un orientamento che deciderà la sorte di queste discipline per tutta la storia dell’Occidente. Eppure non erano stati loro a dedicarsi, da secoli, ad un lavoro minuzioso d’osservazione degli astri, a scrivere su tavolette, come hanno fatto i Babilonesi, effemeridi segnalanti le fasi della luna, il sorgere ed il tramonto delle stelle. Perché i Greci hanno situato i saperi presi da altri popoli in una intelaiatura nuova ed originale? L’astronomia babilonese, molto sviluppata, possiede tre caratteri fondamentali: 1) Resta integrata ad una religione astrale. Per esempio essi sono convinti che a seconda della posizione di Venere, per loro la dea Ishtar, il destino degli uomini si svolgerà in un senso o nello’altro. Osservando il cielo, essi possono penetrare le intenzioni degli dèi. 2) Coloro che hanno il compito di osservare gli astri appartengono alla categoria degli scribi. Questi lavorano al servizio del re per elaborare un calendario religioso che detterà i momenti in cui il re dovrà compiere i suoi riti. 3) Quest’astronomia ha un carattere essenzialmente aritmetico. I Babilonesi possono prevedere empiricamente un’eclissi, ma non si rappresentano i movimenti degli astri nel cielo secondo un modello geometrico. L’astronomia, presso di loro, non è proiettata in uno schema spaziale. Su questi tre punti, l’astronomia greca segna, fin dall’origine, una frattura radicale. C’è, in Talete, Anassimandro, Anassimene, uno sforzo di spiegare l’ordine dell’universo in modo positivo e razionale, senza il minimo riferimento a divinità o a pratiche rituali. Anassimandro scrive: “ed è lecito pensare che quello che a noi appare come l’alto costituisca, per gli abitanti degli antipodi, il basso, e quel che forma la nostra destra per loro si trovi a sinistra”. In altre parole, le direzioni dello spazio non hanno più un valore assoluto. La struttura dello spazio, al centro della quale risiede la terra, è di tipo veramente matematico. Alla luce di queste considerazioni, viene spontaneo domandarsi il motivo per cui in un periodo di tempo relativamente breve – meno di cent’anni – diversi sapienti greci abbiano saputo trarre così avanzate ed interessanti conclusioni di tipo matematico e geometrico, quali quelle di Pitagora ed Euclide. Inoltre, come abbiamo visto, il contesto in cui viveva la popolazione greca all’alba del VII secolo a.C. presentava da un lato la formazione della struttura della polis, con le sue assemblee, i suoi mercati e le sue colonie; dall’altro però era ereditaria di una cultura millenaria di pesca, agricoltura e pastorizia. Anzi, quest’ultima era la pratica predominante all’interno di un’economia di autosufficienza durante i lunghi e travagliati secoli dei periodi Geometrico ed Arcaico, quando cioè si adagiarono lentamente sulle sponde dell’Egeo le diverse stratificazioni culturali delle popolazioni e delle civilizzazioni qui giunte. Durante questi anni di sedimentazione, gli abitanti dell’Ellade si trovarono tagliati fuori dal mondo del Medio Oriente. Sono anni di chiusura, di interruzione dei lontani traffici, e , soprattutto, anni in cui queste tribù di pastori trovarono dentro la loro attività e la loro stessa vita quotidiana gli elementi strutturali di un nuovo pensiero panellenico. Questa lacerazione conteneva in potenza la grande scissione culturale del futuro, quella tra Oriente e Occidente. + scuola francese + carmelo ottaviano 5. Metis, intelligenza intuitiva, prima del logos filosofico. La percezione e l’assunzione del paesaggio, “l’altro da sé”, nel proprio pensiero e nella propria interpretazione del reale, si sosteneva al primo punto, può essere costitutivo della persona e del pensiero. Ora si analizzerà se può divenire parte integrante di una civiltà e di una filosofia. Sono debitore agli studi di Marcel Detienne e Jean-Pierre Vernant (8) della comprensione di una Grecia che attraverso le fasi preliminari dell’intelligenza intuitiva, della prassi, dei mestieri, della pesca, dell’artigianato, costruirà il pensiero, i miti, la logica della filosofia. Per l’avanzamento degli studi sulle realtà concrete, sono fondamentali le analisi condotte dai due studiosi francesi, non sulle formulazioni circa il logos, non sulle razionali definizioni della filosofia (anche se ampiamente citate per approfondire l’origine dei termini) ma sulle connessioni tra mito, mestieri, osservazione della natura, per recuperare come e dove siano state coniate, dall’osservazione, le parole ed abbiano avuto origine le formulazioni ed il