34° Congresso 06 5-10-2006 11:35 Pagina 1 34° Congresso Nazionale della Società Italiana di Microbiologia Palazzo Ducale Genova, 15 -18 Ottobre 2006 Relazioni 34° Congresso 06 5-10-2006 11:35 Pagina 2 VALUTAZIONE QUANTITATIVA DI HIV DNA NELLA STORIA NATURALE DELL’INFEZIONE G. Antonelli Dipartimento di Medicina Sperimentale e Patologica, Sezione di Virologia, Università “La Sapienza” Roma E’ ormai accertato che la progressione dell’infezione da HIV è direttamente o indirettamente determinata dalla entità della replicazione virale. E’ stato tuttavia dimostrato che la negativizzazione dell’RNA virale nel plasma, anche per periodi di tempo relativamente lunghi, non si accompagna temporalmente alla scomparsa del DNA provirale e che alla sospensione della terapia antivirale o al suo fallimento segue rapidamente la ripresa della replicazione virale. Si è posto quindi il problema di stabilire da quali sedi il virus riprenda a pieno ritmo la replicazione. Una ipotesi è che una fonte importante di questo risveglio replicativo sia rappresentata da cellule portatrici di DNA provirale notoriamente non sensibili ai farmaci antiretrovirali. La loro attivazione infatti, ad opera di fattori differenti, potrebbe comportare la produzione di elevate quantità di virus favorendo la progressione della malattia. Nostri studi recenti suggeriscono che le cellule portatrici di HIVDNA rappresentano un efficace marcatore di progressione in quanto, in soggetti naive, il loro numero è inversamente correlato con il numero dei CD4. I dati ottenuti non consentono tuttavia di stabilire in maniera definitiva la proporzione tra cellule latentemente infette e quelle con infezione produttiva. E’ stato inoltre dimostrato che in corso di terapia efficace il compartimento HIV DNA infetto non diminuisce in maniera proporzionale alla viremia plasmatica. Le ragioni di tale dicotomia sono ancora poco chiare così come non è chiaro come questo fenomeno possa a lungo termine influenzare la progressione della malattia. EVOLUZIONE MOLECOLARE DEL VIRUS INFLUENZALE Arianna Calistri e Giorgio Palù Dipartimento di Istologia, Microbiologia e Biotecnologie Microbiche, Università degli Studi di Padova Raramente un virus è in grado di passare dal suo ospite naturale ad un nuovo ospite, a dimostrazione che le barriere biologiche ed epidemiologiche da superare perché il salto di specie sia di successo sono numerose. Infatti il virus deve essere in grado non solo di infettare le cellule del nuovo ospite (che quindi devono essere suscettibili), ma anche di potersi replicare in esse fuoriuscirne per poter ulteriormente diffondere. Per quanto raro tale evento è comunque possibile con conseguenze generalmente drammatiche, in quanto nel nuovo ospite, naïve dal punto di vista immunologico, il virus può causare estese epidemie o pandemie, spesso caratterizzate da elevata letalità. Il virus dell’influenza di tipo A è un esempio di virus in grado di passare con successo dall’ospite naturale a nuovi ospiti, causando in questi ultimi pandemie. Tale virus ha il proprio serbatoio naturale negli uccelli selvatici d’acqua dolce. Occasionalmente il virus può essere trasmesso da questi ad uccelli domestici o a mammiferi, incluso l’uomo. La maggior parte di questi eventi di trasmissione inter-specifica sono caratterizzati da una diffusione del virus nella nuova specie molto limitata e si autoesauriscono. Tuttavia, occasionalmente un virus influenzale può acquisire la capacità di diffondere rapidamente e in grosse proporzione nella nuova specie, causando pandemie. Progressivamente, il virus si adatta alla nuova specie e si ripresenta anno dopo anno in forma epidemica. Alla base di questo processo sono una serie di cambiamenti antigenici ai quali il virus dell’influenza di tipo A può andare incontro e che sono noti come “antigenic drift” e “antigenic shift”. Questi fenomeni sono stati evidenziati ed analizzati grazie allo studio delle caratteristiche biologiche e molecolari dei tre ceppi influenzali pandemici umani (H1N1, H2N2, H2N3) e dei ceppi di influenza umana e aviaria in circolazione. Tale studio, ha fornito importanti informazioni sugli specifici e coordinati cambiamenti che il virus deve subire affinché possa trasmettersi e replicare con successo in un nuovo ospite. Questi cambiamenti non riguardano solo proteine di superficie HA and NA (che sono fondamentali nella fase di ingesso e fuoriuscita del virus dalla cellula bersaglio), ma anche proteine interne (quali PB1 and NS1, essenziali nella replicazione virale). Gli studi finora eseguiti hanno permesso di concludere che l’evoluzione molecolare alla quale il virus dell’influenza va incontro nell’acquisire la nuova specie-specificità è molto complessa del virus e accompagnata dall’adattamento al nuovo ospite. Infatti da un lato il virus deve acquisire la capacità di infettare efficientemente il nuovo ospite, dall’altra deve essere in grado di permanere in questo. La complessità del processo giustifica la rarità con la quale emergono ceppi pandemici di influenza nella popolazione umana ed il fatto che, pur essendosi verificati e verificandosi eventi di passaggio di virus dell’influenza aviaria all’uomo (H5N1 e H7N7 sono solo due esempi), questi non abbiano fino ad ora portato a nuove pandemie Tuttavia, più sono i casi di salto di specie, maggiore è la probabilità che ci si trovi nelle condizioni favorevoli per l’evoluzione di questi virus verso ceppi a potenzialità pandemica per l’uomo. Pertanto, comprendere gli step necessari ad un virus per superare la barriera di specie è essenziale al fine di valutare con precisioni i rischi potenziali del passaggio ed eventualmente per intraprendere gli interventi necessari a controllare il virus prima che si adatti completamente al nuovo ospite. 2 34° CONGRESSO NAZIONALE DELLA S A 34° Congresso 06 5-10-2006 11:35 Pagina 3 RISPOSTA ALLO STRESS NEGLI ENTEROCOCCHI Pietro Canepari, Maria del Mar Lleò e Caterina Signoretto Dipartimento di Patologia, Sezione di Microbiologia, Università di Verona - Verona Gli enterococchi, componenti della flora fecale normale dell’uomo e degli animali a sangue caldo, sono utilizzati come indicatori di inquinamento fecale di medio termine dell’ambiente. Comunemente si ritiene che gli enterococchi e gli altri batteri intestinali non sporigeni una volta eliminati dall’ospite incontrino nell’ambiente esterno condizioni di oligotrofia, bassa temperature, intensa radiazione solare che, a seguito del blocco della divisione, conducano seppur con diversa cinetica al danno cellulare e, successivamente, alla rapida morte. Studi effettuati a partire dagli anni 90 hanno messo in luce la capacità degli enterococchi, così come per altri microrganismi non produttori di spora di interesse medico, di attivare strategie di sopravvivenza in condizioni ambientali stressanti che mantengono la vitalità cellulare per tempi assai più lunghi di quanto prima ipotizzato. In particolare, noi ci siamo dedicati allo studio del così detto stato vitale ma non coltivabile (VBNC, acronimo di “viable but nonculturable”). Batteri in stato VBNC mantengono la vitalità per lungo tempo ma non sono più coltivabili sui convenzionali terreni di coltura. La vitalità degli enterococchi è stata dimostrata con l’integrità di membrana, la capacità di mantenere l’espressione di specifici geni anche a 3 mesi dall’entrata nello stato VBNC e, in special misura, dalla capacità di parte della popolazione cellulare di tornare alla moltiplicazione al ripristino di condizioni ambientali favorevoli (“resuscitation”). Altri nostri risultati hanno dimostrato che allo stato VBNC degli enterococchi corrispondono specifici cambiamenti della parete batterica ed induzione di specifiche proteine necessarie alla risposta anti-stress con la identificazione di un proteoma caratteristico. Sulla base di queste osservazioni sperimentali, e tenuto conto che i metodi attualmente utilizzati per la determinazione della carica microbica di campioni ambientali sono basati sulla coltivazione dei microrganismi, appare evidente il rischio di sottostimare la reale carica microbica in quanto essi non sono capaci di individuare i batteri in stato VBNC. Da ciò consegue che metodi che non prevedano la coltivazione dei microrganismi prima della loro identificazione siano da preferire. Le tecniche identificative mediante il rilevamento degli acidi nucleici microbici appaiono particolarmente indicate per il raggiungimento di questo obiettivo. Nel corso di una lunga ed accurata indagine da noi condotta relativamente alla ricerca degli enterococchi nelle acque del lago di Garda abbiamo messo in luce che, mentre con il metodo colturale classico gli enterococchi erano ritrovati assai sporadicamente, la applicazione di un metodo della reazione polimerasica a catena di tipo quantitativo (qPCR) ha permesso di dimostrare la presenza di enterococchi in un numero molto elevato di campioni (circa la metà) e che questi erano presenti nelle acque del lago nel corso dell’intero anno. Inoltre, la ricerca degli enterococchi liberi e adesi alla frazione di zooplancton lacustre, ha permesso di dimostrare che tali microrganismi persistono, in stato non coltivabile, prevalentemente legati a tali organismi. Simili risultati sono stati ottenuti anche nel corso di una analoga ricerca condotta nel mare Adriatico. Altri nostri risultati hanno, successivamente, messo in luce la possibilità che enterococchi in stato VBNC possano mantenere geni di resistenza agli antibiotici ed, in particolari condizioni, scambiarli con altri batteri. La individuazione di un ulteriore serbatoio ambientale di microrganismi potenzialmente patogeni per l’uomo ma non rilevabile con gli attuali protocolli identificativi impone la rapida revisione di questi protocolli con l’introduzione di alternative in grado di meglio proteggere la salute dei cittadini. SCLEROSI MULTIPLA: TERAPIA IMMUNOSOPPRESSIVA E RISCHIO DI RIATTIVAZIONE VIRALE E. Capello , * J.L. McDermott, * D. Ferrari, **F. Gualandi *OE. Varnier, GL. Mancardi. Dipartimento di Neuroscienze, e *Sezione di Microbiologia, ed Università di Genova, ** Servizio di Ematologia Ospedale S. Martino Benché la maggioranza dei casi di sclerosi multipla (SM) siano a tutt’oggi trattati con terapia immunomodulante che esercita alla periferia l’azione biologica e non modifica l’immunocompetenza dell’ospite, la ricerca di nuove strategie terapeutiche più efficaci nel controllo locale o sistemico di malattia può accompagnarsi a rara ma possibile riattivazione virale. In tal senso riportiamo i dati di letteratura riferiti alla fase di sperimentazione del natalizumab, anticorpo monoclonale anti- VLA4, sospesa, quest’ultima, per il presentarsi di tre casi di leucoencefalopatia multifocale progressiva (PML) da riattivazione del JC virus. Riferiamo anche della nostra esperienza riguardante l’intensa immunosoppressione seguita da trapianto di cellule staminali ematopoietiche in casi estremamente aggressivi di SM, non controllati dalle terapie convenzionali. Sia nello studio nazionale di fase 2, che fra i pazienti trattati out of protocol per l’elevata disabilità neurologica, si è osservata in alcuni positività per il citomegalovirus (Agp65) e in alcuni di questi avviata terapia profilattica anche in assenza di malattia da CMV. Tutti i pazienti sono stati inoltre screenati per EBV risultando negativi e del resto i dati del registro Europeo riportano una mortalità legata al trapianto, che si attesta sul 5% circa dei casi, esclusivamente secondaria ad infezioni batteriche. Il controllo di eventuale riattivazione di virus neurotropi è comunque fortemente auspicabile in tutte le procedure terapeutiche “innovative” che implicano un riarrangiamento immunitario, soprattutto se organo specifico. SOCIETÀ ITALIANA DI MICROBIOLOGIA 3 34° Congresso 06 5-10-2006 11:35 Pagina 4 FARMACOLOGIA CLINICA DEGLI ANTIBIOTICI IN OSPEDALE: CRITERI PER UN IMPIEGO APPROPRIATO A.P. Caputi Dipartimento clinico e sperimentale di Medicina e di Farmacologia Facoltà di Medicina e Chirurgia – Sezione di Farmacologia Università degli Studi di Messina Gli antibiotici sono farmaci largamente usati sia nella profilassi che nella terapia delle infezioni batteriche: in Europa sono i farmaci più prescritti in ambito ospedaliero e circa un terzo delle prescrizioni è effettuata a scopo profilattico. A volte, tuttavia, il loro impiego è effettuato se non in maniera scorretta, per lo meno impropria con il rischio di comprometterne l’utilità su più livelli. Infatti, l’uso inappropriato degli antibiotici può avere sia delle ripercussioni sul singolo paziente, con riduzione dell’effetto terapeutico e/o con la possibile insorgenza di eventi avversi, sia su tutta la comunità, favorendo la comparsa e la diffusione di ceppi batterici antibiotico-resistenti, con limitazione dell’uso di molecole altrimenti valide. Proprio per questa sua natura “poliedrica”, l’antibiotico è un bene prezioso da maneggiare con molta cautela, per preservarne gli indubbi benefici ed evitare gli eventuali inconvenienti. Per questo motivo, la terapia antibiotica (così come qualsiasi altro tipo di terapia) deve essere soppesata in funzione del farmaco (dose, durata del trattamento, via di somministrazione) e del paziente (età, sesso, razza, patologie concomitanti e terapie concomitanti, convenzionali o meno). Applicare dei principi di buon uso del farmaco ad una classe terapeutica di così largo consumo può essere di buon auspicio per un corretto impiego di tanti altri farmaci, a tutto vantaggio della salute dei pazienti e della comunità. UTILIZZO DELLA METODOLOGIA FOURIER TRANSFORM INFRARED SPETTROSCOPY (FTIR) PER LA DEREPLICAZIONE E IDENTIFICAZIONE MICROBICA G. Cardinali, L. Corte, F. Fatichenti, P. Rellini Sezione Microbiologia Agroalimentare e Ambientale – DBVBAZ Università degli Studi di Perugia L’identificazione dei microrganismi presenta numerose difficoltà dovute a ragioni teoriche, come la mancanza di un’efficace definizione di specie microbica, tecniche, quali il numero limitato di caratteri fenotipici utilizzabili e pratiche come l’elevato costo –in termini di tempo e denaro - legato alle analisi di tipo molecolare. Allo stato attuale delle conoscenze, l’identificazione resta un’operazione lunga e costosa, che ne limitano l’applicabilità in tutte le procedure in cui risultino necessari metodi rapidi e poco costosi. Da qualche anno è allo studio anche la possibilità di identificare i microrganismi mediante l’analisi di spettrogrammi all’infrarosso ottenuti analizzando direttamente le colture con la tecnologia FT-IR (Fourier-Transform Infra Red spectrometry). Questa metodologia produce spettri che riportano valori di intensità da circa 5000 a 300 cm-1, in tempi ridottissimi ed a bassissimo costo d’esercizio. Al momento la FT-IR è stata impiegata con un certo successo nell’identificazione di batteri e, in alcuni casi, di eucarioti inferiori, benché la completa messa a punto richieda ulteriori studi. Gli ambiti in cui tale ottimizzazione può essere sviluppata riguardano i microbi d’origine ambientale, la microflora alimentare, il controllo di organismi industriali geneticamente modificati e non e soprattutto il monitoraggio di microrganismi patogeni d’origine ambientale che risultano essere uno dei maggiori rischi del momento attuale, anche senza considerare eventuali ipotesi di bioterrorismo. Le attività in corso nel nostro laboratorio sono finalizzate, all’ottimizzazione e standardizzazione delle tecniche, allo sviluppo di algoritmi per ottimizzare e rendere più rapida l’interpretazione dei dati spettrali e allo studio di alcuni gruppi tassonomici di lieviti di elevato interesse ambientale ed industriale (generi Debaryomyces, Saccharomyces e Rhodotorula) anche in vista di sviluppi organizzativi che contemplino una rete nazionale di identificazione rapida. 4 34° CONGRESSO NAZIONALE DELLA S A 34° Congresso 06 5-10-2006 11:35 Pagina 5 PROSPETTIVE PER UN VACCINO ANTIFUNGINO Antonio Cassone Dipartimento di Malattie Infettive, Parassitarie ed Immunomediate Istituto Superiore di Sanità - Roma Per un approccio innovativo alla vaccinazione attiva e passiva contro i funghi opportunisti umani, abbiamo provato ad invertire il dogma antigenico di specificità che asserisce che uno (o più) antigene specifico di un dato agente patogeno sia necessario a immunizzare contro quell’agente patogeno. La disponibilità di un antigene comune a distinti patogeni può essere di grande aiuto nella generazione dei vaccini e stabilire le politiche di vaccinazione contro i funghi patogeni. Abbiamo approcciato questo probelema scegliendo come antigene vaccinale, la laminarina prodotta dall’alga Laminaria digitata e composto da beta-1-3 glucano, un componente della parete cellulare che è presente in tutti i funghi patogeni ed in alcuni altri microrganismi. A causa del suo scarso potere immunizzante, la laminarina è stata coniugata con la tossine ( geneticamente inattivata) CRM197 del batterio difterico, come proteina carrier già utilizzata in altri vaccini batterici glico-coniugati. Questo nuovo coniugato (Lam-CRM) è risultato immunogenico e protettivo contro • sistemiche e mucosali (vaginali) da Candida albicans, così come contro l’infezione sistemica da Aspergillus fumigatus. La protezione è risultata essere mediata da anticorpi antibeta-glucano i quali, sia in Candida che in Aspergillo, inibiscono lo sviluppo ifale in vitro, senza la partecipazione di qualunque altro fattore immunitario. I topi ed i ratti possono essere vaccinati passivamente attraverso questi anticorpi, allo stesso livello di efficacia sia nell’animale normale che nell’ animale neutropenico (1). In vitro, gli anticorpi inibiscono parzialmente la sintesi del glucano durante la rigenerazione dei protoplasti di C.albicans, principalmente nelle fasi iniziali di formazione della parete rigida delle cellule. Un certo grado di protezione anti-Candida si è ottenuto tramite anticorpi monoclonali anti-beta-glucano. È interessante che monoclonali anti-beta-glucano. con regioni identiche VL e VH, ma isotipo differente (IgG o IgM), riconoscono differenzialmente configurazioni beta 1-3 o beta 1-6 diglucano e, più importante, esercitano un diverso grado di protezione anti-Candida. Anche se attualmente limitato a Candida ed all’Aspergillo, abbiamo provato il concetto che è possibile usare un singolo antigene (o anticorpo) per vaccinare attivamente (o passivamente) contro tutti i funghi patogeni umani che esprimono il beta-glucano sulla loro superficie. In questa linea, osservazioni molto recenti della Dr.ssa Vecchiarelli ed i suoi collaboratori dimostrano un legame altamente efficiente di un monoclonale anti-beta1-3 glucano a ceppi di Cryptococcus neoformans, sia capsulato che non capsulato ha possibilità di generare anticorpi direttamente inibitori della crescita fungina è particolarmente importante per un uso potenziale di questi anticorpi in soggetti immunocompromessi, bersaglio tipico delle infezioni fungine. 1. Torosantucci et al. A novel glycoconjugate vaccine against fungi. J.Exptl Med.2005, 202:597 ADATTAMENTO ALLO STRESS IN HELICOBACTER PYLORI Luigina Cellini Dipartimento di Scienze Biomediche - Facoltà di Farmacia - Università “G. d’Annunzio”- Chieti I microrganismi rispondono allo stress ambientale attraverso comportamenti dinamici finalizzati al raggiungimento delle migliori condizioni per l’adattamento. In condizioni di stress la pressione selettiva incrementa la variabilità genica favorendo l’evoluzione della diversità microbica ed il clustering attivo tra le cellule. L’acquisizione dello Stato Vitale non Coltivabile (VBNC) e la formazione di Biofilm rappresentano valide strategie adottate dai microrganismi per rispondere agli insulti ambientali. Helicobacter pylori, germe mutevole, risponde a condizioni sub-ottimali di crescita attraverso modificazioni morfologiche e trascrizionali acquisendo lo stato VBNC. Nello stato VBNC, H.pylori conserva i fattori di virulenza presenti nella corrispondente cellula vegetativa ed è capace di “resuscitare” in appropriati modelli sperimentali. Un modello animale, topi Balb/C, ed un microcosmo marino contenente un copepode, Tigriopus fulvus, rappresentano un valido sistema sperimentale per la riattivazione di cellule VBNC in forme coltivabili. Le cellule di H.pylori nello stato VBNC rappresentano la condizione protetta attraverso cui il microrganismo persiste all’esterno dell’ospite costituendo un significativo veicolo per la trasmissione. I batteri nello stato VBNC sono assimilabili alla sub-popolazione dei persister presenti in un Biofilm eterogeneo a cui si attribuisce un ruolo chiave nell’instaurarsi del fenomeno della tolleranza agli antibiotici. Il morfotipo coccoide VBNC di H.pylori rappresenta la popolazione sessile prevalente nel Biofilm maturo ottenuto su superfici di polistirene. Infatti, in vitro, H.pylori è in grado di organizzarsi in cluster di cellule immersi in abbondante matrice dopo 2 giorni di incubazione. In questa fase, si registra la massima espressione del gene luxS coinvolto nel Quorum-Sensing microbico. Osservazioni effettuate ex vivo, in microscopia elettronica a scansione su biopsie gastriche, confermano la presenza di aggregati batterici non coltivabili, in cui, l’espressione ed il sequenziamento del gene glmM, costitutivo per H.pylori, consentono l’identificazione del microrganismo e, l’espressione del gene luxS, conferma l’interazione tra le cellule. H.pylori in relazione agli stimoli ambientali risponde con un comportamento cellulare aggregativo dinamico in cui esprime autentiche strategie per equilibrare la sua diffusione nell’ambiente e nell’ospite. SOCIETÀ ITALIANA DI MICROBIOLOGIA 5 34° Congresso 06 5-10-2006 11:35 Pagina 6 FENOTIPO E FITNESS DI HIV-1 NELLA VALUTAZIONE DELLA TERAPIA Massimo Clementi Università Vita-Salute San Raffaele e Laboratorio di Microbiologia e Virologia, Ospedale San Raffaele, Milano La relazione affronterà il tema delle caratterizzazione del potenziale patogeno di varianti di HIV-1 selezionate in diversi momenti della progressione dell’infezione-malattia e durante le terapie anti-retrovirali. La relazione tenterà altresì di valutare se studi sequenza-funzione possono fornire informazioni sul ruolo dell’evoluzione virale intra-ospite nella progressione stessa e sul significato clinico-diagnostico della valutazione della capacità replicativa ex vivo di varianti virali. La relazione includerà anche una valutazione del ruolo del laboratorio virologico nel monitoraggio dell’infezione da HIV-1. STRESS ACIDO ED EVOLUZIONE IN SHIGELLA ED ESCHERICHIA COLI B.Colonna, (1) M.Casalino, (2) G.Prosseda, (1) M.C..Latella (1) (1) Dipartimento di Biologia Cellulare e dello Sviluppo, Università di Roma “La Sapienza”, Roma (2) Dipartimento di Biologia, Università Roma Tre, Roma Per affrontare condizioni di pH acido i batteri enterici hanno evoluto complesse strategie di sopravvivenza che inducono a basso pH una risposta molecolare programmata in grado di attivare vari sistemi tra i quali alcune aminoacido decarbossilasi. I tre maggiori sistemi di decarbossilasi degli aminoacidi agiscono modificando la lisina, l’acido glutammico o l’arginina e determinano un aumento del pH attraverso il consumo di protoni durante la decarbossilazione. Il sistema cad di E.coli deputato alla decarbossilazione della lisina in cadaverina è completamente silenziato in Shigella e negli E.coli enteroivasivi (EIEC). La perdita della capacità di sintetizzare la lisina decarbossilasi (fenotipo LDC-). viene considerata come una mutazione “patoadattativa”, necessaria per ottenere la piena espressione del fenotipo di invasione. Infatti la cadaverina, il prodotto finale della decarbossilazione della lisina, è una piccola poliamina che interferisce sia con il processo infiammatorio indotto dal microrgansmo ed essenziale per la diffusione a livello delle cellule epiteliali del colon, sia con l’abilità di lisare il vacuolo fagocitico Dall’analisi dei riarrangiamenti genetici del locus cad di Shigella ed EIEC è emerso che la strategia principale che ha portato al silenziamento si basa su mutazioni di tipo inserzione e/o delezione nel gene codificante la proteina regolatrice CadC o nel suo promotore. I risultati ottenuti mediante analisi del trascrittoma hanno messo in evidenza come la perdita di CadC possa portare all’attivazione di alcuni geni potenzialmente importanti nella virulenza del microrganismo stabilendo una correlazione diretta tra CadC e la virulenza di Shigella, e suggerendo che CadC possa svolgere essa stessa un ruolo di “antivirulenza”, probabilmente in modo indipendente da quello svolto dalla molecola di cadaverina. 6 34° CONGRESSO NAZIONALE DELLA S A 34° Congresso 06 5-10-2006 11:35 Pagina 7 I CORONAVIRUS DEL CANE Nicola Decaro Dipartimento di Sanità e Benessere degli Animali, Università degli Studi di Bari I coronavirus (fam. Coronaviridae, ordine Nidovirales) sono virus ad RNA monocatenario a polarità positiva, che vanno facilmente incontro a variazioni del tropismo e del potere patogeno a seguito di fenomeni di ricombinazione genetica e/o delezioni e mutazioni puntiformi a livello di alcuni geni. I coronavirus del cane sono responsabili di affezioni di varia natura nel cane. Attualmente si conoscono tre distinti genotipi dei coronavirus del cane: due a tropismo enterico (CCoV tipo I e tipo II) ed un terzo a tropismo respiratorio, denominato coronavirus respiratorio del cane (CRCoV). CCoV tipo I e tipo II appartengono ai coronavirus di gruppo 1 e causano, generalmente, infezioni autolimitanti dell’apparato gastroenterico, dalle quali sono frequentemente isolati entrambi i genotipi. Rispetto al genotipo II, CCoV tipo I presenta un gene accessorio di 624 nucleotidi, denominato ORF3, la cui proteina è stata caratterizzata a livello molecolare. Recentemente è stata segnalata una variante pantropica del genotipo II, responsabile di malattia sistemica ad esito letale. La caratterizzazione molecolare di questa variante ha messo in evidenza la presenza di una delezione in un gene gruppo-specifico, la quale potrebbe essere responsabile della variazione del tropismo virale, secondo meccanismi simili a quelli coinvolti nella insorgenza del biotipo patogeno dei coronavirus felini. CRCoV è invece strettamente correlato al coronavirus bovino (coronavirus di gruppo 2) ed è responsabile di sintomatologia respiratoria, rientrando tra i fattori eziologici della cosiddetta tosse dei canili. Indagini sierologiche e molecolari hanno dimostrato che questo nuovo coronavirus è presente anche in Italia. Saranno affrontate e discusse le più recenti acquisizioni in materia di patogenesi, diagnosi e profilassi delle infezioni da coronavirus del cane. STRATEGIE PER LO SVILUPPO DI VACCINI A SUBUNITÀ CONTRO LA TUBERCOLOSI Giovanni Delogu Istituto di Microbiologia, Università Cattolica del Sacro Cuore – Roma Lo sviluppo di un nuovo vaccino contro la tubercolosi (TB) potrebbe fornire uno strumento fondamentale per il controllo di una delle più importanti malattie infettive per l’uomo. L’efficacia dell’unico vaccino attualmente disponibile, il vaccino BCG (Bacille Calmette and Guerin), nel prevenire le forme di TB attiva negli adulti è piuttosto variabile e comunque molto bassa in particolare nelle regioni in cui più elevato è il rischio di sviluppare la malattia. Negli ultimi anni si sono intensificati gli sforzi per mettere a punto un nuovo e più efficace vaccino, utilizzando tecniche e strategie di immunizzazione innovative che prevedono l’utilizzo di vaccini a subunità. In questa categoria di vaccini sono inclusi i vaccini a subunità proteiche ed i vaccini a DNA. Nella presente relazione verranno presentati e discusse le strategie per lo sviluppo di vaccini a subunità, con particolare riferimento alla selezione degli antigeni ed agli schemi di vaccinazione. Verranno inoltre discussi i modelli per la valutazione dell’efficacia di tali vaccini sperimentali e verranno presentati i nostri dati relativi alla valutazione di tali vaccini nel modello di TB murina. SOCIETÀ ITALIANA DI MICROBIOLOGIA 7 34° Congresso 06 5-10-2006 11:35 Pagina 8 ASPETTI DIAGNOSTICI DELL’INFLUENZA AVIARE L. Di Trani Dipartimento di Sanità Alimentare ed Animale, Istituto Superiore di Sanità, Roma Il controllo delle malattie infettive e diffusive degli animali dipende dallo sviluppo ed applicazione presso i laboratori di ricerca di metodiche diagnostiche avanzate. Metodiche molecolari che si basano sulla rivelazione dei patogeni mediante amplificazione degli acidi nucleici quale la Real Time PCR (RRT-PCR), si rivelano quindi indispensabili nella diagnostica e nella epidemiologia delle malattie infettive di interesse veterinario, presentando una estrema versatilità, sensibilità e specificità associata ad una relativa rapidità di analisi. Con riferimento alla influenza aviaria, malattia virale altamente contagiosa e di notevole impatto sanitario ed economico, l’utilizzo di metodiche molecolari rapide e di facile applicazione, quali la RRT-PCR , è di estrema utilità per potere processare un elevato numero di campioni. Per questa malattia virale infatti si prevede un rafforzamento ed un ampliamento di piani di monitoraggio e sorveglianza negli animali domestici e nei volatili selvatici, legato principalmente alla corrente e preoccupante emergenza sanitaria che interessa sia i paesi del Sud Est asiatico che l’Europa. Attualmente, per questo agente eziologico, esistono kit diagnostici di biologia molecolare estremamente costosi. La messa a punto di metodica “ in-house “è in grado di ridurre i costi, riducendo i tempi di risposta e migliorando sensibilità e la specificità della reazione rispetto alle chimiche di RRT proposte in questi anni. La relazione descrive uno strumento diagnostico molecolare e le sue applicazioni in attività relative a diagnosi e ricerca sui virus Influenzali Aviari. LA RISPOSTA IMMUNE DURANTE LA FASE DI LATENZA DI MYCOBACTERIUM TUBERCULOSIS: IDENTIFICAZIONE DI EPITOPI IMMUNODOMINANTI Francesco Dieli Dipartimento di Biopatologia e Metodologie Biomediche, Università degli Studi di Palermo. Secondo le stime dell’OMS un terzo della popolazione mondiale è attualmente infettata da Mycobacterium tuberculosis. Mentre nel 90% dei soggetti dei casi l’infezione rimane clinicamente latente, nel rimanente 10% dei casi l’infezione può esitare in malattia. L’identificazione degli antigeni espressi dal Mycobacterium tuberculosis durante la fase di latenza costituisce pertanto un problema di enorme importanza, sia per lo sviluppo di vaccini e reagenti diagnostici, che per la possibile messa a punto di nuove strategie terapeutiche. La proteina di 16-Kda (α-cristallina, acr) di Mycobacterium tuberculosis è iperespressa durante la fase di crescita stazionaria ed in condizioni di latenza, dove costituisce fino al 25% di tutte le proteine micobatteriche; inoltre, una incrementata espressione del gene per la proteina di 16-kDa è riscontrabile sia in topi infettati da Mycobacterium tuberculosis che in biopsie di caverne tubercolari nell’uomo. Pertanto, la proteina di 16-kDa può rappresentare un importante bersaglio della risposta immune protettiva in corso di latenza. L’analisi della proteina di 16-kDa ha permesso di evidenziare la presenza di epitomi riconosciuti sia dai linfociti CD4 che dai linfociti CD8. In particolare, abbiamo potuto identificare due epitopi riconosciuti dai linfociti CD8 nel contesto della molecola HLA di classe I HLA-A*0201 ed un epitopo immunodominante e geneticamente permissivo, riconosciuto dai linfociti CD4 nel contesto della maggior parte delle molecole di classe II HLA-DR. La conoscenza dei residui aminoacidici di questo peptide che sono coinvolti nel legame alle molecole HLA-DR ed al TCR dei linfociti CD4, può permettere la sintesi di peptidi con maggiore affinità e, quindi con maggiore attività biologica. 