Le persecuzioni razziali e la Shoah
Guri Schwarz
La grande guerra aveva segnato i popoli europei sprigionando forze grandi e terribili. Risentimento,
rabbia, paura e frustrazione animavano i popoli d’Europa negli anni venti e trenta. Le nuove entità
statali nate dalla dissoluzione degli imperi erano scosse da violenti antagonismi etnici interni e da
un crescente desiderio di rivedere i confini tracciati a Versailles. La Germania sconfitta e umiliata si
avviava verso una grave crisi economica, morale e politica; gruppi estremisti imperversavano nella
neonata repubblica che solo a stento riusciva a contenere la violenza dei gruppi eversivi e a frenare i
ripetuti tentativi, sia dell’estrema destra che dell’estrema sinistra, di conquistare il potere con la
forza.
In Italia la frustrazione derivata dai contrasti sul futuro di Fiume e della Dalmazia, il terrore del
cosiddetto “pericolo rosso”, l’incapacità dell’élite liberale di coinvolgere attivamente le masse,
l’ubriacatura nazionalista e la complicità di una parte importante della classe dirigente avevano
condotto alla dittatura fascista.
Nell’Europa orientale i sentimenti nazionalistici risvegliati dalla guerra e le difficoltà del
dopoguerra favorivano il diffondersi di una crescente intolleranza nei confronti delle etnie più
deboli. Le nuove repubbliche erano prive di una solida tradizione liberale; gli ebrei erano tutelati
dalle costituzioni imposte dai trattati di pace alla fine della prima guerra mondiale, ma continuarono
a soffrire di varie discriminazioni. In questo clima agitazioni a carattere antiebraico scoppiarono
intorno al 1920 in Polonia, Lituania e Ucraina. Con gli anni trenta, in alcuni stati, alle
manifestazioni di furore popolare che sfociavano nei pogrom si venne ad aggiungere una politica
volta ad una crescente limitazione dei diritti dei cittadini ebrei.
L’Ungheria, già a partire dal 1920, impose il numerus clausus nelle Università. Col passare del
tempo l’indirizzo liberaI-conservatore dell’ammiraglio Horty dovette cedere il passo a forze intrise
di un più intenso nazionalismo. Dal 1938 una serie di iniziative legislative impoverirono,
indebolirono ed umiliarono la comunità ebraica; tra il 1939 ed il 1940 fu introdotto il lavoro coatto
che portò alla morte di migliaia di ebrei per i maltrattamenti subiti; si era avviato un processo che
culminò nell’approvazione, nel 1941, della “legge razziale”.
In Romania, nel 1927, un’agitazione studentesca a carattere antiebraico provocò moti violenti in
varie città e portò le autorità a limitare l’accesso degli ebrei all’istruzione superiore, ad alcune
professioni, e ad impieghi nella pubblica amministrazione. Le organizzazioni i cui programmi erano
maggiormente intrisi di antisemitismo erano la Lega di Difesa Cristiano-Nazionale e la Guardia di
Ferro. Nel 1937, il nuovo governo, nella cui formazione si registrarono pesanti ingerenze dei
nazisti, era guidato da personalità dichiaratamente antisemite che fecero adottare delle modifiche
costituzionali in seguito alle quali titolari dei pieni diritti politici erano considerati solo i cittadini di
“puro sangue rumeno”. La situazione andò aggravandosi negli anni seguenti, dopo il 1940 nuovi
disordini segnarono il paese e non mancarono atti di violenza nei confronti dei cittadini ebrei che
vennero definitivamente esclusi dalla partecipazione alla vita economica e politica del paese.
In Polonia, dove gli ebrei erano il 10% della popolazione, vi era stata, a partire dal dopoguerra, una
7
politica ispirata alla limitazione della loro presenza in vari settori della società. Vi fu un
miglioramento della situazione sotto il regime del maresciallo Pilsudsky (1926-1935); ma a partire
dal 1935, la situazione andò peggiorando sempre più.
Una situazione differente caratterizzava la Germania. Gli ebrei tedeschi avevano raggiunto un alto
livello di integrazione ed erano pienamente inseriti nella vita della nazione. La crisi economica e
politica della nazione tedesca favoriva l’affermarsi di un crescente rancore, stimolato dai movimenti
di estrema destra, nei confronti della minoranza ébraica. Stava emergendo un antisemitismo di tipo
nuovo alla base del quale vi erano pregiudizi antichi di matrice religiosa, l’immagine dell’ebreo
rivoluzionario e nemico dell’ordine che si era molto rafforzata dopo la Rivoluzione d’Ottobre e che
aveva conosciuto una straordinaria diffusione in Europa con la pubblicazione dei Protocolli dei Savi
di Sion; a questi elementi si aggiungeva un antisemitismo specificatamente razzista.
Il nazismo aveva ripreso e rielaborato le teorie razziali di matrice positivista sviluppate in Europa
nel XIX secolo. Dalla cultura ottocentesca erano state prese l’idea dell’esistenza delle razze umane
che si consideravano disposte su di una scala gerarchica con al suo apice quella “ariana” ed alla
base quella ebraica. La salvaguardia della purezza razziale era considerata fondamentale per il
futuro del popolo tedesco destinato a dominare il mondo. La “razza ebraica” era percepita come
antitesi della civiltà, gli ebrei erano considerati stranieri non assimilabili, materialisti gretti ed
egoisti, erano definiti “tubercolosi dei popoli”, dei “sottouomini” la cui influenza sulla società
tedesca doveva essere eliminata. I nazisti avevano coniugato le teorie pseudo-scientifiche che erano
alla base della biologia razziale con l’antisemitismo tradizionale. A differenza degli intellettuali
razzisti dell’ottocento i nazisti intendevano di passare dalla teoria alla prassi: al razzismo
ottocentesco aggiunsero un’intensa passione politica ed un determinato attivismo.
Il partito nazionalsocialista conquistò il consenso popolare promettendo di sconfiggere la disoccupazione e di distruggere l’ordine di Versailles per restituire gloria, ricchezza e potere alla
Germania umiliata. Uno dei cardini del progetto politico nazista era costituito dall’odio antiebraico:
gli ebrei erano considerati una delle cause della crisi tedesca e pertanto andavano colpiti. Non
appena conquistarono il potere, nel 1933, i nazisti impegnarono con forza crescente la loro
macchina propagandistica per diffondere il seme dell’antisemitismo. Già dopo due anni, nel
settembre del 1935, si procedette a limitare i diritti politici degli ebrei e ad isolarli dal resto della
comunità nazionale con le leggi di Norimberga. Col passare degli anni il cerchio veniva
stringendosi, gli ebrei vennero gradatamente privati dei più elementari diritti civili e politici,
vennero depredati dei loro beni, limitati nell’esercizio delle professioni, allontanati dalle scuole. La
situazione peggiorò drammaticamente nel 1938 quando, nella notte tra il 9 e il 10 novembre detta
«Notte dei Cristalli’ la popolazione, aizzata dai nazisti, si scagliò con violenza contro le case, i
negozi, le istituzioni ebraiche. Dall’autunno del 1938 la comunità ebraica tedesca risultava
irrimediabilmente indebolita, impoverita, le sue istituzioni messe fuori legge, la sua stampa
soppressa, i suoi funzionari arrestati; la comunità era del tutto inerme ed impossibilitata ad opporsi
alla persecuzione. A partire dal settembre del 1941 tutti gli ebrei dai 6 anni in su furono costretti a
cucire sui propri vestiti una stella gialla per rendersi immediatamente riconoscibili, inoltre fu loro
proibito qualsiasi spostamento non autorizzato.
