mentalità etica - Dipartimento di Sociologia e Ricerca Sociale

I DE E › STRATEG I E › I N NOVAZ ION E
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aprile 2007 n.4
ITALIA
La mentalità
Far mostra di elevati principi
non basta. Per esserne all’altezza,
e aiutare gli altri a fare altrettanto,
occorre un’impronta mentale
che porti a mettere in pratica
i propri principi con costanza.
A colloquio con lo psicologo HOWARD GARDNER
etica
LA MENTALITÀ ETICA
La mentalità
etica
Far mostra di elevati principi
non basta. Per esserne all’altezza,
e aiutare gli altri a fare altrettanto,
occorre un’impronta mentale
che porti a mettere in pratica
i propri principi con costanza.
A colloquio con lo psicologo HOWARD GARDNER
© Harvard Business Review
S
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e siete a capo di una grande azienda, non aspettatevi di essere amati dal grande pubblico.
L’opinione pubblica ha oggi un atteggiamento
quanto mai ostile nei confronti dei grandi manager, a
causa delle loro elevatissime retribuzioni, delle continue
tornate di licenziamenti e dei comportamenti immorali
tenuti dagli alti dirigenti di imprese come la Enron, la
WorldCom e la Hewlett-Packard. In un sondaggio condotto dal Roper Center nel 2005, il 72% degli intervistati ha dichiarato di credere che nel mondo degli affari
i comportamenti scorretti siano molto diffusi. Soltanto il
2% ha detto di considerare «degni di fiducia» i manager
delle grandi imprese; nel 2004 tale percentuale era il 3
percento. Secondo Kathy Sheehan, senior vice president
della GFK Roper Consulting di New York, questa tendenza «non dà segni di miglioramento». Intanto il pubblico richiede sempre più insistentemente che le società
si prendano più cura dei loro dipendenti, della comunità e dell’ambiente.
Oggi più che mai i business leader hanno l’onere di
recuperare le relazioni con i clienti e i dipendenti, assumendo un comportamento moralmente responsabile; è
questa l’opinione di Howard Gardner, John H. and
Elisabeth A. Hobbs Professor of Cognition and
Education alla Graduate School of Education di
Harvard, Massachussets. Gardner è un influente psico-
logo specializzato in scienze cognitive e pedagogia, non
in filosofia etica. Ma nella sua veste di psicologo,
Gardner ritiene che il suo primo compito sia quello di
capire come si sviluppino – o perché non si sviluppino
– le facoltà morali ed etiche dell’individuo. Le sue
riflessioni sull’etica hanno fondamenti profondi e una
portata molto ampia. Nell’influente saggio Formae
mentis, pubblicato per la prima volta nel 1983, Gardner
ha esposto l’autorevole teoria secondo la quale gli individui possiedono non una, ma molte varietà di intelligenza: linguistica, logico-matematica, spaziale, cinestetica, musicale, interpersonale e intrapersonale. Questa
teoria, che lo stesso Gardner continua a perfezionare,
ha riscosso grande successo presso la comunità scolastica, al punto che gli insegnanti di tutto il mondo
hanno preso ad adattare le lezioni ai diversi tipi di
intelligenza.
Gardner ha cominciato a interessarsi personalmente
di questioni etiche quando ha notato il modo in cui le
sue idee venivano strumentalizzate dagli educatori:
alcune scuole e alcuni politici sostenevano infatti che a
certi gruppi etnici e razziali mancassero alcuni tipi di
intelligenza. In quanto fondatore di questa teoria,
Gardner si è sentito moralmente obbligato a denunciare tali interpretazioni distorte del proprio lavoro.
Successivamente, dopo aver cominciato a tenere un
UNA VOCE FUORI DAL CORO
corso intitolato «Mente, cervello e istruzione», ha iniziato a riflettere sui dilemmi etici sollevai dai test intellettivi e psico-attitudinali; ad esempio, sul fatto se sia
opportuno rivelare ai genitori eventuali risultati preoccupanti di questi test, soprattutto quando non esistono
interventi correttivi di dimostrabile efficacia.