sistema del pensiero. Per fare qualche esempio di questo metodo, riprendo da “Le astuzie dell’intelligenza nell’Antica Grecia ”, capitolo IV.9, dove si spiega perché Efésto abbia i piedi storti e sia zoppo. La potenza di Efèsto viene sottolineata dal privilegio di una direzione doppia e divergente: per dominare le potenze mutevoli e fluide come il fuoco, i venti, il minerale, con i quali il fabbro deve misurarsi, l’intelligenza e la Métis di Efésto devono essere più mobili e polimorfe e racchiudere in sé le virtù dell’obliquo e del curvo: virtù possedute in sommo grado dal granchio (che cammina storto e la cui forma é quella della tenaglia, strumento principe del fabbro) e dalla foca, quei mostri per metà immersi nell’elemento marino, con il quale la metallurgia dei Greci sembra aver stretto anticamente rapporti profondi. Riprendiamo un altro esempio, particolarmente efficace, nel cap. IV.8 del testo citato: “Tra le espressioni che la lingua greca utilizza per rendere la nozione di tramare, progettare meditare, ce ne sono alcune che fanno appello a immagini di caccia e di pesca: s’intreccia un’astuzia (métin plékein) come si fabbrica, intrecciando, una nassa o una trappola da caccia; si ordisce un piano (metin uphainein) come si tesse una rete da pesca o da caccia. Ma c’è una terza espressione che fa concorrenza alle prime due: costruire un’astuzia, tektainésthai métin. Tektainésthai è un verbo che designa la lavorazione del legno e l’attività del carpentiere. Si medita e si costruisce un’astuzia come si dispongono i differenti pezzi di legno che costruiscono la trappola o lo strumento dell’inganno. Tale è precisamente il famoso cavallo di Troia: contemporaneamente astuzia di guerra, ispirata a Ulisse da Atena, e strumento di legno, fabbricato da Epeo con l’aiuto della stessa divinità. Nella nave come nel carro, prodotti e strumenti dell’intelligenza di Atena, una sola è la métis all’opera, che concepisce e fabbrica essa stessa gli arnesi che realizzano i suoi progetti ” (9). Non mi risulta che Detienne e Vernant si siano occupati delle attività dei contadini, ai tracciati dei muri a secco sul terreno, ai disegni geometrici che questi infiniti muri hanno impresso ai luoghi per dividere, ripartire ordinatamente, rendere utile la parzializzazione di un tutto precedentemente uniforme ..... Eppure anche da questa realtà concreta ha origine un pensiero geometrico, una applicazione circa l’unità e la parte, una serie di considerazioni per cui possiamo ritenere che quel primo disegno impresso alle superfici del mondo fisico che quotidianamente si vive, definisca luoghi di applicazione di pensiero, speculazione, filosofia. 6. Intuizioni e prassi mentali dall’antico paesaggio agro-pastorale greco. Il paesaggio della pastorizia si forma per assolvere a necessità funzionali. Le pietre vengono rimosse e accatastate per dar spazio all’erba; ma le pietre sono la struttura, le ossa della terra: il primo criterio imposto ai luoghi è di riordino, gli elementi analoghi vengono messi insieme. La civiltà cretese-micenea viene a noi con le pietre costruite, sovrapposte e combacianti, del sepolcro di Micene, ma queste forme vengono centinaia d’anni più tardi rispetto al raccogliere i sassi e metterli su uno stesso mucchio. Sono operazioni da tempi lunghi, lenti, disposizioni che valgono per secoli e per millenni. E’ lecito trasferire questo gesto del mettere insieme le pietre all’intuizione che analogamente si mettono insieme i pensieri di uno stesso genere ? Cioè si inizia a catalogare ? Vengono formati recinti per racchiudere i gruppi di animali; da un recinto si forma il passaggio ad un altro recinto per la conta delle bestie e per l’opportunità dei tempi di sfruttamento delle singole porzioni di terreno; la successione degli spazi recintati viene a formare il bordo di un percorso. Il percorso, definito da due muri paralleli, organizza gli spazi a scala più ampia; i percorsi s’incrociano formando angoli retti oppure impreviste, diverse, angolazioni. L’estensione dei campi recintati sembra occupare tutto il pendio a vista d’occhio, ma c’è sempre un oltre, che è discontinuo rispetto alla realtà definita dalle suddivisioni. Questi ed altri infiniti pensieri hanno origine nell’osservare le superfici su cui è stata estesa la prima, elementare, colonizzazione umana. Vengono costruiti terrazzamenti dove le esigenze per seminativi e alberi richiedono un pendio meno scosceso: anche questo è lavoro di muri in pietra a secco con cui si formano