È certo che i nazisti volessero scaricare sugli ebrei il malcontento popolare, che volessero depredarli
dei loro beni, che volessero creare uno stato senza più ebrei. Non è però chiaro se e in che misura la
8
politica persecutoria si sviluppò seguendo un preciso piano preordinato o se invece la sua
evoluzione sia stata determinata dal continuo aggiustamento della politica razziale al contesto
contingente.
In un primo momento il tentativo di creare uno stato completamente judenrein portò a spingere gli
ebrei all’emigrazione, tra le altre ipotesi vi era quella di concentrare tutti gli ebrei in Madagascar.
L’espansione dello stato nazista cominciata con l’invasione della Cecoslovacchia che portò alla
rapida acquisizione di una popolazione ebraica superiore a quella che si era riusciti a far emigrare
mise in luce l’inefficacia di quel piano. Lo scoppio della guerra chiuse poi definitivamente la via
dell’emigrazione come soluzione al “problema ebraico”.
Con l’invasione della Polonia il 1 settembre del 1939 iniziò una nuova fase della persecuzione
razziale. Alla popolazione ebraica polacca fu quasi immediatamente imposto di indossare la stella
gialla; furono inoltre costretti a nominare degli judenrate per rappresentarli di fronte alle autorità
naziste. A partire dal 1940 gli ebrei furono radunati e rinchiusi nei ghetti appositamente istituiti
nelle città più importanti: ammassati in condizioni igieniche pessime, malnutriti e sfruttati come
manodopera a bassissimo costo molti morirono di stenti. Le piccole comunità inferiori a
cinquecento persone furono immediatamente distrutte.
Con il 1941 e l’invasione della Russia la politica antiebraica dei nazisti maturò una drammatica
svolta. La conquista della Russia implicava l’acquisizione di una popolazione di circa 5 milioni di
ebrei e questo portò a rinunciare definitivamente alla politica delle espulsioni in favore di una
politica di eliminazione fisica degli ebrei. Di questo furono incaricati gli Einsatzgruppen, unità
speciali che, con la collaborazione di forze ausiliarie composte da lituani, estoni, lettoni e ucraini, si
adoperarono per eliminare gli ebrei e i nemici del Reich nei territori sottratti all’URSS. I massacri
seguivano un copione predeterminato: in genere avvenivano lontano dai centri abitati presso cave o
trincee abbandonate dove le vittime venivano trasportate con l’inganno. Una volte giunte sul posto
le vittime erano private dei loro beni, venivano poi fatte allineare lungo le fosse o fatte distendere
sul fondo delle stesse, dopodiché venivano massacrate con le armi da fuoco. Alla fine
dell’operazione i corpi si trovavano ordinatamente disposti nelle fosse pronte per essere ricoperte.
Si trattava di un sistema considerato poco efficace anche perché metteva a dura prova il morale
delle truppe. Fu così che, su sollecitazione di Himmler, si elaborò un nuovo sistema per sterminare
gli ebrei basato sull’utilizzo di camere a gas già sperimentate per l’eliminazione di quei cittadini del
Reich considerati un peso per la società quali i malati di mente o gli handicappati (cosiddetta
operazione eutanasia). Il nuovo sistema venne inaugurato nel campo di Chelmno costruito nel
dicembre del 1941 e attivo fino al marzo del 1943; qui le vittime venivano asfissiate con il gas di
scarico prodotto da camion speciali.
Lo sterminio era stato scelto come “soluzione finale del problema ebraico”, l’Ufficio Centrale per la
Sicurezza del Reich (RSFIA), incaricato dal 1939 di risolvere la questione ebraica, si adoperò per
risolvere i vari problemi di ordine pratico che sorgevano nell’organizzare la distruzione
dell’ebraismo europeo (conferenza di Wansee). Il sistema messo a punto a Chelmno venne
perfezionato per poter eliminare in modo rapido i milioni di persone raccolte nei ghetti polacchi.
L’operazione, di cui fu incaricato Odilo Globocnik, capo delle SS del distretto di Lublino, fu detta
“Aktion Reinhard”. L’utilizzo dei gas per un numero così grande di persone implicava il passaggio
dai camion a gas itineranti usati a Chelmno, poco capienti e facilmente deteriorabili, a strutture
9
fisse. Nell’ambito di questa operazione furono progettati i campi di Belzec, Sobibor e Treblinka
attivi tra il 1942 ed il 1943 nei quali fu ucciso un totale di persone stimato tra 1.500.000 e
1.945.000. I tre campi della morte furono costruiti su di un progetto comune: in mezzo alla foresta e
collegato alla ferrovia vi era un campo recintato diviso in tre settori. Il primo settore conteneva gli
alloggi e i laboratori per il lavoro forzato, il secondo era adibito a deposito per i beni sequestrati ai
deportati, il terzo era destinato allo sterminio ed era collegato al secondo da un breve passaggio
cintato; qui vi erano le camere a gas e le fosse comuni. Poiché non vi erano crematori quando i
corpi ebbero colmato i terreni circostanti i nazisti si videro costretti a riesumarli per bruciarli in
enormi roghi.
Va segnalato che a partire dal giugno del 1942 i responsabili del RSHA per occultare il massacro
iniziarono un’operazione intesa a cancellare le tracce del massacro. L”’azione 1005”, come fu
chiamata, fu affidata ad un’unità speciale comandata da Paul Blobel con l’incarico di riesumare i
corpi e di cremarli, nel 1943 l’attività della squadra fu estesa alle zone di operazione degli
Einsatzgruppen.
Il sistema di distruzione di massa fu ulteriormente perfezionato nel campo di Auschwitz che fu il
centro dove vennero condotti ebrei provenienti da tutta l’Europa eccettuati i territori russi. Qui
l’eliminazione dei deportati era compiuta in modo più efficiente grazie all’utilizzo del gas Zyclon B
in sostituzione del monossido di carbonio e alla costruzione di forni crematori. Inoltre, a partire dal
4 luglio 1942, si diede inizio alla pratica della “selezione iniziale”, volta a sfruttare i deportati abili
al lavoro. Una percentuale di deportati che variava dal 25% al 35% di ogni convoglio veniva
immatricolata all’arrivo e utilizzata come manodopera schiava. Coloro che passavano la prima
selezione erano costretti a vivere in uno stato di privazione assoluta, malnutriti e malvestiti erano
soggetti quotidianamente a vere e proprie torture; erano poi sottoposti a selezioni periodiche per
fare spazio ai nuovi arrivi. Si calcola che in due anni vi furono massacrati un numero di ebrei
compresi tra la cifra di 830.000 e quella di
1.323.000.