Le principali idee di Gardner sulla mentalità etica
emergono da più di dodici anni di ricerche condotte su
manager e professionisti; fin dal 1995, insieme ai suoi
team di ricercatori provenienti da quattro università,
Gardner studia il modo in cui le persone aspirano a fare
un buon lavoro, cioè, un lavoro di alta qualità che sia
rilevante per la società, migliori il tenore di vita degli
altri e sia svolto secondo principi etici. I ricercatori
hanno anche osservato direttamente il modo in cui queste aspirazioni vengono intaccate da forze culturali,
economiche e tecnologiche. (Per maggiori informazioni
su questo progetto, si veda www.goodworkproject.org).
Nel suo nuovo libro, Five Minds for the Future (che verrà
pubblicato dalla Harvard Business School Press nel
2007), Gardner ragiona sui fattori necessari per sviluppare una mentalità etica. In questa intervista rilasciata
a Bronwyn Fryer, senior editor di HBR, Gardner riflette su cosa i manager debbano fare per formulare e mantenere elevati standard di comportamento per se stessi
e per le proprie imprese.
Che cos’è una mentalità etica?
Se pensiamo alla mente come a un insieme di capacità
cognitive, può essere utile distinguere la mentalità etica
dalle altre quattro mentalità che bisogna coltivare per
avere successo come individui, come comunità e come
razza umana. La prima di queste, la mentalità disciplinata, si acquista applicandosi con costanza agli studi
scolastici. Nel tempo, e con una formazione adeguata,
si acquisiscono conoscenze specialistiche in una particolare disciplina: project management, contabilità,
musica, odontoiatria, ecc. Il secondo tipo è la mentalità
di sintesi, che ci permettere di passare in rassegna una
pluralità di fonti di informazione, decidere cosa sia
importante e meritevole di attenzione, e riassumere in
modo coerente questa informazione per se stessi e per
gli altri. (Per approfondire questo argomento, si veda in
questo numero l’articolo «Le idee di HBR»). La terza
mentalità, quella creativa, va alla ricerca di nuove idee
e nuovi modi di fare, innovando, rischiando e facendo
scoperte. L’importanza di queste mentalità è riconosciuta da tempo; tuttavia, esse assumono un peso cru-
ciale in un’epoca in cui siamo bombardati dalle informazioni e in cui si cerca di automatizzare tutto ciò che
può essere automatizzato.
C’è poi un altro tipo di mentalità, dall’aspetto meno
puramente cognitivo delle prime tre, che è la mentalità
rispettosa: quel tipo di apertura mentale che cerca di
comprendere e instaurare relazioni con gli altri esseri
umani. Un individuo con una mentalità rispettosa ama
venire a contatto con diversi tipi di persone; e benché
non sia disposto a perdonare tutto, concede agli altri il
beneficio del dubbio.
La mentalità etica allarga il rispetto per gli altri a un
concetto più astratto. Chi ha una mentalità etica si
domanda: «Che tipo di persona, di lavoratore e di cittadino voglio essere? Se tutti coloro che svolgono il mio
stesso lavoro adottassero una mentalità analoga alla
mia, o se tutti si comportassero come me, in che tipo di
mondo vivremmo?»
È importante chiarire la distinzione tra la mentalità
rispettosa e la mentalità etica, perché siamo naturalmente portati ad assumere che un individuo rispettoso
sia anche etico, e viceversa. In realtà, credo si possano
assumere atteggiamenti rispettosi senza capire perché: i
bambini, ad esempio, rispettano i genitori e i nonni perché così è stato loro insegnato a fare. Ma le concezioni
e i comportamenti etici richiedono una certa capacità di
trascendere la propria esperienza individuale. Dopo
aver sviluppato una mentalità etica si diventa come uno
spettatore imparziale del proprio gruppo di lavoro,
dell’azienda, della cittadinanza e del mondo. E si può
essere costretti a sacrificare il rispetto per un’altra persona, se il proprio ruolo di cittadino o lavoratore impone di attuare una strategia di riduzione del danno per
proteggere un’idea o un’istituzione nella quale si crede.
Chi denuncia comportamenti scorretti dimostra di
possedere una mentalità etica. Vedendo un alto dirigente commettere un’azione immorale, molti preferiscono non far nulla, per timore di perdere il posto di
lavoro e perché convinti di dover portare rispetto ai
propri superiori. Chi, invece, trova il coraggio per
denunciare mette da parte queste preoccupazioni e
valuta la natura del lavoro e il significato di comunità in
una prospettiva più ampia. Queste persone si sforzano
di sollevarsi mentalmente al di sopra delle preoccupazioni quotidiane, perché hanno giurato fedeltà all’azienda o alla professione; esse si comportano in maniera etica anche quando, così facendo, rischiano di compromettere la relazione di reciproco rispetto con i propri superiori e, in ultima analisi, il posto di lavoro le
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LA MENTALITÀ ETICA
relazioni con i colleghi. Chi denuncia è disposto a questo sacrificio perché ritiene che il proprio benessere
momentaneo sia molto meno importante della missione che si è chiamati a svolgere.