8 34° CONGRESSO NAZIONALE DELLA S A 34° Congresso 06 5-10-2006 11:35 Pagina 9 ANCHE I CANI…HANNO L’INFLUENZA!! Gabriella Elia Facoltà di Medicina Veterinaria Dipartimento Sanità e Benessere degli Animali, Università degli Studi di Bari La notevole plasticità che caratterizza i virus influenzali è stata recentemente confermata dalla segnalazione di una forma respiratoria nei cani, provocata da virus influenzali tipo A. Nei focolai più gravi, descritti negli Stati Uniti, i cani presentavano febbre e intensa dispnea, mentre l’esame anatomo-patologico evidenziava polmonite emorragica. Analisi molecolari e antigeniche hanno dimostrato che il virus responsabile non è correlato ai comuni agenti dell’influenza umana o al virus H5N1 dell’influenza aviaria, ma è stato caratterizzato come virus H3N8 equino. Si tratta della prima segnalazione di infezione da virus H3N8 equino in un animale diverso dal cavallo. POTENZIALE NEUROPATOGENO DEGLI HERPES VIRUS UMANI ED IN PARTICOLARE DI HHV6, 7 ED 8. Pasquale Ferrante Laboratorio di Medicina Molecolare e Biotecnologie, Fondazione Don Gnocchi, IRCCS, Dipartimento di Scienze e Tecnologie Biomediche, Università degli Studi di Milano. Ciò che è accaduto negli ultimi due decenni nell’ ambito degli herpes virus umani è la chiara dimostrazione di come la virologia sia una disciplina in continua e frenetica evoluzione. Nel 1986 fu quasi occasionalmente scoperto nel sangue periferico di alcuni soggetti un nuovo virus che dopo qualche anno è stato definito come herpes virus umano 6 (HHV6), successivamente nel 1990 è stato isolato l’herpes virus umano 7 (HHV7), e nel 1994 l’herpes virus umano 8 (HHV8). La scoperta di questi tre nuovi herpes virus sembrava all’inizio essere un fenomeno di rilievo virologico ma con una scarsa incidenza nella patologia umana, ma con il passare del tempo si sta osservando come questi virus hanno un notevole potenziale patogeno e, cosa del tutto inaspettata, possono essere anche in grado di indurre importanti malattie del sistema nervoso. Dopo un certo periodo in cui si è ritenuto che l’HHV6 non avesse alcuna importanza patogenetica, questo virus è stato individuato come l’agente eziologico dell’ Esanthema subitum, una malattia dell’infanzia fino ad allora a causa sconosciuta e di altre manifestazioni esantematiche meno facilmente definibili. Il virus HHV6 è caratterizzato da un notevole neurotropismo come è dimostrato dal fatto che durante l’infezione primaria nei bambini possono essere relativamente frequenti convulsioni e in alcuni casi encefaliti. Inoltre il virus è stato isolato ed associato anche a forme di encefaliti nell’adulto. Esistono due varianti di HHV6, chiamate rispettivamente HHV6A e –B e sembra che queste due varianti abbiano un diverso potenziale neuropatogeno con la variante A più frequentemente associata alle malattie del sistema nervoso. L’HHV6 è anche molto interessante perché sembra essere associato non solo alle classiche encefaliti acute, ma anche ad encefaliti e cerebelliti subacute, inoltre esistono forti evidenze in favore del coinvolgimento di questo virus nella Sclerosi Multipla (MS), una seria ed importante malattia demielinizzante cronica del sistema nervoso centrale. Così come l’HHV6, anche l’HHV7 è un virus che infetta precocemente i bambini ed è diffuso in tutto il mondo con frequenze di infezione elevatissime nella popolazione sana. HHV7 provoca occasionalmente rash cutanei nei bambini colpiti e, sia pure con una frequenza nettamente minore rispetto a HHV6, è in grado di provocare patologie neurologiche. Il virus HHV8 è anche conosciuto come virus associato al sarcoma di Kaposi (KSV) in quanto questo nuovo virus erpetico è coinvolto in modo determinante nel sarcoma di Kaposi, sia nella sua forma classica (cKS) che in quella osservata nei soggetti immunodepressi ed in particolare nei pazienti con AIDS. Questo virus ha un notevole potenziale oncogeno e capacità di indurre proliferazione cellulare ed è imfatti associato ad altre malattie tumorali, ma del tutto recentemente sono state riportate osservazioni che suggeriscono che anche l’HHV8 sia in grado di penetrare nel cervello dei soggetti infetti e di determinare malattie ancora da inquadrare con precisione. E’ importante notare che anche questo virus è stato suggerito come possibile fattore di rischio nello sviluppo della MS. Quello che emerge da questa breve carrellata è che, così come già osservato per i più “vecchi” virus erpetici umani (HSV1 e 2, VZV, HCMV e EBV), anche gli ultimi tre agenti scoperti stanno man mano acquisendo un ruolo in patologia umana sempre maggiore, e che, sia pure in misura diversa, tutti e tre hanno la capacità di indurre malattie neurologiche di diverse caratteristiche e gravità. SOCIETÀ ITALIANA DI MICROBIOLOGIA 9 34° Congresso 06 5-10-2006 11:35 Pagina 10 LINEE GUIDA ITALIANE PER LA DIAGNOSI E TERAPIA DELLE INFEZIONI DA CMV NEL TRAPIANTATO Giuseppe Gerna Servizio di Virologia c/o IRCCS Policlinico San Matteo, Pavia Le infezioni da CMV rappresentano la principale complicazione virale nel periodo post-trapianto. La diagnosi di infezione sistemica da CMV viene posta mediante rilievo della presenza del virus nel sangue, mentre la diagnosi di infezione locale viene posta mediante accertamento della presenza del virus in tessuti bioptici o secrezioni locali. I saggi diagnostici principali per la diagnosi e il monitoraggio delle infezioni da CMV sono: antigenemia e DNAemia (mediante PCR), mentre le sindromi d’organo vengono diagnosticate mediante isolamento virale e PCR su campioni clinici prelevati localmente. Nel nostro paese, la prevenzione delle infezioni da CMV viene generalmente eseguita mediante terapia presintomatica (pre-emptive) che si basa sulla quantizzazione del virus o dei suoi prodotti nel sangue o in sede locale. Una volta quantizzato il virus, se viene superato il livello soglia prestabilito, si inizia la terapia antivirale specifica a scopo preventivo, interrompendola solo dopo scomparsa del virus. I livelli soglia di DNA definiti nel nostro Dipartimento per le preemptive therapy dei pazienti sottoposti a trapianto di organo solido sono, per il sangue, 300.000 copie di DNA/mL sia per le infezioni primarie che riattivate. Nei soggetti sottoposti a trapianto di cellule staminali emopoietiche, il livello soglia stabilito è di 10.000 copie di DNA/mL di sangue per tutti i pazienti. Il monitoraggio virologico risulta molto più efficiente sul piano clinico se associato a monitoraggio immunologico. IL FLAGELLO BATTERICO COME VEICOLO PER LA SECREZIONE DI FATTORI DI VIRULENZA Emilia Ghelardi Dipartimento di Patologia Sperimentale, Biotecnologie Mediche, Infettivologia ed Epidemiologia Il flagello è un complesso organello cellulare che consente ai batteri di muoversi in un mezzo liquido (swimming) o su superfici solide (swarming) e che costituisce una struttura essenziale per la virulenza di molti microrganismi patogeni. E’ stato ampiamente dimostrato, infatti, che la motilità batterica, insieme con la chemiotassi, permette un migliore accesso degli agenti patogeni ai tessuti bersaglio e che i flagelli, agendo come adesine, possono partecipare al processo di colonizzazione e all’invasione di superfici mucose di un ospite. Soltanto recentemente, tuttavia, si sta consolidando l’ipotesi che il flagello possa rappresentare anche un veicolo per la secrezione di specifici fattori di virulenza da parte di eubatteri patogeni. Ciò deriva dal fatto che l’apparato biosintetico flagellare mostra elevate omologie strutturali e funzionali con i sistemi di secrezione tipo III (TTSS), che consentono ai batteri Gram-negativi, nei quali sono stati descritti, l’esportazione e l’ingresso di fattori di virulenza nel citoplasma delle cellule dell’ospite. Negli ultimi anni, ci siamo occupati di studiare la motilità in mezzo liquido e su superfici in batteri appartenenti al genere Bacillus. Da tali studi è emerso che il flagello contribuisce alla virulenza di tali microrganismi, non solo facilitando la diffusione tissutale mediante la motilità swarming, ma anche permettendo la secrezione di una tossina trimerica con attività emolitica, enterotossica e dermonecrotica, denominata emolisina BL. Tale tossina, infatti, viene secreta da un complesso proteico, localizzato alla base del flagello, che è ritenuto coinvolto nell’esportazione delle sole componenti flagellari. Ceppi mutanti parzialmente o completamente difettivi nell’apparato flagellare hanno mostrato una riduzione o una totale assenza di secrezione della tossina. Infine, mediante studi in vivo, in un modello di infezione polmonare sperimentale nel topo, è stato dimostrato che l’assenza della struttura flagellare determina una significativa riduzione del potenziale patogenetico del ceppo mutante rispetto al ceppo parentale dotato di flagelli e capace di secernere la tossina. 10 34° CONGRESSO NAZIONALE DELLA S A 34° Congresso 06 5-10-2006 11:35 Pagina 11 RUOLO DELL’INTERFERON DI TIPO I NELLE INFEZIONI BATTERICHE E FUNGINE Giuseppe Mancuso Dipartimento di Patologia e Microbiologia Sperimentale, Università di Messina Gli interferoni (IFNs) sono una famiglia di citochine che svolgono un ruolo importante nei meccanismi di risposta dell’immunità innata. Gli IFNs vengono suddivisi in due tipi strutturalmente e funzionalmente distinti. Classicamente gli IFNs di tipo I sono conosciuti per la loro potente attività antivirale. Non è chiaro se essi abbiano un ruolo importante nei meccanismi di difesa nei confronti dei batteri ed ancora meno nell’immunità antifungina. Recentemente è stato dimostrato che le cellule dell’ospite possono produrre IFNs di tipo I in risposta a prodotti batterici quali LPS e DNA procariotico ma le conseguenze funzionali di queste risposte nel corso delle infezioni batteriche sono ancora del tutto sconosciute. Nel presente studio è stato indagato il ruolo svolto dagli IFNs di tipo I nei meccanismi di difesa ospite verso le infezioni provocate sia da batteri extracellulari quali streptococchi di gruppo B, pneumococchi ed E. coli che da C. neoformans, un fungo opportunista causa di gravi malattie soprattutto in soggetti immunocompromessi. Nel nostro studio, in seguito alle infezioni causate da questi agenti patogeni, i topi geneticamente deficienti per il recettore degli IFNs di tipo I (IFN-α/βR-/-) o per l’IFN beta (IFN-β-/-) andavano incontro ad un’elevata mortalità che era accompagnata da alti livelli di CFU nel sangue e negli organi bersaglio, mentre i topi di controllo sopravvivevano. Questa incrementata suscettibilità poteva essere correlata con una ridotta produzione di citochine e mediatori infiammatori quali TNF-α, IFN-γ e NO da parte dei macrofagi geneticamente deficienti. Quesi dati possono essere utili per l’allestimento di terapie alternative per il trattamento di questo tipo di infezioni. IMPLEMENTAZIONE DEL POTERE IMMUNOGENO E PROTETTIVO DI MYCOBACTERIUM BOVIS BCG: STRATEGIE, RISULTATI E PROSPETTIVE Riccardo Manganelli Dipartimento di Istologia, Microbiologia e Biotecnologie Mediche, Università di Padova Nel 1908 all’Istituto Pasteur di Lille, Albert Calmette e Jean-Marie Camille Guerin iniziarono a coltivare un ceppo virulento di Mycobacterium bovis ringiovanendone la coltura ogni tre settimane al fine di seguirne il graduale declino della virulenza in animali da esperimento. L’esperimento si protrasse per 13 anni, con la sola sospensione negli anni tra il 1914 ed il 1919, durante i quali Calmette e Guerrin furono imprigionati. Nel 1921, dopo 230 subcolture, i due scienziati annunciarono di aver ottenuto un nuovo ceppo di M. bovis completamente avirulento usabile come vaccino. Sebbene il M. bovis BCG rappresenti ancora il vaccino ad uso umano maggiormente somministrato, il suo valore protettivo non è soddisfacente. Infatti, esso protegge i bambini dalle forme sistemiche della tubercolosi quali la tubercolosi miliare o la meningite tubercolare, ma non protegge efficacemente gli adulti dalla forma polmonare della malattia, non interrompendo per cui la catena di trasmissione. Per questa ragione numerose strategie per implementare il potere immunogeno di questo ceppo vaccinale sono state esplorate. Tra queste la costruzione di ceppi ricombinanti in grado di secernere citochine come INF-γ, IL2, IL12, GM-CSF, ed INF-α, la costruzione di ceppi ricombinanti in grado di fuoriuscire dal fagosoma ed accedere al citoplasma in modo da facilitare la presentazione degli antigeni nel contesto del MHC di classe I, oppure la costruzione di ceppi ricombinanti in grado di produrre quantità elevate di antigeni immunodominanti quali, ad esempio Ag85B. Una strategia alternativa potrebbe essere quella di esprimere antigeni immunodominanti nel contesto della parete cellulare del M. bovis BCG, che rappresenta un formidabile adiuvante naturale. A questo scopo stiamo sviluppando un sistema di espressione che sfrutta due famiglie di proteine di parete presenti solo nei micobatteri. SOCIETÀ ITALIANA DI MICROBIOLOGIA 11 34° Congresso 06 5-10-2006 11:35 Pagina 12 ANALISI DEL POLIMORFISMO GENICO PER LO STUDIO DELLA BIODIVERSITÀ E PER IL MONITORAGGIO DI FERMENTAZIONI INDUSTRIALI: IL CASO DI SACCHAROMYCES CEREVISIAE Ilaria Mannazzu Dipartimento di Scienze degli Alimenti, Università Politecnica delle Marche, Ancona Lo studio, la conservazione e l’utilizzo della biodiversità microbica richiedono l’impiego di metodi per l’identificazione e la catterizzazione di singoli cloni. Uno di questi è stato recentemente messo a punto nel nostro laboratorio e viene correntemente impiegato per studiare la biodiversità di Saccharomyces cerevisiae isolati da matrici alimentari e ambientali e per monitorare le fermentazioni industriali. Il ragionamento che ha condotto alla messa a punto del metodo è scaturito da osservazioni riguardanti la presenza di sequenze ripetute intrageniche tipo minisatellite nel lievito S. cerevisiae. Considerato che le sequenze ripetute sono soggette a espansione o contrazione, per effetto del loro potenziale ricombinogenico, abbiamo ipotizzato che geni contenenti minisatelliti potessero essere soggetti a polimorfismo di lunghezza e rappresentare perciò una fonte di variabilità genetica inesplorata e impiegabile per la caratterizzazione molecolare di lieviti di interesse biotecnologico. Questa ipotesi è stata avvalorata inizialmente da nostre osservazioni sul gene SED1 di S. cerevisiae codificante una proteina di parete e contente due set di sequenze ripetute (Mannazzu et al., 2002). L’analisi del gene SED1 in una popolazione di lieviti selvaggi ha infatti indicato che la espansione/contrazione dei minisatelliti genera alleli di differente lunghezza. Si è quindi proceduto con la scansione del genoma di S. cerevisiae per ricercare altri geni contenenti minisatelliti e individuare quelli potenzialmente polimorfici sulla base della percentuale di identità tra sequenze ripetute e della loro lunghezza. Sono stati così selezionati tre geni (AGA1, HSP150 e DAN4) con i requisiti richiesti che come SED1 sono caratterizzati da un marcato polimorfismo di lunghezza. Essi rappresentano pertanto bersagli molecolari preferenziali per lo studio della biodiversità e il monitoraggio molecolare di fermentazioni industriali mediante PCR-fingerprinting. I ROTAVIRUS ANIMALI E L’UOMO Vito Martella Facoltà di Medicina Veterinaria, Dipartimento Sanità e Benessere degli Animali, Università degli Studi di Bari Le infezioni da rotavirus di gruppo A sono responsabili di forme gastro-enteriche nell’uomo ed in diverse specie animali. Nell’uomo i rotavirus sono la principale causa di gastroenterite in età pediatrica e dei vaccini mono- e polivalenti sono in fase finale di sviluppo o di commercializzazione. Il genoma dei rotavirus è costituito da 11 segmenti di RNA bicatenario. La natura segmentata dell’RNA virale ed il verificarsi di infezioni eterologhe, inter-specie, sono alla base del fenomeno del riassortimento, un potente meccanismo mediante il quale si generano nuovi stipiti rotavirus. L’intensificazione dei sistemi di sorveglianza epidemiologica ha consentito di identificare rotavirus umani appartenenti a sierotipi inusuali, ossia di probabile origine animale. Alcuni di questi sierotipi possono assumere localmente un’elevata diffusione nella popolazione umana, come è avvenuto in Brasile (G5), India (G10) ed Ungheria (G6), generando preoccupazioni riguardo all’efficacia dei vaccini. Inoltre, ci sono preoccupazioni che la pressione immunitaria indotta dai vaccini possa selezionare stipiti rari o inusuali a seguito di meccanismi di escape antigenico. Lo studio dei rotavirus animali è fondamentale per comprendere i meccanismi che guidano l’evoluzione dei rotavirus umani. 12 34° CONGRESSO NAZIONALE DELLA S A 34° Congresso 06 5-10-2006 11:35 Pagina 13 CLONI EMERGENTI DI CLOSTRIDIUM DIFFICILE E LORO DIFFUSIONE IN EUROPA Paola Mastrantonio, Dipartimento Malattie Infettive,Parassitarie ed Immunomediate, Istituto Superiore di Sanità, Roma Clostridium difficile tossinogenico è un noto anaerobio patogeno per l’uomo con uno spettro clinico che varia da semplici diarree ,coliti fino alla grave colite pseudomembranosa. L’assunzione di antibiotici rappresenta il principale fattore di rischio per lo sviluppo della malattia soprattutto in ambito ospedaliero ma vi è anche un aumento di casi tra individui non ospedalizzati e non considerabili a rischio. I ceppi tossinogenici rilasciano due potenti esotossine, la tossina A e la tossina B,codificate da una larga regione cromosomiale detta PaLoc e che agiscono sinergisticamente nel provocare il danno intestinale.Recentemente un numero crescente di ceppi isolati da malati è risultato produrre solo tossina B o produrre anche un’ulteriore tossina,la tossina binaria. Il contributo di quest’ultima alla patogenicità di C.diffcile non è ancora stato chiarito. La presenza di varianti nel PaLoc permette una tipizzazione molecolare dei ceppi ed una loro suddivisione in “toxinotypes”,mentre i diversi profili generati da amplificati in PCR delle regioni intergeniche tra il 23S e il 16S rRNA permettono di definire i diversi ribotipi. A partire da marzo 2003 in Canada e negli Stati Uniti è stato registrato un aumento di casi gravi con più alta mortalità ,maggiori complicanze e recidive. Questa aumentata virulenza è stata associata alla circolazione di ceppi di C.difficile ribotipo 027,toxinotype III, resistenti ai fluorochinolonici. A partire da febbraio 2004 numerosi outbreak da C.difficile ribotipo 027 sono stati segnalati in UK e da luglio 2005 focolai epidemici sono stati individuati in Olanda, Belgio ed anche in Francia. Uno studio collaborativo condotto in Europa coinvolgendo 14 Paesi nel 2005 ha permesso di individuare la circolazione di questo clone ipervirulento anche nel nostro continente insieme ad alcuni ulteriori cloni dotati di grande capacità di diffusione. FOLLOW-UP VIROLOGICO DI PAZIENTI PEDIATRICI SOTTOPOSTI A TRAPIANTO RENALE C. Mengoli Dipartimento di Istologia, Microbiologia e Biotecnologie Mediche Università di Padova Il ruolo di agenti virali nel determinare il rigetto del trapianto renale è controverso. La presenza di sequenze gnomiche virali è stata ricercata in una serie di 77 bambini consecutivamente sottoposti a trapianto renale. Biopsie programmate di monitoraggio sono state eseguite a 6, 12, e 24 mesi dopo il trapianto, biopsie diagnostiche sono state eseguite in 11 pazienti per disfunzione renale acuta. DNA virale è stato trovato nel 63%, 69% e 71%, rispettivamente, nelle biopsie prelevate nei tempi sopra indicati. Confezioni erano presenti in circa un terzo dei casi positivi. I virus più frequenti erano EBV, HHV6, BKV e parvovirus B19. La presenza di genomi virali era più alta nei casi con lesioni istologiche acute o croniche; inoltre, solitamente le lesioni croniche erano associate ad infezione virale persistente (soprattutto da BKV, B19 ed EBV). D’altra parte, la clearance della creatinina non appariva significativamente correlata con il dato virologico. Genomi virali sono stati isolati in 7 su 11 biopsie elettive, ove il quadro istologico consisteva in microangiopatia trombotica (3 casi), nefropatia tubulo-interstiziale (2), rigetto vascolare acuto (1) e rigetto acuto (2). I dati rilevati in quasta casistica pediatrica dimostrano che agenti virali hanno un ruolo causale nella disfunzione acuta del rene trapiantato. Inoltre, infezioni virali persistenti contribuiscono al rigetto cronico dell’allotrapianto. SOCIETÀ ITALIANA DI MICROBIOLOGIA 13 34° Congresso 06 5-10-2006 11:35 Pagina 14 EPIDEMIOLOGIA DELLE INFEZIONI FUNGINE INVASIVE Giulia Morace Dipartimento di Sanità Pubblica – Microbiologia – Virologia, Sezione di Microbiologia, Università degli Studi di Milano Le infezioni fungine invasive rappresentano la punta di un “iceberg” nell’ampio panorama delle malattie opportunistiche da infezione e sono caratterizzate da un elevato ed inaccettabile tasso di morbosità e mortalità. Gli agenti eziologici spaziano da specie ben note come Candida albicans ed Aspergillus fumigatus a rari patogeni opportunisti emergenti appartenenti sia a miceti lievitiformi (Geotrichum capitatum, Rhodotorula spp., Trichosporon spp.) sia a funghi filamentosi, ialini o dematiacei, tassonomicamente non correlati quali zigomiceti (Rhizopus oryzae, Mucor indicus) ed ascomiceti (Neosartorya fischeri, Pseudoallescheria boydii). L’identificazione del fungo responsabile riveste particolare importanza per una conseguente ed appropriata decisione terapeutica, molti funghi possono presentare una resistenza, innata od acquisita, ai farmaci antifungini tradizionali e, quindi, richiedere approcci terapeutici alternativi oltre che interventi chirurgici. La presenza ben documentata (microscopia, identificazione) di un fungo per quanto raro in un materiale patologico non è da ritenersi insignificante dal punto di vista clinico, soprattutto in pazienti con gravi patologie concomitanti, e sia i clinici sia i micologi devono familiarizzarsi con tale nuova realtà epidemiologica. ATTIVITÀ IMMUNOMODULANTE DI COMPONENTI PARIETALI DI CRYPTOCOCCUS NEOFORMANS Anna Vecchiarelli* *Dipartimento di Medicina Sperimentale e Scienze Biochimiche, Sezione di Microbiologia, Università di Perugia Il Glucuronoxilomannano (GXM) è il componente principale della capsula polisaccaridica del Cryptococcus neoformans e possiede potenti effetti immunomodulatori sull’ immunità innata e adattiva. In particolare, il GXM inibisce la produzione delle citochine proinfiammatorie e induce la produzione di IL-10 da parte dei monociti, riduce l’espressione del MHC classe II sulle cellule presentanti l’antigene (APC) e inibisce l’attivazione e la maturazione delle cellule dendritiche. In presenza di APC trattate con GXM, i linfociti T mostrano soppressione della risposta proliferativa e della induzione di risposte di tipo Th1. Nel tentativo di capire quale fosse il meccanismo responsabile della soppressione abbiamo analizzato gli immunorecettori coinvolti nel riconoscimento del GXM e il tipo di segnale che trasmettevano. Abbiamo dimostrato che il GXM si lega a TLR4, CD14, CD18 e FcγRII. E’ ormai noto da tempo che il legame al TLR4 innesca l’attivazione del NF-κB, che termina con l’induzione della risposta infiammatoria e anti-microbica. Tuttavia, nonostante il GXM interagisse direttamente con il TLR4, non era in grado di attivare la risposta immune, al contrario induceva effetti immunosoppressivi. Abbiamo quindi ipotizzato che questo effetto potesse essere una conseguenza del legame del GXM a recettori immunoinibitori. La caratteristica che identifica un recettore come inibitorio è la sua abilità di attenuare i segnali di attivazione. Abbiamo dimostrato che il GXM è in grado di interagire con FcγRII. Tale recettore esiste in due isoforme: FcγRIIA che possiede capacità di trasmettere segnali di attivazione e FcγRIIB che induce segnali immunoinibitori mediante Src homology 2 domain-containing inositol phosphatase (SHIP). Abbiamo dimostrato che l’isoforma FcγRIIB è coinvolta nel riconoscimento del GXM e che l’impiego di FcγRIIB da parte del GXM porta al reclutamento di SHIP, una molecola che impedisce l’attivazione di NFκB. Infatti il blocco del legame del GXM via FcγRIIB porta alla inibizione di IL-10 e alla attivazione di TNF-α. Questi risultati suggeriscono che il legame del GXM a FcγRIIB spegne completamente i segnali di attivazione trasmessi via TLR4. In conclusione, questi risultati suggeriscono un impiego farmacologico del GXM per curare o prevenire patologie indotte da processi infiammatori. 14 34° CONGRESSO NAZIONALE DELLA S A 34° Congresso 06 5-10-2006 11:35 Pagina 15 VIRUS INFLUENZALE: PATOGENICITA’ PER L’UOMO E POSSIBILI STRATEGIE TERAPEUTICHE A.T. Palamara, L. Nencioni, R. Sgarbanti, E. Garaci Dip. di Scienze di Sanità Pubblica, Università di Roma “La Sapienza”; Dip. di Medicina Sperimentale, Università di Roma “Tor Vergata” L’influenza costituisce a tutt’oggi una della maggiori problematiche sanitarie a livello mondiale, sia per l’elevato numero di decessi dovuti a complicazioni polmonari, sia per il rilevante costo economico in termini di assenza dalle attività lavorative. La scarsa efficacia delle strategie vaccinali o terapeutiche finora messe in atto è dovuta sostanzialmente all’alta variabilità genetica del virus che dà luogo, con alta frequenza, alla formazione di varianti capaci di evadere le risposte immunitarie indotte verso ceppi preesistenti ed acquisire resistenza verso i farmaci antivirali utilizzati. E’ noto che la replicazione di tutti i virus dipende strettamente dalla cellula ospite ed in particolare da alcuni pathways intracellulari, attivati dallo stesso virus, che giocano un ruolo chiave nel corretto svolgimento del ciclo replicativo virale così come nella risposta infiammatoria all’infezione. Questo è il caso del pathway della Protein Chinasi C che, attraverso l’attivazione a cascata delle MAPchinasi a valle, partecipa alla fosforilazione del complesso ribonucleoproteico virale RNP, step essenziale per la traslocazione del complesso stesso dal nucleo al citoplasma e, quindi, per l’assemblaggio ed il rilascio di virioni maturi. Un ulteriore fattore favorente la replicazione virale e la risposta infiammatoria che ne consegue è costituito dal combiamento selettivo dello stato redox di alcuni compartimenti cellulari indotto dal virus influenzale. Recenti risultati ottenuti dal nostro gruppo di ricerca hanno infatti dimostrato che, 18 ore dopo l’infezione, la perdita di glutatione ridotto provoca uno shift dello stato redox intracitoplasmatico che passa da condizioni fisiologicamente riducenti a condizioni temporaneamente ossidanti. Questo fenomeno riveste un ruolo rilevante per l’attivazione di fattori di trascrizione e di chinasi intracitoplasmatiche, oltre che per il corretto folding di proteine virali ricche in ponti disolfuro. Al contrario, lo stato redox intranucleare non subisce variazioni e continua ad essere fortemente riducente dopo l’infezione. Questa appare una condizione essenziale perchè i fattori di trascrizione attivati a livello citoplasmatico, una volta entrati nel nucleo, possano legarsi al DNA e dare l’avvio alla trascrizione dei geni cellulari attivati dall’infezione. Gli studi finora effettuati gettano le basi per l’identificazione di nuove strategie antinfluenzali basate sull’interferenza con pathways cellulari che, in virtù del ruolo svolto nella replicazione virale e nella risposta infiammatoria, possono costituire target utilizzabili per il trattamento “in toto” dell’infezione provocata da tutti i ceppi virali riducendo al minimo la probabiltà di selezione di varianti resistenti. VECCHIO E NUOVO NELLA VALUTAZIONE GENOTIPICA DELLE RESISTENZE C.F. Perno Dipartimento di Medicina Sperimentale e Scienze Biochimiche Università “Tor Vergata” Roma La terapia da HIV incontra nuove possibilita’ grazie sia alla disponibilita’ di nuovi farmaci, appartenenti a classe nuove e meno nuove, sia grazie all’aumento delle conoscenze sui risultati a lungo termine della terapia HAART. Grazie agli studi di coorte noi oggi sappiamo non solo che l’HAART riduce anche a lungo termine la mortalita’ globale dell’infezione da HIV, inclusa anche la mortalita’ apparentemente non correlata in modo diretto al virus, ma anche che lo sviluppo di resistenza e’ un fattore favorente la progressione di malattia e morte in tempi di osservazione sufficientemente lunghi. Per queste ragioni, e’ opportuno che le nuove strategie terapeutiche contemperino non solo nuovi farmaci, ma anche un approccio ai farmaci gia’ disponibili che consideri il loro uso in modo intelligente, guidato da elementi diagnostici importanti, quali il test di resistenza appropriatamente eseguito ed interpretato. Oggi il test genotipico rappresenta il miglior strumento diagnostico in grado di guidare la terapia antivirale. Algoritmi genetici sono inoltre capaci di definire le probabilita’ di resistenza indotta da determinati pattern di mutazioni. Tali argomenti saranno discussi in dettaglio nella relazione. SOCIETÀ ITALIANA DI MICROBIOLOGIA 15 34° Congresso 06 5-10-2006 11:35 Pagina 16 I MODELLI ANIMALI PER LO STUDIO DELLA PATOGENICITÀ DELLO STREPTOCOCCUS PNEUMONIAE Gianni Pozzi Laboratorio di Microbiologia Molecolare e Biotecnologia, Sezione di Microbiologia, Dip. di Biologia Molecolare, Università di Siena. Lo Streptococcus pneumoniae (pneumococco) è un importante patogeno umano in grado di causare varie malattie, che vanno da infezioni lievi a malattie invasive anche mortali, come polmoniti, meningiti e setticemie. Anche durante l’infezione da parte di sierotipi sensibili alla terapia antibiotica, il tasso di mortalità rimane comunque elevato sia nei casi di polmonite (10%) che di meningite (fino al 30%). La situazione è ulteriormente aggravata da fallimenti terapeutici dovuti a ceppi antibiotico-resistenti. La disponibilità del genoma completo di S. pneumoniae rende accessibile un’enorme quantità di informazioni utili per identificare nuovi fattori di virulenza, candidati per vaccini e bersagli per farmaci. L’uso della genomica e di sistemi in grado di ampliare le nostre conoscenze sui meccanismi patogenetici usati dallo pneumococco rappresenta uno strumento fondamentale per lo sviluppo di nuove misure terapeutiche e profilattiche. A tale proposito, l’uso di modelli sperimentali animali rappresenta e rimane tuttora uno dei sistemi di scelta per ricavare informazioni su: (a) ruolo di specifici fattori batterici nella virulenza, attraverso la costruzione di mutanti isogenici e il loro saggio in modelli animali di infezione, (b) immunogenicità di proteine, attraverso l’analisi della risposta immunitaria indotta in un animale, (c) capacità protettiva della risposta immunitaria indotta, mediante saggi di protezione in vivo. I modelli animali più usati per lo studio della patogenicità dello Streptococcus pneumoniae prevedono l’utilizzo di topi inbred o outbred. Nel nostro laboratorio si studiano la sepsi (mediante inoculazione intravenosa), la polmonite (mediante inoculazione intranasale), e la meningite (mediante inoculazione intracranica). Il nostro gruppo di ricerca si interessa da anni allo pneumococco attraverso varie linee di ricerca, che includono genetica (soprattutto di elementi genetici mobili) e genomica dello pneumococco, analisi epidemiologica delle resistenze antibiotiche, patogenicità e studio di fattori di virulenza. Il vantaggio rappresentato dalla naturale trasformabilità di questo microrganismo ha permesso di sviluppare nel nostro laboratorio degli strumenti rapidi, specifici, ed efficaci per la manipolazione genica dello pneumococco. Inoltre, sono stati recentemente messi a punto due modelli murini di infezione allo scopo di studiare i meccanismi di patogenicità di questo batterio. Il primo è rappresentato da un modello di polmonite, indotta a seguito di inoculo batterico intranasale in topi anestetizzati (l’anestesia garantisce che i batteri passino dal naso-faringe ai polmoni dove causano la polmonite). Questo sistema mima lo sviluppo della polmonite secondo la via naturale di infezione, dato che nell’uomo il naso-faringe rappresenta la principale riserva per l’infezione da pneumococco. Il secondo modello è invece un sistema sperimentale per studiare la sepsi da pneumococco ed è basato sull’inoculo intravenoso dei batteri nella vena caudale del topo. Inoltre, il nostro laboratorio ha sviluppato un modello di meningite murina, in animali outbred, che si basa sull’inoculazione subaracnoidea di quantita’ minime di batteri, con LD50 variabili tra 32 a 190 CFU a seconda del sierotipi. QUANTIFICAZIONE DI HIV DNA: STANDARDIZZAZIONE E APPLICAZIONE NEL FOLLOW-UP DEL PAZIENTE INFETTO Maria Carla Re, Francesca Vitone, Pasqua Schiavone, Davide Gibellini Sezione di Microbiologia, Dipartimento di Medicina Clinica Specialistica e Sperimentale Università degli Studi di Bologna Con l’introduzione della ”highly active antiretroviral therapy” (HAART) si è assistito, in tutti i paesi industrializzati, ad una netta diminuzione dei casi di AIDS conclamato e ad un netto miglioramento della qualità di vita dei soggetti infettati dal virus dell’immunodeficienza acquisita. Nel 1997 i lavori di Perelson generarono un discreto ottimismo, basato fondamentalmente su modelli matematici che provavano il rapido abbattimento della carica virale plasmatica in seguito a triplice terapia. Purtroppo sempre nello stesso anno apparve evidente che il virus era in grado di persistere a lungo nei linfociti CD4 cancellando, pertanto, le speranze iniziali. Anche se, dopo la terapia antiretrovirale, il numero delle copie di HIV-RNA, nel sangue periferico, raggiunge dei livelli non rilevabili dai comuni saggi usati nella pratica clinica, il virus è ancora presente in alcuni distretti, i cosiddetti “reservoir”, quali il midollo osseo, i linfonodi e il sistema nervoso centrale. Diversi studi hanno mostrato la potenziale utilità clinica della determinazione quantitativa di HIV- DNA nei linfomonociti di sangue periferico, come possibile marcatore di progressione dell’infezione di HIV e indicatore precoce di ripresa della replicazione virale in caso di fallimento terapeutico o durante le interruzioni del trattamento I dati disponibili in letteratura non portano sempre a risultati univoci, a nostro avviso, sia per la mancanza di standardizzazione delle metodiche utilizzate, sia per la tipologia del DNA analizzato (integrato e epitomale). Ritenendo fondamentale un miglioramento e una standardizzazione delle tecniche utilizzate (almeno nelle due forme più significative, totale e non integrato), abbiamo creato un gruppo di lavoro che, in base alle esperienze dei singoli operatori, vede coinvolti ricercatori dislocati in differenti zone geografiche italiane, per potere fornire indicazioni sia sulla metodologia sia sulla applicabilità del metodo con l’obiettivo di una partecipazione diretta di centri di ricerca, che metteranno a confronto la loro esperienza virologica in merito alla determinazione del DNA di HIV. Verrà discusso il significato della “standardizzazione” e il significato dell’ applicazione del metodo in diverse tipologie di pazienti sia in presenza che in assenza di terapia antiretrovirale. 