La deportazione e lo sterminio degli ebrei si inserisce in un più ampio sistema concepito dai nazisti
per sfruttare ed eliminare i soggetti indesiderati. Il sistema concentrazionario è da considerarsi parte
essenziale dello stato nazista, una delle basi su cui si fondava il sistema di potere creato da Hitler. In
questo sistema complesso si svilupparono due iniziative distinte, ovvero la deportazione razziale e
quella politica. La prima era volta alla realizzazione della supremazia della razza ariana, la seconda
invece era volta alla repressione del dissenso e di ogni forma di opposizione; per gli ebrei
l’obiettivo era l’eliminazione, per i perseguitati politici questa era secondaria alloro controllo e, in
un secondo momento, al loro sfruttamento in qualità di manodopera schiava. La persecuzione
politica e quella razziale erano separate anche geograficamente: la prima aveva luogo
prevalentemente nello stesso territorio tedesco nei pressi delle grandi città, la seconda era invece
localizzata prevalentemente nell’Est europeo. Soltanto ad Auschwitz e nel campo di Majdanek si
trovavano sia perseguitati politici che perseguitati razziali per via della sovrapposizione della
politica di sterminio con quella di sfruttamento della manodopera. Tra il 1937 ed il 1938 la massa di
soggetti previsti per la deportazione fu estesa ad altre categorie: i criminali comuni”, gli “asociali”
(vagabondi, zingari, omosessuali, ecc.) e poi i “refrattari al lavoro” ovvero i disoccupati.
La politica di sterminio nazista provocò circa 6 milioni di morti tra gli ebrei d’Europa.
10
Anche l’Italia fu coinvolta dall’ondata di antisemitismo che attraversò il continente europeo. Vi
erano dei pregiudizi antiebraici diffusi, in parte di derivazione religiosa in parte collegati
all’immagine dell’ebreo internazionalista, senza patria, massone e rivoluzionario; tracce di questi
pregiudizi erano presenti sia nei ceti popolari che nell’alta cultura, ma in Italia l’antisemitismo non
costituiva, come invece altrove in Europa, una leva importante per mobilitare le masse.
Il fascismo, in quanto movimento illiberale dichiaratamente nemico degli ideali illuministici che
avevano portato all’emancipazione degli ebrei, non era esente dall’antisemitismo che era
apertamente professato da alcuni suoi esponenti di spicco. L’antisemitismo non fu però un elemento
centrale nell’ideologia e nel progetto politico fascista come fu invece nel caso del nazismo.
A partire dal 1934 l’evoluzione dell’ideologia fascista e il mutamento del quadro politico
internazionale resero l’antisemitismo un tema di primo piano per la dittatura fascista. Tra il 1936 ed
il 1938 si scatenò un’aspra polemica antiebraica sulla stampa italiana. I mezzi d’informazione di
massa erano spinti dal governo a dipingere gli ebrei come causa di tutti i mali: nemici dell’Italia e
del fascismo, infidi, ladri, sfruttatori. Proprio sul finire del 1936 maturò probabilmente la scelta di
perseguitare la minoranza ebraica.
È di estrema importanza chiarire che si trattò di una decisione autonoma presa in piena libertà;
l’avvicinamento alla Germania nazista giocò certamente un ruolo ma, come è stato ormai
ampiamente dimostrato, la persecuzione antiebraica fascista non fu il risultato di influenze, dirette o
indirette, di parte tedesca.
L’Italia fascista arrivò a formulare una propria autonoma ed originale politica antiebraica a partire
dal 1938; una scelta maturata in conseguenza dell’evoluzione della politica interna e della politica
estera del regime. L’antisemitismo di stato si intrecciava con la politica di “difesa della razza”
avviata dopo la conquista dell’Impero, con il processo di formazione dell’ “uomo nuovo fascista”,
con la campagna demografica e la polemica antiborghese, elementi cardine dell’evoluzione
ideologica del regime negli anni trenta. Essa era parte integrante dello sforzo compiuto in quegli
anni dal dittatore per la creazione di uno stato totalitario. Si potrebbe affermare che per il fascismo
la persecuzione razziale era un elemento che doveva servire ad introdurre un maggiore dinamismo
nella società italiana, doveva scuotere il popolo italiano per fargli prendere coscienza della propria
identità e della propria missione. Inoltre non va dimenticato il fatto che con quella svolta il regime
voleva dotarsi di strumenti che gli consentissero di competere con la Germania nazista nello sforzo
volto ad affermare la propria influenza nell’area danubiano-balcanica dove, come abbiamo visto, i
movimenti di estrema destra cavalcavano l’odio antiebraico.
La politica antiebraica avviata nel 1938 riprendeva i vari filoni dell’antisemitismo e del razzismo
italiani. Si trattava di indirizzi ideologici e culturali non pienamente omogenei, ne risultò una
legislazione razzista particolarmente complessa, a tratti contraddittoria, e soggetta a numerose
revisioni nel tempo. In un primo momento coesistevano alla base della politica persecutoria fascista
due principi non facilmente conciliabili. Il “Manifesto degli scienziati razzisti” intitolato Il fascismo
e i problemi della razza, pubblicato su “Il Giornale d’Italia” il 13 luglio del 1938 e ispirato dal
Ministero della Cultura Popolare, si avvicinava in modo piuttosto esplicito ad un razzismo
prettamente biologico affermando l’esistenza delle razze, l’appartenenza degli italiani alla “razza
ariana” dalla quale erano esclusi gli ebrei che risultavano pertanto essere un corpo estraneo in seno
11
alla nazione. Di indirizzo differente era invece il comunicato del Partito Nazionale Fascista del
25luglio del 1938 nel quale l’antisemitismo era fondato su argomentazioni di carattere politico
piuttosto che biologico: gli ebrei erano accusati di guidare, in Italia e all’estero, la lotta al fascismo.
Essi erano pertanto definiti come nemici della nazione italiana non semplicemente in conseguenza
della loro appartenenza razziale, ma a causa della loro presunta partecipazione alla lotta antifascista.
La politica persecutoria che nacque da questo contesto indicava negli ebrei una “razza” estranea a
quella italiana, e pertanto da tenere sotto controllo, nel contempo distingueva gli ebrei, e le misure
da prendere nei loro confronti, in base al comportamento che avevano tenuto nei confronti della
patria e del fascismo. Col tempo la persecuzione si fece sempre più dura e si andò affermando il
principio della persecuzione razziale su quella politica.
La politica razziale fascista fu inaugurata con due provvedimenti legislativi nel settembre del 1938,
il primo l’RDL (Regio Decreto Legge) 1381 del 7 settembre 1938 riguardava l’espulsione degli
ebrei stranieri e la revoca della cittadinanza a coloro che erano stati naturalizzati dopo il 1919, il
secondo l’RDL n. 1390 del 5 settembre vietava a tutti gli alunni e gli insegnanti ebrei di frequentare
le scuole di ogni ordine e grado. La campagna antiebraica fu poi sviluppata con una serie di leggi e
decreti e di diverse circolari ministeriali. Va segnalato che sin dal suo esordio la politica razziale
fascista risultò essere estremamente pesante; i provvedimenti presi contro l’ingresso degli ebrei
nelle scuole e quelli per l’espulsione degli ebrei stranieri risultano più duri dei provvedimenti presi
all’epoca nel resto d’Europa.