Sembra dunque che la mentalità etica sia molto
più incentrata sul concetto di comunità che le
altre quattro. Se è vero, allora come si sviluppa la
mentalità etica?
Un orientamento etico nasce in famiglia, quando i bambini osservano i genitori fare con orgoglio il proprio
lavoro, comportarsi «correttamente», concedere ad
altri il beneficio del dubbio e così via. I bambini assorbono i valori religiosi e politici dei genitori. Crescendo,
invece, sono sottoposti alle pressioni dei loro pari,
soprattutto negli Stati Uniti. Altrettanto influente è il
comportamento della comunità circostante verso i propri cittadini. La società si prende cura dei giovani e
degli anziani? Oltre ai servizi necessari, esistono eventi
Il ruolo dell’etica in un mondo complesso
di Angelo Deiana*
>> Credo che sia difficile non essere d’accordo con Howard Gardner, e proverò a spiegarne sinteticamente i
motivi. È avvenuto un profondo cambiamento del sistema economico: è tramontato il modello dello sfruttamento meccanico di capitale e lavoro tipico del periodo industriale, e l’uomo ha ora un posto centrale nel business
perché la conoscenza che detiene è sempre più il fattore
produttivo dominante, il driver fondamentale dell’innovazione e della capacità competitiva di ogni organizzazione
produttiva.
Il nuovo capitalismo «intellettuale» si sviluppa e cresce
sulle capacità tecnologiche, sul valore economico dell’intangibile e, soprattutto, sulle persone. È la sintesi finale, la
simbiosi vincente, la saldatura degli orizzonti tra uomo ed
economia: adesso più che mai è strategico promuovere la
crescita del capitale umano sulla base del fondamentale
principio etico per cui «ottenere un successo significa
aver prima ottenuto il successo degli altri».
Ma tutto questo ha avuto un prezzo: l’intangibilità della
conoscenza e la rinnovata centralità dell’uomo sono vantaggi competitivi, ma anche fattori di grande criticità e di
possibili distorsioni nella gestione manageriale. Il tema
della «mente etica» suggerito da Gardner è dunque particolarmente importante in un’epoca come la nostra che,
in alcuni casi, tende a smarrire i propri «fondamentali» di
responsabilità economica e morale.
Si tratta di un incrocio complesso dove emerge un forte
bisogno di ripristinare un meccanismo di governo etico
dei sistemi, alla base del quale va posto un nuovo modo
di pensare: tale modo non deve essere «imparato» solo
attraverso processi formativi dedicati ma, come ci se-
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gnala con acume Gardner, va «tramandato» dal leader ai
suoi collaboratori/dipendenti attraverso l’esempio quotidiano generato dall’etica «dei e nei» comportamenti, ovvero chiedendosi ogni giorno che tipo di esempio si possa essere nei confronti degli altri. Non è il semplice
rispetto di una regola, ma l’analisi critica della comunità
a cui si appartiene, la capacità di staccarsi dalle incombenze operative quotidiane e di analizzare le risposte
delle persone agli stimoli e agli imprevisti che ne caratterizzano l’attività.
Molto facile a dirsi, molto meno facile a farsi, soprattutto
per chi deve governare un business attraverso la capacità di motivare le risorse, sapendo generare partecipazione e consenso anche attraverso l’osservanza di principi
etici. E tutti noi sappiamo bene come raggiungere questo obiettivo sia più difficile nei momenti di «crisis management», quelli nei quali i comportamenti etici vengono
drammaticamente schiacciati dal più pragmatico «business is business».
Se si può tentare una definizione sintetica, non si tratta di
identificare ma di inventare il ruolo dell’etica nella complessità, cioè in una rete di rapporti e di relazioni dinamiche (spesso confuse) che vanno accettate come componenti di rischio di cui si è «eticamente» responsabili.