16 34° CONGRESSO NAZIONALE DELLA S A 34° Congresso 06 5-10-2006 11:35 Pagina 17 INFLUENZA AVIARIA: EPIDEMIOLOGIA ED EVOLUZIONE DI H5N1 Giovanni Rezza Dipartimento Malattie Infettive, Istituto Superiore di Sanità A partire dalla fine del 2003, un’ampia epizzozia ha colpito gran parte del globo, determinando la comparsa di sporadici casi umani. Dal momento che maggiori sono l’estensione e la persistenza della epizoozia, e maggiore il numero di passaggi dall’animale all’uomo, più elevato è il rischio che il virus muti e si adatti all’uomo, è importante analizzare gli isolati virali e valutare la presenza di eventuali mutazioni, sia di tipo puntiforme (o “adattative”) che da scambio di interi segmenti genici (“riassortimento”). Per tracciare le origini genetiche ed ecologiche dei ceppi di H5N1 attualmente circolanti, bisogna risalire al genotipo virale responsabile dei primi casi umani, segnalati a Hong Kong nel 1997. Il virus possedeva i due maggiori antigeni virali (HA e NA) derivati da un lineaggio identificato in Cina nel 1996 e denominato A/Goose/Guangdong/1/96 (Gs/Gd), mentre i restanti 6 segmenti genici provenivano da un’altro lineaggio virale. Tale ceppo virale era pertanto originato da un “riassorbimento”, un fenomeno che è alla base della formazione dei successivi genotipi virali osservati durante l’evoluzione di H5N1. Infatti, a partire dal 2001, la maggior parte dei segmenti genici presenti nel virus del 1997 è stata sostituita da segmenti provenienti da altri lineaggi virali circolanti nelle popolazioni di uccelli sia selvatici che domestici. Dalla fine del 2003, e contemporaneamente alla diffusione incontrollata del virus negli animali domestici del Sud-Est Asiatico, la quasi totalità dei virus isolati sia nel pollame che nell’uomo apparteneva a un solo genotipo (genotipo Z), che conserva solamente il segmento HA del lineaggio virale del 1997. Il virus H5N1 di genotipo Z, divenuto dominante a partire dal 2004, è andato incontro ad una serie di cambiamenti evolutivi dovuti a mutazioni di tipo puntiforme rese possibili dall’elevato tasso di replicazione virale. L’analisi filogenetica del gene dell’emagglutinina di ceppi isolati tra il 2004 e il 2006 evidenzia 2 o 3 raggruppamenti (o clade) principali, corrispondenti ad aree geografiche distinte (Vietnam-Tailandia, Cina-Indonesia, e Lago di Qinghai). E’ però incerto se quest’ultimo raggruppamento, al quale appartengono anche i recenti isolati virali in Europa, Africa e Medio Oriente, possa ritenersi autonomo rispetto al cluster “Cina-Indonesia”. Si sono in particolare evidenziate due mutazioni potenzialmente importanti: il cambiamento da serina ad asparagina nella posizione 223 (S223N) di HA, e il cambiamento da acido glutammico a lisina nella posizione 627 di una delle 3 subunità della polimerasi virale (PB2). Quest’ultimo cambiamento aminoacidico è noto per essere un determinante della specificità di ospite nei mammiferi e si riscontra anche in tutti gli isolati virali umani. Se tali mutazioni possano rappresentare una svolta verso l’adattamento di H5N1 ai recettori umani non è attualmente noto. CANDIDA ALBICANS: A FRIEND WITH BENEFITS OR JUST A CLOSE FRIEND? Claudia Montagnoli, Silvia Bozza, Silvia Bellocchio, Teresa Zelante, Pierluigi Bonifazi, Antonella De Luca, Silvia Moretti, Francesco Bistoni and Luigina Romani Microbiology, Dept. Experimental Medicine and Biochemical Sciences, University of Perugia, Perugia, Italy Protective immunity against fungal pathogens is achieved by the integration of two distinct arms of the immune system, the innate and adaptive responses. The inflammatory response is characteristic of the innate immune defense against fungi and is controlled by Toll-like receptors (TLRs) that, by affecting the balance between oxidative and nonoxidative fungicidal mechanisms and pro- and anti-inflammatory cytokine production, ultimately impact on the quality of microbicidal activity and inflammatory pathology. Individual TLR also activates specific antifungal programmes on dendritic cells. However, cooperation between TLRs and other innate immune receptors is key to regulating and shaping innate antifungal immunity. The activation of the adaptive immune response results in the generation of antigen-specific T helper (Th) effector cells that are endowed with the ability to release a distinct panel of cytokines, capable of activating and deactivating signals to effector phagocytes. To limit the pathologic consequences of an excessive inflammatory cell-mediated immune reactions, the immune system also resorts to a number of protective mechanisms, including the generation of functionally distinct regulatory T cells (Treg). Evidence suggest that Treg are essential components of innate and memory protective immunity to fungi that provide the host with adequate defense without necessarily eliminating the fungus or causing unacceptable levels of host damage. SOCIETÀ ITALIANA DI MICROBIOLOGIA 17 34° Congresso 06 5-10-2006 11:35 Pagina 18 BIOTECNOLOGIE APPLICATE ALLA CONSERVAZIONE DEI BENI CULTURALI Claudia Sorlini Distam, Università degli Studi di Milano L’Italia vanta la più alta concentrazione di beni culturali del pianeta. Gran parte di questo patrimonio (come d’altronde anche in altre parti del globo) è soggetto a degrado causato non solo dall’invecchiamento, ma anche dall’inquinamento dell’aria o da procedure di restauro non appropriate. Tra le alterazioni più frequenti dovute a queste cause, si riscontrano le croste nere e grigie che si formano in seguito alla conversione del carbonato di calcio della pietra in solfato di calcio che cristallizza incorporando residui carboniosi; la formazione di strati di nitrati sulle superfici lapidee, prodotti dalla consunzione della pietra operata dall’aggressione di umidità acida; la formazione di patine organiche su materiale lapideo e su affreschi dovute all’inquinamento o a materiale apportato in seguito al restauro. Le tecniche tradizionalmente utilizzate per risanare le superfici così deteriorate non sono del tutto soddisfacenti. Per questo recentemente sono state messe a punto nuove tecniche che si basano sull’utilizzo di batteri che, applicati a mo’ di impacco, sono in grado di eliminare il materiale alterato. Allo scopo sono stati selezionati batteri appartenenti al genere Desulfovibrio, che, convertendo i solfati in idrogeno solforato, rimuovono le croste nere; batteri denitrificati che rimuovono gli strati di nitrati, convertendoli in azoto gassoso ed infine batteri eterotrofi capaci di rimuovere rapidamente patine organiche di diversa natura chimica. La selezione dei batteri avviene sulla base dell’efficienza metabolica, della safety per operatore e ambiente e di assenza di effetti secondari sull’opera d’arte. I batteri vengono applicati, previa immobilizzazione su apposite matrici, sono tenuti in condizioni di restino cells ed agiscono in modo non distruttivo ed estremamente mirato. I risultati più che soddisfacenti ottenuti sulle opere d’arte, quali il basamanento della Pietà Rondinini di Michelangelo, gli affreschi di Spinello Aretino del Camposanto Monumentale di Pisa, bassorilievi del Duomo di Milano, muri della cattedrale di Matera ecc. inducono a ritenere che si stiano aprendo nuovi interessanti orizzonti per le biotecnologie microbiche nel campo della conservazione dei beni culturali EPIDEMIOLOGIA DELLE RESISTENZE NEI BATTERI GRAM-POSITIVI Stefania Stefani Dipartimento di Scienze Microbiologiche Università degli Studi di Catania Negli ultimi decenni, l’uso estensivo degli agenti antimicrobici sia in comunità sia in nosocomio ha portato alla comparsa e alla diffusione di microrganismi resistenti verso uno o più antibatterici contemporaneamente, contribuendo in modo determinante alla rapida evoluzione di questo fenomeno. Sia nel caso di diffusione di cloni resistenti, sia nel caso di diffusione dei meccanismi di resistenza sottesi, la comparsa delle resistenze costituisce una grave minaccia per la salute dell’uomo. Il fatto che i geni responsabili delle resistenze siano spesso localizzati su elementi genetici mobili, quali plasmidi e trasposoni, fa in modo che essi possano essere trasmessi da un microrganismo all’altro, a livello intra-, inter-specifico e inter-generico. Secondo i dati nazionali ed internazionali di reti di sorveglianza delle infezioni nosocomiali, si è assistito ad un progressivo e continuo aumento dell’isolamento di microrganismi Gram-positivi e tra questi S. aureus meticillino-resistente (MRSA), con un suo aumento molto netto dell’incidenza soprattutto nei reparti di terapia intensiva, a partire già dagli anni ‘90. Accanto a MRSA, l’isolamento di MRCoNS ha assunto dimensioni altrettanto importanti, soprattutto tenendo in considerazione l’aumento delle manovre invasive nei pazienti e la propensione di questi microrganismi ad aderire a superfici amorfe. La elevata poli-antibiotico resistenza che accompagna l’acquisizione di resistenza alla meticillina, ha reso sempre più esiguo l’armamentari terapeutico a disposizione del clinico. Tra i cocchi Gram-positivi che hanno acquisito resistenze a numerose famiglie antibiotiche ricordiamo gli enterococchi, S.pneumoniae, S.pyogenes ed S.agalactiae. Accanto alla necessità di introdurre nella pratica clinica nuove molecole antibiotiche, è bene comunque considerare che solo un loro uso appropriato è in grado di prevenire efficacemente la diffusione delle resistenze. 18 34° CONGRESSO NAZIONALE DELLA S A 34° Congresso 06 5-10-2006 11:35 Pagina 19 EPIDEMIOLOGIA DELLE RESISTENZE NEI PATOGENI GRAM-NEGATIVI Antonio Toniolo, Andrea Endimiani, Francesco Luzzaro Laboratorio di Microbiologia e Virologia, Università dell’Insubria e Ospedale di Circolo e Fondazione Macchi, Varese, Italy Le infezioni ospedaliere sono responsabili di morbilità e mortalità e dell’aumento dei costi assistenziali. L’uso tempestivo di un adeguato trattamento empirico migliora significativamente l’outcome clinico e riduce i giorni di ospedalizzazione. L’incremento delle farmacoresistenze rende sempre più difficoltosa la gestione dei pazienti. Poiché quasi la metà delle infezioni nosocomiali sono causate da batteri Gram-negativi, è interessante seguire l’evoluzione delle resistenze negli enterobatteri e nei Gram-negativi non-fermentanti. Abbiamo analizzato l’epidemiologia delle infezioni da Gram-negativi nel nostro ospedale nel periodo 2001-2005. L’identificazione di specie e i test di sensibilità ai farmaci sono stati ottenuti tramite sistemi diagnostici Becton Dickinson. I dati demografici e clinici sono stati ottenuti con due software dedicati: Epicenter (Becton Dickinson) e Powerlab (Unitech, Milano). I determinanti di resistenza e le relazioni clonali tra gli isolati sono stati indagati mediante PCR, sequenziamento del DNA, IEF e PFGE. L’incidenza complessiva di beta-lattamasi a spettro esteso (ESBL) negli enterobatteri è risultata in aumento (6.3% nel 1999 vs. 7.5% nel 2003). Le specie ESBL-positive più frequenti sono risultate: E. coli (10.8% vs. 31.9%), K. pneumoniae (37.1% vs. 15.1%), P. mirabilis (25.7% vs. 26.2%). I ceppi ESBL-positivi hanno sempre mostrato resistenza multipla (MDR). La resistenza a gentamicina e ciprofloxacina è aumentata dal 1999 al 2003: E. coli da 39.4% a 75.5%, K. pneumoniae da 56.8% a 43.2%, P. mirabilis da 68.1% a 75.5%. Solo i carbapenemi hanno conservato piena efficacia contro gli enterobatteri ESBL-positivi. La sensibilità alla tigeciclina di questi isolati è risultata del tutto soddisfacente con valori di MIC90 inferiori ai range di suscettibilità (0.5 mg/l per E. coli e 2 mg/l per K. pneumoniae). Negli ultimi anni sono emerse nuovi tipi di ESBL che spesso sono responsabili di fallimento terapeutico: CTX-M in E. coli (assenti nel 1999, 38.2% nel 2003) e TEM-52/92 in P. mirabilis e K. pneumoniae. Fra i gram-negativi non-fermentanti si sono riscontrati molti isolati di P. aeruginosa produttori di metallo-beta-lattamasi (MBL) del tipo VIM (5.7% nel 2001 vs. 17.5% nel 2004). Le MBL sono generalmente codificate da elementi genetici mobili capaci di trasferirsi da batteri non-fermentanti agli enterobatteri. Nel 2003 abbiamo diagnosticato una peritonite polimicrobica causata da enterobatteri portatori di un identico plasmide coniugativo che codificava VIM-4. Negli ultimi anni sono anche aumentati gli isolati di A. baumanni resistenti ai carbapenemi (1.7% nel 2001 vs. 22.2% nel 2005). I ceppi clonali di A. baumannii TEM-92-positivi sono divenuti endemici nella nostra istituzione. TEM-92 è un determinante che si riscontra da anni in P. mirabilis e in K. pneumoniae. Ipotizziamo che, nell’ambiente ospedaliero, si verifichino scambi di materiale genetico fra enterobatteri e bacilli non-fermentanti. Fino ad oggi, tutti gli isolati MDR di P. aeruginosa e A. baumanni sono risultati sensibili alla colistina, un vecchio farmaco che merita di essere rivalutato. La difficile situazione epidemiologica attuale richiede che vengano studiate le attività sinergiche delle associazioni di farmaci. MODIFICAZIONI DI PARAMETRI DI QUALITÀ IN ALIMENTI FERMENTATI COME INDICATORI DI AZIONI SINERGICHE TRA MICRORGANISMI DI INTERESSE TECNOLOGICO Patrizio Tremonte Dipartimento di Scienze e Tecnologie Agro Alimentari Ambientali e Microbiologiche, Università degli Studi del Molise, Campobasso Gli alimenti fermentati sono il risultato di una serie di eventi biochimici molto spesso determinati dall’azione di microrganismi o di enzimi di natura microbica. Spesso tali eventi non sono di banale descrizione né possono essere attribuiti con semplicità all’azione di uno specifico microrganismo. Lo scenario assume caratteri ancora più complessi qualora si consideri il prodotto fermentato alla stregua di un ambiente in cui differenti componenti microbiche instaurano rapporti di interazione che inevitabilmente condizionano le attività metaboliche espresse dai singoli organismi. Il risultato dell’attività microbica non è attribuibile, quindi, ad una singola specie o ad un singolo ceppo, ma è il frutto di una serie di complesse interazioni che si instaurano tra microrganismi appartenenti a specie differenti o anche tra ceppi microbici differenti appartenenti alla stessa specie. La conoscenza dei potenziali rapporti di interazione tra i differenti ceppi assume una dimensione di inedita importanza qualora si voglia affidare il processo di maturazione ad una coltura starter costituita da diversi microrganismi protecnologici appartenenti a specie o biotipi differenti. I rapporti di inibizione o di stimolo che si stabiliscono tra due ceppi possono amplificare o drasticamente ridimensionare il contributo degli stessi ceppi presi singolarmente e pertanto influenzare gli auspicati contributi microbici sulla qualità del prodotto finito. Le attività di ricerca condotte negli ultimi anni presso i laboratori di Microbiologia degli Alimenti, del DiSTAAM del’Università del Molise, hanno voluto contribuire alla descrizione del quadro delle interazioni, spesso sottovalutate o del tutto ignorate dalla letteratura, che si instaurano tra differenti ceppi virtuosi in grado di presidiare il processo di maturazione dei prodotti fermentati. E stato evidenziato il ruolo determinante espresso dai rapporti di interazione andando a scrutare il loro effetto sulle attività di interesse tecnologico espresse dai singoli ceppi. I risultati evidenziano che tali rapporti di interazione possono influenzare non solo la crescita dei microrganismi ma anche le attività svolte da quest’ultimi e conseguentemente la qualità del prodotto. SOCIETÀ ITALIANA DI MICROBIOLOGIA 19 34° Congresso 06 5-10-2006 11:35 Pagina 20 RISPOSTA ADATTATIVA AGLI STRESS TERMICI IN STREPTOCOCCUS THERMOPHILUS Mario Varcamonti Dipartimento di Biologia Strutturale e Funzionale, Università degli Studi di Napoli Federico II Streptococcus thermophilus è un batterio lattico utilizzato in molti processi fermentativi dell’industria alimentare, durante tali processi le cellule batteriche subiscono diversi cambiamenti di temperatura. Lo studio dei meccanismi adattativi agli stress termici è particolarmente importante sia sotto l’aspetto applicativo che per comprendere i meccanismi molecolari che agiscono negli streptococchi. La risposta allo stress in S. thermophilus è stata finora poco studiata, e solo recentemente l’adattamento agli sbalzi di temperatura è oggetto di studio. In studi precedenti abbiamo evidenziato che in S. thermophilus la sopravvivenza al congelamento viene favorita sia da un preadattamento al freddo (come riportato per altri batteri) che da uno al caldo, abbiamo quindi identificato una proteina indotta sia dallo stress da freddo che da caldo. Tale proteina, ClpL, appartiene alla famiglia di proteine CLP molto conservate nei batteri dove svolgono ruoli molto diversificati, dalla sporulazione, alla induzione della virulenza. Inoltre ClpL contribuisce alla degradazione di peptici originati da RNA messaggeri incompleti e marcati al C-terminale dalla sequenza decapeptidica codificata dal t/mRNA. Abbiamo costruito un mutante nel gene ssrA che codifica per il t/mRNA e ne abbiamo analizzato il fenotipo agli stress termici. Inoltre abbiamo paragonato il gel proteico bidimensionale a quello del ceppo selvatico, riscontrando un forte effetto pleiotropico della mutazione ssrA. IMPATTO DELLA DIAGNOSI RAPIDA SUL MANAGEMENT DELLE ENCEFALOPATIE VIRALI O.E. Varnier, J.L. McDermott, C. Giacomazzi, D. Ferrari, E. Capello, GF Mancardi Sez Microbiologia e *Clinica Neurologica dell’Università di Genova L’esordio acuto delle infezioni del sistema nervoso centrale rende spesso difficile la diagnosi eziologica. L’utilizzo di tecnologie molecolari ha reso possibile identificare specificamente patogeni virali e suggerire una terapia ottimale per il paziente. Protocolli di LightCycler Real Time PCR sono stati messi a punto per herpesvirus (HSV-1/2, VZV, CMV, EBV e HHV-6), poliomavirus (BKV e JCV), adenovirus ed enterovirus. Questa piattaforma tecnologica è stata impiegata per analizzare 202 liquor raccolti da pazienti ospedalizzati con sintomi neurologici e con una cellularità linfocitaria liquorale. La presenza di patogeni virali è stata osservata in 25 campioni di liquor: 9 HSV-1, 1 HSV-2, 7 VZV, 2 EBV, 1 CMV, 1 BKV e 1 enterovirus. Due liquor virus-negativi contenevano sequenze specifiche di Listeria monocytogenes e di Mycobacterium tuberculosis. I livelli dei DNA quantificati variavano da 100 a 538.000 copie di genomi per ml. L’impatto della diagnosi rapida sul management del paziente è deducibile dai seguenti case reports: Giovanni A. di 70 anni con diagnosi di encefalite aveva nel liquor 2 linfociti, proteine elevate, danno di barriera e bande oligoclonali addizionali in liquor e siero. L’identificazione di 125.000 copie di HSV-1 DNA nel liquor e la terapia con aciclovir i.v. hanno consentito una risoluzione completa. Paola L. di 42 anni, ricoverata con sospetta diagnosi di encefalite, aveva nel liquor 160 GB (80% linfo), proteine e glucosio normali, danno di barriera e bande oligoclonali nel liquor e siero. L’identificazione di 33.000 copie di HSV DNA nel liquor e la terapia con aciclovir i.v. hanno consentito la risoluzione clinica. Ileana M. di 27 anni è stata ricoverata per sospetta meningite. Il liquor conteneva 20 GB (100% linfo), gli esami immuno-citochimici erano normali. L’identificazione di 175 copie di VZV DNA/ml nel liquor ha suggerito la terapia con aciclovir iv con risoluzione completa. C. Emanuela di 19 anni è stata ricoverata al pronto soccorso per cefalea ingravescente accompagnata da nausea, vomito e rigidità nucale. Gli esami EEG e TAC erano negativi, mentre il liquor presentava 230 linfociti, danno di barriera, assenza di bande oligoclonali su liquor e siero all’immunoblot. La ricerca di anticorpi antivirus è risultata negativa. La real Time PCR ha quantificato 4,800 copie di VZV DNA/ml nel liquor, che ha consentito di fare diagnosi di meningite in sindrome di Ramsay Hunt paucisintomatica con riattivazione di VZV. La terapia con aciclovir iv e valaciclovir per os ha portato ad una rapida guarigione senza sofferanza assonale del facciale e deficit funzionale. Una diagnosi rapida consente una terapia specifica dell’infezione. 20 34° CONGRESSO NAZIONALE DELLA S A 34° Congresso 06 5-10-2006 11:35 Pagina 21 MECCANISMI DI EVASIONE DELLE DIFESE DELL’OSPITE DA PARTE DI MYCOBACTERIUM TUBERCULOSIS: IMPLICAZIONI PER LO SVILUPPO DI UN NUOVO VACCINO Giovanna Batoni Dipartimento di Patologia Sperimentale, Biotecnologie Mediche, Infettivologia ed Epidemiologia,Università di Pisa Nell’arco degli ultimi anni, notevoli progressi sono stati compiuti nella comprensione della risposta immune a Mycobacterium tuberculosis (MTB) nell’uomo. L’interazione tra le cellule T ed i macrofagi infetti rappresenta l’evento centrale della risposta protettiva dell’ospite al microrganismo. I macrofagi non solo sono le cellule effettrici principali per il controllo di MTB, ma anche elementi essenziali per la processazione e presentazione degli antigeni alle cellule T. Benché i linfociti T CD4+ svolgano un ruolo chiave nella risposta, le loro funzioni effettrici sono affiancate da altre popolazioni cellulari T quali i linfociti CD8+, gamma-delta TCR+ e CD1 ristretti. Risulta, inoltre, progressivamente evidente che anche altri tipi cellulari (cellule dendritiche, neutrofili, cellule natural killer, cellule epiteliali) partecipano in vario grado ai meccanismi di difesa contro MTB, rendendo la risposta dell’ospite contro il microrganismo estremamente complessa e variegata. Per molte di queste popolazioni è stata ormai definita la specificità antigenica e si sta iniziando a chiarire il loro ruolo nel corso dell’infezione. La complessità e la diversità della risposta immune contro MTB hanno comportato lo sviluppo, da parte del microrganismo, di sofisticati meccanismi di evasione delle difese sia naturali che acquisite dell’ospite che permettono, in molti casi, la sua sopravvivenza e permanenza nei tessuti per prolungati periodi di tempo. I meccanismi con cui MTB interferisce con le difese immuni innate sono principalmente due: l’inibizione della maturazione del fagosoma e la resistenza al killing intracellulare da parte dei macrofagi. Utilizzando sia proteine dell’ospite che batterio-specifiche, MTB inibisce, per esempio, la fusione del fagosoma con il lisosoma. A tale riguardo, è stato dimostrato che la coronina 1, una proteina espressa dai leucociti dell’ospite, è presente sulla membrana del fagosoma di macrofagi murini infettati con micobatteri vivi, mentre si dissocia rapidamente da quella di macrofagi infettati con micobatteri uccisi permettendo, in quest’ultimo caso, la fusione del fagosoma con il lisosoma e la degradazione dei batteri. Il bacillo tubercolare è anche in grado di sfuggire ai potenti meccanismi battericidi del macrofago quali la riduzione di pH e la produzione di intermedi reattivi dell’ossigeno e dell’azoto che, insieme alla formazione del fago-lisosoma, partecipano alla distruzione dei microbi intracellulari. E’ stato, per esempio, dimostrato recentemente che MTB, a differenza di altri germi non patogeni come Escherichia coli o di biglie inerti, previene l’accumulo della ossido nitrico-sintetasi inducibile (iNOS) nel fagosoma interferendo, probabilmente, con il riarrangiamento del citoscheletro di actina che è coinvolto nella biogenesi del fagosoma. L’impiego delle moderne tecniche di genomica funzionale e di proteomica, insieme alla caratterizzazione di ceppi mutanti con distruzione selettive a carico di specifici geni ha dato un grande contributo alla comprensione della risposta adattativa del microrganismo alle condizioni intracellulari, dimostrando che questa comporta l’espressione di specifiche categorie funzionali di geni e di numerosi prodotti proteici che permettono l’evasione dei meccanismi battericidi e la sopravvivenza del germe all’interno del macrofago. MTB può anche interferire con la risposta immune adattativa dell’ospite mediante molteplici meccanismi. Tra questi, sembra assumere particolare importanza la capacità del germe di indurre la produzione di citochine con attività inibitoria delle funzioni cellulari T, o l’apoptosi di linfociti T micobatterio antigene-specifici e la conseguente anergia osservata nei pazienti in corso di tubercolosi attiva. Dati recenti indicano, inoltre, che componenti micobatterici superficiali come, ad esempio, la lipoproteina di 19kDa possono interferire, mediante la loro interazione con recettori di superficie come i toll-like receptors, con il riconoscimento dei macrofagi infetti da parte dei linfociti T CD4+, inibendo la processazione degli antigeni e l’espressione di molecole di presentazione come l’MHCII. In conclusione, la capacità di MTB di interferire con praticamente ogni stadio della risposta immune rappresenta un eccellente esempio di co-evoluzione di un agente infettivo con il suo ospite ed aiuta a comprendere i motivi per cui tale microrganismo è un agente patogeno così efficiente. La possibilità di disegnare vaccini antitubercolari in grado di contrastare le complesse strategie di evasione di MTB rappresenta un presupposto necessario per il successo di nuove misure preventive. SOCIETÀ ITALIANA DI MICROBIOLOGIA 21 34° Congresso 06 5-10-2006 11:35 Pagina 22 INTERPRETAZIONE CLINICA DEI REFERTI SUI MICRORGANISMI COINVOLTI E. Debbia D.I.S.C.A.T.