Tramite una lunga serie dileggi e circolari vennero rapidamente ridotti gli ambiti nei quali gli ebrei
potevano operare. Essi furono privati dell’accesso all’istruzione, furono impoveriti, venendo
allontanati da molte professioni e dagli impieghi, venendo costretti a cedere le loro attività
imprenditoriali a non-ebrei. Vennero isolati dal resto della comunità con il divieto di detenere
apparecchi radiofonici, di avere il proprio nome sull’elenco telefonico, di recarsi in località di
villeggiatura, di partecipare ad associazioni culturali o sportive, o di frequentare biblioteche
pubbliche. Si trattava di vessazioni in se stesse poco importanti ma estremamente dolorose per i
perseguitati; in questo modo veniva interrotto il periodo di serena e produttiva integrazione
inaugurato dal Risorgimento, gli ebrei risultavano essere sempre più poveri, più soli, sempre più
deboli. Non mancarono gesti di solidarietà ed amicizia per i perseguitati, ma la maggioranza degli
italiani rimase sostanzialmente indifferente alla loro sorte.
I perseguitati reagirono in diversi modi, coloro che avevano i mezzi espatriarono, gli altri si
raccolsero tra loro rafforzando i vincoli comunitari e ricercando all’interno della compagine ebraica
aiuto e conforto. Per garantire ai propri giovani un’educazione i dirigenti dell’ebraismo italiano
improvvisarono una rete di scuole che ebbero modo di svilupparsi soprattutto nelle maggiori
comunità; inoltre essi si adoperarono per aiutare i profughi ebrei provenienti da altri stati europei.
Con lo scoppio della guerra e la partecipazione italiana a fianco della Germania la situazione degli
ebrei andò peggiorando. L’emigrazione, che ancora nel febbraio del 1940 le autorità consideravano
la soluzione della questione ebraica in Italia, divenne impossibile, nel frattempo nuove vessazioni si
vennero ad aggiungere alle già gravi restrizioni imposte alla vita degli ebrei. Per gli ebrei stranieri
ancora residenti in Italia dopo l’entrata in guerra, fu predisposto con un apposito decreto del 15
giugno 1940 l’internamento in campi di prigionia, tra di essi il più noto e di gran lunga il più
importante fu quello istituito a Ferramonti Tarsia, in provincia di Cosenza.
12
L’Italia di Mussolini aveva scelto di perseguitare gli ebrei e si adoperò di conseguenza; va però
messo in evidenza che fino al 1943 essa non aderì alla politica di sterminio sviluppata con inumana
freddezza dal nazisti. Gli ebrei italiani e gli ebrei residenti in territori sotto il controllo delle autorità
politiche e militari italiane furono perseguitati, ma salvati dalla deportazione. I cittadini ebrei che si
trovavano nelle zone d’occupazione italiana nei Balcani e nel sud della Francia non furono
consegnati alle autorità naziste; questo deciso atteggiamento rifletteva il rifiuto di adottare la
politica di sterminio nazista ma anche la volontà di confermare la propria sovranità sulle zone
occupate. L’Italia era l’unico stato che poteva aspirare ad avere un rapporto paritetico con la
Germania, ci teneva pertanto a distinguersi e a rimarcare la propria autonomia.
La situazione mutò radicalmente dopo l’Armistizio, con l’8 settembre del 1943 l’Italia risultava
divisa ed occupata a sud dalle forze alleate e a nord dai tedeschi che contavano sulla collaborazione
di Mussolini, che era stato da loro liberato e che si era insediato a capo di una neonata Repubblica
Sociale Italiana (RSI) . A partire da quella data gli ebrei italiani non godettero più della protezione
che avevano avuto sino ad allora. Sin dai primi giorni dell’occupazione si verificarono alcuni
episodi, seppur isolati, di crudeltà e di violenza perpetrati dai nazisti contro la popolazione ebraica,
tra di essi spiccano le vicende degli ebrei di Meina, di 5. Martin-Vèsubie nel sud della Francia e di
Merano. Si trattava di vicende drammatiche ma isolate; su un altro piano si colloca invece lo sforzo
intrapreso dalle autorità tedesche competenti per organizzare sistematicamente la deportazione degli
ebrei italiani, uno sforzo cominciato già all’ indomani dell’occupazione.
La RSI inasprì le misure antiebraiche già prese dal regime mussolinano. Il settimo punto del
cosiddetto Manifesto di Verona, carta fondante il nuovo indirizzo politico ed ideologico del
fascismo, affermava infatti che “gli appartenenti alla razza ebraica sono stranieri, durante questa
guerra appartengono a nazionalità nemica”. Si tratta di una importante affermazione che portò a
legittimare la politica di sterminio e a collaborare con le autorità tedesche per la deportazione degli
ebrei italiani. Il 30 novembre il Ministero degli Interni dispose, con l’ordinanza di polizia n. 5, il
sequestro dei beni di proprietà degli ebrei nonché il loro arresto ed internamento. In conseguenza di
questa disposizione le autorità di polizia italiane si impegnarono per trovare ed arrestare tutti gli
ebrei. Essi vennero raccolti in appositi campi di prigionia allestiti in varie zone in attesa della
creazione di un più grande campo di raccolta nazionale. Questo fu istituito a Fossoli, frazione di
Carpi in Emilia. Là furono raccolti gli ebrei italiani e da quel campo partirono, quando due mesi
dopo la creazione del campo questo fu posto sotto il diretto controllo delle autorità naziste, diversi
convogli per Auschwitz. Già prima di allora i nazisti avevano cominciato a rastrellare gli ebrei e ad
organizzarne la deportazione. Particolarmente tragica fu la vicenda degli ebrei romani, i quali dopo
aver subito varie angherie nel corso del mese di settembre, furono prelevati casa per casa dai nazisti
con la collaborazione delle forze di polizia italiane tra la mattina del 16 ottobre 1943 ed il
pomeriggio del 17. Le 1022 persone arrestate a Roma giunsero ad Auschwitz-Birkenau il 22
ottobre, 839 non superarono la selezione e dopo la Liberazione soltanto 17 fecero ritorno a casa.
Un’altra realtà particolare che merita qualche annotazione è quella dell’unico campo di
concentramento tedesco costruito in terra italiana. Si tratta della ex-risiera di San Sabba, in
provincia di Trieste, campo creato dai tedeschi come luogo di internamento e di transito verso i
centri di prigionia situati più a Est: esso accolse sia ebrei che partigiani e antifascisti. Vi furono
praticate violenze di ogni genere ed assassinii collettivi con l’utilizzo di una rudimentale camera a
13
gas. Le vittime del campo sono stimate tra 1000-2000 persone, in maggioranza non ebrei. Dal
litorale adriatico partirono 12 convogli per Auschwitz, 3 dal carcere di Trieste e gli altri da San
Sabba.
Un totale di 6219 ebrei italiani furono uccisi. Alla loro deportazione collaborarono attivamente le
autorità della RSI e alcuni civili che non esitarono a fare la spia per ottenere il compenso offerto dai
fascisti. D’altra parte molti ebrei poterono sfuggire la cattura e vivere in clandestinità grazie
all’aiuto dato loro da una parte importante della popolazione italiana. Si tratta di un comportamento
che più che la “bontà” del popolo italiano riflette l’evoluzione della situazione politica nazionale:
gli italiani erano stufi della guerra, mal tolleravano il regime di Salò e l’occupazione tedesca, per
questo motivo spesso diedero la loro solidarietà ai partigiani, ai soldati alleati ed anche agli ebrei
perseguitati. Bisogna anche ricordare che in tutta Europa diversi esponenti della gerarchia
ecclesiastica aiutarono e protessero gli ebrei, mancò invece da parte del Vaticano una condanna
ufficiale, netta ed esplicita, del nazismo e della politica di sterminio. Va sottolineato infine che
molti ebrei italiani diedero la loro attiva partecipazione al movimento partigiano riprendendo quella
tradizione che fin dal Risorgimento li aveva visti in prima linea nella lotta per liberazione della
patria.