Bisogna comprendere che non si possono trarre «regole»
dalla complessità, e che ci si deve assumere il rischio etico
delle scelte, con un’assunzione di responsabilità non solo
per gli effetti intenzionali, ma anche per gli effetti inintenzionali delle scelte stesse.
A un’etica della «normalità», cioè dell’adesione a norme
di comportamento predefinite, si contrappone l’etica del
UNA VOCE FUORI DAL CORO
sociali e culturali ai quali partecipare e dai quali
apprendere? I genitori prendono parte in queste attività che fanno da «collante», e si aspettano che i propri
figli facciano altrettanto?
Il mio esempio preferito di comunità etica è una cittadina chiamata Reggio Emilia, nell’Italia settentrionale. Oltre a erogare servizi di alta qualità e promuovere
iniziative culturali per i propri cittadini, l’amministrazione cittadina fornisce ottimi asili nido e strutture prescolastiche. I bambini sentono che la comunità si pren-
rischio responsabile, un’etica di tipo antropocentrico direbbe Gardner, basata sulla consapevolezza che le nostre scelte devono essere eticamente fondate sulla convinzione delle azioni che tali scelte presuppongono, e
legittimate dall’assunzione a proprio carico di tutti gli effetti, anche di quelli non desiderati. È per questo - ci fa
riflettere Gardner – che in una fase sempre più orientata
a performance esasperate, è fondamentale richiamare
valori che re-inventino una leadership di ampio respiro
etico finalizzata a confrontarsi con un’ampia varietà di
stili gestionali, anticipando le esigenze e coinvolgendo i
collaboratori attraverso l’esempio nei comportamenti.
Esercitare leadership in questa dimensione significa
poggiare il proprio riconoscimento di ruolo sul valore
fornito all’organizzazione attraverso un processo etico di
gestione manageriale. Ed è proprio un simile approccio
in termini di «ethical mind» che consente di trovare un
punto di equilibrio nello «shareholder’s/stakeholder’s dilemma» tipico del momento attuale, la necessità cioè di
dosare equamente la soddisfazione degli shareholder (il
risultato di breve) e quella degli stakeholder (il risultato
più il patrimonio uguale il valore).
Una responsabilità manageriale volta ad esaltare una
delle virtù innegabili di una vera economia di mercato: la
pari competizione tra una corretta (vorrei definirla etica)
pluralità di modelli valoriali: tali modelli rappresentano
una ricchezza di persone, di conoscenza e di esperienze
a cui un sistema socio-economico aperto non può e non
deve rinunciare. E comunque nessuno può vivere il proprio nomos individuale e la propria etica professionale/manageriale senza correlarsi alla complessità di questo contesto.
Ma, se l’etica è continuità tra flusso etico individuale e
collettivo, dove si trova questo punto di equilibrio?
Ognuno di noi deve adattare al mondo la propria etica
individuale? Non credo: il sistema dei valori personali di
ciascuno di noi è comunque irrinunciabile sia in termini
di umanità che d’intelligenza. Esiste allora un’etica gene-
de cura di loro; così, crescendo, restituiscono queste
attenzioni prendendosi a loro volta cura degli altri,
diventando bravi lavoratori e bravi cittadini. Gli standard di comportamento sono così elevati che è raro
imbattersi in un lavoro scadente, dal punto di vista etico
o qualitativo. In questi casi la comunità reagisce secondo principi etici, ostracizzando il lavoratore compromesso (di fatto, se non per legge) in modo che egli non
possa mettere in pericolo le consuetudini della comunità. Questo atteggiamento funziona nella misura in cui
rale? Anche qui non credo che esista un’etica che vada
bene per tutti. Esiste un’etica religiosa, capitalistica, democratica, eccetera, ossia esistono sistemi di valori collettivi ma non sistemi di valori assoluti: per cui o si appartiene a un sistema e, dunque, si ha l’etica di quel sistema,
o non vi appartiene e dunque non vi si può aderire. Non
c’è quindi una soluzione? I pessimisti rispondono negativamente. D’altro canto è comodo non avere soluzioni
perché si può agire in maniera «totalmente» relativistica,
applicando ai singoli contesti il modus operandi che in
quel momento è più utile in termini opportunistici.