- Sezione di Microbiologia Università degli Studi Genova Le resistenza da parte dei batteri agli antibiotici maggiormente utilizzati in terapia, non solo in ambiente nosocomiale, ma anche comunitario pone questioni su quali siano le misure più opportune da adottare per arginare questo fenomeno, pur individuando nello sviluppo di nuovi principi attivi unitamente ad un impiego più appropriato dei farmaci disponibili, le soluzioni più valide. L’intenso uso degli antibiotici, in tutti i contesti, è considerato alla base dell’evoluzione dei microrganismi verso la resistenza a questi composti. Tale fenomeno è emerso parallelamente all’introduzione degli antibiotici in terapia, ma solo recentemente si osservano fenotipi di resistenza molto variegati rispetto al passato ove le differenze tra le minime concentrazioni inibenti (MIC) registrate con i ceppi sensibili e quelle con gli stipiti resistenti erano molto nette. E’ ben noto che i batteri, sia a causa di mutazioni, sia per scambio di materiale genetico con altri microrganismi, possono ereditare le più disparate proprietà biochimiche, incluso la capacità di sopravvivere alla presenza di antimicrobici. Esistono tuttavia, ceppi che in un solo evento genetico acquisiscono la completa resistenza ad alcuni antibiotici e, altri, che evolvono verso tale fenotipo gradualmente attraverso più eventi successivi. Pertanto, accanto a stipiti totalmente resistenti che si differenziano nettamente in termini di MIC rispetto ai germi sensibili, si ritrovano sempre più facilmente batteri che mostrano un fenotipo così detto “borderline”, più difficili da individuare. In molti casi, infatti, i risultati possono essere influenzati da piccole variazioni dell’inoculo, della temperatura o di altri fattori che potrebbero modificare i valori delle MIC con conseguente spostamento del microrganismo dalla categoria sensibile a quella resistente, intermedia o viceversa. In altre situazioni il ceppo manifesta un fenotipo non facilmente decifrabile a causa di alterazioni del tasso di crescita o di altre perturbazioni fisiologiche causate dalla mutazione che determina tale resistenza. Il germe può, inoltre, risultare sensibile ai saggi sulla base dei valori limite ma celare la presenza di mutazioni che rappresentano già un’evoluzione verso l’insensibilità e che può essere individuata solo con ulteriori prove mirate. Come esempio, il caso dei ceppi produttori di β-lattamasi a spettro esteso (ESBL), CLSI suggerisce di porre molta attenzione sui dati degli aloni registrati con la metodica dell’antibiogramma indicando che, anche se il ceppo risulta sensibile all’antibiotico saggiato, ma l’alone appare di dimensioni ridotte rispetto ai valori medi osservati con i ceppi di controllo, conviene effettuare prove addizionali al fine di confermare la presenza di un ceppo produttore di ESBL. Vale la pena ricordare inoltre, che in vivo si instaurano facilmente condizioni di concentrazioni sub-inibenti la crescita che sono note favorire la selezione di germi resistenti specie per stipiti che possiedono meccanismi in corso di evoluzione portandoli facilmente alla totale insensibilità. Alla luce di queste considerazioni è chiaro come sia già difficile per un Microbiologo interpretare un germe isolato da materiale patologico e, chiaramente ancor di più, dovrebbe esserlo per un Clinico che ovviamente si occupa di altre cose. Infatti noi gli forniamo il nome di un microrganismo talvolta incompleto e una serie di dati sulla sensibilità agli antibiotici che si limitano a simboli come S, I o R. Questo lavoro che ormai sanno fare anche le macchine, anzi se sono collegate a sistemi così detti “esperti” possono aggiungere qualcosa più di un Microbiologo di limitata esperienza. Un piccolo accorgimento potrebbe ulteriormente aiutare sia il clinico sia il microbiologo, il microbiologo invece di refertare un ceppo soltanto S, I, o R dovrebbe dare anche informazioni su quelli che sono i criteri con cui si ottengono tali dati o ampliare le informazioni su quelle che sono le problematiche di resistenza agli antibiotici in quel patogeno. Questa informazione sarebbe più completa e potrebbe aiutare il clinico ad una scelta più corretta degli antibiotici da utilizzare riducendo sia il rischio di un fallimento terapeutico sia la diffusione di stipiti che veicolano la resistenza agli antibiotici. 22 34° CONGRESSO NAZIONALE DELLA S A 34° Congresso 06 5-10-2006 11:35 Pagina 23 BACTERIAL ARTIFICIAL CHROMOSOMES (BAC) AS A TOOL FOR HERPESVIRUS GENETICS Gaetano Donofrio Dipartimento di Salute Animale, Sezione di Malattie Infettive degli Animali Facoltà di Medicina Veterinaria, Parma The capability to amplify DNA sequences is an essential premise to DNA manipulation: many methods exist, but one of the most used takes advantage of the biosynthetic machinery of bacteria. Plasmids are circular double stranded DNA molecules, which are propagated and maintained in bacteria, independently of the replication and segregation of the chromosome (Lewin, 1997). This happens because plasmids possess an origin of replication, that is to say a sequence which bacterial replication system assemble on, in order to set up a replicative fork. The number of copies present in a single cell depends on the origin type: it varies from one to hundreds. Different plasmids cannot always coexist in the same bacterium: everyone belongs to a specific compatibility group, according to its origin of replication type, and members of the same group cannot be maintained in the same cell. The introduction in a bacterium of a plasmid incompatible with a previously resident one results in the loss of the new one. These DNA molecules can be used as vector to introduce sequences of interest in bacteria and to amplify them: plasmids can be easily manipulated in vitro through restriction endonucleases and ligases so that they can carry exogenous genes. Then they are used to transform rapidly growing bacteria such as Escherichia coli: bacterial replication results in amplification of the plasmid and therefore of the gene of interest. The limit in the use of plasmids is the maximum size of exogenous DNA they can carry, which is around 10-15 Kb. When the sequencing of large genomes such as the human one began, the need for high capacity vectors was felt: plasmids were unfit to create physical maps of these genomes and to clone them. For these purposes other vectors were employed, like cosmids: basically they are plasmids with cos (cohesive end site) sequences derived from λ phage. The presence of these cos sites guarantees a maximum size increase of inserts up to 35 Kb; moreover these sites can be used to pack the plasmid in phage particles in vitro, thus a vector which can transform bacteria with high efficiency is made. A significant increase in insert size has been achieved with Yeast Artificial Chromosomes (YACs): these vectors can accommodate exogenous DNA fragments up to 2 Mb and allow cloning in simple eukaryotic organisms. YACs include all the sequences necessary to maintain the vector as a chromosome: there are an origin of replication, a centromere, two telomeres (since YACs are amplified as linear DNA molecules) and several selectable markers. However these vectors have some major drawbacks which limit their usefulness (Shizuya and Kouros-Mehr, 2001): yeast transformation is a relatively inefficient process compared to bacteria transformation, so large amounts of DNA are required for library construction; moreover YACs are difficult to isolate intact because they are highly susceptible to shear since they are linear molecules. YAC clones are often unstable and can carry chimeric inserts, so sequences with repetitive elements are prone to rearrangements or cannot be cloned. Finally multiple YACs can coexist in the same cell, thus there is no guarantee that YACs isolated from one clone derived cultures are identical. Most of the problems met using YACs can be overcome with Bacterial Artificial Chromosomes (BACs): they are based on Escherichia coli F plasmids, which are circular DNA molecules of approximately 100 Kb, present in the number of one copy per cell. They can exist as episomes or they can integrate in bacterial chromosomes, but in both cases they are involved in horizontal genetic material transfer (conjugation process). Sequences coming from F factors have been used to create a high capacity vector (BAC), which no longer has the capability to integrate in host genome: they include the origin of replication, genes essential for replication (oriS and repE ), and genes required to maintain copy number to one per cell and to correctly segregate BACs among daughter cells (parA, parB and parC). A widely used BAC vector is pBeloBAC11 (see figure 4), which contains chloramphenicol resistance gene and lacZ (that is the gene coding for ß-galactosidase) as selectable markers. Even though BAC capacity (around 300 Kb) is lower than YAC, these vectors have many advantages (Shizuya and KourosMehr, 2001): there are several methods to transform bacteria, with efficiency higher than yeast transformation; BACs exist in supercoiled circular form which permits easy isolation and manipulation with minimal breaking, through simple methods like alkaline lysis miniprep; BAC DNA is very stable because of the low copy number, besides bacterial recombination sysFig.4: pBeloBAC 11 map from Invitrogen tems are well characterized and recombination deficient strains (recA-) of E. coli are available. BAC vectors are primarily used in the construction of libraries, however, they have also been used in other application such as to study and modify complete double-stranded virus genomes, which are too large to fit into a plasmid or cosmid vector, like herpesviruses (McGregor and Schleiss, 2001; Brune et al., 2000). Efforts to clone complete herpesvirus genomes directly into a BAC vector have been unsuccessful, but the problem was circumvented by creating a BAC cassette flanked by viral sequences: SOCIETÀ ITALIANA DI MICROBIOLOGIA 23 34° Congresso 06 5-10-2006 11:35 Pagina 24 subsequent transfection of this construct in infected cells resulted in the insertion of the BAC cassette in viral genomes by homologous recombination (as shown in figure 5). During replication herpesviruses form a circular intermediate that can be extracted from cells and used to transform E. coli: the result is a BAC shuttle vector containing a viral genome that can be amplified and manipulated in prokaryotic cells. Subsequent transfection of eukaryotic cells reconstitutes the recombinant viruses. Fig.5: Strategy for the construction of an infectious herpesvirus BAC clone (from Brune et al., 2000) MCMV (mouse Cytomegalovirus) was the first herpesvirus cloned as a BAC (Messerle et al., 1997): a plasmid containing a BAC cassette (from plasmid pBAC108L) flanked by MCMV sequences has been transfected along with purified viral DNA in mouse fibroblasts. Homologous recombination resulted in insertion of the BAC cassette in a large region at the right terminal end of MCMV genome that is not essential for replication. After recombinants selection using an eukaryotic selectable marker contained in the BAC cassette, circular viral DNA was isolated from infected cells and electroporated into E.coli. After amplification and purification of BACs, virions were reconstituted by mouse fibroblasts transfection and viral DNA was analyzed by restriction endonuclease digestion in order to rule out rearrangements. In the same experiment, BAC was used also to generate a mutant virus by homologous recombination in E.coli: its phenotype was easily analyzed after transfection into a permissive cell line. A similar approach was adopted to clone the BoHV-4 genome as a BAC (Gillet et al., 2005): an EcoRI fragment containing a XhoI recognition site from the right end of BoHV-4 DNA was isolated and cloned in a plasmid (pGEM-T Easy by Promega) to generate pGEM-T EcoRI G. XhoI site was then used to clone the BAC cassette in the plasmid; cotransfection with the linearized plasmid and purified viral DNA resulted in homologous recombination in MDBK (Madin-Darby Bovine Kidney) cells. The integration took place in a non-coding region at the junction of right prDNA and the unique central region of BoHV-4 (see figure 6). Fig. 6: Diagram showing insertion of a BAC cassette at the left end of the BoHV-4 genome (from Gillet et al., 2005) 24 34° CONGRESSO NAZIONALE DELLA S A 34° Congresso 06 5-10-2006 11:35 Pagina 25 In this case two LoxP sites were added at the ends of the BAC cassette: after mutagenesis in E.coli, transfection of BoHV-4 BAC in a Cre recombinase expressing cell line resulted in removal of the BAC cassette. For this reason recombinant viruses carried only the mutation introduced after cloning in prokaryotic cells. Moreover the BAC vector carry an expression cassette for enhanced green fluorescent protein (EGFP) in order to easily identify cells infected by the recombinant virus through fluorescence microscopy. Fig.7: Diagram of BAC construction and manipulation As in the case of MCMV BAC, serial cultures of BoHV-4 BAC in E.coli were made in order to assess the stability of BoHV-4 genome. BAC cloning allows rapid generation and selection of mutants if compared with classic approaches (Brune et al., 2000; Wagner et al., 2002): site directed mutagenesis in viral genomes is achieved in eukaryotic cells through homologous recombination between viral DNA and a DNA fragment containing the desired mutation flanked by homology regions. However recombination efficiency is low, so isolation of the mutants is a laborious step which involves limit dilutions of infected cells recovered medium; moreover if mutants have a severe growth disadvantage compared with wild type viruses, isolation could be impossible. Also only conditional mutants (usually temperature sensitive) of genes that are necessary for viral growth can be produced, otherwise complementing cell lines are necessary. However, working with viral genomes cloned as BAC vectors gives the opportunity to simplify the selection step: homologous recombination is carried out by bacterial enzymes (so recA+ strains must be used) and if a selectable marker, like an antibiotic resistance gene, is inserted together with the desired mutated allele, mutants selection is quickly made by growing the bacteria in a medium supplemented with the specific antibiotic. Subsequent purification and transfection of BAC vector in eukaryotic cells allows examination of recombinant phenotypes. Using a traditional approach, random point mutations can be introduced in viral genomes through chemical mutagenesis, but a large number of recombinants must be screened to identify interesting phenotypes, and above all identification of the mutation responsible for an observed phenotype is difficult, like excluding second-site mutations. Random mutagenesis on a BAC vector takes advantage of transposons: they are mobile genetic elements that insert themselves into a genome at a more or less random position (according to transposon type). If the transposon inserts itself into an open reading frame, it can truncate or functionally inactivate the gene. Some transposons prefer to insert itself into the bacterial genome, while others into negatively supercoiled plasmids (like BACs). The use of a transposon with a preference for plasmids can reduce BAC mutagenesis to a simple single-step procedure. A significant advantage of transposon mediated mutagenesis is that the molecular analysis of mutant genomes is straightforward, as the transposon insertion site is easily identified by direct sequencing using primers pairing to sites within the transposon. Once identified, the mutation can be repaired by allelic exchange in order to rule out adventitious second-site mutation. Random transposon mutagenesis can be used to establish large libraries of mutants, which can be analyzed with phenotypic screening, for instance, to identify functional classes of genes, such as genes that are essential for viral replication in cell culture. SOCIETÀ ITALIANA DI MICROBIOLOGIA 25 34° Congresso 06 5-10-2006 11:35 Pagina 26 RUOLO DELLE CELLULE DENDRITICHE NELLA RISPOSTA IMMUNITARIA VERSO BARTONELLA HENSELAE Tiziana Musso1, William Vermi 2, Fabio Facchetti 2, Elena Riboldi 3, Sara Scutera1, Roberta Daniele1, Mario Zucca 4, Francesca Gentili 2, Silvano Sozzani 3, Alessandro Negro Ponzi1. 1Dipartimento di Sanità Pubblica e Microbiologia e 4 Dipartimento di Scienze Cliniche e Biologiche, Università di Torino, Torino 2 Dipartimento di Patologia e 3 Sezione di Patologia Generale e Immunologia, Università di Brescia, Brescia B. henselae è un batterio Gram-negativo che causa la malattia da graffio di gatto (CSD), l’angiomatosi bacillare (BA), la peliosi bacillare e sporadiche complicazioni a carico di organi diversi. L’esito dell’infezione è determinato dalla competenza immunologica dell’ospite. La CSD si manifesta in individui immunocompetenti come linfoadenite regionale subacuta associata a febbre e malessere che guarisce spontaneamente nel giro di pochi mesi. In pazienti immunocompromessi quali i malati di AIDS, gli alcolisti cronici e i portatori di trapianti l’infezione evolve invece in episodi di batteriemia e verso fenomeni di angiogenesi nella milza e nel fegato. I meccanismi patogenetici non sono ancora del tutto chiariti, tuttavia nostri recenti studi sottolineano il coinvolgimento delle cellule dendritiche (DC) sia nella CSD che nell’angiomatosi. La manifestazione istologica caratteristica della CSD è una reazione granulomatosa che si differenzia per quanto riguarda la morfologia e la componente cellulare dai granulomi di tipo tubercolare . Questi ultimi sono composti da macrofagi e linfociti T, mentre i primi, di tipo suppurativo, sono composti prevalentemente da neutrofili e linfociti B. In questo studio abbiamo analizzato l’effetto dell’infezione da B. henselae su DC in vitro e la composizione cellulare di granulomi di pazienti con CSD. La fagocitosi di B. henselae da parte delle DC ne promuove la maturazione con induzione di CD83 ed aumentata espressione di CD86, CD80 e HLA-DR. Espressione di DC-LAMP è evidenziabile in DC infettate in vitro ed in sezioni di linfonodi di pazienti con CSD. Esperimenti condotti con cellule HEK293 trasfettate con recettori TLR indicano che TLR2 è coinvolto nel riconoscimento di B. henselae da parte delle DC. A seguito dell’infezione in vitro le DC secernono chemochine attive sui neutrofili (CXCL8 e CXCL1) e CXCL13, che è un potente segnale chemiotattico per i linfociti B. Inoltre numerose cellule CXCL13 positive classificabili come DC per morfologia e per l’espressione di CD11c e CD14 sono state identificate nei granulomi, inframmezzate a linfociti B CD20+. E’ interessante notare che non abbiamo riscontrato espressione di CXCL13 nei granulomi tubercolari analizzati per controllo. I linfociti B riscontrati nei granulomi sono del tipo monocitoide (CD20+, TCL1-, IgD-, BCL2-, BCL6-) ed esprimono T-bet, un fattore di trascrizione coinvolto nello scambio isotipico Tindipendente dei linfociti B. La peliosi epatica e l’angiomatosi bacillare consistono in lesioni angioproliferative non granulomatose che si manifestano come laghi ematici nel fegato e nella milza e come formazioni nodulari simili a quelle del sarcoma di Kaposi a livello della cute. E’ stato dimostrato che la bartonella aderisce alle cellule endoteliali umane e vi penetra, stimolandone la migrazione e la proliferazione in vitro, il che potrebbe spiegare le lesioni angioproliferative osservate in vivo. All’esame istologico le lesioni angiomatose appaiono infiltrate da leucociti polimorfonucleati, macrofagi e dendrociti dermici positivi per il fattore XIIIa. DC infettate da B. henselae rilasciano il fattore di crescita vascolo-endoteliale VEGF ed acquisiscono attività proangiogenica in vitro ed in vivo. Questi dati indicano che citochine e chemochine rilasciate da DC infettate da Bartonella sono importanti nell’organizzazione del granuloma a cellule B tipico della CSD e che un circuito angiogenico paracrino centrato sul VEGF rilasciato dalle DC può contribuire all’angiogenesi mediata da B. henselae. 26 34° CONGRESSO NAZIONALE DELLA S A 34° Congresso 06 5-10-2006 11:35 Pagina 27 LA SPECIE MICROBICA FRA CONCEZIONE E APPLICAZIONE Gianluigi Cardinali Dip. Biologia Vegetale e Biotecnologie Agroambientali e Zootecniche – Sez. Microbiologia Agroalimentare e ambientale Università di Perugia La definizione della specie è un problema antichissimo che lascia tracce di sé in tutte le lingue e culture tanto da poterlo definire come uno degli aspetti più universali della conoscenza ed anche della biologia. Nonostante la sua antichità questo argomento è ampiamente dibattuto come mostra la ricchissima letteratura biologica, matematico-statistica, ma anche epistemologica e filosofica. Questo aspetto è particolarmente importante in microbiologia poiché i microrganismi, a differenza di piante ed animali, non sono direttamente definibili per il loro aspetto e tanto meno possono essere identificati prima dell’isolamento date le piccolissime dimensioni e la povertà del dato morfologico. Ne consegue che una classificazione consistente, universalmente accettata e stabile è una necessità imprescindibile perché i microbiologi possano definire l’oggetto dei propri studi e condividerlo con gli altri. Se dunque la classificazione è un aspetto di fondamentale importanza applicativa, la ricostruzione dei meccanismi di speciazione è sicuramente un processo affascinante che ci permette di penetrare negli aspetti più reconditi della prima e più lunga parte dell’evoluzione fino alla comparsa degli organismi pluricellulari. Malgrado l’indiscussa importanza teorica e l’ovvio interesse applicativo, la definizione di specie microbica langue per l’incomunicabilità fra i tre filoni scientifici che se ne interessano. Da una parte abbiamo i biologi teorici che si interessano della specie come concetto e sviluppano strumenti, indubbiamente sofisticati, ma non sempre facilmente applicabili. Gli studiosi della specie in quanto entità naturale, che si pongono la questione dell’effettiva esistenza della struttura di specie in natura, della sua formazione ed evoluzione, sviluppano modelli anche sofisticati e rispondenti, ma spessissimo incentrati su raggruppamenti tassonomici assunti a modello, tralasciando necessariamente la pletora di tutti gli altri taxa. Infine, i sistematici, e tutti quei biologi che occasionalmente si trovano ad affrontare il problema dell’identificazione, paiono concentrare la loro attenzione soprattutto sull’aspetto tecnologico e sull’aggiornamento della classificazione. La particolare difficoltà di definire un concetto di specie microbica che spazi dai procarioti agli eucarioti con sessualità assenti, appena abbozzate e talvolta facoltative è di per se stesso un compito arduo, risolvibile solo con un approccio seriamente multidisciplinare che spazi dall’epistemologia, alla statistica, all’informatica, facendo naturalmente perno sulla microbiologia. IL RUOLO DEL FARMACISTA OSPEDALIERO A. Gasco ASO San Giovanni Battista, Torino Le due ultime Risoluzioni del Consiglio Europeo (Res AP(1997)2 e Res AP(2001)2) in materia di organizzazione sanitaria propongono per il Farmacista Ospedaliero un ruolo “allargato”, che accosta alle attività tradizionalmente svolte di approvvigionamento e dispensazione dei farmaci trasversalmente all’Azienda in cui opera, quelle di Clinical Pharmacy (CP) e Pharmaceutical Care (PHC). Nell’ambito di queste due discipline, che in Italia si propongono come innovative ma che negli USA e in numerosi paesi d’oltralpe rappresentano una realtà conclamata, il Farmacista opera nell’ambito di un Health Care Team di Reparto, accanto ad altre figure professionali coinvolte nel processo assistenziale, per un approccio multidisciplinare al farmaco nell’ambito della patologia da trattare e orientato al paziente in terapia farmacologica. Le potenzialità che scaturiscono da un’integrazione tra le conoscenze e da un confronto tra le diverse professionalità ed esperienze sono indubbie, in un contesto sanitario come quello attuale, in cui l’assistenza intesa come diagnosi, terapia e riabilitazione del paziente-cliente, si avvale di una quantità sempre maggiore di alternative, sempre più sofisticate e ad elevato contenuto tecnologico. L’A.S.O. San Giovanni Battista di Torino, Azienda multispecialistica di rilevanza nazionale per dimensioni, posti letto e casistica trattata, attraverso specifiche scelte di politica sanitaria, è intervenuta sugli assetti organizzativi dei servizi in modo da creare le condizioni per una effettiva multidisciplinarietà ed integrazione delle conoscenze, in particolare nei percorsi valutatitivi delle terapie farmacologiche ivi comprese l’antibiotico terapia e profilassi. L’attività del farmacista nella gestione aziendale degli antibiotici è multidimensionale e si esplica a tre livelli: “drug-oriented” ,“desease(infection)-oriented”e “patient-oriented”. Nel primo contesto, il farmacista, nel suo ruolo tradizionale orientato al farmaco e di supporto al medico, acquista, stocca e dispensa gli antibiotici trasversalmente a tutta l’Azienda, su richiesta dei singoli Reparti e ne monitora quali/quantitativamente l’impiego. Il secondo (CP), vede il Farmacista impegnato nel gestire l’antibiotico nell’ambito dell’infezione da trattare e contestualmente alla flora nosocomiale, in termini di efficacia, sicurezza e tollerabilità: qui opera accanto ad altre figure professionali, (microbiologo, infettivologo ecc…) nell’ambito di Commissioni deliberate dal Direttore Generale (CIO, CA ecc…) per la definizione e gestione di formulari (Prontuario Aziendale degli Antibiotici) e protocolli aziendali di profilassi, terapia nonché di procedure operative standard (SOP). Il terzo livello (CP/PHC) si attua in Reparto, attraverso la contestualizzazione dell’uso degli antibiotici “al letto del paziente”. In questo ambito il Farmacista, operando all’interno di un’ equipe sanitaria di Reparto, partecipa alle scelte delle terapie farmacologiche ed è in grado di intervenire in modo preciso, diretto e immediato su ogni aspetto e problematica legate all’antibiotico, non solo dal punto di vista gestionale, ma altresì orientato al paziente affetto da infezione (batteriologicamente testata o empirica ) e al miglioramento del suo percorso di cura all’interno dell’Azienda. In questo contesto, l’approccio multiprofessionale all’antibiotico si configura come un valido strumento per creare un ambiente che favorisce l’espressione di un eccellenza clinica compatibile con le risorse economiche assegnate SOCIETÀ ITALIANA DI MICROBIOLOGIA 27 34° Congresso 06 5-10-2006 11:35 Pagina 28 PARAMETRI MICROBIOLOGICI E FARMACODINAMICI NELLA SCELTA E NELL’USO DEGLI ANTIBIOTICI Pio Maria Furneri Dipartimento di Scienze Microbiologiche e Scienze Ginecologiche, Università degli Studi di Catania - Catania, Italia La scelta di un’antibiotico può essere basato su due principi di base che possono essere riassunti in scelta ragionata/empirica , cioè quella scelta basata sulla conoscenza della sede d’infezione, dei potenziali patogeni correlati e degli antibiotici potenzialmente attivi, oppure in scelta mirata, cioè l’antibiotico viene scelto dopo l’isolamento, l’identificazione e l’antibiogramma dei patogeni coinvolti. La farmacodinamica degli antibiotici descrive l’impatto di un agente antimicrobico su un determinato patogeno, insieme alla sensibilità del patogeno al farmaco. Il paziente stesso o i fattori dell’ospite giocano un ruolo importante nella farmacodinamica interferendo con la farmacocinetica dell’antibiotico e con la sensibilità dell’ospite all’infezione. Sono tre i parametri farmacodinamici, comunemente, usati nel predire l’efficacia dell’antibiotico: a) il rapporto tra la concentrazione massima raggiunta nel siero (Cmax) e la MIC [Cmax/MIC]; b) il rapporto tra l’area sotto la curva della concentrazione plasmatica rispetto al tempo (AUC) e la MIC [AUC/MIC] c) la durata del periodo fra le dosi durante il quale la concentrazione ematica supera la MIC (T>MIC). Il primo parametro [Cmax/MIC] è impiegabile per valutare l’efficacia degli aminoglicosidi, mentre il rapporto AUC/MIC è utilizzabile per descrivere il comportamento degli antibiotici chinolonici, glicopeptidici e ketolidici; infine, T>MIC è utilizzato nella valutazione dei betalattamici e dei macrolidi. Un aspetto innovativo è quello di impiegare i parametri farmacodinamici, non soltanto per valutare l’efficacia dell’antibiotico, ma bensì per minimizzare lo sviluppo di resistenze. Il primo esempio è quello dei chinoloni, dove l’ipotesi della “mutant selection window” è stata formulata nel tentativo di descrivere come concentrazioni inferiori alla MPC (“mutant prevention concentration”) potessero selezionare cloni resistenti. In tal senso esistono evidenze sperimentali per le quali il rapporto AUC/MIC possa essere impiegato sotto il duplice ruolo di indice di aumentato o diminuito rischio di resistenza. Va tuttavia ricordato che al di là dell’impiego dei parametri farmacodinamici la valutazione dell’antibiotico va condotta sulla base delle evidenze sperimentali microbiologiche. Ad esempio, nei macrolidi l’insorgenza di mutazioni ribosomiali è indotta dal permanere del batterio, per alcuni cicli di crescita, a dosi sub-inibenti. Tali mutazioni, dette puntiformi, sono, tuttavia, regolate nella loro espressione dalle leggi della genetica (dominanza/recessività) e spesso appaiono silenti, cioè prive di effetti evidenti. Inoltre, alcuni antibiotici sono peculiari nella capacità di indurre mutazioni ribosomiali. Infine, è bene ricordare che per meglio formulare un scelta terapeutica è importante considerare quattro aree che interagiscono tra di loro: il paziente, l’ambiente, il microrganismo e il farmaco. Ognuno di queste per ciò che le compete è in grado di influenzare il comportamento dell’altre. REPERTI MOLECOLARI E MORFOLOGICI DI INFEZIONE VIRALE NELL’ENCEFALO Luisa Barzon, Valentina Militello, Giulia Masi, Andrea Porzionato*, Raffaele De Caro*, Giorgio Palù Dipartimento di Istologia, Microbiologia e Biotecnologie Mediche e *Dipartimento di Anatomia e Fisiologia Umana, Università degli Studi di Padova, Padova. Il sistema nervoso centrale favorisce l’instaurarsi di infezioni virali persistenti per la presenza della barriera emato-encefalica, che lo rende un ambiente immunologicamente isolato. La replicazione virale è spesso ristretta alle cellule neuronali, che sembrano favorire la persistenza e la diffusione del virus attraverso la loro rete di processi cellulari. Le infezioni virali possono interessare nuclei o tipi cellulari diversi determinando segni e sintomi differenti. Per esempio, alcuni virus hanno tropismo per cellule della leptomeninge, cellule microgliali, neuroni, o astrociti. Inoltre, per quanto riguarda i neuroni, alcuni virus infettano preferenzialmente i motoneuroni (poliovirus), i neuroni dei gangli dorsali (VZV), del ganglio trigemino (HSV) o del bulbo olfattorio (virus della rabbia). Studi epidemiologici, clinici e virologici suggeriscono che infezioni virali latenti e/o persistenti del sistema nervoso centrale possano contribuire all’eziopatogenesi, ancora incerta, di patologie psichiatriche o neurologiche quali la schizofrenia, la depressione, la sclerosi multipla e la malattia di Alzheimer. Ci siamo occupati recentemente dello studio della presenza di virus nel tronco encefalico in soggetti tossicodipendenti deceduti per intossicazione acuta da oppiacei e della correlazione del quadro virologico con il reperto istopatologico. Se numerosi sono i dati in letteratura sulle infezioni virali della corteccia cerebrale, meno studiato è stato il tronco encefalico, che, d’altra parte, svolge un ruolo fondamentale nella regolazione delle funzioni autonomiche. Oltre a confermare la localizzazione di HIV nel tronco encefalico, abbiamo dimostrato casi di infezione del tronco encefalico da BKV e daHHV-6. In analogia con quanto dimostrato nelle strutture diencefaliche e telencefaliche, abbiamo dimostrato, anche nel tronco di soggetti HIV-positivi presintomatici, reperti istopatologici ascrivibili alla localizzazione del virus nel tessuto nervoso. 