Il sionismo
Il sionismo è un movimento culturale e politico articolato e complesso che ha trovato la sua origine
nell’Europa orientale alla fine del XIX secolo. In quell’area geografica viveva una delle più grandi e
forse una delle più dinamiche comunità ebraiche, una comunità che a differenza di quella
occidentale continuava ad incontrare grandi difficoltà e resistenze nell’integrarsi con il resto della
popolazione. Intorno al 1880 gli ebrei di Russia e di Romania subirono discriminazioni politiche e
numerosi violentissimi pogrom.
Gli ebrei si videro pertanto costretti a elaborare una risposta a quella situazione di grave disagio e di
pericolo. Molti ritennero che la salvezza e un futuro migliore potessero essere trovati attraverso
l’emigrazione verso altri stati più tolleranti, in primo luogo gli Stati Uniti d’America. Altri si
convinsero che per risolvere definitivamente il problema della persecuzione non bastasse spostarsi
in luoghi più sicuri ma andasse rielaborata l’esistenza ebraica; una revisione volta alla formazione
di una vera e propria coscienza nazionale ebraica che doveva portare alla formazione di un proprio
stato. Quest’ultima era la linea sionista; il sionismo va considerato uno dei movimenti di
emancipazione nazionale sviluppatisi in Europa nel XIX secolo. I sionisti erano convinti che
soluzioni individuali al problema della persecuzione fossero in prospettiva inefficaci, essi
ritenevano che la piena emancipazione del popolo ebraico potesse essere raggiunta solo attraverso
l’opera degli stessi ebrei che dovevano farsi carico del loro futuro. L’unica soluzione realistica che
essi scorgevano non consisteva nell’integrazione nel tessuto sociale europeo, ma nella
normalizzazione della situazione ebraica: gli ebrei avrebbero dovuto trovare un territorio nel quale
essere maggioranza, un territorio nel quale edificare un proprio stato nazionale dove avrebbe potuto
finalmente avere luogo una vera e propria rinascita culturale ebraica.
Il movimento ebbe uno sviluppo lento e travagliato. Va notato che esso era prevalentemente nonreligioso, sebbene alla sua radice non mancassero elementi della tradizione religiosa ebraica che era
14
una delle basi importanti dell’identità di questo popolo e che aveva contribuito a mantenere nei
secoli la nostalgia per sion .
Sul finire del XIX secolo, prima che il sionismo trovasse una sua compiuta formulazione, vi erano
già alcuni movimenti nell’Europa orientale che si impegnavano per il risorgimento nazionale
ebraico. Tra di essi va segnalato il movimento “Hibbat Zion” (dall’ebraico “amore per sion”) che
fiorì prevalentemente nella grandi comunità di Russia, Polonia e Romania. Una base ideologica fu
fornita al movimento dal saggio di Leon Pinsker intitolato Autoemancipazione che fu pubblicato nel
settembre del 1882. Egli sostenne che la via dell’integrazione fosse inefficace per assicurare un
futuro prospero e tranquillo al popolo ebraico, pertanto l’unico modo di risolvere la questione
consisteva, secondo Pinsker, nel prelevare gli ebrei e trasportarli in un territorio dove potessero
essere sovrani. Egli era cosciente del legame storico emotivo e religioso che legava gli ebrei alla
Palestina, ma era però convinto che fosse essenziale trovare al più presto un territorio libero da
colonizzare piuttosto che concentrare gli sforzi sulla terra promessa: questo aspetto della sua
riflessione fu successivamente oggetto di una revisione. Oltre che dal razionalismo di Pinsker gli
aderenti al movimento erano ispirati da una complessa mistura di valori, tradizioni e sentimenti
ebraici che li legavano alla “terra promessa”; essi si impegnarono pertanto per la colonizzazione
della Palestina attraverso l’acquisizione di terre dove avrebbe potuto formarsi una classe di
contadini ebrei. Si trattava di un movimento volontaristico non privo di elementi di messianismo,
ma profondamente “pratico”. Esso era interessato alla creazione di colonie ebraiche in Palestina
piuttosto che ad una compiuta rielaborazione culturale dell’esistenza ebraica.
Questo elemento fu alla base delle critiche che il movimento Hibbat Zion incontrò da parte di un
grande intellettuale ebreo dell’epoca: Ahad Ha’am. Egli era convinto che la Palestina non potesse
essere una soluzione per le masse ebraiche, riteneva piuttosto che potesse divenire un’importante
centro spirituale dove una élite avrebbe potuto elaborare i termini di una rinnovata identità ebraica.
Egli credeva infatti che il problema da risolvere non consistesse nella realtà concreta della vita
ebraica ma nella crisi della cultura ebraica e si impegnò in una riflessione volta a darle nuovo
slancio e dinamismo.
Sia le iniziative pratiche degli “amanti di sion” che la riflessione colta di Ahad Ha’am erano
estremamente limitate sia per quanto riguarda l’ampiezza delle persone coinvolte che per quanto
riguarda gli esiti concreti. Solo in seguito all’azione di Teodoro Herzl il sionismo acquisì un nuova
spinta, compì un decisivo salto di qualità e divenne un movimento politico vero e proprio, capace di
coinvolgere anche gli ebrei occidentali nonché di stimolare e di indirizzare la riflessione sul
cosiddetto “problema ebraico” delle potenze europee.
Egli era un giornalista e drammaturgo austriaco, un ebreo occidentale colto e ben integrato nella
società viennese, che fu indotto dal rinnovarsi delle agitazioni antiebraiche in occidente, in
particolare dai sommovimenti nel mondo di lingua tedesca e dall’affare Dreyfus in Francia, a
riflettere sulla condizione ebraica e a tentare di trovare una soluzione. Nel 1896 egli diede alle
stampe un ispirato pamphlet intitolato Lo stato ebraico che seguiva essenzialmente un percorso
molto simile alle riflessioni di Pinsker, che peraltro Herzl all’epoca non conosceva, arricchendole
con alcuni elementi fondamentali. Anch’egli considerava il problema ebraico risolvibile solo sul
piano collettivo tramite la normalizzazione della condizione ebraica e la creazione di un proprio
stato sovrano. Il suo merito principale consistette nel vedere nel “problema ebraico” essenzialmente
15
un problema di politica internazionale. Egli seppe dare al sionismo una dignità nell’arena
internazionale e fece in modo che le potenze europee si confrontassero con esso.
Le sue riflessioni destarono una grande attenzione e stimolarono articolate discussioni in ambito
ebraico e non; Herzl seppe risvegliare l’attenzione dell’Europa per il sionismo. Mentre il
movimento Hibbat Zion cercava di raggiungere il suo scopo attraverso un lento e modesto, per
quanto certo intenso ed appassionato lavorio, Herzl mirava ad attirare l’attenzione dei potenti della
terra con un colpo di scena drammatico per ottenere ampi fondi ed un riconoscimento politico, una
legittimazione internazionale per dar vita ad un insediamento ebraico su larga scala.