In questo senso credo che i suggerimenti di Gardner siano fondamentali: il concetto di «mente etica» che si confronta quotidianamente con altre «menti» è l’unico che
può dare senso all’impegno sia di reductio ad unum delle
singole etiche individuali, che di incrocio matriciale con
le grandi etiche di sistema (organizzativo, manageriale,
professionale, democratico che sia).
Bisogna dunque ragionare in modo diverso, consapevole
dell’esistenza di un sistema guidato da un’intelligenza
economica distribuita e complessa, che va vissuta e affrontata sulla base di valori eticamente rigidi e di un’ampia flessibilità operativa. Altrimenti si rischia di finire come quell’importante manager inviato a risanare la
situazione della sua multinazionale in un Paese del terzo
mondo che, dopo mesi di «tagli, sangue e sudore», durante una conferenza stampa di presentazione dei risultati conseguiti, fu raggiunto da una domanda gelida:
«Ma lei dorme la notte?» gli chiese una giornalista. «Come un bambino», rispose il manager di getto. Poi fece
una pausa e, fra lo stupore generale, aggiunse: «Mi sveglio ogni tre ore e piango». <
*Angelo Deiana è Responsabile Mercato Private Gruppo
Monte dei Paschi di Siena e Presidente del Comitato
Scientifico COLAP (Coordinamento delle libere associazioni professionali).
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LA MENTALITÀ ETICA
tutti capiscono che tutti traggono beneficio da questo
tipo di comportamento.
impresa è compromessa; gli individui diffidano l’uno
dell’altro. Reggio Emilia sembra lontana anni luce.
Che cosa può intralciare la mentalità etica?
Purtroppo, anche se si cresce con un forte senso etico,
il cattivo comportamento degli altri può indebolirlo.
Secondo uno studio condotto recentemente dalla Duke
University, il 55% degli studenti dei corsi MBA negli
Stati Uniti dichiara di copiare agli esami, una percentuale senza pari tra gli studenti di corsi post-laurea.
Uno studente MBA molto ambizioso, vedendo i compagni di corso copiare, può essere portato a credere che
questo comportamento scorretto sia il prezzo da pagare per il successo; oppure può essere indotto a fare
altrettanto, perché «così fan tutti». Lo studente in questione può addirittura arrivare a pensare che il comportamento etico sia un lusso per pochi. In uno studio del
2004 abbiamo scoperto che i giovani professionisti, benché consapevoli dell’importanza di comportarsi correttamente, sono spesso convinti di dovere avere successo
a tutti i costi; molti hanno dichiarato di essere pronti a
diventare lavoratori esemplari soltanto dopo avere raggiunto una buona affermazione professionale.
La tentazione di aggirare le considerazioni etiche è
oggi particolarmente forte, soprattutto presso le giovani leve del business. Viviamo in un’epoca in cui gli individui e le imprese sono continuamente chiamati a prendere scorciatoie, a perseguire i propri interessi e a trascurare gli effetti del proprio comportamento sugli
altri. Inoltre, molti uomini e donne d’affari hanno fatto
propria l’idea di Milton Friedman, secondo il quale il
perseguimento dell’interesse personale e il libero funzionamento dei mercati danno luogo a conseguenze
morali ed etiche positive. Non sta a me mettere in discussione il potere e i benefici del mercato. Ma i mercati sono a-morali; il confine tra ritoccare i guadagni e
commettere una truffa vera e propria non è sempre
netto. Il rabbino capo del Regno Unito, Jonathan
Sachs, l’ha detto chiaramente: «Quando si può comprare e vendere tutto ciò che conta, quando si può venire
meno a una promessa perché non è più vantaggioso
rispettarla, quando lo shopping diventa una salvezza e
gli slogan pubblicitari la nostra litania, quando il valore
dell’essere umano è misurato in base a quanto guadagna e quanto spende, allora vuol dire che il mercato sta
distruggendo proprio quei valori dai quali egli stesso
dipende nel lungo periodo». La fiducia nell’attività di
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Pensa quindi che gli uomini e le donne d’affari
abbiano maggiori difficoltà ad aderire a una mentalità etica rispetto ad altri professionisti?