28 34° CONGRESSO NAZIONALE DELLA S A 34° Congresso 06 5-10-2006 11:35 Pagina 29 Comunicazioni orali SOCIETÀ ITALIANA DI MICROBIOLOGIA 29 34° Congresso 06 5-10-2006 11:35 Pagina 30 SPECIFICHE MUTAZIONI NELLA GLICOPROTEINA GP41 DI HIV-1 SONO ASSOCIATE A SUCCESSO IMMUNOLOGICO IN PAZIENTI INFETTI CON HIV-1 TRATTATI CON T-20 S Aquaro1,2, V Svicher1, R D’Arrigo3, M Santoro1, G Di Perri4, S Lo Caputo5, U Visco-Comandini3, F Mazzotta5, S Bonora4, A Antinori3, P Narciso3, CF Perno1 1Università degli Studi di Roma “Tor Vergata”, Italia; 2Università della Calabria, Rende, Italia; 3INMI “L. Spallanzani”, Roma, Italia; 4Ospedale “Amedeo di Savoia”, Torino, Italia; 5Ospedale “SM Annunziata”, Firenze, Italia. Obiettivo:In questo studio abbiamo analizzato la variabilità genetica di gp41 e le correlazioni con i parametri viro-immunologici in 54 pazienti infetti con HIV-1 trattati con T-20 aggiunto come unico farmaco attivo ad un regime antiretrovirale in fallimento terapeutico. Metodi: Sono state analizzate 102 sequenze di gp41 dall’inizio fino alla 48a settimana di trattamento con T-20 con i valori di viremia e dei linfociti CD4+ ottenuti da 54 pazienti HIV-1 infetti. Il coefficiente di correlazione binomiale e il test di Fisher sono stati utilizzati per studiare le associazioni tra le mutazioni. Il test di Mann Whitney è stato utilizzato per studiare l’associazione delle mutazioni con viremia e linfociti CD4+. Risultati: L’introduzione di T-20 al regime antiretrovirale in fallimento ha causato a 4 settimane una riduzione della viremia da 5.1 a 4.3 log10/mL (P=0.0002) e un aumento dei linfociti CD4+ da 48 a 106 cellule/mm3 (P=0.008). Nonostante il rapido rialzo della viremia, la conta dei linfociti CD4+ ha continuato ad aumentare a 166cellule/mm3 alla 48a settimana (P=0.008). Le mutazioni conferenti resistenza a T-20 sono comparse in 45/54 pazienti e la V38A è risultata la più frequente (27.8%). Forti correlazioni positive (P<0.05) sono state evidenziate tra le seguenti coppie di mutazioni: Q39H+V38M, L44M+L45M, N43D+N42Q. Inoltre, le mutazioni V38A/E sono risultate associate ad un aumento dei linfociti CD4+ di 4.5 volte alla settimana 24 e di 11.5 volte alla settimana 48 rispetto ai pazienti privi di tali mutazioni (P<0.05), senza alcuna associazione con la viremia. In contrasto le mutazioni Q40H+L45M sono risultate associate ad una drastica riduzione dei linfociti CD4+ alla 48a settimana di trattamento (P=0.01) senza alcuna associazione con la viremia. Infine la mutazione N126K è in grado di abrogare il IV sito di glicosilazione di gp41 ed è associata ad un aumento di 2.1 volte dei linfociti CD4+ alla 24a settimana di trattamento. Conclusioni: Le mutazioni conferenti resistenza al T-20 (V38A/E) sono associate a successo immunologico nonostante fallimento virologico. Tale guadagno immunologico potrà fornire il razionale per il disegno di nuove strategie di intervento terapeutico. APPLICAZIONI DEL MICROARRAY PROTEICO NELLA DIAGNOSI DIRETTA PER LA SIEROTIPIZZAZIONE DI AGENTI PATOGENI F. Baldracchini1, A. Ardizzoni2, E. Blasi2, W. Low1, C. Casolari3, R. Neglia2, T. Bacarese-Hamilton1, S. Peppoloni2, C. Cermelli2, A. Crisanti1. 1Department of Biological Sciences, Section of Infection and Immunity, Imperial College – London (U.K. ). 2Dipartimento di Scienze di Sanità Pubblica, Università di Modena e Reggio Emilia. 3Dipartimento Integrato dei Servizi Diagnostici e di Laboratorio, Università di Modena e Reggio Emilia. La tecnologia microarray è diventata uno strumento cruciale per la diagnostica e la ricerca. Recentemente microarray proteici e di anticorpi hanno trovato numerose applicazioni in campo diagnostico, clinico e di laboratorio offrendo molti vantaggi sui metodi tradizionali. Lo scopo di questo progetto è sviluppare un saggio che come substrato di cattura utilizza anticorpi specifici per la tipizzazione di batteri responsabili di varie patologie cliniche. La metodica di laboratorio elettiva per la sierotipizzazione batterica è il test di agglutinazione diretta, spesso complementato da tipizzazione fagica, ELISA e Western Blot. Nonostante il loro impiego routinario, queste tecniche sono inadeguate per determinazioni rapide, quantitative, o multiparametriche e con costi contenuti. La tecnologia microarray offre la possibilità di superare queste limitazioni. In quest’ottica, il presente studio ha valutato l’impiego del microarray proteico per la tipizzazione delle Salmonelle. Brevemente, anticorpi specifici per uno o più sierotipi di Salmonella vengono deposti su vetrini da laboratorio chimicamente attivati. Gli array prodotti vengono incubati con i sierotipi di Salmonella, precedentemente inattivati per fissazione chimica o mediante calore. L’immunocomplesso, risultante dal legame tra l’anticorpo e i rispettivi antigeni batterici, viene rivelato mediante immunofluorescenza indiretta. I vetrini sono infine sottoposti a scansione mediante un sistema di microscopia laser confocale abbinata a ricostruzione digitale dell’immagine. I risultati preliminari indicano che: 1) gli antisieri sono correttamente deposti sul vetrino e mantengono la loro specifica reattività; 2) i batteri, anche dopo fissazione, mantengono intatte le loro caratteristiche antigeniche e vengono riconosciuti dagli anticorpi diretti contro l’antigene somatico. Sono in corso indagini per ottimizzare i parametri tecnici concernenti soprattutto il protocollo di processazione. Questo studio pilota fornirà la procedura per la sierotipizzazione delle Salmonelle mediante microarray proteici e porrà le basi per espandere l’impiego di tale metodologia alla identificazione di altri agenti patogeni clinicamente rilevanti. 30 34° CONGRESSO NAZIONALE DELLA S A 34° Congresso 06 5-10-2006 11:35 Pagina 31 MODULAZIONE DI PROTEINE DI SUPERFICIE IMPLICATE NEL FENOTIPO SESSILE DI STAPHYLOCOCCUS SPP. DA PARTE DI UNA METALLO-PROTEASI DI SERATTIA MARCESCENS Artini M.1, Poggiali F.1, Cellini A.1, Scoarughi G. L.1, Pucci P.2, Amoresano A.2, Carpentieri A.2, Selan L.1 1 Università di Roma “La Sapienza”, Roma. 2 Università di Napoli “Federico II”, Napoli. La maggioranza delle infezioni sostenute da biofilm è causata da membri del genere Staphylococcus (70-80%) che in fase sessile mostrano un’aumentata resistenza agli antibiotici. In queste infezioni emergenti, che necessitano di nuovi approcci terapeutici, gli stipiti agr– sono prevalenti (70%). Abbiamo dimostrato che nei biofilm di S. epidermidis il trattamento con serratiopeptidasi (SPEP), una metallo-proteasi di 50 kDa prodotta da Serratia marcescens, elimina la resistenza dei biofilm agli antibiotici e modula AtlE, una proteina di superfice bifunzionale strettamente implicata nella formazione e maturazione del biofilm. Nel presente studio abbiamo allargato l’analisi ad S. aureus e abbiamo osservato la regolazione di altre proteine di superficie sia in stipiti agr+ che in stipiti agr– di entrambe le specie. Abbiamo studiato la modulazione delle proteine di superficie in stipiti formanti biofilm di S. epidermidis (uno stipite di collezione, un isolato clinico con i relativi mutante atlE e mutante ricostituito) e di S. aureus (uno stipite di collezione, e 4 isolati clinici) in seguito a trattamento con SPEP. Lo studio delle proteine modulate dal trattamento è stato effettuato mediante SDSPAGE e gli zimogrammi sono stati incubati con gli estratti proteici ottenuti secondo il metodo di Tabouret (Tabouret et al., 1992); l’analisi MALDI-MS ha poi consentito l’identificazione delle diverse proteine di superficie. I risultati hanno mostrato che la SPEP modula diverse proteine di superficie in entrambe le specie. Gli zimogrammi mostrano una drastica riduzione dell’attività proteolitica in seguito a trattamento con SPEP. L’analisi SDS-PAGE seguita dall’analisi MALDI-MS ha permesso l’identificazione di alcune proteine negativamente modulate dalla SPEP. Fatto notevole è che la SPEP elimina o riduce in entrambe le specie proteine ortologhe: Atl/AtlE, EF–G ed EF–Tu. I dati in nostro possesso indicano che il fenotipo agr non è correlabile con l’azione della SPEP nelle due specie. L’attività biologica della SPEP (restituzione della sensibilità agli antibiotici) sui biofilm formati dalle due specie è probabilmente mediata da un analogo meccanismo agr–indipendente che induce la modulazione di proteine ortologhe. Queste osservazioni rinforzano l’ipotesi che prevede l’utilizzo della SPEP o di composti analoghi alla SPEP come sostanze terapeutiche anti–biofilm. EFFETTI DI NUOVI COMPOSTI NUCLEOSIDICI CARBOCICLICI FOSFONATI SULL’INFEZIONE DA HTLV-1 IN VITRO Balestrieri E.,1 Matteucci C.,2 Minutolo A.,1 Ascolani A.,3 Romeo G.,4 Piperno A.,4 Chiacchio U.,5 Macchi B.,3 Mastino A.6 1Dip. di Medicina Sperimentale e Sc. Biochimiche e 3Dip. di Neuroscienze, Università di Roma “Tor Vergata”, Roma; 2Ist. di Neurobiologia e Medicina Molecolare, C.N.R., Roma; 4Dip. Farmaco-Chimico e 6Dip. di Scienze Microbiologiche, Genetiche e Molecolari, Università di Messina, Messina; 5Dip. di Scienze Chimiche, Università di Catania, Catania. Sebbene la via mitotica, legata alla replicazione del genoma virale allo stato di provirus integrato, sia riconosciuta quale principale via di diffusione del retrovirus umano linfotropo HTLV-1 nei pazienti infettati, recenti studi hanno evidenziato come anche la neo-infezione, tramite contatto cellula-cellula, rappresenti un importante meccanismo di mantenimento e propagazione della carica virale in vivo, dipendente dall’attività della trascrittasi inversa (RT) virale. Ciò fornisce un nuovo impulso per lo studio di farmaci in grado di inibire la RT di HTLV-1, potenzialmente impiegabili per il controllo delle patologie associate al virus. Avevamo già messo in evidenza come non tutti i farmaci in grado di inibire la RT di HIV risultavano altrettanto efficaci verso la RT di HTLV-1 in vitro. In particolare, HTLV-1 risultava naturalmente piuttosto resistente al 3TC, mentre era molto sensibile all’AZT ed al tenofovir (TFV), che risultava anche il meno tossico, ma richiedeva una prolungata preesposizione. Avendo recentemente descritto la sintesi ed la potenziale attività antiretrovirale di una nuova classe di composti nucleosidici carbociclici fosfonati (PCOAN, phosphonated carbocyclic 2’-oxa-3’-aza-nucleosides), abbiamo voluto valutare nel dettaglio la loro capacità di controllare l’infezione da HTLV-1 in vitro. A tal fine sono stati selezionati tre composti prototipici, qui definiti PCOAN1, PCOAN2 e PCOAN3, di cui sono state saggiate le capacità di: 1) inibire la trasmissione dell’infezione a linfomonociti di donatori sani da parte di cellule cronicamente infette irradiate letalmente, 2) controllare la crescita di colture infettate, 3) inibire la RT di HTLV-1 in un saggio in vitro cell-free, 4) svolgere un’azione citotossica verso linfociti non infettati. I risultati indicano che i nuovi composti hanno un’attività anti-HTLV-1 paragonabile a quella del TFV, ma senza necessità di preesposizione, ed un variabile effetto citotossico, con i seguenti indici di selettività risultanti: PCOAN2 circa 5-6 volte più alto di TFV o PCOAN1, e circa 17 volte più alto di PCOAN3. SOCIETÀ ITALIANA DI MICROBIOLOGIA 31 34° Congresso 06 5-10-2006 11:35 Pagina 32 TIPIZZAZIONE MOLECOLARE DI STIPITI DI LEGIONELLA PNEUMOPHILA SIEROGRUPPO 1 ISOLATI A PALERMO Bonura C., Barbaro R., Distefano S., Amato T., Calà C., Giammanco A. Dipartimento di Igiene e Microbiologia “G. D’Alessandro”, Università degli Studi di Palermo. Diversi metodi molecolari di tipizzazione sono stati valutati ed applicati nella caratterizzazione degli isolati clinici ed ambientali di L. pneumophila sierogruppo 1 per confermare o meno una reale correlazione epidemica tra i ceppi, per individuare la fonte di contaminazione e le vie di diffusione e per valutare l’efficacia degli interventi di bonifica effettuati. Attualmente il metodo considerato lo “standard internazionale” dai membri dello EWGLI (European Working Group on Legionella Infections) risulta essere l’AFLP (Amplified Fragment Length Polymorphism), una tecnica semplice, altamente discriminante e riproducibile. Tuttavia, per ovviare agli inconvenienti derivati dalle difficoltà di interpretazione dei profili AFLP e dalle severe condizioni di standardizzazione, come nuovo “gold standard” è stato proposto il metodo SBT (Sequence-BasedTyping) basato sul sequenziamento di alcuni geni housekeeping e non. La combinazione degli alleli di ciascuno dei loci esaminati garantisce una tipizzazione assolutamente indipendente dall’interpretazione soggettiva. Sulla base di quanto su esposto, per valutare la variabilità genetica di ceppi di L. pneumophila sierogruppo 1 isolati sia da campioni clinici che ambientali pervenuti presso il nostro laboratorio, abbiamo inizialmente utilizzato l’AFLP. Dall’analisi dei profili ottenuti da tutti gli stipiti isolati è stato possibile individuare quattro genotipi differenti. Inoltre, la tipizzazione dei ceppi clinici isolati da un paziente ed il loro confronto con i ceppi ambientali isolati da entrambi i reparti di ricovero dello stesso ospedale ha evidenziato che gli isolati clinici mostrano un unico profilo AFLP che è risultato chiaramente differente da quello ottenuto dagli stipiti ambientali. A conferma dei risultati ottenuti, ed al fine di escludere la possibilità di errore insita nel metodo, abbiamo analizzato gli stessi isolati con il nuovo metodo proposto come “gold standard”, l’SBT. La tipizzazione eseguita mediante SBT ci ha consentito di confermare la diversità genetica dei quattro tipi AFLP poichè ad ognuno di essi è stato possibile associare diverso profilo allelico. Infine, anche dal confronto dei tipi SBT ottenuti dagli isolati clinici e da quelli ambientali è stato possibile escludere l’origine nosocomiale del caso di legionellosi in quanto gli isolati clinici hanno mostrato tutti un identico profilo allelico differente da quello presentato dagli stipiti ambientali epidemiologicamente correlabili. CARATTERIZZAZIONE DI NUOVE MUTAZIONI DELLA TRASCRITTASI INVERSA DI HIV-1 COINVOLTE NELLA RESISTENZA AGLI INIBITORI NON NUCLEOSIDICI V Svicher1, T Sing2, A Artese3, MM Santoro1, C Gori4, A Bertoli1, A d’Arminio Monforte5, A Antinori4, T Lengauer2, CF Perno, F Ceccherini-Silberstein1 1Università degli Studi di Roma “Tor Vergata”, 2Max-Planck-Institute for Informatics, Saarbrücken, Germania, 3Università di Catanzaro “Magna Graecia”, 4INMI “L. Spallanzani” di Roma, 5Università di Milano Introduzione: Recentemente abbiamo identificato nuove mutazioni della trascrittasi inversa (RT) di HIV-1; lo scopo di questo studio è stato quello di caratterizzarne il ruolo nello sviluppo di resistenza agli inibitori della RT di tipo non nucleosidico (NNRTI). Metodi: Sono state analizzate 1904 sequenze di HIV-1 RT ottenute dal plasma di 758 pazienti naive, 592 pazienti trattati con NRTI ma non NNRTI e 554 pazienti trattati con NRTI+NNRTI. L’associazione di mutazioni agli NNRTI e ai valori di viremia/CD4 è stata valutata rispettivamente con il test del chi-quadro ed il Mann Whitney-test. Il coefficiente di correlazione binomiale e la cluster analisi sono stati usati per identificare correlazioni tra mutazioni. L’impatto delle mutazioni sulla resistenza agli NNRTI è stata analizzata mediante il Wilcoxon-test e il modello di regressione multivariata noto come “support vector machine” (SVM). Risultati: 9 mutazioni (K101Q, I135M/T, V179I, H221Y, K223E/Q, L228H/R), associate positivamente al trattamento con NNRTI, sono risultate fortemente correlate con specifiche mutazioni conferenti resistenza agli NNRTI. In particolare, forti correlazioni positive sono state osservate per la I135M/T con K103N, H221Y/L228H con Y181C, e K223E/L228R con F227L. La co-presenza della I135T, I135M, o K101Q con la K103N è associata ad un aumento della resistenza ad efavirenz (EFV) rispettivamente di 3.4, 9.5 e 4.7 volte, mentre la co-presenza della H221Y con la Y181C ad un aumento di 12 volte della resistenza verso nevirapina (NVP). Inoltre, la presenza della I135T all’inizio del trattamento con NNRTI è correlata con la presenza della K103N al fallimento terapeutico. Il modello SVM ha mostrato come la H221Y e K101Q, presenti nell’8% dei pazienti trattati con NNRTI, ricadono tra le prime 20 mutazioni che contribuiscono significativamente alla resistenza verso NVP e EFV, mentre la I135T, presente nei pazienti naive con una frequenza del 32%, ricade nelle prime 20 mutazioni che contribuiscono alla resistenza verso NVP. Conclusioni: Il pattern di mutazioni che regola la resistenza agli NNRTI è più complesso di quanto riconosciuto. Il coinvolgimento di nuove mutazioni merita un approfondimento per l’affinamento delle strategie terapeutiche. 32 34° CONGRESSO NAZIONALE DELLA S A 34° Congresso 06 5-10-2006 11:35 Pagina 33 STUDIO DEL RUOLO DI TGF-ß1 E APRIL NELLA INIBIZIONE HIV-1 INDOTTA DELLA PROLIFERAZIONE E DIFFERENZIAMENTO DELLA FILIERA MEGACARIOCITARIA Ronny Cicola, Elisa De Crignis, Davide Gibellini, Maria Carla Re Sezione di Microbiologia, Dipartimento di Medicina Clinica Specialistica e Sperimentale, Università degli Studi di Bologna L’infezione da HIV-1 determina nel paziente, oltre alla riduzione progressiva dei linfociti T CD4+, la comparsa di citopenie periferiche come l’anemia e la trombocitopenia, in grado di svolgere un ruolo rilevante nello sviluppo clinico della patologia. In particolare, la trombocitopenia può rappresentare addirittura la prima manifestazione clinica osservabile nel corso di infezione da HIV-1. Precedenti osservazioni hanno dimostrato che la piastrinopenia HIV-1-indotta presenta una genesi multifattoriale (presenza di anticorpi anti-piastrine, infezione diretta di HIV-1 dei megacariociti maturi, inibizione della produzione dei trombociti). Nel nostro studio abbiamo analizzato la differenziazione mediata da TPO verso la filiera megacariocitaria (MK) delle cellule progenitrici ematopoietiche CD34+ (HPCs) in presenza di HIV-1. I risultati mostrano come in questo modello sperimentale e in assenza di una infezione produttiva delle HPCs ci sia l’induzione di apoptosi, l’inibizione del differenziamento della filiera e la riduzione del numero dei MK ad alta ploidia. Abbiamo quindi indagato sui meccanismi molecolari coinvolti in questa inibizione funzionale della megacariocitopoiesi. In particolare, abbiamo analizzato il ruolo di TGF-ß1 e APRIL, due fattori coinvolti rispettivamente nella regolazione negativa della proliferazione e differenziamento delle HPCs e della proliferazione dei MKs. TGF-ß1 è regolato positivamente dal trattamento con HIV-1 sia come sintesi di mRNA sia come proteina, mentre, al contrario, APRIL ne viene regolato negativamente. L’impiego di anticorpi anti- TGF-ß1 riduce consistentemente l’induzione di apoptosi e l’inibizione della proliferazione cellulare suggerendo un ruolo centrale di TGF-ß1 nella trombocitopenia HIV-1 indotta. In conclusione, i risultati ottenuti hanno permesso di individuare due fattori, la cui regolazione da parte di HIV-1 può essere utile per una comprensione più approfondita delle cause e dei meccanismi alla base della piastrinopenia osservabile nel corso di infezione da HIV-1. INTERAZIONI FRA LEPTOSPIRE E CELLULE MICROGLIALI Marina Cinco, Sandra Perticarari, Gianni Presani, Rachele Neglia*, Bruna Colombari* ed Elisabetta Blasi*. Laboratorio Spirochete, Dipartimento di Scienze Biomediche, Universitrà di Trieste *Dipartimento di Scienze di Sanità Pubblica, Università di Modena e Reggio Emilia Introduzione: Le leptospire sono gli agenti eziologici delle leptospirosi. Durante la fase acuta della malattia sintomi quali rigidità nucale e cefalea, e talvolta meningismo ed encefalite, indicano che anche il Sistema Nervoso Centrale (SNC) è un bersaglio importante della patogenicità delle Spirochete. Recentemente, è stato evidenziato il fondamentale ruolo delle cellule microgliali, in quanto capaci di fagocitare ed indurre effetti proinfiammatori, nei riguardi dei patogeni che invadono il SNC. In questo lavoro, abbiamo pertanto saggiato le interazioni tra cellule microgliali (linea murina BV-2) e ceppi di leptospira patogeni e non-patogeni (L. interrogans vs L. biflexa), valutando: a) la capacità delle cellule microgliali di legare, fagocitare ed uccidere le leptospira; b) l’induzione di molecole di segnale (p38 fosforilata ed attivazione del fattore NF-kB); c) il rilascio di mediatori dell’infiammazione e c) il ruolo di specifiche componenti batteriche come induttori della reattività della microglia. Metodi: La fagocitosi è stata valutata mediante citofluorimetria a flusso, il killing mediante determinazione della sopravvivenza (UFC) a tempi diversi, mentre p38 fosforilata, NF-kB e citochine sono stati dosati mediante test ELISA specifici. Risultati: Le cellule microgliali fagocitano con difficoltà le leptospire patogene ed efficacemente le non-patogene(17% vs 50.% dopo 2 ore); soltanto quest’ultime vengono uccise. In risposta all’infezione, si riscontra la produzione di p38 fosforilata e del fattore NF-kB ed il rilascio di Mip1-alpha, TNF-alpha, ed in minor misura Mip-2 ed NO. Tali fenomeni i) correlano con il tempo di esposizione e la concentrazione di leptospira, ii) sono significativamente predominanti in cellule microgliali esposte ai ceppi di leptospire patogene e iii) sono indotti quasi esclusivamente dalla componente lipoproteica delle leptospire e scarsamente dall’LPS. Conclusioni: I nostri dati indicano che le cellule microgliali non soltanto non sono in grado di eliminare prontamente le leptospire patogene, ma vengono da queste stimolate, prevalentemente attraverso la componente lipoproteica, ad innescare meccanismi di immunoreattività, possibilmente deleteri nella evoluzione della patologia a livello del SNC. SOCIETÀ ITALIANA DI MICROBIOLOGIA 33 34° Congresso 06 5-10-2006 11:35 Pagina 34 ETEROGENEITÀ FENOTIPICA E GENOTIPICA DELLA RESISTENZA MLS IN CEPPI DI STREPTOCOCCUS PYOGENES ISOLATI IN SICILIA Nadia F. Cuciti, Carolina Ferranti, Nicoletta Firrito, Gianna Tempera, Lucia S. Roccasalva, e Pio Maria Furneri Dipartimento di Scienze Microbiologiche e Scienze Ginecologiche, Università degli Studi di Catania - Catania, Italia. Il fenomeno dell’inducibilità della resistenza all’eritromicina è stata inizialmente descritta su isolati clinici eritromicina resistenti di Staphylococcus aureus. E’ stato osservato che la zona di inibizione attorno ai macrolidi a 16 atomi, lincosamidi e streptogramina B(MLSB) deviava dalla forma circolare attesa in una forma a “D”. Questo fenomeno è stato poi osservato anche in altre specie batteriche fra i quali gli streptoocchi, nei quali così come per gli stafilococchi, l’espressione della resistenza MLSB può essere costitutiva o inducibile. Nel nostro studio abbiamo analizzato162 ceppi di Streptococcus pyogenes (GAS) resistenti all’eritromicina. Per valutare la distribuzione fenotipica dei ceppi è stato usato un test di diffusione in agar nel quale è stata studiata la sensibilità a clindamicina, josamicina, telitromicina e quinupristin/dalfopristin. La disposizione dei dischetti era tale che l’eritromicina posta al centro fosse sempre a 12 mm di distanza dagli altri. La distribuzione fenotipica basato sul parametro eritromicina versus clindamicina ha permesso di identificare i tre classici fenotipi: inducibile (52), efflusso o M (48) e costitutivo (62) Tutti i ceppi sono stati quindi sottoposti ad un’analisi genotipica mediante l’utilizzo di primer specifici per i geni responsabili della resistenza di tipo MLS, in particolare, quelli specifici per i geni erm e mef. Dei 52 ceppi che hanno presentato un fenotipo inducibile: 37 (71%) presentavano il gene di resistenza erm(B), 23 di questi da solo, 11 in associazione con il gene mef(A) e 3 al gene erm(A), 10 (19%) il gene erm(A), di cui solo un ceppo in associazione al mef(A), ed infine 5 ceppi (10%) non presentavano alcun gene di resistenza, indice questo della presenza di una possibile mutazione. Dei 62 ceppi che hanno presentato un fenotipo costitutivo: 48 (77%) avevano il gene erm(B), 8 dei quali in associazione al gene mef(A) e 3 in associazione all’erm(A), mentre 2 (3%) presentavano il gene erm(A) da solo. Nei restanti 12 ceppi non sono stati riscontrati i due geni erm. Dei 48 ceppi con fenotipo M: 42 (87,5%) avevano il gene mef(A), 4 ( 8,3%) presentavano un’associazione erm(B)/mef(A) e nei restanti 2 ceppi non sono stati identificati geni di resistenza. Peculiari comportamenti, versus josamicina, telitromicina e quinopristin/dalfopristin sono stati riscontrati sia nei ceppi con fenotipo inducibile e costitutivo quando associati a genotipo erm(B) o erm(A), sia in quelli con fenotipo M. STUDIO DELLA CONCENTRAZIONE PLASMATICA DI RANKL/OPG/TRAIL E LORO CORRELAZIONE CON QUADRI DI OSTEOPENIA/OSTEOPOROSI IN PAZIENTI NAIVE HIV-1 SIEROPOSITIVI Elisa De Crignis, Ronny Cicola, Davide Gibellini, Maria Carla Re Sezione di Microbiologia, Dipartimento di Medicina Clinica Specialistica e Sperimentale, Università degli Studi di Bologna La comparsa di osteopenia e di quadri osteoporotici in pazienti HIV-1 sieropositivi rappresenta un aspetto patogenetico emergente che viene osservato in campo clinico in un numero sempre più consistente di pazienti con conseguenti problematiche nella gestione clinica e terapeutica dei pazienti stessi. Il tessuto osseo è regolato dall’azione opposta degli osteoblasti e osteoclasti che tramite meccanismi di produzione e di riassorbimento osseo regolano di fatto la omeostasi ossea. Recenti studi hanno dimostrato che, un ruolo molto importante sul tessuto osseo è svolto dall’azione di alcune citochine come RANKL, OPG e TRAIL che con differenti modalità intervengono nella regolazione della struttura ossea. In questo studio abbiamo selezionato un gruppo di 31 pazienti naïve HIV-1 positivi e abbiamo analizzato la presenza di tali citochine nel plasma dei pazienti rispetto a un gruppo di controllo rappresentato da 30 donatori di sangue. I risultati dimostrano come OPG (p<0.01), RANKL (p<0.05), TRAIL (p<0.01) sono significativamente aumentati nei pazienti sieropositivi e come la concentrazione di TRAIL e RANKL siano correlati positivamente con il valore del viral load plasmatico. Abbiamo, inoltre, dimostrato la presenza di osteopenia/osteoporosi in 8 su 20 di questi pazienti sottoposti a densitometria ossea (DXA) attraverso l’analisi del Z-score a carico delle vertebre lombari L1-L4. Questi pazienti con riduzione patologica della struttura ossea presentano un alta concentrazione di RANKL e un basso rapporto proteico OPG/RANKL. L’insieme di questi dati indica come l’infezione da HIV-1 determina un incremento plasmatico significativo di citochine coinvolte nella regolazione della struttura ossea dei pazienti sieropositivi e che i pazienti con osteopenia e osteoporosi presentano alti livelli di RANKL associato ad un alterato rapporto con OPG che potrebbero rappresentare un meccanismo operativo in vivo in grado di indurre un progressivo deterioramento della struttura ossea osservabile nei pazienti HIV1 sieropositivi. 34 34° CONGRESSO NAZIONALE DELLA S A 34° Congresso 06 5-10-2006 11:35 Pagina 35 GENOTIPIZZAZIONE DI ISOLATI DI ACANTHAMOEBA SPP. DA CASI DI CHERATITE IN ITALIA 1 Di Cave D ., Gatti S 2., Cevini C 2., Bruno A.2, Maserati R.2, Cavallero A.3, Rama P.3, D’Orazi C., Berrilli F1 1 Università degli Studi “Tor Vergata” Roma , 2 Fondazione IRCCS S.Matteo Pavia, 3 IRCCS S.Raffaele Milano Acanthamoeba è un protozoo opportunista, ampiamente diffuso nell’ambiente, che puo’ provocare nell’uomo gravi cheratiti ed encefaliti granulomatose ad esito infausto (Khan, 2003; Marciano-Cabral & Cabral, 2003; Shuster & Visvesvara, 2004). Recenti studi sulla tassonomia di Acanthamoeba hanno permesso la suddivisione del genere in 15 diversi genotipi (T1-T15) di cui alcuni patogeni (Gast, 2001; Shuster & Visvesvara, 2004). Al momento solo i genotipi identificati come T2,T3,T4,T6 e T11 sono stati associati a casi di cheratite. Sono stati studiati 12 casi di cheratite amebica e gli isolati di Acanthamoeba spp. sono stati analizzati mediante PCR per la determinazione del genotipo. Il DNA è stato estratto mediante QIAamp DNA Micro Kit (Qiagen). E’ stata quindi eseguita una PCR per l’amplificazione di un frammento di 458-bp della piccola subunità nucleare (18S rRNA) utilizzando i primer JDP1 e JDP2 (Shroeder et al., 2001). Gli amplificati ottenuti da tutti i campioni sono stati purificati mediante NucleoSpin® Extract (Macherey-Nagel) e sequenziati. Le sequenze ottenute sono state allineate mediante ClustalW e comparate con quelle disponibili in GenBank per l’attribuzione degli isolati ai genotipi. Un albero fenetico che mostra le relazioni genetiche tra i diversi isolati studiati è stato ottenuto mediante il metodo Neighbor-Joining, basato su matrici di distanza ottenute utilizzando l’indice Kimura 2-parameters (valori di bootstrap basati su 1000 replicazioni) in MEGA Version 3.1 (Kumar et al., 2004). I risultati ottenuti hanno evidenziato l’appartenenza di tutti gli isolati analizzati al genotipo T4, confermando anche per il nostro paese questo genotipo quale causa predominante di cheratiti. Il frequente coinvolgimento del genotipo T4 nelle infezioni corneali puo’essere dovuto sia alla sua maggiore prevalenza nell’ambiente e quindi alla piu’ alta probabilità di infettare ospiti suscettibili che a una particolare virulenza del genotipo stesso rispetto agli altri al momento identificati. Ricerca parzialmente effettuata con Fondi di Ricerca Corrente IRCCS S.Matteo, Pavia “Infezioni amebiche umane. Epidemiologia, tecniche diagnostiche e colturali, tipizzazione biochimica e biomolecolare”. INTERAZIONE DIRETTA TRA MYCOBACTERIUM BOVIS BCG E CELLULE NATURAL KILLER UMANE: POSSIBILI RECETTORI CELLULARI COINVOLTI S. Esin, G. Batoni, C. Counoupas, F. Favilli, W. Florio, G. Maisetta, F. Brancatisano, M. Di Luca, M. Campa Dipartimento di Patologia Sperimentale, Biotecnologie mediche, Infettivologia ed Epidemiologia, Università di Pisa E’ noto che le cellule NK svolgono funzioni effettrici importanti nell’immunità antibatterica oltre ad una spiccata attività citotossica nei confronti di cellule tumorali od infettate da virus. Tali funzioni dipendono da un delicato equilibrio tra stimoli attivatori e stimoli inibitori mediati da altrettanti recettori. Tra i recettori attivatori, quelli appartenenti alla famiglia dei natural cytotoxicity receptors (NCR: NKp30, NKp44, NKp46) risultano espressi solo da cellule NK e sembrano coinvolti nel riconoscimento di ligandi microbici. Recentemente, è stato riportato che le cellule NK esprimono anche alcuni membri della famiglia dei Toll-like receptors (TLR) suggerendo che esse, al pari di altre cellule dell’immunità naturale, possano riconoscere direttamente ed interagire con gli agenti patogeni. Nostri studi precedenti hanno dimostrato che BCG è in grado di attivare direttamente cellule NK umane e di indurre, da parte di tali cellule, la produzione di IFN-γ, la proliferazione e l’attività citotossica nei confronti di target sensibili. Allo scopo di identificare i possibili recettori cellulari coinvolti nel riconoscimento di BCG, cellule NK umane purificate da sangue periferico di soggetti sani sono state stimolate in vitro con BCG vivo. A vari intervalli di tempo, è stata valutata l’espressione dei NCR o dei TLR. Non è stata evidenziata alcuna espressione di superficie di TLR2 e TLR4 (due TLR in grado di interagire con il bacillo tubercolare) in cellule NK sia a riposo che dopo stimolazione con BCG. Al contrario, è stata osservata una marcata induzione dell’espressione di superficie di NKp44 con un picco a circa 4 giorni di stimolazione in vitro. Allo scopo di valutare se BCG fosse in grado di interagire direttamente con i recettori NCR, forme solubili di tali recettori sotto forma di chimera per il frammento Fc delle IgG umane sono stati incubati con BCG vivo. Il legame recettore-batterio è stato rilevato mediante colorazione con anticorpi anti-IgG umane ed analisi in citometria a flusso. I risultati hanno dimostrato che NKp44, ed in misura minore NKp46, ma non NKp30, è in grado di formare dei complessi