L’iniziativa di Herzl portò alla nascita del movimento sionista (fu assorbito il movimento Hibbat
Zion). Questo fu organizzato per mobilitare l’ebraismo e per confrontarsi con le grandi potenze al
Primo Congresso Sionistico tenutosi nel 1897 a Basilea; si trattò di una manifestazione che ebbe
una grande eco in seno al mondo ebraico e non solo e che rappresentò un importante momento di
svolta. Furono creati in quell’occasione alcuni strumenti essenziali per il proseguire dell’attività
sionistica: venne innanzitutto istituito il Congresso come centro di discussione ed elaborazione
politica, venne scelto un gruppo dirigente, con a capo Herzl, che doveva trattare con le potenze
europee, e venne creata una stampa ufficiale del movimento pubblicata in diverse lingue.
Herzl diresse il movimento fino alla fine dei suoi giorni operando per ottenere un qualche
documento politico che garantisse agli ebrei diritti di sovranità su di un territorio in cui insediarsi.
Pertanto egli si oppose alla politica di colonizzazione graduale che era stata sviluppata dagli
“amanti di sion” e si oppose inoltre alla trasformazione del movimento sionistico in un centro di
elaborazione di una nuova cultura ebraica. Egli vedeva come compito primario ed essenziale per il
suo movimento quello di agire sulla scena internazionale per ottenere il riconoscimento del diritto
del popolo ebraico ad avere una patria.
Dapprima la sua iniziativa diplomatica si concentrò sull’Impero Ottomano, che controllava il
territorio palestinese, e presso il Kaiser di Germania. L’insuccesso di queste iniziative lo portò a
rivolgersi ad altre potenze, prese tra l’altro contatto con Vittorio Emanuele III e con Papa Pio X a
Roma nel 1904; ma furono i contatti con Londra quelli che si rivelarono più proficui. Questi
portarono ad una serie di offerte da parte della grande potenza coloniale tra le quali spicca quella
dell’Uganda che venne proposta ai sionisti come luogo di insediamento ebraico nel 1903. La
proposta venne rifiutata dopo una lungo e travagliato dibattito nel corso del VI congresso sionista; a
partire da quella decisione fu chiaro che la Palestina era un obbiettivo irrinunciabile per i sionisti.
Nel 1904 Herzl morì lasciando per qualche tempo il movimento sionista privo di una solida guida.
L’indirizzo politico-culturale del movimento andò spostandosi dal piano prettamente politicodiplomatico e venne arricchendosi di nuove tematiche. Il maggior impulso al sionismo dopo la
morte del suo fondatore venne dal cosiddetto “sionismo sintetico” così come fu definito da Chaim
Weizmann, leader del movimento a partire dalla prima guerra mondiale. Weizmann era convinto
che fosse necessario conciliare la linea del movimento Hibbat Zion, quella culturale di Ahad Ha’am
e quella più specificamente politica di matrice Herzeliana. Il movimento si arricchì intervenendo per
favorire la colonizzazione graduale della Palestina e per stimolare una nuova coscienza negli ebrei
della diaspora. In quest’ottica venne data vita a iniziative volte a influenzare le comunità
diasporiche creando associazioni sportive e culturali ebraiche e, soprattutto, creando liste elettorali
ebraiche separate nell’Impero Austro-Ungarico per mettere in evidenza l’esistenza di una nazione
16
ebraica e per raggruppare gli ebrei e opporsi al processo di assimilazione.
Gli sforzi compiuti furono certo molti ed importanti, la svolta per il movimento sionistico venne
però da eventi che andavano al di là del controllo dei suoi leader. La prima guerra mondiale
trasformò il sionismo in un movimento di massa e diede nuovo slancio alla sua iniziativa politicodiplomatica.
Dapprima i sionisti furono disorientati dallo scoppio delle ostilità e si trincerarono dietro una linea
neutrale. Gli ebrei dei vari paesi europei parteciparono alla guerra sui vari fronti e uccidendosi tra
loro; d’altra parte gli ebrei palestinesi (lo yshuv) ottennero di partecipare al conflitto al fianco della
Gran Bretagna inquadrati in una “Legione Ebraica”.
La svolta decisiva per la storia del sionismo venne nel 1917, anno terribile per gli alleati per via
dell’inizio della rivoluzione russa e della disfatta di Caporetto. Gli inglesi produssero allora un
documento politico di estrema importanza con il quale speravano di ottenere il favore dell’ebraismo
(la cui influenza era largamente sopravvalutata) nell’intento di stimolare l’intervento americano e di
tenere la Russia in guerra. Fu così che in seguito ad un intenso lavorio di Weizmann si arrivò alla
Dichiarazione Balfour, dal nome del Ministro degli Esteri britannico. Con questo documento il
Regno Unito riconosceva il diritto degli ebrei ad avere un proprio “focolare nazionale” in Palestina.
Si trattava di un’importantissima conquista per il movimento sionistico e un punto di riferimento
essenziale per tutta l’azione politica successiva.
Le speranze a cui aveva dato adito la dichiarazione Balfour furono però presto deluse dallo
svolgersi degli eventi. Vinto il conflitto la Gran Bretagna ottenne un mandato dalla Società delle
Nazioni per l’amministrazione del territorio palestinese che era stato fino ad allora sotto il dominio
turco. La politica di potenza britannica e il montante nazionalismo arabo misero in secondo piano le
promesse fatte ai sionisti nel corso della guerra.
Lo yshuv e i vicini arabi non riuscirono a stabilire un clima di pacifica cooperazione; anzi questi
ultimi videro nella dichiarazione Balfour una violazione dei loro diritti. I contrasti tra arabi ed ebrei
si fecero particolarmente aspri a partire dal 1929 e la potenza mandataria fu indotta, dal desiderio di
mantenere buone relazioni con il mondo arabo, a porre crescenti limitazioni all’accesso degli ebrei
in Palestina ed alle loro attività in quel territorio. Questa politica del governo inglese raggiunse il
suo culmine nel maggio del 1939 quando fu pubblicato un “Libro Bianco”, che doveva tracciare le
linee guida della futura politica nel territorio mandatario. Questo stabiliva che uno stato palestinese
avrebbe dovuto essere creato nell’arco di dieci anni, la sua costituzione avrebbe dovuto prevedere
garanzie per i luoghi santi, per i diritti nazionali ebraici e per gli interessi britannici. Il
raggiungimento della piena indipendenza era condizionato dallo sviluppo di buoni rapporti tra arabi
ed ebrei. Inoltre furono poste rigidissime limitazioni all’immigrazione ebraica in Palestina per
compiacere gli arabi: 75.000 ebrei dovevano essere accolti nei successivi 5 anni, e tutta
l’immigrazione ebraica seguente avrebbe dovuto dipendere dal consenso arabo.
Questa politica provocò dure reazioni nella comunità ebraica palestinese. Alcuni gruppi estremistici
si votarono alla guerriglia contro le forze britanniche, conservando la loro ostilità nei confronti degli
inglesi anche dopo lo scoppio della seconda guerra mondiale. Una volta cominciata la guerra i più
importanti leader del movimento sionistico e dello yshuv ritennero loro compito primario
partecipare alla lotta contro il nazismo per salvare i loro confratelli in Europa e pertanto cercarono
di ottenere la creazione di un corpo militare ebraico che combattesse a fianco degli alleati. Dopo il
17
1940 molte migliaia di ebrei palestinesi furono arruolati e a partire dal 1942 fu creata una Brigata
Ebraica sotto la bandiera inglese. I soldati ebrei palestinesi parteciparono ai combattimenti e furono
in grado di portare soccorso alle comunità ebraiche che venivano liberate dall’avanzata delle forze
alleate.