Sì, perché il business, in senso stretto, non è e non è mai
stato una professione. Le professioni si evolvono nell’arco di molti anni, e gradualmente sviluppano codici
deontologici e meccanismi di sanzione contro coloro
che violano il codice. I veri professionisti, come i medici, gli avvocati e gli architetti, si sottopongono un duro
percorso di formazione e ottengono poi l’abilitazione
alla professione. Se non si comportano secondo gli
standard stabiliti per la loro categoria, possono essere
radiati dall’albo. L’apprendistato, inoltre, è una parte
importante delle professioni sottoposte a regolamento:
uno studente di medicina lavora a fianco del caporeparto o del primario, che funge anche da modello di
comportamento etico. Nel mondo degli affari non esiste un sistema di questo tipo; chiunque può aprire
un’impresa, senza aver bisogno di un’abilitazione. Gli
unici requisiti richiesti nel mondo degli affari sono la
capacità di far soldi e il rispetto delle leggi. Anche se si
intraprende questa attività con elevati principi etici è
facile abbandonare la retta via, perché gli standard professionali sono facoltativi e non parte integrante dell’attività. Certo, molti uomini d’affari si comportano in
modo professionale, poiché sentono su di sé l’obbligo di
servire i propri clienti, i propri dipendenti e la comunità di riferimento. Le aziende possono anche aderire
volontariamente a un modello di responsabilità sociale
di impresa. Ma non ci sono sanzioni per chi decide di
non farlo. E alcuni economisti sostengono che l’unica
destinazione legittima degli utili d’impresa siano le
tasche degli azionisti.
Direbbe che i cattivi comportamenti sono contagiosi, allo stesso modo in cui lo stato emotivo di un
leader si riflette sugli altri, come ha osservato
Daniel Goleman?
Di certo i dipendenti ascoltano con attenzione ciò che
dicono i loro manager, e osservano ancora più attentamente il comportamento dei colleghi e dei superiori. I
lavoratori si sentono psicologicamente incoraggiati o
UNA VOCE FUORI DAL CORO
costretti a emulare i cattivi comportamenti dei leader o
di altri dipendenti che «riescono a farla franca».
Viceversa, i leader che incarnano un comportamento
etico, nonostante le tentazioni del mercato, ispirano i
dipendenti a fare altrettanto, con grandi benefici per
l’azienda nel lungo periodo. Benché troppe volte citato,
l’esempio di James Burke, CEO della Johnson &
Johnson, è ancora utile. Ritirando tutti i prodotti della
linea Tylenol durante la crisi degli anni Ottanta, Burke
ha dimostrato con il proprio esempio cosa significa
assumere un comportamento etico nonostante le difficoltà. Nel lungo periodo la sua società ne ha tratto
grandi vantaggi: a distanza di 25 anni, la Johnson &
Johnson occupa la prima posizione nelle graduatoria
delle grandi imprese socialmente responsabili.
È molto importante stabilire se i gruppi di interesse
coinvolti nell’impresa siano in conflitto o in armonia tra
loro, e se coloro che sono chiamati a dare l’esempio con
il loro comportamento si sentano sicuri del ruolo che
sono chiamati a svolgere. Quando tutti sono concentrati sullo stesso obiettivo è facile compiere un buon lavoro. Ad esempio, le ricerche che abbiamo condotto alla
fine degli anni Novanta hanno rivelato che i genetisti
negli Stati Uniti riuscivano con relativa facilità a svolgere un buon lavoro, perché tutti erano concentrati sul
medesimo obiettivo, quello di migliorare le condizioni
di salute e allungare la vita dell’essere umano. I giornalisti, invece, avevano maggiori difficoltà, perché la loro
aspirazione a raccontare in maniera obiettiva gli eventi
più importanti era in contrasto con la sete di sensazionalismo dell’opinione pubblica e con le pressioni ricevute dagli editori, interessati soprattutto ai ricavi pubblicitari e a evitare ogni genere di controversia.
Quindi, la fibra morale di un individuo o di una
società viene davvero messa alla prova soltanto in
presenza di forti pressioni. Come fare a resistere a
tali pressioni?
Per i leader, l’unico modo di mantenere un orientamento etico è credere che un simile comportamento sia
essenziale per il bene dell’azienda. Che cosa si sta cercando di realizzare? Quali obiettivi ci si è prefissi per
dare un contributo positivo alla società? Dopo aver
compreso questi fattori, bisogna dichiarare dal principio
e senza esitazioni la propria scala di valori, commisurando ricompense e sanzioni alla loro realizzazione.