stabili con BCG, suggerendo che il legame del germe a tale recettore cellulare ne induca l’espressione ed, eventualmente, da solo od in combinazione con altri recettori cellulari, porti ad un’attivazione delle funzioni cellulari. SOCIETÀ ITALIANA DI MICROBIOLOGIA 35 34° Congresso 06 5-10-2006 11:35 Pagina 36 emm TIPI IN CEPPI DI STREPTOCOCCUS PYOGENES RESISTENTI ALL’ERITROMICINA ISOLATI IN SICILIA Carolina Ferranti, Nicoletta Firrito, Nadia F. Cuciti, Gianna Tempera, Lucia S. Roccasalva, e Pio Maria Furneri. Dipartimento di Scienze Microbiologiche e Scienze Ginecologiche, Università degli Studi di Catania. Introduzione Negli ultimi anni è stato messo in evidenza che come la distribuzione della frequenza del determinante genetico del fattore di virulenza proteina M sia significativamente differente fra microrganismi di diversi fenotipi di resistenza e fra le popolazioni sensibili e resistenti di Streptococcus pyogenes (GAS). Lo scopo di questo studio è la distribuzione epidemiologica in Sicilia degli emm tipi in ceppi di GAS resistenti all’eritromicina. Questo è un primo studio epidemiologico che analizza isolati provenienti esclusivamente dalla provincia di Catania. Metodi: 121 ceppi di GAS resistenti all’eritromicina sono stati selezionati casualmente da una batterioteca di ceppi raccolti negli ultimi 12 anni. Per mezzo della reazione a catena della polimerasi (PCR) sono stati utilizzati “primer” oligonucleotidici specifici per amplificare la regione N-terminale del gene emm. I primer impiegati erano specifici per seguenti emm tipi: 1, 2, 3, 4, 5, 6, 8, 11, 12, 18, 22, 24, 28, 75, 77, 78, 87, 89, e 94. La presenza di amplificati di PCR è stata associata con il corrispondente sierotipo M. Negli stessi ceppi sono stati valutati, inoltre, i fenotipi di resistenza agli antibiotici del gruppo MLS e attraverso la PCR è stata valutata la frequenza dei geni erm(B), erm(A) e mef(A). Risultati: Il genotipo emm maggiormente rappresentato è stato emm1 (24,79 %), seguito da emm12 (13,22%), emm87 (11,57%), emm28 ed emm89 (8,26%) ed emm5 (5,79%) mentre gli altri tipi emm erano presenti in percentuale inferiore al 5 %. I non tipizzati sono stati 18 (14,88 %). Il fenotipo più frequente era quello costitutivo, seguito dal fenotipo M e dal fenotipo inducibile. La maggior parte dei ceppi emm1 ha mostrato resistenza MLSB costitutiva. I microrganismi con altri tipi emm erano suddivisi negli altri due fenotipi con prevalenza del fenotipo inducibile rispetto al fenotipo M. Conclusioni: I nostri risultati hanno indicato che alcuni genotipi emm sono più frequentemente associati ad uno specifico fenotipo/genotipo (erm e mef(A) rispetto ad un altro. Inoltre, fra i genotipi di resistenza, il più rappresentato è stato erm(B) e il meno rappresentato è stato erm(A). La distribuzione dei vari tipi emm è diversa da quella riportata in Italia negli ultimi anni. ASSOCIAZIONE TRA LA RESISTANZA AI MACROLIDI, emm TIPO E PRESENZA DEL GENE PER LA PROTEINA LEGANTE LA FIBRONENCTINA F1, prtF1, IN CEPPI DI STREPTOCOCCUS PYOGENES ISOLATI IN SICILIA Nicoletta Firrito, Nadia F. Cuciti, Carolina Ferranti, Gianna Tempera, Lucia S. Roccasalva, e Pio Maria Furneri. Dipartimento di Scienze Microbiologiche e Scienze Ginecologiche, Università degli Studi di Catania Il processo di internalizzazione degli streptococchi è regolato da un multifattoriale sistema che comprende la proteina M, la proteina PrtF1, riarrangiamenti del citoscheletro cellulare e l’interazione tra l’integrine dell’ospite e i ligandi dell’integrine. Negli ultimi anni è stato evidenziata una correlazione tra la resistenza ai macrolidi e la presenza della proteina F1, inoltre è stata postulata una corrispondenza tra l’M tipo e la resistenza stessa. Lo scopo del presente lavor è quello di valutare l’associazione tra la resistanza ai macrolidi, emm tipo e presenza del gene per la proteina legante la fibronenctina F1, prtF1, in ceppi di Streptococcus pyogenes isolati in Sicilia Cinquantanove ceppi di GAS resistenti all’eritromicina sono stati scelti casualmente dalla collezione di ceppi isolati da faringotonsilliti negli ultimi 12 anni. Per mezzo della reazione a catena della polimerasi (PCR) sono stati utilizzati “primer” oligonucleotidici specifici per amplificare la regione N-terminale del gene emm. I primer impiegati erano specifici per seguenti emm tipi: 1, 2, 3, 4, 5, 6, 8, 11, 12, 18, 22, 24, 28, 75, 77, 78, 87, 89, e 94. La presenza di amplificati di PCR è stata associata con il corrispondente sierotipo M. Negli stessi ceppi sono stati valutati, inoltre, i fenotipi di resistenza agli antibiotici del gruppo MLS e attraverso la PCR è stata valutata la frequenza dei geni erm(B), erm(A) e mef(A) e la presenza del gene prtF1. I risultati sono riportati nella tabella 1 Tabella 1. Ceppi di S.pyogenes resistenti ai macrolidi divisi per emm tipo e associati ai genotipi e ai fenotipi di resistenza positivi per prtF1 *legenda: C= fenotipo costitutivo; I= fenotipo inducibile; M= fenotipo M ** NE: nessun gene di resistenza evidenziato mediante PCR 36 emm tipo N° M1 M2 M5 M6 M12 M22 M28 M77 M78 M87 M89 N.T. 9 4 6 2 10 1 6 1 1 4 7 8 erm(B) 5C*;2I erm(A) 2C 1I 3C;1I mef (A) 2M 1I;2M 1M 1M 3M Genotipo (numero ceppi) e fenotipo erm(A)/mef (A) erm(B)/mef (A) erm(A)/erm(B) NE** 1C 1 C;1M 1I 1C 2C 1C 1C;3I 1 C;1I 1I 1C 1C 2I 2I 1M 4M 1I 2I 1C 1I 1C 2I 1I 34° CONGRESSO NAZIONALE DELLA S A 34° Congresso 06 5-10-2006 11:35 Pagina 37 INDIVIDUAZIONE E GENOTIPIZZAZIONE MOLECOLARE DI BORRELIA BURGDORFERI IN PAZIENTI AFFETTI DA BORRELIOSI E IN ZECCHE IXODES RICINUS: CONFRONTO OSPITEVETTORE IN REGIONE FRIULI VENEZIA GIULIA Romina Floris1, Giulia Menardi1, Marialisa Bandi1, Katja Mignozzi2, Barbara Boemo2, Alfredo Altobelli2, Marina Cinco1 1 Laboratorio Spirochete, Dipartimento di Scienze Biomediche, Università di Trieste, 2Dipartimento di Biologia, Università di Trieste, Trieste, Italia La borreliosi di Lyme è una patologia multisistemica causata dalla spirocheta Borrelia burgdorferi. La diagnosi effettuata in base alla sintomatologia clinica deve essere avvalorata da successive analisi di laboratorio. La sierologia e l’isolamento non sono sempre in grado di confermare l’infezione da Borrelia. Negli ultimi anni la PCR si è dimostrata uno strumento efficace, preciso e rapido nel dare conferma diagnostica di morbo di Lyme. Nel presente lavoro è stato sviluppato un sistema nested-PCR specifico per il gene plasmidico ospA in grado di rilevare la presenza di DNA di Borrelia in campioni biologici multipli (sangue, urina, biopsia cutanea, SF, CSF) prelevati da pazienti affetti da diverse sintomatologie di morbo di Lyme e residenti in regione FVG, già dichiarata zona endemica. La presenza di DNA di Borrelia è stata rilevata in almeno uno dei campioni biologici di ogni singolo paziente, dimostrandosi particolarmente sensibile su campioni di sangue e urina, soprattutto nel caso di pazienti con ECM (91.7% e 83.3% rispettivamente) evitando l’analisi di campionature più invasive quali la biopsia. I campioni risultati positivi sono stati genotipizzati tramite un nuovo sistema RFLP in grado di identificare le tre genospecie patogene per l’uomo (B. burgdorferi s. s., B. garinii and B. afzelii) e altre specie potenzialmente patogene. Com’era attendibile, in alcuni pazienti affetti da forme cutanee e da NB è stata riscontrata la presenza di B. afzelii e B. garinii rispettivamente, mentre la maggior parte dei casi, compreso un paziente con artrite di Lyme, erano infetti da tutte e 3 le genospecie patogene. In un paziente sono state identificate specie diverse in campioni biologici diversi (B. afzelii nella lesione cutanea e B. burgdorferi s. s. nel sangue e nell’urina). La genotipizzazione è stata applicato anche a campioni di zecche raccolte in 15 aree della regione FVG, selezionate sulla base delle segnalazioni dei casi clinici. I risultati hanno dimostrato la prevalenza di B. afzelii (54.9 %) rispetto a B. garinii (31.7%) e B. burgdorferi s. s. (6%) e il 3.6 % di una specie non determinata. Le coinfezioni sono state individuate soltanto in 2 campioni, il che fa supporre che le coinfezioni riscontrate nei pazienti residenti nei medesimi territori non siano derivate da un unico morso di zecca, mentre la maggior frequenza di forme cutanee di borreliosi sembrano dovute alla prevalenza della specie B. afzelii nella popolazione di I. ricinus. I risultati di questo studio, associati a dati di natura ecologica telerilevati dal satellite MODIS ed elaborati con GIS, hanno reso possibile la mappatura del territorio per individuare i fattori che concorrono al rischio di infezione per il morbo di Lyme in regione FVG. POLIURETANI FUNZIONALIZZATI A RILASCIO COMBINATO DI RIFAMPICINA/CEFAMANDOLO E POLIETILENGLICOLE SONO IN GRADO DI PREVENIRE LA COLONIZZAZIONE BATTERICA E L’INSORGENZA DI ANTIBIOTICO-RESISTENZA I. Francolini1, A. Piozzi1, V. Ruggeri1,2, E. Guaglianone2, G. Donelli2 1Dip. Chimica, Università di Roma “La Sapienza”, 2Dip. Tecnologie e Salute, Istituto Superiore di Sanità, Roma. In letteratura sono stati riportati numerosi tentativi di prevenire la colonizzazione batterica di cateteri intravascolari, e quindi le infezioni associate, attraverso l’adsorbimento e/o l’incorporazione di antibiotici nelle matrici polimeriche costituenti tali dispositivi medici. Tuttavia, i cateteri finora realizzati, impregnati con uno o due antibiotici, si sono mostrati in grado di impedire la crescita microbica per periodi relativamente brevi, solitamente non superiori a 7 giorni, con un rilascio massiccio dell’antibiotico nelle prime 24 h seguito dal rilascio di dosi subinibenti fino ad esaurimento del farmaco adsorbito. Quindi, oltre alla breve durata dell’azione antimicrobica, tali cateteri medicati possono comportare il rischio di indurre la comparsa di ceppi antibiotico-resistenti. Per tentare di superare tali limiti, abbiamo impregnato poliuretani opportunamente funzionalizzati con due antibiotici a diverso meccanismo di azione, rifampicina e cefamandolo nafato, insieme a polietilenglicol (PEG) usato come agente formante pori. Tale modello sperimentale si caratterizza da un lato per la sua buona affinità polimero/antibiotico e dall’altro per la capacità di controllare il rilascio di quantità più elevate di antibiotici per periodi prolungati. Per quanto riguarda l’attività antimicrobica in vitro delle matrici, saggiata con il test di Kirby Bauer, si è osservato un effetto sinergico delle due molecole antibiotiche rilasciate dal polimero. Inoltre, la presenza del PEG, incorporato nel bulk polimerico insieme alla coppia di antibiotici, ha comportato un’attività inibente nei riguardi di un ceppo di Staphylococcus aureus resistente alla rifampicina della durata di 23 giorni. Questi risultati suggeriscono che l’intrappolamento combinato di opportune molecole antibiotiche e di “pore formers” nei nostri poliuretani funzionalizzati può rappresentare un promettente approccio innovativo alla prevenzione della colonizzazione batterica e al controllo dell’insorgenza di resistenza batterica. SOCIETÀ ITALIANA DI MICROBIOLOGIA 37 34° Congresso 06 5-10-2006 11:35 Pagina 38 EPIDEMIOLOGIA MOLECOLARE DELLA TUBERCOLOSI IN TOSCANA NEGLI ANNI 2002-2004 Nicoletta Lari1, Laura Rindi1, Daniela Bonanni1, Enrico Tortoli2, Carlo Garzelli1 1Dipartimento di Patologia Sperimentale, Biotecnologie Mediche, Infettivologia ed Epidemiologia, Università di Pisa; 2Centro Regionale di Riferimento per i Micobatteri, Ospedale Careggi, Firenze. La tipizzazione molecolare degli isolati di Mycobacterium tuberculosis complex è divenuta un prezioso strumento nello studio dell’epidemiologia della tubercolosi (TB). Lo scopo del presente lavoro è la caratterizzazione molecolare dei ceppi di bacillo tubercolare isolati recentemente in Toscana. Sono stati sottoposti ad analisi spoligotyping 829 ceppi di M. tuberculosis complex isolati negli anni 2002-2004 da altrettanti pazienti di ospedali della Regione Toscana. Oltre il 70% degli isolati sono risultati appartenere a soli 5 genotipi (o famiglie), quali: 1) il genotipo T, un genotipo ubiquitario e prevalente in Europa, comprendente il 30.2% degli isolati; 2) il genotipo Haarlem, anch’esso ubiquitario, comprendente il 19.8% degli isolati; 3) il genotipo LAM (Latino-American and Mediterranean), prevalente in America Latina e nell’area mediterranea, comprendente l’11.1% degli isolati; 4) il genotipo Beijing, un genotipo attualmente in rapida espansione a livello mondiale e probabilmente dotato di elevata virulenza, comprendente il 6.5% degli isolati; 5) il genotipo S, anch’esso ubiquitario, comprendente il 4.2% degli isolati. Oltre ai genopiti prevalenti sopra menzionati, sono stati ritrovati i seguenti genotipi: il genotipo EAI (East African-Indian), comprendente il 2.9% degli isolati; il genotipo Bovis, con il 2.3% di isolati; il genotipo CAS (Central Asia), con il 2.1% di isolati; il genotipo Africanum, con l’1.3% di isolati; il genotipo X, uqibuitario, con l’1.2% di isolati. Dei genotipi di bacillo tubercolare circolanti nella regione, solo il genotipo Beijing ha mostrato una tendenza all’espansione negli anni oggetto di studio; l’analisi IS6110RFLP degli isolati di genotipo Beijing ha mostrato un’elevata percentuale (39.6%) di ceppi in clusters costituti da 2 a 6 isolati identici, a sostegno dell’elevata trasmissibilità di tali ceppi. In conclusione, la presente analisi molecolare ha fornito un quadro dei genotipi di M. tuberculosis complex circolanti in Toscana. La comparsa, soprattutto fra pazienti foreign-born, di ceppi di genotipo Beijing, Africanum, EAI, CAS, endemici in aree geografiche ad alta incidenza di TB e potenzialmente dotati di maggiore virulenza, può rappresentare un segnale di cambiamento nella evoluzione e nella dinamica di trasmissione della TB nella Regione Toscana nel prossimo futuro. RUOLO DEI GENI PER LE RICOMBINASI NEL TRASFERIMENTO DEL TRASPOSONE CONIUGATIVO Tn1207.3 F. Iannelli 1, S. Arsenijevic1, M. Santagati2, M. R. Oggioni1, S. Stefani2, G. Pozzi1. 1 Dipartimento di Biologia Molecolare, Università di Siena; 2 Dipartimento di Microbiologia, Università di Catania Il trasposone coniugativo di streptococco Tn1207.3 è lungo 52491 bp (GenBank accession no. AY657002), si integra in un sito specifico (comEC) nel cromosoma batterico, contiene 58 ORFs due dei quali, mef(A)-msr(D), sono coinvolti nell’efflusso dei macrolidi, e tre (orf2, orf56 e orf57) codificano per putative ricombinasi sito-specifiche. Gli esperimenti di coniugazione sono stati effettuati con un protocollo di incrocio su piastra. I ceppi di S. pneumoniae sono stati ingegnerizzati tramite gene SOEing e trasformazione. La PCR Real Time è stata effettuata usando il colorante SYBR Green I. Tn1207.3, trovato originariamente in S. pyogenes, è stato trasferito per coniugazione in S. pneumoniae. La presenza di forme circolari del Tn1207.3 è stata dimostrata per PCR. Per definire il contributo relativo dei geni per le ricombinasi, orf2, orf56 e orf57, al trasferimento per coniugazione del Tn1207.3, sono stati prodotti dei mutanti per delezione in ciascun gene. I mutanti sono stati saggiati come donatori in coniugazione e la presenza di forme circolari è stata indagata per PCR.. La delezione dell’orf2 non influenza le capacità coniugative del Tn1207.3, mentre la delezione dell’orf56 e dell’orf57 abolisce la capacità di trasferimento per coniugazione (< 8 x 108 trasconiuganti per donatore). Le forme circolari di Tn1207.3 sono state quantificate per PCR Real Time: (i) nel ceppo con delezione dell’orf2, il numero di forme circolari è simile a quella del ceppo selvatico; (ii) nei ceppi con delezione dell’orf56 e/o orf57 si ha una forte riduzione della formazione di forme circolari. Questi dati rappresentano il punto di partenza per capire il meccanismo di trasferimento dell’elemento Tn1207.3. 38 34° CONGRESSO NAZIONALE DELLA S A 34° Congresso 06 5-10-2006 11:35 Pagina 39 MONITORAGGIO VIROLOGICO ED IMMUNOLOGICO DELL’INFEZIONE DA CITOMEGALOVIRUS UMANO NEI PAZIENTI TRAPIANTATI DI CUORE Lazzarotto T*, Chiereghin A*, Gabrielli L*, Potena L#, Magelli C#, Morotti M*, Monari P*, Pop S*, Grandi C*, Landini MP*. * U.O. di Microbiologia, #Istituto di Cardiologia, Policlinico S. Orsola Malpighi, Università degli Studi di Bologna, Bologna. Nei trapiantati di cuore sempre maggiori evidenze suggeriscono che le infezioni sistemiche da Citomegalovirus (CMV) che insorgono nelle prime settimane post trapianto possano essere cause importanti di insorgenza di vasculopatia coronaria del graft trapiantato e di rigetto cardiaco acuto. Questo studio ha valutato il valore diagnostico e prognostico della quantificazione di CMV nei campioni di sangue in toto ottenuti dai pazienti nel monitoraggio della fase post trapianto e studiato l’andamento della risposta immunitaria cellulo T-mediata CMV-specifica durante l’infezione attiva da CMV. Sono stati posti in sorveglianza 30 pazienti trapiantati di cuore. Il monitoraggio della fase viremica di CMV è stato condotto con il test dell’antigenemia e con la PCR quantitativa-metodologia Real Time. In 10 pazienti trapiantati lo studio della risposta linfocita T CMV-specifica ha previsto i) la raccolta di un campione di sangue al momento del trapianto e, ii) la raccolta mensile di successivi campioni durante i primi sei mesi. Le sospensioni di linfociti T ottenuti sono stati processati con tecnica ELISPOT. Questo test immunoenzimatico è basato sulla ricerca nei linfociti T stimolati con antigeni CMV-specifici (IE1 e pp65-UL83) di uno dei marcatori proteici di attivazione della cellula (IFN-χ). 402 sono il numero di campioni di sangue processati con i test virologici molecolari e non e 30 sono quelli sottoposti ad ELISPOT. A tutti i pazienti è stato somministrato il trattamento di profilassi con Valganciclovir per 40 gg post-trapianto. La prevalenza dell’infezione da CMV documentata dagli esami virologici è risultata pari al 70% (21/30) e dei 21 pazienti infetti, 3 hanno presentato una lieve infezione sintomatica (leucopenia e febbre). I risultati ottenuti hanno indicato che i pazienti trapiantati di cuore nonostante l’intervento di profilassi hanno sviluppato nel 70% dei casi un’infezione attiva da CMV. I tempi di insorgenza sono stati in media pari a circa 3-4 mesi dal momento del trapianto, dei 18 pazienti asintomatici l’intervento con terapia pre-sintomatica è stato eseguito solo in 4 casi (22%). I dati preliminari del monitoraggio immunologico concordano con quelli riportati fino ad ora in letteratura e confermano come un buona e precoce ricostituzione della risposta immune linfocita T specifica possa accorciare la durata dell’infezione da CMV. CARATTERIZZAZIONE MEDIANTE AFLP DI CEPPI DI CANDIDA ORTHOPSILOSIS 1A. Tavanti, 1L. Hensgens, 2E. Ghelardi, 2M. Campa, 3G. Morace, e 1S. Senesi 1 Dipartimento di Biologia, 2Dipartimento di Patologia Sperimentale, Biotecnologie Mediche, Infettivologia ed Epidemiologia ed Unità Operativa di Microbiologia Universitaria, Presidio Ospedaliero di Cisanello, Università di Pisa, 3Istituto di Microbiologia, Università degli Studi di Milano Tra le tre specie correlate C parapsilosis, C. orthopsilosis e C. metapsilosis [1], si ritiene che C. parapsilosis sia quella meglio adattata al commensalismo umano, come testimoniato dalla sua elevata frequenza di isolamento da campioni prelevati da svariate sedi anatomiche e dalla sua ampia diffusione in aree geografiche diverse. Al contrario, molto poco è conosciuto sull’epidemiologia delle specie C. orthopsilosis e C. metapsilosis, più raramente isolate da campioni clinici. Nel corso di uno screening molecolare condotto nel nostro laboratorio su 400 ceppi identificati come Candida parapsilosis con test metabolici convenzionali, 33 isolati sono risultati appartenere alla specie Candida orthopsilosis. L’identificazione molecolare di tali ceppi è stata condotta mediante analisi di restrizione di un frammento del gene alcool deidrogenasi secondaria (SADH) con l’enzima BanI. Studi preliminari di sequenze genomiche avevano indicato la presenza di polimorfismi in un ristretto gruppo di ceppi di C. orthopsilosis [1], suggerendo la possibilità che questa specie fosse caratterizzata da una variabilità genomica superiore a quella dimostrata per C. parapsilosis. Allo scopo di confermare tali dati, i 33 ceppi isolati da 13 pazienti diversi sono stati tipizzati mediante AFLP (Amplified Fragment Length Polymorphism), una metodica altamente riproducibile ed utilizzata sia per l’identificazione di specie che per la tipizzazione molecolare dei miceti. Inoltre, i ceppi di C. orthopsilosis sono stati caratterizzati fenotipicamente, mediante valutazione della produzione di biofilm e della suscettibilità ai principali antimicotici impiegati nella pratica clinica. I risultati ottenuti confermano l’esistenza di una elevata variabilità genotipica tra i ceppi isolati da pazienti diversi, mentre, nell’ambito di uno stesso paziente, si osserva mantenimento dello stesso ceppo in campioni sequenziali e nella colonizzazione/infezione di sedi anatomiche diverse. Nessuno dei 33 ceppi di C. orthopsilosis è risultato produttore di biofilm e, per essi, non è stata evidenziata alcuna associazione tra genotipo e resistenza ad antimicotici. [1] Tavanti A., A. Davidson, N.A.R. Gow, M.C.J. Maiden, and F.C. Odds. J Clin Microbiol 43: 284-292, 2005. SOCIETÀ ITALIANA DI MICROBIOLOGIA 39 34° Congresso 06 5-10-2006 11:35 Pagina 40 I DERIVATI SOLFATATI DEL POLISACCARIDE K5 DI ESCHERICHIA COLI SONO DEI POTENTI INIBITORI DELL’INFEZIONE DA PAPILLOMAVIRUS UMANI AD ALTO RISCHIO David Lembo1, Manuela Donalisio1, Maura Cornaglia1, Pasqua Oreste2, Santo Landolfo1. 1Dipartimento di Sanità Pubblica e di Microbiologia, Università di Torino; 2Glycores 2000, Milano. Alcuni tipi di Papillomavirus umano (HPV) a trasmissione sessuale sono responsabili dello sviluppo di lesioni benigne e maligne a carico dell’apparato anogenitale, in particolare del carcinoma delle cervice uterina. La futura introduzione di un vaccino avrà un importante impatto sulla prevenzione delle infezioni da HPV, tuttavia una significativa fascia di popolazione resterà esposta all’infezione. Inoltre, diverse meta-analisi hanno dimostrato che l’uso del condom non protegge efficacemente dall’infezione. In questo scenario risulta estremamente importante lo sviluppo di un microbicida ad uso topico che possa prevenire nuove infezioni o ridurre la carica virale in donne già infette per diminuire la probabilità di progressione neoplastica. Il recente sviluppo delle tecniche di produzione di pseudovirioni di HPV (HPV-PsV) ha reso possibile lo screening ad alta resa di collezioni di molecole al fine di identificare molecole inibitorie. Con questa tecnica abbiamo analizzato una serie di derivati solfatati del polisaccaride capsulare K5 di E. coli che sono stati sintetizzati per ottenere diversi gradi di solfatazione, di distribuzione di cariche e di peso molecolare. Questa classe di composti è stata scelta in quanto simile agli eparan solfati utilizzati da HPV per aderire alle cellule bersaglio. Alcune molecole hanno dimostrato una potente capacità di impedire l’infezione da PsV umani (HPV-16, HPV-18) e bovini (BPV-1) con EC50 nell’ordine di ng/ml ed una bassissima tossicità. Le nostre osservazioni suggeriscono che possano avere un ampio spettro di azione nei confronti dei papillomavirus, mentre precedenti lavori hanno dimostrato un’attività neutralizzante anche contro HIV. Sulla base dei dati ottenuti riteniamo che le molecole identificate in questo studio possano essere degli ottimi candidati per lo sviluppo di un microbicida topico ad ampio spettro. PREVALENZA E SIGNIFICATO DELL’INFEZIONE DA BOCAVIRUS IN PAZIENTI CON MALATTIE RESPIRATORIE Fabrizio Maggi1, Elisabetta Andreoli1, Massimo Pifferi2, Silvia Meschi1, Jara Rocchi1, Mauro Bendinelli1 1 Sezione Virologia, Dipartimento di Patologia Sperimentale, Università di Pisa 2 Dipartimento di Pediatria, Università di Pisa Un nuovo parvovirus è stato di recente identificato in aspirati naso-faringei di bambini con malattie respiratorie acute (MRA). Il virus, ancora poco caratterizzato, è stato provvisoriamente chiamato bocavirus umano (BoV) per la somiglianza genetica con virus animali appartenenti al genere Bocavirus della famiglia Parvoviridae. Usando metodi molecolari d’indagine, BoV è risultato presente in circa il 2-18% dei pazienti con MRA in diverse parti del mondo, talvolta in associazione con altri patogeni ma spesso come unico agente infettante. Da ciò l’ipotesi di un ruolo del virus nell’eziologia delle MRA. In questo studio, sono stati esaminati 335 campioni respiratori (tamponi nasali o lavaggi broncoalveolari) ottenuti nel periodo 2000-2006 da pazienti con varie patologie respiratorie (284) e da soggetti sani (51). I pazienti con malattie respiratorie includevano 200 bambini al di sotto dei due anni di età ricoverati per MRA e 84 soggetti adulti con diagnosi di polmonite, broncopolmonite o asma persistente. La ricerca del BoV è stata condotta amplificando in singolo step un frammento di 291 nucleotidi del gene NS1 del genoma virale e sequenziando, per conferma, tutti gli amplificati risultati positivi. I campioni dei pazienti pediatrici sono stati esaminati anche per la presenza dei comuni virus respiratori. I risultati hanno dimostrato che BoV circola nella popolazione pediatrica della nostra area geografica e che la sua prevalenza (circa 5%), diversamente da quanto osservato per altri virus respiratori, non subisce significative variazioni annuali e/o stagionali. I bambini con BoV hanno mostrato gravi malattie respiratorie (bronchiolite o broncopolmonite) e in molti di essi il virus è stato il solo patogeno presente. Solo un adulto è risultato BoV positivo mentre nessuno dei soggetti di un gruppo di controllo ha mostrato infezione. L’analisi di sequenza degli isolati ottenuti ha confermato che BoV è geneticamente molto conservato. In conclusione, lo studio rappresenta la prima dimostrazione della presenza di BoV in Italia e ne suggerisce un ruolo come importante causa di MRA in età pediatrica. 40 34° CONGRESSO NAZIONALE DELLA S A 34° Congresso 06 5-10-2006 11:35 Pagina 41 ATTIVITA’ BATTERICIDA DI PEPTIDI SECRETI DALLA CUTE DI ANFIBI VERSO CEPPI BATTERICI ISOLATI IN AMBIENTE OSPEDALIERO E MULTIRESISTENTI AI FARMACI G. Maisetta, *M.L. Mangoni, M. Di Luca, S. Esin, W. Florio, F. Brancatisano, *D. Barra, M. Campa, G. Batoni Dipartimento di Patologia Sperimentale, Biotecnologie Mediche, Infettivologia ed Epidemiologia, Università di Pisa *Dipartimento di Scienze Biochimiche “A. Rossi Fanelli”, Università “La Sapienza” Roma. La comparsa e la rapida diffusione di microrganismi patogeni resistenti a chemioantibiotici rappresenta, attualmente, un grave problema di salute pubblica e rende estremamente urgente lo sviluppo di nuove classi di farmaci ad attività antimicrobica. A tale riguardo, negli ultimi anni, ha suscitato grande interesse lo studio di peptidi cationici naturali che costituiscono un componente essenziale dei meccanismi di difesa innati di organismi appartenenti a vari livelli della scala evolutiva. Le secrezioni cutanee di numerose famiglie di anfibi hanno rappresentato, finora, una delle fonti più ricche per l’isolamento di peptidi antimicrobici. Nel presente studio è stata valutata l’attività battericida (espressa come MBC) di analoghi o derivati sintetici di 4 peptidi secreti dalla cute di rana quali: temporina A, B, G ed esculentina (1-18) e di un peptide isolato dalla cute di anfibi anuri del genere Bombina, bombinina H2. Tali peptidi sono stati saggiati verso ceppi di S. aureus, E. faecium, P. aeruginosa, S. maltophilia ed A. baumannii isolati da pazienti ospedalizzati e multiresistenti ai chemioantibiotici. I saggi di batteriocidia hanno indicato che, dopo 1.5h di incubazione, le temporine A, B e G e la bombinina H2, risultano dotate di paragonabile attività battericida sia verso i batteri Gram-positivi sia verso i batteri Gram-negativi studiati, a concentrazioni comprese tra 4 e 64 µg/ml. Al contrario, l’esculentina è risultata più attiva verso i batteri Gram-negativi (MBC 1-2 µg/ml) rispetto a quelli Gram-positivi (MBC 4-64 µg/ml). Allo scopo di valutare se l’effetto battericida osservato potesse essere ottenuto a tempi più precoci, sono state effettuate cinetiche di killing di tali peptidi verso un singolo ceppo batterico rappresentativo di ciascuna specie. I risultati hanno indicato che, alle concentrazioni di MBC e 2MBC, tutti i peptidi saggiati hanno un effetto battericida piuttosto rapido (dopo 2-30 min. d’incubazione). La spiccata attività battericida mostrata dai cinque peptidi in esame rende tali molecole promettenti candidati per un potenziale uso nella terapia delle infezioni da batteri multiresistenti, sebbene ulteriori studi siano necessari per valutarne l’attività in condizioni più simili a quelle presenti in vivo. EFFETTO DELLE PRINCIPALI CITOCHINE PROINFIAMMATORIE NELLA REGOLAZIONE DEL PROMOTORE DELLA SINCITINA IN ASTROCITI UMANI Giuseppe Mameli1,2,*, Vito Astone1, Kamel Khalili 2, Caterina Serra1, Luciana Poddighe1, Simona Santona1 , Bassel E. Sawaya2 and Antonina Dolei1 1Section of Microbiology, Department of Biomedical Sciences, Center of Excellence for Biotechnology Development and Biodiversity Research, Sassari, Italy. 