Nel contempo i sionisti operarono per contrastare la politica britannica organizzando una rete di
immigrazione clandestina che doveva portare gli ebrei d’Europa in Palestina, violando così le
norme stabilite dal “Libro Bianco”.
Il dopoguerra e la nascita dello stato di Israele
Terminata la guerra l’opinione pubblica mondiale dovette prendere atto della tragedia vissuta dal
popolo ebraico; milioni di morti, un’intera cultura, quella ebraica dell’Europa orientale, cancellata
per sempre. La sorte dei sopravvissuti, alcune centinaia di migliaia di individui, restò a lungo
incerta. Moltissimi non volevano o non potevano tornare nei luoghi di provenienza, la maggior
parte dei sopravvissuti passò così dai campi nazisti ai campi delle Nazioni Unite in attesa di una
sistemazione definitiva.
In un primo momento si credette di poter ricostituire la comunità ebraica polacca poiché il nuovo
governo si impegnò nell’invitare gli ebrei a tornare dando ampie rassicurazionì, ma un ennesimo
pogrom scoppiato a Kielce nel 1946 cancellò anche quella speranza e dimostrò che vi era ancora un
forte antisemitismo nel popolo polacco.
Il mondo doveva fare i conti con questi profughi che nessuno voleva. La Gran Bretagna proseguì
anche dopo la fine delle ostilità nella politica intrapresa a partire dagli anni trenta, imponendo limiti
rigidissimi all’immigrazione ebraica. Il movimento sionistico e lo yshuv reagirono seguendo due
linee d’azione complementari. Da una parte la lotta attiva alla politica britannica; lotta sviluppata
riprendendo e ampliando la politica di immigrazione illegale aliyha bet e intraprendendo azioni di
disturbo contro le forze britanniche in Palestina (l’haganà collaborò con i gruppi più estremisti per
intraprendere azioni di guerriglia contro gli inglesi) . Su di un altro piano continuavano gli incontri
e i contatti con americani e inglesi per giungere ad una soluzione negoziale della questione.
La situazione si deteriorò rapidamente, il fallimento della diplomazia, il dramma dei profughi, i
crescenti disordini in Palestina costrinsero gli inglesi a sottoporre la questione alle Nazioni Unite il
2 aprile del 1947. A questo punto la direzione del movimento sionista interruppe le azioni di
guerriglia, che furono continuate solo ad opera dei gruppi più intransigenti, e intensificò le
operazioni di immigrazione clandestina impegnandosi in azioni clamorose per smuovere l’opinione
pubblica internazionale. Dopo un acceso e articolato dibattito la commissione d’inchiesta delle
Nazioni Unite propose la creazione di due stati sovrani, uno ebraico e uno arabo, in Palestina, la
proposta fu approvata dall’Assemblea Generale e dai sionisti e invece rifiutata dagli arabi.
Tra il 14 e il 15 maggio venne proclamata la nascita dello Stato di Israele, immediatamente
riconosciuto dagli Stati Uniti e dall’Unione Sovietica. Nel contempo iniziarono le ostilità con gli
arabi che intendevano distruggere il neonato stato ebraico.
In realtà le ostilità erano già cominciate nel novembre del 1947, ma a partire dal maggio del 1948 ai
tumulti della popolazione palestinese si aggiunsero gli interventi di soldati siriani ed egiziani.
18
Mentre i britannici si preparavano ad abbandonare la zona e la diplomazia internazionale
continuava a discutere sul futuro della regione era ormai evidente che tutto dipendeva dall’esito del
conflitto. Questo durò, con alterne vicende, fino al gennaio del 1949 e portò ad una schiacciante
vittoria israeliana; il neonato stato riuscì ad ottenere con le armi più di quanto avesse ottenuto con la
diplomazia ed i suoi confini risultano ampliati.
Dopo aver vinto la guerra d’indipendenza nuovi e complessi problemi si stagliavano all’orizzonte
per lo stato ebraico. Il governo presieduto da David Ben Gurion aveva moltissimo da fare sia sul
piano interno che su quello internazionale. Il piccolo stato si trovava in una situazione precaria
accerchiato da stati arabi nemici, inoltre nel corso del conflitto circa 600.000 palestinesi avevano
lasciato le loro case nella convinzione di tornare da vincitori al seguito degli eserciti arabi.
Si era aperto così il problema dei profughi palestinesi che si sarebbe maturato nel tempo divenendo
un tema essenziale con il quale Israele avrebbe dovuto fare i conti. Inoltre lo stato di Israele doveva
impegnarsi per crescere, accogliendo nuovi immigrati (legge del ritorno) che andavano inseriti nella
società israeliana e che dovevano spesso imparare l’ebraico; il piccolo stato doveva anche compiere
grandi sforzi per svilupparsi economicamente. A cinquanta anni di distanza si può vedere come
questi problemi siano stati affrontati e, in parte, risolti; in questi cinquanta anni lo stato ebraico ha
dovuto combattere diverse guerre ed è riuscito ad affermarsi come una realtà stabile ed importante
nel contesto mediorientale. Quella israeliana è oggi una società democratica moderna ed
industrializzata che continua ad accogliere ebrei da tutti il mondo, tra gli ultimi flussi migratori
importanti va segnalato quello degli ebrei etiopi e quello degli ebrei russi. Anche i rapporti con i
vicini arabi e la questione palestinese negli ultimi anni hanno conosciuto un significativo
miglioramento.
Il nuovo stato, per quanto piccolo e per poco scampato alla distruzione, ha rappresentato sin dalla
nascita una grande conquista per il popolo ebraico. A partire dalla sua creazione cambiò il modo in
cui gli ebrei di tutto il mondo si confrontavano con il sionismo. La maggioranza degli ebrei della
diaspora era sempre stata a-sionista se non proprio anti-sionista, ma la tragedia vissuta durante la
seconda guerra mondiale e le vicende del nuovo stato cambiarono il clima. Si può parlare di una
nuova disponibilità degli ebrei di tutto il mondo verso il sionismo; a partire dal maggio del 1948
nessun ebreo del mondo avrebbe potuto evitare di confrontarsi con l’esistenza dello stato di Israele
e di elaborare anche in relazione ad esso la propria identità. Questo non significa però che la
maggioranza degli ebrei divenne sionista, anzi coloro che decisero di trasferirsi in Israele restarono
sempre una minoranza, per quanto numericamente e qualitativamente importante.
Anche l’Italia fu coinvolta dai drammatici eventi che sono stati brevemente descritti. La penisola
italiana rappresentava infatti un naturale pontile d’imbarco per i profughi ebrei diretti in Palestina;
nell’immediato dopoguerra i soldati della Brigata Ebraica stanziati in Italia operarono, con l’aiuto
della comunità ebraica locale e il tacito consenso delle autorità italiane, per far affluire in Italia i
profughi dei campi della morte e per trasportarli in Palestina.