Quando tutto procede senza intoppi, è facile indurre
se stessi e gli altri a comportarsi secondo certi standard:
i costi non sono evidenti. Ma quando le circostanze
potrebbero indurre a rivedere al ribasso questi standard,
bisogna essere rigorosamente onesti con se stessi.
Comportarsi in modo etico significa anche non ingannare se stessi o gli altri. Raccomanderei a tutti, di tanto in
tanto, di guardarsi allo specchio, senza storcere gli occhi,
chiedendosi se ci si sta comportando in maniera accettabile. La domanda da porsi è: «Sono un buon lavoratore? E se non lo sono, cosa posso fare per diventarlo?»
Credo anche che sia più facile compiere un buon
lavoro se si trova il tempo e l’occasione di riflettere
sulla propria missione in senso lato, e sui progressi
compiuti nel portare a termine quella missione. Vi racconto un simpatico aneddoto, probabilmente falso, a
proposito di James Bryant Conant, l’ex presidente di
Harvard. Quando gli venne offerta la presidenza,
Bryant disse: «Sarei onorato di accettare; ma non posso
venire al lavoro il mercoledì, perché devo andare a
Washington». Il comitato incaricato della nomina
accettò le sue condizioni. In realtà, Conant non andava
a Washington il mercoledì; si ritagliava soltanto un po’
di tempo per restare tranquillo e leggere; egli credeva
infatti di avere bisogno di un giorno alla settimana in
cui restare da solo con i propri pensieri. Tutti i dirigenti dovrebbero essere capaci di fare un passo in dietro e
riflettere sulla natura del proprio lavoro, sviluppare
nuovi progetti o risolvere problemi di lavoro.
Un altro modo di mantenere un comportamento
etico è sottoporsi periodicamente a una serie di «iniezioni di positività». Queste iniezioni si verificano ogni
qualvolta si incontrano individui o si fanno esperienze
che costringono a valutare il proprio operato o a dare il
buon esempio agli altri. Un uomo o una donna d’affari
potrebbe ricevere un’iniezione di positività da Aaron
Feuerstein, il proprietario della Malden Mills, che continuò a pagare i propri lavoratori anche dopo che le
fiamme distrussero completamente le fabbriche. Le
azioni di Feuerstein potrebbero ispirare un leader a
compiere un’azione che dà vantaggiosa ai propri dipendenti, come dare loro un’opportunità per acquisire le
competenze desiderate. Un altro tipo di iniezione, questa volta «antivirale», è quella che permette di trarre
insegnamento dai casi di malversazione. Quando la
Arthur Andersen fece bancarotta, dopo lo scandalo
della Enron, i revisori contabili di altre società furono
costretti a riconsiderare con attenzione le proprie prassi contabili.
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LA MENTALITÀ ETICA
Ma siamo tutti portati a ingannare noi stessi. Di
sicuro avremo bisogno di un giudice più imparziale della nostra persona.
Certamente, ed ecco perché è importante consultarsi
con altri individui bene informati e sinceri. Due consulenti degni di questo ruolo potrebbero essere la propria
madre – «Che cosa direbbe se venisse a conoscenza di
tutto ciò che faccio?» – e la stampa. Michael
Hackworth, co-fondatore e presidente della Cirrus
Logic, usa il seguente criterio: insiste nel non far nulla
che potrebbe metterlo in imbarazzo se fosse riportato
sui giornali del mattino. Anche se le quotazioni diminuiscono per qualche tempo, sa che la sua onestà gli
permetterà di guadagnare credibilità nel lungo periodo.
In un mondo ideale, un leader d’azienda dovrebbe
avrebbe tre tipi di consigliere pronti ad aiutarlo a confrontarsi con la verità: un consigliere fidato all’interno
dell’azienda; un consigliere del tutto esterno all’organizzazione, preferibilmente un vecchio amico che sia
suo pari; un comitato veramente indipendente. Ascoltando con attenzione queste fonti di informazione e
comportandosi sulla base dei loro suggerimenti è molto
difficile sbagliare. George W. Bush è un esempio di leader a cui è venuto a mancare – o che ha preferito ignorare – questo tipo di feedback sincero. Franklin D.
Roosvelt, invece, faceva regolarmente ricorso a questi
consigli, ed infatti è stato un presidente molto più capace.
Nell’assumere i nuovi dipendenti e nel decidere gli
avanzamenti di carriera, come può un’azienda
separare il buono dal resto?