2Department of Neuroscience, Center for Neurovirology, Temple University School of Medicine, Philadelphia, USA. La sincitina, glicoproteina codificata dal gene env del retrovirus endogeno ERVWE1, membro della famiglia W dei retrovirus endogeni umani (HERV-W), viene principalmente espressa nella placenta umana durante le prime fasi della gravidanza. Essa è responsabile della fusione dei trofoblasti nel sinciziotrofoblasto e del conseguente impianto dell’embrione. ERVWE1 è localizzato nella regione q21-22 del cromosoma 7, regione in cui è stata osservata una suscettibilità genetica per alcuni fattori predisponenti la sclerosi multipla (SM). I componenti della famiglia HERV-W che sembrano coinvolti nella patogenesi della SM sono due: MSRV (Multiple Sclerosis retrovirus) e ERVWE1. Studi recenti hanno evidenziato un significativo aumento sia dei messaggeri che della proteina env di MSRV/HERV-W nel tessuto cerebrale di pazienti affetti da SM; inoltre il nostro gruppo ha rilevato anche un aumento dell’espressione di MSRV in cellule carrier, indotto da citochine proinfiammatorie. Sulla base di questi dati abbiamo cercato una possibile correlazione tra la presenza di citochine proinfiammatorie e la regolazione del promotore di ERVWE1 in astrociti, cellule coinvolte nei meccanismi neuropatogenetici. Dall’allineamento delle sequenze del promotore della sincitina (URE-HWLTR) in pazienti SM e controlli è emersa una quasi totale identità, confermando la nostra ipotesi che nei pazienti SM durante l’infiammazione vi sia attivazione differenziale di fattori di trascrizione nel tessuto nervoso. Lo studio mostra che l’attivazione del promotore negli astrociti trattati con citochine correlate con la SM dipende dalla regione enhancer presente a monte della sequenza del retrovirus endogeno ERVWE1. Tramite il metodo della luciferasi abbiamo osservato che le citochine correlate alla SM (IFNγ, TNFα, IL-1β, IL-6) incrementano l’attività del promotore di ERVWE1, mentre l’IFNΒ, citochina comunemente usata in terapia nei pazienti SM, ne inibisce l’attività. In particolare abbiamo trovato che il TNF-α agisce su una regione κB presente all’interno del dominio dell’enhancer del promotore. Esperimenti di electromobility shift e ChIP assays hanno mostrato che TNF-α incrementa il legame della subunità p65 del complesso NF-κB con la suddetta regione κB del promotore di ERVWE1. Abbiamo dimostrato inoltre che gli effetti del TNF-α vengono inibiti dal silenziamento operato da RNA interferenti la subunità p65. In conclusione questi risultati dimostrano che il TNF-α, attivando la p65, è in grado di incrementare l’espressione della sincitina in pazienti affetti da SM. SOCIETÀ ITALIANA DI MICROBIOLOGIA 41 34° Congresso 06 5-10-2006 11:35 Pagina 42 GENOTIPI DI HHV-8 IN SARDEGNA 1Matteoli B, 1Moriconi F, 2Masala MV, 2Montesu MA, 2Satta R, 2Cuccuru MA, 3Santarelli R, 3Faggioni A, 3Angeloni A, 2Cottoni F e 1Ceccherini-Nelli L 1Dipartimento di Patologia Sperimentale, Biotecnologie Mediche, Infettivologia, Epidemiologia, Università di Pisa; 2Dipartimento di Dermatologia, Università di Sassari; 3Dipartimrnto di Medicina Sperimentale e Patologia, Istituto Pasteur Fondazione Cenci-Bolognetti, Università “La Sapienza”, Roma. Gli isolati di HHV-8 sono tipizzati in base ad una notevole quantità di mutazioni interne alle ORF75, ORF26 (genotipi: A, B, C) e ORFK1 (genotipi A, B, C, D, E), hanno una distribuzione geografica disomogenea ed un possibile ruolo diverso nella patogenesi. Abbiamo studiato i ceppi di HHV-8 circolanti in Sardegna, nell’area di Sassari, su campioni di sangue, siero e saliva prelevati da 12 pazienti Kaposi e da 22 dei loro familiari (8 partners e 14 figli) tutti residenti nell’area. I campioni di siero sono stati saggiati in IFA per la presenza di anticorpi diretti contro gli antigeni litici e di latenza virali. Il DNA virale è stato rilevato con nested PCR per la regione K330-ORF26 e tipizzato mediante nested PCR per la regione VR2ORFK1 (520pb). L’analisi di sequenza è stata eseguita con i software CHROMAS 145 e CustalW, l’analisi filogenetica con il metodo neighbour-joining (N-J) del software MEGA v.2.1 e le sequenze di riferimento in GenBank: AF130289, AF130288 per il genotipo A, AF130262, AF130263, AF130306, AF133040, AF130292, AF130293 per il genotipo B, U93872, AF133042, AF130298, AF130267, AF130273, AF133041 per il genotipo C, AF133043 per il genotipo D, AY329025, AY329027 per il genotipo E. Sono risultati sieropositivi tutti i KS, il 37,5% dei coniugi, il 21,4% dei figli. Il DNA virale è stato rilevato rispettivamente nel 16,7%, 58,3%, 67,6% dei campioni di siero, sangue e saliva prelevati dai KS; in nessun campione di siero e sangue, nel 62,5 % dei campioni di saliva prelevati dai coniugi; nel 21,4%, 14,3%, 62,5 % dei campioni di siero, sangue e saliva prelevati dai figli; in tutte le biopsie. La tipizzazione mediante VR2 è stata possibile in 9 KS (7 genotipo A, 2 genotipo C) e 2 coniugi (1 genotipo A, 1 genotipo C): le loro sequenze sono state depositate in GenBank.. I risultati mostrano: 1) discrepanza tra saggi sierologici e molecolari, dovuta probabilmente alla fluttuazione della risposta immunitaria; 2) prevalenza nell’area dei genotipi A sui C; 3) concordanza dei genotipi nei KS e nei loro partners; 4) omologia di sequenza superiore all’atteso tra i genotipi di due partners. MODULAZIONE DELL’APOPTOSI DI LINEE CELLULARI INFETTATE DA HTLV-1 MEDIANTE TRATTAMENTO COMBINATO CON AZT ED UN INIBITORE FARMACOLOGICO DI NF-kB Matteucci C.,1 Minutolo A. ,2 Balestrieri E.,2 Ascolani A.,3 Macchi B.,3 Mastino A.4 1Ist. di Neurobiologia e Medicina Molecolare, C.N.R., Roma; 2Dip. di Medicina Sperimentale e Sc. Biochimiche e 3Dip. di Neuroscienze, Università di Roma “Tor Vergata”, Roma; 4Dip. di Scienze Microbiologiche, Genetiche e Molecolari, Università di Messina, Messina. Linee cellulari infettate da HTLV-1 mostrano particolare resistenza all’induzione farmacologica di apoptosi ed una sensibile attivazione cronica di NF-kB. E’ stato recentemente dimostrato che l’AZT è in grado di indurre apoptosi in linee cellulari di linfoma EBV-positive mediante un meccanismo legato alla modulazione di NF-kB. Abbiamo quindi rivolto la nostra attenzione alle relazioni tra attivazione di NF-kB e modulazione dell’apoptosi da parte di AZT in cellule infettate da HTLV-1 ed in cellule di controllo non infettate. Cellule non infettate hanno mostrato una moderata e ritardata sensibilità all’apoptosi indotta da AZT in confronto con quella indotta da altri chemioterapici nucleosidici. Cellule in cui l’attivazione di NF-kB era bloccata mediante trasfezione stabile con un DN-IkBα o mediante un inibitore farmacologico, risultavano molto più sensibili all’induzione di apoptosi da parte di AZT. A spiegazione di tale effetto, l’analisi dell’espressione di geni connessi con l’apoptosi mediante un saggio di gene-array ha mostrato che l’AZT induceva simultaneamente geni pro-apoptotici e geni anti-apoptotici NF-kB-dipendenti. Abbiamo quindi saggiato la suscettibilità all’apoptosi indotta da AZT, con o senza aggiunta di inibitore di NF-kB, in cellule MT-2 cronicamente infette da HTLV-1 ed in altre linee infettate da HTLV-1 immortalizzate nel nostro laboratorio. Il trattamento combinato potenziava notevolmente l’induzione di apoptosi da parte di AZT. Questi risultati suggeriscono che il trattamento combinato con AZT ed un inibitore di NF-kB possa rappresentare un nuovo interessante approccio farmacologico in grado di controllare simultaneamente l’infezione da HTLV-1 e le disfunzioni sulla crescita/morte cellulare causate dal virus. 42 34° CONGRESSO NAZIONALE DELLA S A 34° Congresso 06 5-10-2006 11:35 Pagina 43 DINAMICA DI BIOFILM STATICO DI STREPTOCOCCUS PNEUMONIAE Claudia Trappetti, Gianni Pozzi, Marco R. Oggioni LAMMB, Dip. Biol. Mol., Università di Siena Lo Streptococcus pneumoniae è un batterio responsabile gravi malattie nell’uomo come polmoniti, meningiti e otite media. Dati recenti indicano che in tutte queste malattie una parte della popolazione batterica si trova nello stato di biofilm. Per valutare le caratteristiche della formazione di biofilm di S. pneumoniae abbiamo sviluppato un modello di biofilm statico in cui è possibile studiare le varie fasi di formazione e mantenimento di biofilm. I nostri dati evidenziano l’esistenza di almeno cinque fasi nella formazione del biofilm, distinte in fase iniziale di attaccamento, fase di incremento del biofilm, fase di mantenimento, fase di decremento iniziale e infine la fase caratterizzante un biofilm maturo. Quest’ultima è dipendente dal sistema di cell-cell signalling precedentemente associato alla competenza per la trasformazione genetica. Durante questa fase un limitato range di concentrazioni del feromone peptidico controlla la stabilità del biofilm che altrimenti tenderebbe a dissociarsi. Nelle altre fasi il biofilm è indipendente dal sistema di quorum sensing e dalla presenza di capsula polisaccaridica. ANALISI DI UN NUOVO TERRENO DIFFERENZIALE PER L’IDENTIFICAZIONE PRESUNTIVA DI LIEVITI PATOGENI Giuseppe Pichierri1, Barbara Castagna1, Arianna Tavanti2, Simona Barnini1, Emilia Ghelardi1, Mario Campa1 1Dipartimento di Patologia Sperimentale, Biotecnologie Mediche, Infettivologia ed Epidemiologia, e 2Dipartimento di Biologia, Università di Pisa La sempre crescente incidenza di infezioni sostenute da lieviti, in particolare appartenenti al genere Candida, ha indotto lo sviluppo di terreni commerciali che permettono di discriminare specie diverse sulla base del colore assunto dalle colonie. Il nuovo terreno OCCA (Oxoid Chromogenic Candida Agar) contiene cloramfenicolo come inibitore della crescita batterica e substrati cromogeni che permettono di evidenziare la produzione da parte dei lieviti di esosaminidasi e fosfatasi alcalina. Studi recenti hanno dimostrato che, utilizzato per l’isolamento diretto da campioni clinici, il terreno OCCA può essere di ausilio per la discriminazione di C. albicans, C. tropicalis e C. krusei. Nel presente studio, è stato valutato se il terreno OCCA: (i) fosse idoneo per l’isolamento e l’identificazione presuntiva di un più ampio numero di specie di lievito, inclusi lieviti di raro isolamento e nuove specie di Candida, quali C. orthopsilosis e C. metapsilosis; (ii) facilitasse la individuazione di più specie di lievito in campioni polimicrobici; (iii) potesse essere utilizzato per l’isolamento diretto di lieviti da emocolture positive. Isolati clinici e ceppi di riferimento di lievito (n = 520) sono stati seminati su terreno OCCA ed esaminati dopo incubazione a 37°C per 24 e 48 ore. Il terreno ha rivelato elevati valori di sensibilità e specificità (> 95%) per le specie C. albicans, C. krusei, C. tropicalis, C. guillermondii, Geotrichum spp., Saccharomyces cerevisiae, Rhodutorula mucillaginosa e Trichosporum mucoides, mentre le altre specie di lievito analizzate sono risultate scarsamente distinguibili. Tale terreno è risultato anche idoneo nella rilevazione della presenza di più specie da materiali polimicrobici. L’isolamento diretto su OCCA di lieviti presenti in emocolture positive ha indicato che il colore delle colonie prodotte non veniva alterato dalla presenza di pigmenti presenti nel sangue. I risultati ottenuti suggeriscono, pertanto, che il terreno OCCA sia idoneo per l’isolamento primario di lieviti da campioni clinici, comprese le emocolture, e che possa essere utilizzato per consentire una più rapida identificazione di specie di lievito patogene per l’uomo. SOCIETÀ ITALIANA DI MICROBIOLOGIA 43 34° Congresso 06 5-10-2006 11:35 Pagina 44 CARATTERIZZAZIONE MOLECOLARE DI PE PGRS 30 DI MYCOBACTERIUM TUBERCULOSIS Michela Sali, Giovanni Delogu, Maurizio Sanguinetti, Giovanni Fadda Istituto di Microbiologia, Università Cattolica del Sacro Cuore, Roma A seguito del completamento della sequenza del genoma di Mycobacterium tuberculosis sono state individuate le famiglie proteiche PPE, PE e PE PGRS, fino a quel momento sconosciute. Tali proteine occupano circa il 10% dell’attività codificante del batterio e risultano presenti esclusivamente in specie patogene per l’uomo o altri mammiferi; ciò fa supporre che siano coinvolte nella virulenza di questo batterio. In questo lavoro si è studiato il gene Rv1651c che codifica per la proteina PE PGRS30. Questa proteina è di notevole interesse per il suo dominio C-terminale che presenta elevate dimensioni e risulta altamente omologo alla MAG 24 di M. marinum, patogeno per pesci ed anfibi. MAG 24 è iperespressa nel granuloma ed è indispensabile per la piena virulenza del micobatterio all’interno dell’ospite. Per meglio comprendere il ruolo di tali proteine è stata studiata la variabilità genetica attraverso l’analisi della sequenza nucleotidica, e sono stati fatti studi di espressione della proteina PE PGRS 30, in vitro ed in vivo su ceppi clinici di M. tuberculosis e di M. bovis. L’analisi di sequenza effettuata sull’intero gene Rv1651c (codificante per PE PGRS 30) di diversi ceppi clinici, sia di tubercolare che di M. bovis, ha mostrato un alto livello di conservazione in ognuno dei suoi domini. A questo punto si è passati allo studio quantitativo dell’espressione, ceppi clinici di M. tuberculosis e di M. bovis sono stati utilizzati per infettare topi C57B1/6, nell’analisi in vivo, e le linee cellulari BMM0 e A549, per lo studio in vitr,. A differenti intervalli di tempo i topi sono stati sacrificati utilizzando milza e polmoni per l’estrazione dell’RNA totale. Per la valutazione quantitativa dell’espressione è stata messa a punto una real-time RT-PCR. Le analisi di espressione in vitro hanno dimostrato che la PE PGRS30 risulta iperespressa nelle fasi tardive dell’infezione, nei macrofagi (BMM0) piuttosto che negli pneumociti (A549); negli esperimenti in vivo la proteina tubercolare risulta iperespressa durante la fase cronica dell’infezione ed in particolare nella milza. Questi esperimenti hanno rivelato un diverso livello d’espressione tra i ceppi di M. tuberculosis e M. bovis. Visto l’alto grado di conservazione della sequenza nucleotidica da noi studiata ed il particolare profilo di espressione si può ipotizzare che la PE PGRS 30 abbia un ruolo importante nel meccanismo di patogenicità. IDENTIFICAZIONE DI GENI NON FLAGELLARI COINVOLTI NELLA MOTILITA’ SWARMING IN BACILLUS THURINGIENSIS S. Salvetti, E. Ghelardi, F. Celandroni, M. Ceragioli, S. Senesi*. Dipartimento di Patologia Sperimentale, Biotecnologie Mediche, Infettivologia ed Epidemiologia e *Dipartimento di Biologia, Università di Pisa. La motilità swarming costituisce una forma di translocazione multicellulare flagello-mediata, che prevede un processo di differenziamento, indotto dal contatto con substrati solidi, con produzione di cellule lunghe, miltinucleate ed iperflagellate, le cellule swarm. Il differenziamento swarming, oltre a favorire la diffusione di comunità batteriche in crescita nell’ambiente, contribuisce all’invasione dei tessuti dell’ospite da parte di batteri patogeni, che, nella condizione di cellula swarm, producono una maggiore quantità di fattori di virulenza secretori (enzimi proteolitici, fosfolipasi, ureasi ed emolisine) rispetto alle cellule non differenziate; da qui l’attuale e crescente interesse a comprendere il controllo genetico ed i meccanismi molecolari coinvolti nel differenziamento swarming, in particolare, dei batteri patogeni opportunisti. In nostri precedenti lavori, è stato dimostrato che, in Bacillus thuringiensis, recentemente associato ad infezioni per lo più in ospiti immunocompromessi, flhA, un gene flagellare, controlla il differenziamento swarming e la secrezione di determinanti di virulenza. Nel presente lavoro, nell’ottica di meglio definire le componenti molecolari che regolano il differenziamento swarming in questa specie microbica, è stata prodotta una libreria di mutanti inserzionali dal ceppo 407 di B. thuringiensis, utilizzando il trasposone mini-Tn10. Tra i mutanti ottenuti, ne sono stati selezionati sei, che risultavano incapaci di produrre cellule swarm. La caratterizzazione genetica dei ceppi mutanti ha permesso di identificare 4 open reading frame (ORF 1613, 8283, 7233, e 2192) ed i geni oppA e proY quali responsabili del fenotipo non-swarming osservato nei rispettivi mutanti, che sono stati caratterizzati per la capacità di secernere alcuni fattori di virulenza, comparativamente al ceppo parentale. I risultati ottenuti dimostrano che geni non flagellari, codificanti proteine transmembrana (ossidoreduttasi FAD-dipendente, permeasi prolina-specifica ed oligopeptide permeasi A) e proteine citoplasmatiche con attività enzimatica (catalasi, dGTP-trifosfoidrolasi, ed acetiltransferasi), sono coinvolti, direttamente od indirettamente, nel differenziamento swarming in B. thuringiensis. Ciò suggerisce che una perfetta integrità del metabolismo cellulare è essenziale per garantire il corretto net-work delle cellule swarm. 44 34° CONGRESSO NAZIONALE DELLA S A 34° Congresso 06 5-10-2006 11:35 Pagina 45 INFEZIONI PROTESICHE DA STAFILOCOCCO: UN NUOVO STRUMENTO PER LA DIAGNOSI PRECOCE NON INVASIVA Artini M. 1, Poggiali F. 1, Scoarughi G.L. 1, Cellini A. 1, Centofanti F. 2 e Selan L.1 1 Università di Roma “La Sapienza”. 2 Ospedale Codivilla-Putti, Cortina d’Ampezzo (Bl) Il genere Staphylococcus comprende diverse specie implicate nella colonizzazione mediante biofilm di protesi artificiali permanenti (protesi ortopediche, protesi vascolari, valvole caridache etc.). In queste infezioni la diagnosi precoce consentirebbe la rapida e definitiva risoluzione dell’infezione. Attualmente la diagnosi precoce è rara a causa della scarsità di sintomi e della loro aspecificità. Il nostro gruppo di ricerca ha sviluppato un saggio immunoenzimatico (ELISA) per rilevare le IgM seriche dirette contro gli antigeni polisaccaridici del biofilm stafilococcico (SSPA) e ne ha sperimentato l’efficacia su pazienti con infezioni protesiche di origine stafilococcica (SGI), in larga misura causate da S. aureus e da Stafilococchi coagulasi-negativi (CNS). La produzione industriale di questo saggio è in fase avanzata di sviluppo. L’SSPA si estrae e si purifica mediante una procedura originale a partire da uno stipite depositato, entrambi brevettati. Il saggio è stato effettuato su 289 sieri prelevati da pazienti raggruppati come segue: 89 sieri da pazienti con SGI (infezioni su protesi sia vascolari che ortopediche) e 200 sieri da una popolazione di controllo comprendente: sostituzione di protesi in pazienti con precedenti SGI, pazienti con infezioni di protesi non-SGI, pazienti sani e pazienti con trapianti non infetti. In seguito a tale analisi abbiamo stabilito un valore soglia di EU (unità ELISA), discriminante tra risultati positivi e negativi. Ciascun campione è stato analizzato in triplicato in due saggi distinti ed i valori ottenuti espressi come valori medi. I risultati ottenuti hanno mostrato che il gruppo comprendente pazienti con infezioni in atto da Staphylococcus spp., presenta titoli IgM anti-SSPA più alti rispetto agli altri gruppi. I titoli superiori a 0.40 EU comprendevano il 94,72% di SGI (sensibilità) con una specificità del 98,23%. Titoli maggiori di 0.35 EU, identificavano il 99% di SGI con circa il 2% titolo/unità di risultati falsi positivi (con una diminuzione della specificità) e l’1% di risultati falsi negativi. Questo saggio rappresenta un nuovo strumento non invasivo per la diagnosi precoce e per il trattamento di SGI con caratteristiche di semplicità, basso costo, sensibilità ed elevata specificità. Esso rappresenta inoltre il primo strumento diagnostico disponibile per la diagnosi precoce e per il rilevamento di focolai infettivi successivi alla sostituzione di protesi (prevenzione primaria e secondaria). CARATTERIZZAZIONE MEDIANTE ANALISI PROTEOMICA DEI MECCANISMI DI RESISTENZA AGLI AZOLI IN CANDIDA GLABRATA E. De Carolis*, A. Florio*, M. Sanguinetti*, B. Posteraro*, R. Torelli*, M. La Sorda*, R. Inzitari°, T. Cabras◊, M. Castagnola°, G. Fadda* *Istituto di Microbiologia, ° Istituto di Biochimica e Biochimica Clinica, Università Cattolica del Sacro Cuore, Roma, ◊Dip. di Scienze Applicate ai Biosistemi, Univ. di Cagliari. Candida glabrata è stata a lungo considerata un saprofita non patogeno, normalmente presente nella flora microbica di individui sani e raramente causa di gravi patologie. Negli ultimi anni, il crescente utilizzo di terapie immunosoppressive e antimicotiche ha portato alla selezione e diffusione di ceppi resistenti ai farmaci antifungini azolici e, allo stesso tempo, ha causato un notevole incremento delle infezioni sistemiche dovute a tale patogeno. Mentre in altre specie del genere Candida è noto il contributo dei singoli meccanismi al fenomeno della resistenza, ciò non è ancora ben compreso in C. glabrata. Dato l’elevato tasso di mortalità associato alle infezioni provocate da questo patogeno fungino e data la sua propensione a sviluppare rapidamente resistenza agli azoli, risulta di notevole importanza comprendere tali meccanismi per lo sviluppo di nuove strategie terapeutiche e/o diagnostiche. Allo scopo di analizzare le differenze di espressione genica correlate con la resistenza agli azoli, è stata effettuata un’analisi proteomica su due ceppi di C. glabrata, BPY40 e BPY41 (il primo sensibile e il secondo resistente agli azoli), che rappresentano isolati sequenziali di uno stesso paziente. Tali ceppi sono stati coltivati a 30°C in terreno YEPD. Le proteine, estratte dalle brodocolture e solubilizzate, sono state sottoposte a isoelettrofocalizzazione con strip IPG pH 3-10 e SDS-PAGE. Dai gel 2-DE, colorati con Coomassie colloidale e “Silver stain” e analizzati mediante il software PD-QUEST, sono stati escissi gli spot proteici differentemente espressi nei due ceppi, che sono stati quindi tripsinizzati per l’analisi mediante spettrometria di massa MALDI-TOF. Mediante ricerca nella banca dati Swiss-Prot con il software MASCOT, sono state identificate 13 proteine differenzialmente espresse (9 iperespresse nel ceppo di C. glabrata sensibile agli azoli e 4 in quello resistente); di tali proteine 5 sono coinvolte nel metabolismo cellulare, 4 nella risposta allo stress, una è implicata nel ciclo cellulare, una nel folding proteico, una nel trasporto cellulare e una ha funzione sconosciuta. Sono in corso studi per correlare le variazioni di espressione delle suddette proteine con la resistenza ai farmaci azolici. SOCIETÀ ITALIANA DI MICROBIOLOGIA 45 34° Congresso 06 5-10-2006 11:35 Pagina 46 RUOLO DELLO STRESS OSSIDATIVO SULLE VARIAZIONI DELLA LUNGHEZZA DEI TELOMERI E TELOMERASI ASSOCIATE AD APOPTOSI ASTROCITARIA HIV-1 MEDIATA M. Pollicita1, A. Biasin2, A. Sgura2, C. Muscoli3, C.F. Perno1, V. Visalli3, T. Grassi1, V. Mollace3, C. Tanzarella2, C. Del Duca5, P. Rodinò5 e S. Aquaro1,4. 1 Dipartimento di Medicina Sperimentale e Scienze Biochimiche, Università di Roma “Tor Vergata”, Roma 2 Dipartimento di Biologia, Università di Roma “Roma Tre”, Roma 3 Facoltà di Farmacia, Università di Catanzaro “Magna Graecia”, Catanzaro 4 Dipartimento Farmaco-Biologico, Università della Calabria, Rende 5 Dipartimento di Biologia, Università di Roma “Tor Vergata”, Roma E’ ampliamente documentato come la massiva produzione di radicali liberi durante l’infezione da HIV-1 sia coinvolta nella replicazione virale e nell’induzione di apoptosi in cellule neuronali e astrocitarie, anche se i meccanismi non sono ancora noti. Recentemente è stato valutato il ruolo dello stress ossidativo sulle variazioni della lunghezza di telomeri e telomerasi, strutture responsabili della stabilità genomica coinvolte nella regolazione dei processi di morte cellulare. Obiettivo del nostro lavoro è stato valutare, in una linea di cellule astrocitarie (U373) caratterizzata per la presenza dei co-recettori virali CCR5 e CXCR4 (9% CCR5; 16% CXCR4), l’apoptosi mediata da ceppi di HIV-1 CCR5 e CXCR4-dipendenti (R5 e X4, rispettivamente). L’analisi citofluorimetrica dopo 5 giorni di esposizione ad HIV-1 R5 e X4 ha rilevato un aumento di apoptosi rispettivamente pari a 15% e e 38% (p<0.01). Tale induzione di apoptosi potrebbe esser collegata ad un aumento di stress ossidativo intracellulare. In presenza di MnTBAP, composto antiossidante capace di rimuovere selettivamente il perossinitrito, la percentuale di cellule che muoiono per apoptosi risulta notevolmente ridotta, a sottolineare il coinvolgimento dello stress ossidativo nell’induzione di apoptosi. E’ stato inoltre verificato l’effetto dello stress ossidativo sulla variazione della lunghezza dei telomeri. L’analisi della lunghezza dei telomeri, 5 giorni dopo l’infezione, nelle cellule non andate incontro ad apoptosi, ha mostrato un allungamento dei telomeri, indicando un possibile ruolo di tali strutture nella sopravvivenza cellulare. I nostri dati dimostrano la correlazione esistente tra neuroAIDS, stress ossidativo, telomeri e telomerasi. Il coinvolgimento della via telomeri/telomerasi mediata dallo stress ossidativo durante la neuropatogenesi dell’infezione da HIV-1 e la possibile regolazione attraverso l’impiego di antiossidanti di nuova generazione rappresenta la base per una alternativa e più efficiente strategia nel trattamento del neuroAIDS. INDUZIONE SPERIMENTALE DI RESISTENZA A FLUCONAZOLO IN C. ALBICANS M.E. Milici1, C.M. Maida1, F. Barchiesi2, L. De Crescenzo 1 1 Dipartimento di Igiene e Microbiologia, Università degli Studi di Palermo 2 Istituto di Malattie Infettive, Università Politecnica delle Marche Lo sviluppo della resistenza nei confronti di fluconazolo (FLC) in C. albicans dopo lunghi periodi di esposizione al farmaco è stata ben documentata nei pazienti immunocompromessi. Recentemente, gruppi di ricercatori hanno dimostrato che la resistenza in C. albicans a FLC può svilupparsi anche dopo brevi periodi di esposizione. Meno nota è l’induzione crociata di resistenza nei confronti di altre categorie di farmaci. Lo scopo dello studio è stato quello di valutare, attraverso l’ausilio del micrometodo CLSI M27-A2, la sensibilità di C. albicans alla caspofungina (CAS), dopo brevi e lunghi periodi di esposizione a FLC ad una concentrazione di 4 µg/ml, e di evidenziare la reversibilità della resistenza indotta nei confronti di FLC. L’esposizione di C. albicans a FLC per 6 ore non ha modificato la sensibilità nei confronti di FLC e CAS (MICFLC = 0,125 µg/ml, MICCAS = 0,25 µg/ml), rispetto al wild type. L’esposizione di C. albicans per 12 giorni (6 passaggi) a FLC si è dimostrata sufficiente a determinare l’insorgenza della resistenza a FLC (MICFLC ≥ 64 µg/ml), ma la MICCAS non si è modificata. Soltanto al 24° giorno di esposizione a FLC (12° passaggio) si è evidenziata variazione del valore di MICCAS (da 0,25 a 1 µg/ml) Oltre alla resistenza al FLC, è stata osservata l’insorgenza di resistenza anche verso altri farmaci triazolici saggiati, quali l’itraconazolo, il ketoconazolo ed il voriconazolo. L’insorgenza della resistenza a FLC in C. albicans sembrerebbe stabile, infatti, allontanando il farmaco dal mezzo di coltura, almeno fino ai successivi 24 giorni (12 passaggi) di coltivazione, non è stata evidenziata nessuna variazione delle MIC ai due farmaci oggetto dello studio (MICFLC ≥ 64 µg/ml, MICCAS = 1 µg/ml), ed agli altri farmaci triazolici saggiati. I dati dimostrano che, nonostante C. albicans acquisisca resistenza nei confronti di FLC e dei farmaci triazolici, mantiene inalterata la sensibilità verso CAS. 46 34° CONGRESSO NAZIONALE DELLA S A 34° Congresso 06 5-10-2006 11:35 Pagina 47 Poster SOCIETÀ ITALIANA DI MICROBIOLOGIA 47 34° Congresso 06 5-10-2006 11:35 Pagina 48 EFFICACIA DEL CIDOFOVIR NEI CONFRONTI DELL’INFEZIONE GENITALE DA CAPRINE HERPESVIRUS 1 NELLA CAPRA Michele Camero1, Giuseppe Crescenzo1, Julien Thiry2, Anna Lucia Bellacicco1, Johan Neyts3, Etienne Thiry2, Canio Buonavoglia1, Maria Tempesta1 1Dipartimento di Sanità e Benessere degli animali – Facoltà di Medicina Veterinaria Università degli Studi di Bari – Valenzano (BA) - Italia 2 Dipartimento di Malattie Infettive e Parassitarie – Facoltà di Medicina Veterinaria Università di Liegi - Belgio 3 Rega Institute for Medical Research – Leuven – Belgio Caprine herpesvirus tipo 1 (CpHV-1) determina infezioni dell’apparato genitale della capra con la comparsa di vulvovaginite e balanopostite. Il tropismo del virus per l’apparato genitale, il tipo e la localizzazione delle lesioni, accomunano questa infezione a quella causata dall’herpes simplex tipo 2 nell’uomo (HSV-2). Nel presente studio è stata valutata l’efficacia antivirale del Cidofovir (CDV), un nucleoside aciclico fosfonato, in 6 capre infettate sperimentalmente per via vaginale con lo stipite BA.1 di CpHV-1. Gli animali sono stati trattati per via mucosale, con 3 ml di una preparazione di cidofovir all’1% quattro ore dopo l’infezione e successivamente ogni 12 ore per 5 giorni consecutivi. Tre capre sono state mantenute come controllo. Giornalmente, per 21 giorni, gli animali sono stati sottoposti ad esame clinico per la valutazione di eventuali lesioni virus-indotte e sono stati effettuati tamponi vaginali per gli esami virologici (PCR ed isolamento su cellule). CDV è stato in grado di proteggere gli animali dalle manifestazioni cliniche dell’infezione. Inoltre, gli animali trattati con CDV hanno eliminato il virus per via vaginale per un periodo di tempo inferiore (3 giorni) e a titoli più bassi (AUC = 66,50) rispetto agli animali di controllo (AUC = 134,5). L’infezione da CpHV-1 della capra viene proposto come modello di studio per nuove strategie di trattamento dell’herpes genitale umano (HSV-2). STUDI DI CARATTERIZZAZIONE DELLA RESISTENZA DI TIPO MLS MEDIATA DAL GENE erm(B) IN CEPPI DI STREPTOCOCCUS PYOGENES Silvia Rombini, Dezemona Petrelli, Stefania D’Ercole, Manuela Prenna, Chiara Ripa, Luca Agostino Vitali Dipartimento di Biologia MCA, Università di Camerino (MC) Nello Streptococcus pyogenes, la resistenza MLS (macrolidi, lincosammidi e streptogramine B) è mediata da due distinte classi di geni codificanti per metilasi: erm(B) (indicato anche come ermAM) e erm(A) (indicato anche con ermTR). Essa si può esprimere in modo costitutivo (fenotipo cMLS) o inducibile (iMLS) ed esiste una resistenza crociata tra gli antibiotici appartenenti al gruppo MLS. Nel presente lavoro sono stati presi in esame 12 ceppi di Streptococcus pyogenes eritromicina-resistenti positivi al gene erm(B). L’analisi della sequenza regolativa posta a monte del sito d’inizio della traduzione del gene erm ha permesso l’ individuazione di 2 classi principali. La prima, con una sequenza identica a quella del ceppo di riferimento AncR14 (fenotipo cMLS), comprendente 6 ceppi. Questi ultimi presentano un fenotipo cMLS dopo il classico test di diffusione in agar con due dischetti (eritromicina, ERY e clindamicina, CLI). L’altra classe, comprendente gli altri 6 ceppi, è caratterizzata da regioni regolative incomplete e da un fenotipo inducibile (iMLS). Lo studio del comportamento fenotipico è stato esteso ripetendo i test di diffusione in agar in terreni di crescita differenti, in presenza ed in assenza di anidride carbonica e a differenti temperature. In aggiunta sono state determinate, nelle diverse condizioni sopraelencate, le curve di crescita batterica in terreno liquido. Queste ultime sono state eseguite sia in condizione di induzione che di non induzione della CLI-resistenza usando concentrazioni sub-inibenti di ERY quale agente induttore. Dai risultati ottenuti si evince come l’espressione costitutiva della resistenza MLS sia evidente in un ceppo soltanto. Gli altri ceppi, che nelle condizioni standard del saggio in agar a due dischetti appaiono costitutivi, mostrano, sia nei test di diffusione in agar che in quelli condotti in liquido e nelle diverse condizioni di crescita, un certo livello di sensibilità alla CLI che si perde a seguito della presenza dell’eritromicina come induttore (parziale fenotipo iMLS). Tale fenomeno si apprezza in maniera più significativa (ma non esclusiva) nelle prime 6-10 ore di incubazione in terreno BHI ed in atmosfera normale. Nelle altre condizioni, le differenze di crescita in presenza/assenza di CLI con e senza induttore, tendono a sfumare con la conseguente assegnazione imprecisa del ceppo alla classe cMLS. 48 34° CONGRESSO NAZIONALE DELLA S A 34° Congresso 06 5-10-2006 11:35 Pagina 49 EFFETTO DELLA CONCENTRAZIONE SUB-INIBENTE DI ALCUNI ANTIBIOTICI IN CEPPI PRODUTTORI DI ß-LATTAMASI A SPETTRO ESTESO (ESBL) E. Coppo, S. Cagnacci, A. Marchese , E.A. Debbia Istituto di Microbiologia - Università di Genova Obiettivo Obiettivo di questo studio è stato quello di valutare l’ interazione tra concentrazioni sub-inibenti di ciprofloxacina, azitromicina, amikacina, fosfomicina, tetraciclina e rifaximina con ceftazidime in stipiti di E. coli, P. mirabilis e K. pneumoniae produttori di ß-lattamasi a spettro esteso (ESBL). Materiali e Metodi Sono stati utilizzati 36 ceppi di E. coli, 10 di P.mirabilis e 7 di K .pneumoniae, tutti ESBL isolati da pazienti nosocomiali. Come controllo è stato usato l’ ATCC 25922, come produttore di ß-lattamasi un ceppo TEM2 e come produttori di ß-lattamasi a spettro esteso un TEM3 e un TEM4. Su tutti i ceppi è stata determinata la MIC di tutti gli antibiotici inclusi nello studio. Per ogni ceppo è stata saggiata la MIC del ceftazidime in presenza e in assenza della rispettiva concentrazione sub-inibente di ogni antibiotico. Risultati