Per quanto riguarda gli ebrei italiani è opportuno notare che essi erano stati duramente colpiti dalla
persecuzione fascista e poi dall’occupazione nazista. Quasi ogni famiglia aveva subito un lutto,
inoltre tutti erano stati feriti sul piano morale, psicologico ed economico. La grande prova di
umanità data dal popolo italiano nel proteggerli dai nazisti e il riscatto morale e politico
rappresentato dalla Resistenza avevano confermato la maggioranza degli ebrei italiani nel loro
19
attaccamento a questo paese.
Dopo la guerra il reinserimento nella società risultò spesso difficile. Il processo di abrogazione della
legislazione razziale, che prese slancio a partire dal 1947, fu lungo e travagliato; non era possibile
cancellare completamente i segni lasciati da sette anni di persecuzioni. Il ritorno agli impieghi dai
quali si era stati cacciati, la riappropriazione dei beni di cui si era stati spogliati risultò
estremamente difficile e non sempre possibile. Inoltre per quanto fosse stata cancellata la normativa
persecutoria nulla venne fatto per sradicare dalla mente degli italiani sette anni di propaganda
razzista e antisemita.
Nel dopoguerra la comunità ebraica italiana risultava trasformata dalle vicende persecutorie, le
caratteristiche economiche, demografiche e culturali di quella comunità erano state profondamente
e durevolmente cambiate. In sette anni l’ebraismo italiano aveva perso circa il 50% dei suoi membri
e ne aveva accolti altri 5000 giunti dall’estero che si sarebbero poi fermati stabilmente; la
composizione demografica dell’ebraismo italiano fu mutata da circa 4000 abiure e dall’emigrazione
di 2/3 degli ebrei stranieri oltre che dalla morte di circa 6000 ebrei italiani (di cui 250 durante la
Resistenza) . Le persecuzioni avevano inoltre portato ad una riduzione del numero di matrimoni e
delle nascite e ad un significativo invecchiamento della popolazione ebraica italiana.
Anche il livello culturale degli ebrei italiani fu danneggiato dalla persecuzione: il razzismo fascista
interruppe un trend di crescita del livello culturale della compagine ebraica italiana cominciato con
l’emancipazione. Collegato all’abbandono degli studi ed alla situazione di incertezza e precarietà
che si venne a creare a partire dal 1938 è il cambiamento nelle scelte professionali dell’ebraismo
italiano. Si riconoscono infatti dei mutamenti di lungo termine: al crescente coinvolgimento nella
burocrazia statale e nell’esercito riscontrabile a partire dall’emancipazione segui, dal 1938 in poi,
un brusco calo nel numero di ebrei che svolgevano questo tipo di attività, mentre aumentò il numero
di coloro che si dedicavano alle attività commerciali. Una volta ripiegate su tali attività larghe fasce
dell’ebraismo italiano vi restarono anche dopo la fine della persecuzione.
Un altro effetto della persecuzione consistette nella definitiva crisi delle più piccole comunità, la
politica fascista e l’occupazione tedesca accelerarono un processo di abbandono delle comunità
minori a favore di quelle più grandi che era già in atto da tempo. Nel dopoguerra si affermarono
come centri principali della vita ebraica la comunità di Milano e quella di Roma, che rimase la più
numerosa e che continua ad essere tuttora la sede degli organi rappresentativi dell’ebraismo italiano.
La persecuzione aveva segnato inevitabilmente anche l’identità ebraica italiana. Soprattutto tra i più
giovani, che erano stati costretti ad abbandonare le scuole e che si ritrovarono insieme nelle scuole
ebraiche, quelle vicende stimolarono un ripensamento circa la propria identità e l’affermazione di
un rinnovato spirito di gruppo. Le scuole ebraiche continuarono la loro attività nel dopoguerra,
specie nei centri più grandi, e divennero un importantissimo polo di aggregazione per la compagine
ebraica italiana.
Attualmente gli ebrei italiani sono circa 32.000, le maggiori comunità si trovano a Roma e a
Milano, altre comunità minori sono presenti nelle maggiori città della penisola, in particolare al
nord. Essi sono rappresentati dall’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane, con sede a Roma, che
ha stipulato un accordo con il Governo Italiano per garantire il rispetto di tutti i loro diritti. Sono
perfettamente integrati nel tessuto sociale della repubblica, sono attivi in tutti i campi della vita
nazionale e tra di essi si ritrovano i più diversi orientamenti politici. Va segnalato infine che vi sono
20
stati alcuni flussi migratori importanti dal medio oriente che hanno arricchito la comunità ebraica
italiana, si tratta prevalentemente di ebrei egiziani, libici e persiani venuti in Italia in conseguenza
dell’evoluzione della situazione politica in quei paesi; questi flussi migratori sono stati
particolarmente consistenti nel 1956, nel 1967 e nel 1973.
Distribuzione geografica e migrazioni interne al gruppo ebraico in Italia
La distribuzione geografica degli ebrei nella penisola negli ultimi duecento anni è il prodotto di una
serie di eventi che risalgono al XV ed al XVI secolo e che hanno avuto conseguenze durature.
L’espulsione degli ebrei dalle regioni meridionali, migrazioni di altre comunità verso centri capaci
di esercitare una notevole attrazione, la creazione dei ghetti che durò circa trecento anni.
Dalla fine del settecento ad oggi sono riconoscibili distintamente una serie di migrazioni del gruppo
ebraico all’interno del territorio italiano. Si tratta di spostamenti riconducibili ad una pluralità di
cause; in estrema sintesi si possono inquadrare questi movimenti della popolazione ebraica
nell’ambito di un processo di graduale abbandono delle comunità più piccole, dei centri più piccoli
e più poveri a favore di quei centri che andavano affermandosi nel corso dell’ottocento come centri
propulsivi della crescita economica, culturale e politica della nazione. Dopo l’emancipazione e
l’apertura dei ghetti molti ebrei scelsero di spostarsi verso quei centri che offrivano maggiori
opportunità, verso quelle località dove avrebbero potuto svolgere meglio le loro attività
commerciali e professionali.
Moltissimi accolsero le nuove possibilità offerte dal regime liberale per integrarsi socialmente,
culturalmente ed economicamente (si badi che l’integrazione non costituiva necessariamente il
primo passo verso la piena assimilazione e la perdita della propria identità specifica) . Nelle grandi
città non vi erano soltanto maggiori opportunità sul piano economico, era anche più facile
confondersi con gli altri. La propria identità ebraica poteva essere più facilmente serbata e coltivata
nella sfera privata, si potevano così intrecciare più facilmente rapporti sempre più stretti con la
società circostante. Inoltre, anche dal punto di vista della vita culturale e spirituale ebraica i grandi
centri erano più vivi, dinamici e stimolanti.
Il processo di abbandono delle piccole comunità avviatosi a partire dall’emancipazione subì una
notevole accelerazione in conseguenza delle persecuzioni antiebraiche incominciate nel 1938. La
persecuzione antiebraica e l’occupazione tedesca determinarono la distruzione di quei pochi piccoli
centri di vita ebraica che esistevano ancora. La guerra e le persecuzioni provocarono una drastica
riduzione della popolazione ebraica italiana (circa 8.000 morti), determinarono la fine della vita
ebraica nei piccoli centri. Nel dopoguerra solo la comunità di Roma si manteneva su livelli vicini a
quelli precedenti il 1938 e la comunità di Milano risultava lievemente cresciuta in conseguenza
dell’insediamento di comunità di ebrei stranieri.
21