Sarebbe molto più saggio ammettere alle business
school soltanto gli studenti che non sarebbero mai disposti a copiare a un esame – e ce ne sono – che sperare
di trasformare improvvisamente in un modello di
responsabilità un trentenne dalla personalità ambigua
già lanciato verso una brillante carriera. Ciò detto, non
c’è niente di meglio, per valutare un individuo, che ottenere una raccomandazione orale, dettagliata e articolata, da qualcuno che lo conosce bene e ne può garantire
l’integrità morale. Non mi fido molto delle lettere di
raccomandazione o dei risultati dei test psico-attitudinali. Non basta neppure un singolo colloquio. Come
dice un mio collega: «Bisogna pranzare insieme almeno
dieci volte»; credo che ci sia del vero in questa affermazione.
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Oppure si potrebbe chiedere a un giovane di parlare
dei suoi mentori. I nostri studi hanno rivelato che molti
giovani professionisti non ricevono un mentoring adeguato da coloro che rivestono una posizione d’autorità.
Molto diversa è la situazione dei professionisti più
anziani, che ci hanno parlato di mentori e di importanti modelli di comportamento. Così, a un giovane si
potrebbe domandare: «Chi l’ha influenzata nel coltivare particolari valori morali, e perché?» Nei nostri studi
abbiamo sottovalutato l’influenza degli anti-mentori
(potenziali figure modello che si comportano male con
i propri dipendenti o che assumono comportamenti che
altri non vorrebbero emulare) e la mancanza di mentori adeguati. I modelli di comportamento negativi
potrebbero essere molto più influenti di quanto si
creda. Naturalmente, bisogna ascoltare le risposte con
molta attenzione, per capire quali caratteristiche sono
considerate positive e quali invece sono criticate.
Talvolta le risposte sono sorprendenti.
Che cosa succede se si è nella condizione di
dovere opporre la verità al potere? Come ci si prepara ad affrontare questo compito?
All’autorità e alla maturità si accompagna l’obbligo di
controllare il comportamento dei propri colleghi e, se
necessario, metterli di fronte alle loro responsabilità.
Come ha dichiarato Jean-Baptiste Molière, illustre
commediografo del Diciassettesimo secolo: «Non siamo responsabili soltanto di ciò che facciamo, ma anche
di ciò che non facciamo».
Non è facile affrontare le persone che si comportano
in modo scorretto; ma è essenziale farlo, se si vuole che
la propria azienda operi con successo, sia essa una piccola azienda a conduzione familiare o una grande società inclusa nella classifica «Fortune 500». Due fattori
possono agevolare questo compito ingrato: in primo
luogo, bisogna essere convinti di operare nell’interesse
dell’organizzazione; in secondo, non bisogna aspettare
di trovarsi di fronte a comportamenti eclatanti. È preferibile affrontare la questione appena si manifestano i
primi segnali sospetti, senza assumere un tono accusatorio ma con l’intenzione di verificare i fatti. Se si mette in
guardia o si danno consigli alla persona sospettata di
comportamenti scorretti, sarà molto più facile intervenire se il problema si presenterà di nuovo.
Per quanto riguarda invece affrontare i superiori, se
una cosa del genere è impossibile allora vuol dire che ci si
trova nell’azienda sbagliata. Naturalmente, è utile consul-
UNA VOCE FUORI DAL CORO
tarsi con altri, per assicurarsi che le proprie intuizioni non
siano del tutto errate. Ma chi non è pronto a dare le
dimissioni o a farsi licenziare per ciò in cui crede non è un
lavoratore e non è certo un professionista. È uno schiavo.
Fortunatamente, almeno negli Stati Uniti, le persone possono ancora scegliere il proprio datore di lavoro.
In ultima analisi, bisogna decidere da che parte stare.
Il mondo ha oggi dinanzi a sé varie possibilità: può
imboccare un circolo virtuoso, garantendo a tutti un
tenore di vita decente e condizioni sanitarie adeguate,
oppure restare intrappolato in un circolo vizioso, piombando nella povertà, nella malattia, nel disastro ecologico e persino nella catastrofe nucleare. Se si può contribuire a spostare l’ago della bilancia, si ha il dovere –
verso se stessi, i propri discendenti, i propri dipendenti,
la propria comunità e il pianeta intero – di fare la cosa
giusta. <
Ristampa n. 07018
Aprile 2007
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