dislivelli, si suddividono altezze, di realizzano collegamenti verticali, sperimentando l’intervento in uno spazio a tre dimensioni. Di questo mondo, solo accennato, restano, nelle terre d’impronta greca, i segni primordiali tracciati per imprimere una logica di lavoro di pastorizia, tra nomadismo pre-neolitico e pastorizia sedentaria, ancor prima delle colture. Poi si viene meglio stabilizzando l’agricoltura, definendo un tempo che ha le cadenze lente dell’anno. A questi accenni di proiezioni storiche si unisce l’esperienza diretta, attuale, di questi spazi: capre o pecore addossate contro un muro in un angolo d’ombra, silenziose ti guardano con occhi attoniti, comunicandoti, per immedesimazione, un attonito spavento. Le capre rimuovono le pietre e fanno brecce nei muri. I muri aperti rimangono così per anni e il varco viene occluso con rovi secchi e legni: è il tempo per riflettere su una realtà che sembra definitiva ma non lo è. Parallela alla definizione geometrica degli spazi ed alla ripartizione razionale delle superfici, nell’osservazione di queste definizioni sempre inadeguate, fa breccia la percezione della discontinuità del tempo e dello spazio. Questo tema della discontinuità, antitesi inquietante ad ogni definizione apollinea nella cultura greca, è tema caro ad Ottaviano, un fronte fecondo del suo pensiero (10). E’ significatvo che il capitolo Nono de “La Tragicità del reale”, capitolo sul quale nell’introduzione Ottaviano invita il lettore a soffermarsi con attenzione, sia stato intitolato “Spazio e tempo come lo “sboconcellamento” dell’individuo”. Allora possiamo supporre che la “malinconia” giunge a filo diretto dal paesaggio, dalla inadeguatezza di quell’impronta umana sul mondo, fissata, ma mai completa, in quel disegno organizzatore delle terre. Nella esperienza diretta dei paesaggi dell’antica Grecia, ove il silenzio o solamente il vento accompagna lo sguardo che perlustra linee infinite di muri e pietre, mulattiere di sassi tra pareti di sassi, a chi compare in questi silenzi si è portati a chiedere, come in un testo dei tragici greci “O voi che incedete, ditemi, siete uomini o dei?” Ma è solo l’intensità assorta di quel paesaggio di proiettate geometrie che trasforma il nostro sentimento rispetto ad altri viventi. Quanto il pensiero greco sia formato da quei paesaggi si è solo provato ad accennare e supporre; è un settore aperto ad indagini simili a quelle condotte su altri aspetti da Detienne e Vernant. La nascita della geometria come speculazione del pensiero, nelle terre greche di Sicilia, non può essere estranea alla costante presenza di un paesaggio tutto tracciati e suddivisioni, grande foglio aperto per quei disegni che noi pensiamo si traccino solo sulla carta. Pitagora e la sua scuola sono da pensare all’interno di un quotidiano universo cognitivo composto da forme geometriche impresse ai terreni lavorati. Ma da questa geometria nasce un’attitudine razionale e logica, pianificatoria e programmatoria della realtà pensata. Nello stesso tempo, assieme agli aspetti logici vi sono quelli di impressioni emotive che da questi paesaggi scaturiscono, essi pure fondamenti di filosofia. PAGINA 7 VEDI 2500 2400 1800 1570 Civiltà Micenea ETA’ DEL RAME Civiltà Proto Elladica 2100 2000 1450 1200 1000 go ra an dr o 146 39 0 ETA’ DEL BRONZO Dori, Ioni, Etoli, Beoti, Tessali, Magnesi Civiltà Greca Età del Ferro P. Geometrico lingua: ? provenienza: Anatolia scrittura: nessuna 323 lingua: proto- ellenica provenienza: nord dei Balcani e Asia scrittura: (geroglifica) Lineare B, appresa dai cretesi lingua: dialetti pre-ellenici provenienza: nord dei Balcani e Asia? scrittura: nessuna Civiltà Cicladica Al es s 600 + 760 Pi ta 850 + on e do io So l 2800 3000 Es er o 1000 Om a 1100 Gu er ra di Tr oi 3000 Romani lingua: ellenica provenienza: nord della Grecia scrittura: (alfabetica) greca, mutuata dai fenici Arcaico Classico Ellenistico ETA’ DEL RAME Dori, Ioni, Etoli, Beoti, Tessali, Magnesi Civiltà Greca Età del Ferro Popoli ellenici Civilità Micenea Età del Bronzo lingua: proto-ellenica provenienza: nord dei Balcani e Asia scrittura: Lineare B, appresa dai cretesi Civilità Minoica Età del Rame Età del Bronzo lingua: cretese provenienza: ? scrittura: (geroglifica) Lineare A e lineare B Antico Minoico Popoli ellenici Civilità Micenea Medio M. Nuovo M. vedi sopra Età del Bronzo P. Geometrico Romani lingua: ellenica provenienza: nord della Grecia scrittura: (alfabetica) greca, mutuata dai fenici Arcaico Classico Ellenistico