I valori delle MIC di ceftazidime in presenza degli altri antibiotici hanno mostrato una differenza di almeno 2 diluizioni a fattore 2 nel 56.6 % dei casi per la ciprofloxacina, nel 50.94 % per l’ azitromicina, nel 75.47 % per l’ amikacina, nel 47.16 % per la fosfomicina, nel 41.5 % per la tetraciclina e nel 52.83% per la rifaximina. Conclusioni Dai risultati ottenuti si deduce che concentrazioni sub-inibenti degli antibiotici studiati interagiscono con l’ espressione di ß-lattamasi a spettro esteso. Nella maggior parte dei casi tale interazione ha portato a un abbassamento del valore di MIC del ceftazidime ipotizzando così un possibile sinergismo tra le varie classi di antibiotici. VALUTAZIONE DELLA PERFORMANCE DI PANIFICAZIONE E COMPLESSITÀ MICROBICA DI MADRI ACIDE CON FARINA D’ORZO Emanuele Zannini, Cristiana Garofalo, Gloria Silvestri, Michele Paoloni, Andrea Osimani, Sara Santarelli, Lucia Aquilanti, Francesca Clementi. Dipartimento di Scienze degli Alimenti, Università Politecnica delle Marche, Ancona. La panificazione tradizionale si basa sull’utilizzo della “madre acida” detta anche “lievito naturale”, costituito da una popolazione microbica eterogenea di lieviti e batteri lattici, spontaneamente selezionatasi in un impasto di farina ed acqua. L’insieme delle attività di questa complessa microflora conferisce apprezzabili caratteristiche sensoriali e nutrizionali e, nel contempo, contrasta fenomeni di raffermamento e ammuffimento. Esiste un crescente interesse verso l’uso di farina d’orzo per la produzione di lievitati da forno con proprietà funzionali. Questa farina presenta difficile panificabilità ma interessanti caratteristiche nutrizionali, quali un considerevole contenuto in fibra solubile (ß-glucani) e in antiossidanti (tocoferoli e tocotrienoli). Nei prodotti da forno con farina d’orzo, l’impiego della madre acida comporta un ulteriore vantaggio in quanto la presenza degli acidi organici prodotti dai batteri lattici rende più gradite le note sensoriali caratteristiche della farina d’orzo. In base a tali premesse, è stata condotta una sperimentazione con l’obiettivo di valutare la performance di panificazione e la complessità microbica di madri acide contenenti farina d’orzo. Sono state prese in esame 11 colture di lieviti (Saccharomyces cerevisiae, Candida humilis, Clavispora lusitaniae) e 31 di batteri lattici (Lactobacillus plantarum, Lb. paralimentarius, Lb. sanfranciscensis, Lb. curvatus, Lb. casei, Lb. rhamnosus, Lb.helveticus, Lb. pantheri, Lb. brevis, Leuconostoc citreum, Leu. pseudomesenteroides, Weissella kimkii, W. confusa), precedentemente isolate da madri acide. Gli isolati sono stati utilizzati per allestire tre tipologie di madri acide sperimentali contenenti differenti percentuali di farina d’orzo e di frumento (100% orzo; 50% orzo e 50% frumento; 100% frumento). Le madri sono state rinfrescate per due mesi, al termine dei quali è stata verificata la performance di lievitazione, il contenuto in acido acetico e la composizione della popolazione microbica totale via PCR-DGGE (Denaturing Gradient Gel Electrophoresis). Dai risultati sono emerse apprezzabili differenze nelle madri rinfrescate con le tre diverse modalità, verosimilmente ascrivibili ad una pressione selettiva dovuta al tipo di farina utilizzato. In particolare, nelle prove di lievitazione, le madri rinfrescate in presenza di farina d’orzo hanno mostrato un possibile adattamento a tale substrato. SOCIETÀ ITALIANA DI MICROBIOLOGIA 49 34° Congresso 06 5-10-2006 11:35 Pagina 50 ATTIVITÀ ANTIMICROBICA DI MYRTUS COMMUNIS E ROSMARINUS OFFICINALIS NEI CONFRONTI DI HELICOBACTER PYLORI Branca G. 2, Deriu A.1, Cerini P. 2, Pintore G. 3, Chessa M. 3, Molicotti P. 1, Fadda G. 2, Zanetti S. 1 1 Dipartimento di Scienze Biomediche, Sezione di Microbiologia, Università degli Studi di Sassari 2 Università Cattolica S. Cuore, Istituto di Microbiologia, Roma 3 Dipartimento Farmaco-chimico-tossicologico, Facoltà Farmacia, Università degli Studi di Sassari Helicobacter pylori è ormai considerato un importante patogeno responsabile di alcune malattie gastroduodenali dell’uomo come la gastrite cronica, l’ulcera peptica, l’adenocarcinoma dello stomaco e il MALT linfoma. L’infezione può essere curata nell’80% dei casi con terapie antibiotiche standard. Sebbene l’eradicazione mediante antibiotici migliori le patologie gastroduodenali, sempre più frequentemente si riscontrano resistenze a uno o più antibiotici. Pertanto l’emergente multiresistenza di tale microorganismo limita l’uso di alcuni antibiotici (Claritromicina, Metronidazolo e Chinolonici) nel trattamento dell’infezione. In questo studio è stato saggiato l’effetto antimicrobico in vitro di olii essenziali quali Myrtus communis e Rosmarinus officinalis nei confronti di 10 ceppi di Helicobacter pylori resistenti a uno o più dei suddetti antibiotici. Gli olii essenziali estratti con sei differenti metodiche da queste piante dimostrano una buona attività antibatterica nei confronti di Helicobacter pylori. Difatti Myrtus communis e Rosmarinus officinalis alla concentrazione di 0.075% (v/v) hanno attività battericida verso questo microorganismo (circa 90% dei ceppi saggiati). I risultati da noi ottenuti dimostrano che gli olii essenziali Myrtus communis e Rosmarinus officinalis potrebbero in futuro essere considerate sostanze utili non sostitutive ma di supporto e ausilio alla terapia classica. IMPIEGO DEL QUANTIFERON-TB GOLD NELLA DIAGNOSI TUBERCOLARE LATENTE IN ETÀ PEDIATRICA Bua A*., Molicotti P*., Cannas S*., Cubeddu M*., Sechi L.A*., Mele G.**, Olmeo P.**, Delogu R.***, Zanetti S*. *Dipartimento Scienze Biomediche, Università di Sassari; ** Divisione Pediatria-Infettivi Azienda Ospedaliera N°1 Sassari; ***Ufficio Igiene Pubblica Sassari I dati forniti dall’Organizzazione Mondiale della Sanità indicano che i nuovi casi di infezione tubercolare al mondo sono circa 8,3 milioni di cui l’11% riguardano ragazzi al di sotto dei 15 anni. La tubercolosi (TB) nei bambini è difficile da diagnosticare per via della natura paucibacillare dell’infezione e per la difficoltà nell’ottenere campioni clinici. La diagnosi viene quindi frequentemente basata su esami radiologici, test della Mantoux e indagini in ambito familiare per rilevare eventuali contagi. Dal 2003 la Food and Drug Administration ha approvato l’uso del QuantiFERON-TB Gold (QFT-G) quale valido strumento di diagnosi tubercolare latente, il quale rileva l’interferon-gamma prodotto da linfociti T stimolati con gli antigeni ESAT-6 e CFP-10. Scopo del Lavoro: Valutare la sensibilità del QFT-G, rispetto alla Mantoux, nel rilevare l’infezione tubercolare in età pediatrica. Materiali e Metodi: Dopo un caso di TB attiva sviluppatosi in un bambino di 11 anni di una V elementare, l’intera classe, composta da 18 bambini viene sottoposta al test della Mantoux, RX toracico e QFT-G. Nei controlli clinici vengono inclusi altri 7 bambini che hanno avuto contatti con i bambini della classe stessa, in totale vengono saggiati 23 ragazzi, (per 2 bambini gli esami sono in corso). Risultati: La Mantoux è risultata positiva in 16 bambini e negativa in 7; gli RX sono risultati positivi per 4 bambini, per uno dubbio e per gli altri negativi. Il QFT-G è risultato positivo in 17 bambini, negativo in 6. Tutti i bambini negativi al QFT-G sono risultati negativi sia alla Mantoux che agli RX toracici, mentre dei 17 bambini positivi al QFT-G, 16 erano positivi anche alla Mantoux mentre 1 è risultato negativo, gli RX positivi lo erano anche per il QFT-G così come RX dubbi, negativo alla Mantoux, è risultato positivo al saggio immunologico. Conclusioni: I nostri risultati hanno indicato che il QFT-G è sensibile nel diagnosticare l’infezione tubercolare latente nei bambini e che potrebbe essere in grado di individuare i falsi negativi alla Mantoux. Questi primi dati indicano che il QFT-G potrebbe essere impiegato nella diagnosi dell’infezione tubercolare latente in età pediatrica. 50 34° CONGRESSO NAZIONALE DELLA S A 34° Congresso 06 5-10-2006 11:35 Pagina 51 ANALOGHI DELL’HALOVIR A: SINTESI, CONFORMAZIONE ED ATTIVITA’ ANTIVIRALE Mariateresa Vitiello1, Marina D’Isanto1, Fernando Formaggio2, Emiliana Finamore1, Katia Raieta1, Maria Rao1, Jessica Guarino1, Massimiliano Galdiero1, Stefania Galdiero3,4 1Dip. di Med. Sper., Sez. di Microbiologia e Microbiologia Clinica, Facoltà di Medicina e Chirurgia, Seconda Università di Napoli.; 2Dip. di Chimica, Università di Padova; 3Dip. di Scienze Biologiche, Divisione Biostrutture, Università di Napoli Federico II; 4Ist.. di biostrutture e Bioimmagini, CNR, Napoli Il peptide halovir A, prodotto durante la fermentazione salina di un fungo marino appartenente al genere Scytalidium, a differenza della maggior parte dei peptaboliti conosciuti per le proprietà antibatteriche, possiede una significativa attività antivirale nei confronti dell’Herpes Simplex Virus di tipo 1 (HSV-1). Nella struttura primaria dell’halovir A (Myr-Aib-Hyp-Leu-Val-GlnLol), Myr è l’acido grasso miristico (C14) e Lol è 1,2-aminoalcohol leucinolo. In questo lavoro abbiamo sintetizzato 3 analoghi dell’halovir A contenenti helicogenic Cα- tetrasubstituted α-amino acids [LLeu6-OMe], [L(αMe)Leu3, L-Leu6-OMe], e [L(αMe)Val4, L-Leu6-OMe]. Gli studi conformazionali mediante analisi dello spettro di assorbimento FT-IR, NMR e CD hanno confermato che l’halovir A e gli analoghi sintetizzati presentano una spiccata capacità ad assumere una struttura di tipo elica 310. I test di attività antivirale mostrano che tutti gli analoghi sintetizzati riducono significativamente l’infettività di HSV-1 in vitro. L’ESOPOLISACCARIDE DI LACTOBACILLUS CRISPATUS L1 INIBISCE L’ADESIONE DI CANDIDA ALBICANS IN CELLULE EPITELIALI VAGINALI UMANE Donnarumma G., Auricchio L., Fusco A., Lanzieri N., Balzano G., De Gregario V., Tufano M. A. Dipartimento di Medicina Sperimentale, Sezione di Microbiologia e Microbiologia Clinica, Seconda Università degli Studi di Napoli I lattobacilli, microrganismi Gram-positivi, pleiomorfi e generalmente microaerofili, fermentano una grande varietà di zuccheri, con produzione soprattutto di acido lattico. Esercitano così una funzione probiotica in ambiente vaginale, costituendo un ostacolo alla proliferazione di microrganismi patogeni, soprattutto perché responsabili dell’acidificazione di tale ambiente. Inoltre alcuni ceppi di Lactobacillus spp. producono H2O2 e ciò potrebbe rappresentare un ulteriore meccanismo con il quale questo microrganismo regolerebbe la composizione dell’ecosistema vaginale. Tuttavia, ancora poco si conosce riguardo i meccanismi attraverso i quali questi batteri impediscono l’adesione e l’invasione di cellule epiteliali da parti di microrganismi patogeni. Alterazioni dell’equilibrio dell’ecosistema vaginale, associato ad una marcata diminuzione del numero di lattobacilli normalmente presenti nel secreto vaginale, può essere causa soprattutto di candidosi, vaginiti dovute principalmente alla colonizzazione da parte di Candida albicans dell’epitelio vaginale. C. albicans è un lievito, dimorfo, patogeno opportunista, comunemente presente sulle mucose umane. La sua virulenza è strettamente legata alla sua capacità di aderire alle cellule epiteliali della mucosa vaginale. In questo studio, utilizzando un ceppo di lattobacillo, Lactobacillus crispatus L1 isolato da donna sana in età fertile, abbiamo analizzato, mediante saggi di adesione ed esclusione, la capacità di L. crispatus L1 di aderire alle cellule vaginali Vk2/E6E7, un modello ben caratterizzato di cellule immortalizzate, interferendo così sull’adesione di un ceppo di C. albicans alle stesse cellule. Inoltre è stata valutata la capacità di un particolare polisaccaride esocellulare, metabolita secondario di L. crispatus L1 (EPS) di interferire con l’adesione del patogeno opportunista alla mucosa vaginale dell’ospite. I ceppi di C. albicans e L. crispatus sono stati isolati da tamponi vaginali e tipizzati biochimicamente mediante API System Lactobacillus crispatus L1 è stato identificato tassonomicamente mediante sequenziamento di rDNA 16S utilizzando primers specifici presenti in GenBank e confrontando l’amplificato ottenuto, mediante PCR con quello del ceppo di riferimento Lactobacillus crispatus ATCC33820. per la purificazione di EPS è stata effettuata una coltura batch di L. crispatus L1 da terreno semidefinito, contenente peptone di soia e glucosio come fonti rispettivamente di azoto e carbonio. La biomassa microbica è stata separata per centrifugazione ed il surnatante dopo digestione con proteasi è stato concentrato e diafiltrato utilizzando un dispositivo a cassette a diverso taglio molecolare (30 e 10 KDa). La soluzione contentente l’EPS è stata quindi liofilizzata e dosata con saggio colorimetrico antrone/H2SO4 per determinare il contenuto di polisaccaridi. I dati sperimentali hanno mostrato che Lactobacillus crispatus L1 aderisce e inibisce significativamente l’adesione di C. albicans alle cellule vaginali in modo competitivo. Inoltre, i saggi di esclusione, effettuati pretrattando monostrati confluenti di cellule Vk2/E6E7 per 18 h con EPS1 1.0 mg/mL, hanno evidenziato un’interferenza con l’adesione di C. albicans del 48%. I nostri studi mirano alla comprensione del meccanismo molecolare dell’interazione tra L. crispatus e le cellule epiteliali della mucosa vaginale; tale interazione, infatti, rappresenta un requisito fondamentale per la capacità di colonizzazione di questi microrganismi e del loro potenziale ruolo di competitori di microrganismi patogeni. SOCIETÀ ITALIANA DI MICROBIOLOGIA 51 34° Congresso 06 5-10-2006 11:35 Pagina 52 ESPRESSIONE DI BETA-DEFENSINA 2 IN CELLULE DI EPITELIO POLMONARE INFETTATE CON PSEUDOMONAS AERUGINOSA E PSEUDOMONAS FLUORESCENS Fusco A., Donnarumma G., Lanzieri N., Petrazzuolo M., Perfetto B., Iovene M.R., Tufano M.A. Dipartimento di Medicina Sperimentale, Sezione di Microbiologia e Microbiologia Clinica, Seconda Università degli Studi di Napoli L’epitelio polmonare costituisce un’importante linea di difesa contro la colonizzazione e l’invasione da parte di microrganismi patogeni. Le cellule epiteliali polmonari esplicano tale protezione attraverso la sintesi di numerose molecole quali citochine, molecole di adesione e peptidi antimicrobici. Tra questi, le ß-defensine costituiscono un’importante categoria di molecole effettrici della risposta immune innata, essendo dotate di attività battericida/batteriostatica e pro/antinfiammatoria. Di notevole interesse è la ß-defensina 2 (HBD-2), particolarmente efficace nel killing di batteri Gram-negativi e di lieviti, e con azione esclusivamente batteriostatica nei confronti dei Gram-positivi. E’ noto che P. aeruginosa, microrganismo pressocchè ubiquitario grazie alle sue scarse esigenze nutrizionali, è in grado di provocare infezioni nell’uomo colonizzando diversi distretti, in particolare le basse vie respiratorie, ed esplica la sua azione patogena principalmente in soggetti immunodepressi e negli anziani o in presenza di fattori predisponenti locali quali lesioni, ustioni e protesi. Questo studio mira a chiarire i meccanismi della risposta immune innata, valutando in particolare i livelli di espressione di alcune citochine infiammatorie, di molecole di adesione e del peptide antimicrobico HBD-2. A questo scopo, cellule epiteliali polmonari di linea A549 sono state infettate sia con P. aeruginosa che con P. fluorescens, quest’ultima normalmente presente nel suolo, nell’acqua e nelle piante, causa comune dell’irrancidimento di molti alimenti (uova, carni, pesce e latte), appartenente al microbiota orofaringeo. Inoltre, monostrati confluenti di cellule epiteliali polmonari sono stati trattati con il mezzo condizionato di colture di P. aeruginosa e P. fluorescens, a tempi diversi, allo scopo di individuare il ruolo delle diverse componenti di superficie batterica rilasciati in vivo nel corso dell’infezione. I risultati ottenuti indicano che la stimolazione delle cellule dell’epitelio polmonare con P. aeruginosa o con il relativo mezzo condizionato induce, al contrario della stimolazione con P. fluorescens, un significativo incremento dell’espressione delle ICAM-1, necessarie per l’adesione leucocitaria, delle citochine proinfiammatorie IL-1ß, IL-1α e IL-6, della chemochina IL-8 e della ß-defensina 2. In conclusione si può affermare che le cellule epiteliali polmonari posseggono la capacità di riconoscere la presenza di batteri Gram-negativi, e tra questi, di discriminare quelli verso i quali dare inizio ad una risposta immune innata attraverso l’espressione e/o il rilascio di fattori proinfiammatori e di peptidi antimicrobici. EFFETTO ANTIOSSIDANTE DELL’ IDROSSITIROSOLO (DOPET) E INIBIZIONE DELL’INVASIVITA’ DI STAPHYLOCOCCUS AUREUS Perfetto B., Donnarumma G., Melito A., Canozo N., Casillo G., Lanzieri N., Tufano M.A. Dipartimento di Medicina Sperimentale, Sezione di Microbiologia e Microbiologia Clinica, Seconda Università degli Studi di Napoli. L’idrossitirosolo (3,4-diidrossifeniletanolo DOPET) è il maggiore componente orto-difenolico trovato nell’olio d’oliva ed è responsabile delle proprietà antiossidanti di questo alimento. Scopo della ricerca è stato quello di valutare le capacità del DOPET nella protezione della cute durante l’ infezione da S. aureus e suoi componenti di superficie come acido lipoteicoico (LTA) proteina A (PA). In questo studio, cheratinociti di linea HaCat (gentilmente forniti da N. Fusening, German Cancer Research, Heidelberg, Germany), sono stati stimolati con ceppi di S. aureus isolati presso L’Unità Operativa di Microbiologia e Virologia della Seconda Università degli Studi di Napoli, e con LTA e PA di S. aureus (SIGMA, Milano) utilizzati alla concentrazione di 10 µg/ml, in presenza o assenza di Idrossitirosolo per 2, 8 e 24h. La concentrazione di DOPET utilizzata per i trattamenti è stata di 100 µM. Per la determinazione delle ROS è stato utilizzato il saggio della diclorofluoresceina con 2’,7’-diclorodiidrofluoresceina di acetato (DCFH-DA SIGMA) alla concentrazione di 20 µM. La valutazione dell’ NO è stata eseguita saggiando la concentrazione di nitrati nei surnatanti delle cellule trattate per 24 h con S. aureus, LTA e PA con il metodo di Griess. Infine mediante RT-PCR e western blot sono stati valutati ulteriori parametri quali le citochine e le HSP70. I risultati ottenuti mostrano che il DOPET riduce la formazione di radicali liberi indotta sia dall’adesione/invasione di Staphyilococcus aureus che dalla stimolazione dei cheratinociti con componenti strutturali di superficie. Inoltre aumenta l’espressione delle HSP70 e dell’ IL-8 indotta sia da componenti batterici purificati che dal processo di infezione, mentre riduce l’espressione del TGF-β, dopo 8 ore di trattamento. I nostri dati sono in linea con l’ipotesi di un sempre più largo utilizzo dei derivati naturali dell’olio di oliva in particolare del DOPET sia nell’industria cosmetologica che in quella farmaceutica, nella prevenzione e il trattamento dei danni cutanei indotti da infezioni batteriche o esposizioni solari prolungate. 52 34° CONGRESSO NAZIONALE DELLA S A 34° Congresso 06 5-10-2006 11:35 Pagina 53 ARESC PROJECT: STUDIO EPIDEMIOLOGICO SULLA MICROBIOLOGIA ED ANTIBIOTICORESISTENZA DELLE INFEZIONI NON COMPLICATE DELLE VIE URINARIE. RISULTATI PRELIMINARI Gualco L., A. Marchese e G.C. Schito Sezione di Microbiologia, Di.S.C.A.T., Università di Genova Introduzione Le infezioni del tratto urinario (UTI) rappresentano un tipo di patologia piuttosto comune nelle donne. E.coli è l’agente eziologico più frequente essendo causa dell’80% dei casi. Il trattamento antibiotico è spesso empirico e varia in base alla localizzazione geografica. Sebbene ciprofloxacina e cotrimossazolo siano i farmaci più prescritti, negli ultimi anni la resistenza a questi due farmaci in E.coli è aumentata ed in alcuni Paesi ha raggiunto anche il 20% per ciprofloxacina ed oltre il 50% per cotrimossazolo. Situazione analoga si registra anche per ampicillina. A causa della diffusione della refrattarietà, che può coinvolgere a diversi livelli aree geografiche differenti, diviene fondamentale il monitoraggio delle resistenze nei germi uropatogeni. A questo scopo lo studio internazionale ARESC ha valutato la sensibilità agli antimicrobici di uropatogeni isolati da donne affette da cistite in 9 paesi europei ed in Brasile. Metodi - Nel periodo 2004-2006, 59 centri hanno reclutato 4100 donne di età compresa tra 18 e 65 anni, con sintomi di UTI non complicate. La minima concentrazione inibente di ampicillina, co-clavulanato, cefuroxime, mecillina, acido nalidixico, ciprofloxacina, nitrofurantoina, cotrimossazolo e fosfomicina è stata determinata secondo la metodica descritta da CLSI 2006. Risultati - In totale sono stati isolati 3254 uropatogeni, tra cui 2484 E.coli (76.3%; 62.3%-82.9% nei diversi Paesi), 432 altri Gram-negativi (13.3%) e 338 Gram-positivi (10.4%). Ampicillina si è dimostrato l’antibiotico meno attivo nei confronti di questo patogeno (58.3% di resistenza; 37.8%-70.8% secondo la localizzazione geografica), seguito da cotrimossazolo (27.8%; 13.9%-36.4%) e cefuroxime (19.9%; 10.8%-32.1%). Ciprofloxacina era caratterizzata da un tasso di resistenza inferiore al 10% (7.7%), anche se per Spagna ed Italia la situazione appare più preoccupante (13% e 14.5%). Fosfomicina, nitrofurantoina e mecillina sono risultate le molecole più attive (98.3%, 97.3% e 96.7% di E.coli sensibili rispettivamente). Conclusioni In accordo con quanto già indicato nelle linee guida e visto il quadro di prevalenza e resistenza, ampicillina, cotrimossazolo e cefuroxime non dovrebbero più essere prescritti per la terapia empirica delle infezioni delle vie urinarie in tutti i Paesi monitorati. Anche l’aumento di resistenza ai chinoloni osservato è preoccupante. Fosfomicina, nitrofurantoina e mecillina hanno invece preservato la loro efficacia in vitro e possono rappresentare una concreta opzione terapeutica. EFFETTO DI CONCENTRAZIONI SUB-INIBENTI DI MOXIFLOXACINA SU STENOTROPHOMONAS MALTOPHILIA ISOLATI DA FIBROSI CISTICA G. Di Bonaventura, A. Pompilio, C. Picciani, C. Catavitello, R. Piccolomini Dipartimento di Scienze Biomediche e Centro Scienze dell’Invecchiamento (Ce.S.I.), Università “G. d’Annunzio” di ChietiPescara Background: Stenotrophomonas maltophilia è un patogeno nosocomiale emergente, soprattutto nell’ospite immunocompromesso. Recenti evidenze suggeriscono un aumento nella frequenza di isolamento del microrganismo dal tratto respiratorio di pazienti con fibrosi cistica. S. maltophilia è in grado di aderire rapidamente a superfici inerti, formando un biofilm resistente all’azione degli antibiotici (Di Bonaventura et al, AAC 2004). In vivo, durante la terapia antibiotica i microrganismi spesso crescono in presenza di concentrazioni sub-inibenti (sub-MIC) che, sebbene non riescano ad inattivare i microrganismi, possono modificarne le caratteristiche chimico-fisiche di superficie cellulare e, quindi, la funzionalità di alcuni fattori di virulenza (adesività, idrofobicità, motilità). Scopo: valutare l’effetto di moxifloxacina, testata a concentrazioni sub-MIC, sull’adesività, sulla idrofobicità e motilità di S. maltophilia. Materiali e Metodi: L’attività antimicrobica di moxifloxacina nei confronti di S. maltophilia SM144, isolato dall’espettorato di un paziente con fibrosi cistica, è stata determinata mediante il metodo della microdiluizione in brodo secondo le linee-guida della CLSI. La stessa sospensione batterica esposta overnight a concentrazioni subMIC (1/2x, 1/4x, 1/8x, 1/16x, 1/32xMIC) di moxifloxacina è stata impiegata per la determinazione dell’adesione a polistirene mediante saggio su microtiter e conta cellulare vitale, del grado di idrofobicità cellulare determinato mediante il Microbial Adhesion to n-Hexadecane (MATH) test, e della motilità (swimming, swarming, twitching) valutata secondo la metodica descritta da Rashid et al (PNAS, 2000). L’analisi statistica dei risultati è stata condotta mediante ANOVA-test + Dunnett’s Multiple Comparison test. Risultati: Il grado di adesività è risultato essere significativamente (P<0.01) ridotto dalla presenza di moxifloxacina, indipendentemente dalla concentrazione impiegata. Il grado di idrofobicità è diminuito in maniera significativa (P<0.01) in presenza di concentrazioni pari a 1/4x, 1/8x, 1/16xMIC. La presenza di antibiotico non influenzava in alcun modo la componente flagellare e fimbriale del batterio. Conclusioni: I risultati del presente studio, sebbene di natura preliminare, suggeriscono come concentrazioni sub-MIC di moxifloxacina interferiscano sulle capacità adesive di S. maltophilia, probabilmente riducendo il livello di idrofobicità cellulare. La ricerca è stata finanziata da un grant della Italian Cystic Fibrosis Research Foundation-Project adopted by “Famiglia Pizzinato (PN)” SOCIETÀ ITALIANA DI MICROBIOLOGIA 53 34° Congresso 06 5-10-2006 11:35 Pagina 54 DIAGNOSI DI LABORATORIO DI POLMONITE ATIPICA DA LEGIONELLA CONFRONTO TRA METODI DI IDENTIFICAZIONE FENOTIPICI E GENOTIPICI Branca G., Masucci L., D’Inzeo T., Fadda G. Istituto di Microbiologia Università Cattolica del Sacro Cuore – Policlinico “A. Gemelli” – Roma. Le legionelle sono microrganismi ubiquitari il cui habitat è rappresentato da acque dolci (laghi, fiumi, acque potabili) e possono causare sia in maniera sporadica che in maniera epidemica una polmonite atipica. L’infezione si verifica dopo inalazione o aspirazione di gocce di acqua contaminata. Attualmente le specie sono 42 e 64 i sierogruppi, alcuni dei quali causano la malattia nell’uomo. Legionella pneumophila é la più frequente specie patogena e causa circa il 90% delle polmoniti. La mortalità di tali polmoniti, se non trattate tempestivamente, varia da 20% al 30% negli anziani, negli immunocompromessi e nei pazienti con gravi malattie croniche come il diabete e le epatopatie.La prognosi dei pazienti dipende in parte dalla rapida identificazione dell’agente eziologico.Tra i metodi convenzionali come la coltura e la ricerca dell’antigene urinario e i metodi molecolari come la PCR convenzionale. Real-Time PCR rappresenta un sistema diagnostico veloce e di più facile esecuzione. Tale metodica per la ricerca di Legionella spp dai vari materiali clinici rappresenta quindi un sistema in grado di dare una risposta corretta in tempi brevi. Il nostro studio è stato condotto su 100 pazienti con sintomatologia riconducibile a polmonite atipica. I campioni clinici analizzati provenivano dalle vie respiratorie (escreati, lavaggi broncoalveolari etc.) e urine. I primi sono stati sottoposti ad esame colturale e molecolare (LigthCycler Real-Time PCR – Roche), mentre i secondi sono stati analizzati per la ricerca antigenica con il test Legionella Binax Now. I risultati hanno posto in evidenza una maggiore sensibilità della Real-Time (30 positivi) rispetto alla coltura (15 positivi) ed una validità della ricerca antigenica nella diagnosi. SVILUPPO E VALUTAZIONE DI VACCINI A DNA CONTRO LA TUBERCOLOSI. Clarizio Sandra, Giovanni Delogu, Michela Sali, Cinzia Pusceddu, Rosaria Santangelo, Stefania Zanetti, Giovanni Fadda. Istituto di Microbiologia, Università Cattolica del Sacro Cuore, Roma Dipartimento di Scienze Biomediche, Università di Sassari. Nel corso degli ultimi dieci anni i vaccini a DNA si sono affermati come validi strumenti per lo sviluppo di nuovi strumenti per il controllo di numerose malattie infettive. E’ stato dimostrato come vaccini a DNA che esprimono un singolo antigene di Mycobacterium tuberculosis possono conferire una parziale protezione nei confronti dell’infezione in opportuni modelli animali. In questo studio abbiamo sviluppato diversi vaccini a DNA che esprimono per due o più antigeni di M. tuberculosis. I costrutti sviluppati sono in grado di esprimere i multiantigeni come proteine di fusione con la sequenza segnale del tissue plasminogen activator (TPA) o con un sequenza codificante per il polipeptide ubiquitina modificato. L’espressione dei multiantigeni è stata dimostrata in vitro in esperimenti di trasfezione su cellule RD ed analisi in immunofluorescenza. I costrutti selezionati sono stati utilizzati per immunizzare topi C57Bl/6 e successivamente si è proceduto all’analisi dell’attività protettiva nel modello di tubercolosi murina, analizzando sia la clonizzazione del polmone e della milza in topi vaccinati rispetto al controllo, che la sopravvivenza dei topi all’infezione con M. tuberculosis. I dati ottenuti dimostrano come un vaccino multigenico è in grado di indurre un attività protettiva equivalente a quella indotta da BCG. 54 34° CONGRESSO NAZIONALE DELLA S A 34° Congresso 06 5-10-2006 11:35 Pagina 55 VARIAZIONI INDOTTE DALLA TEMPERATURA NEL PROTEOMA DI STENOTROPHOMONAS MALTOPHILIA E. De Carolis*, A. Florio*, M. Sanguinetti*, B. Posteraro*, M. Sali*, R. Inzitari°, C. Fanali°, M. Castagnola°, B. Colonna◊, G. Fadda* *Istituto di Microbiologia, °Istituto di Biochimica e Biochimica Clinica, Università Cattolica del Sacro Cuore, Roma ◊Dipartimento di Biologia Cellulare e dello Sviluppo, Università di Roma “La Sapienza”. La Stenotrophomonas maltophilia è un batterio gram negativo aerobio obbligato, generalmente isolato nell’ambiente a temperature comprese tra 20 e 25°C. Negli ultimi anni, anche in conseguenza dell’esposizione a terapie antibiotiche ripetute, S. maltophilia si è affermato come patogeno emergente nell’ambito nosocomiale, essendo isolato con frequenza sempre maggiore dall’apparato respiratorio dei pazienti affetti da fibrosi cistica. A causa della multiresistenza mostrata verso la maggior parte degli antibiotici ad ampio spettro, le infezioni causate da S .maltophilia risultano difficili da eradicare. Per molti microrganismi patogeni, la variazione di temperatura tra l’ambiente esterno e l’ospite riveste un ruolo fondamentale nell’attivazione dei fattori di virulenza responsabili del processo di infezione. In S. maltophilia non sono attualmente conosciuti i geni espressi in risposta alla temperatura dell’ospite. Quindi, allo scopo di valutare i cambiamenti dell’espressione genica indotti dalla variazione di temperatura, in questo studio è stata ottenuta la prima mappa bidimensionale del ceppo clinico di S. maltophilia K279a (Sanger Institute) su cui è stata effettuata l’analisi del proteoma alle temperature di 26°C e 37°C. Le proteine, estratte dalle brodocolture cresciute alle diverse temperature sono state solubilizzate e sottoposte ad elettroforesi mediante isoelettrofocalizzazione e SDS-PAGE. Dai gel 2-DE, dopo colorazione con Coomassie colloidale ed analisi mediante il software PD-QUEST, sono stati escissi gli spot proteici di interesse (119 spot differenzialmente espressi, 13 espressi solo a 37°C, 17 solo a 26°C) che sono stati successivamente tripsinizzati per permetterne l’analisi mediante spettrometria di massa MALDI-TOF. Per l’identificazione delle proteine totali e di quelle espresse alle due diverse temperature di crescita, il “fingerprint” della massa peptidica ottenuta è stato confrontato con quelli presenti nelle banche dati di MASCOT. L’analisi comparativa del proteoma di S. maltophilia riveste fondamentale importanza per far luce sull’interazione ospitemicrorganismo ed, in particolare, per identificare geni di virulenza quali potenziali bersagli per nuove terapie antimicrobiche. “Progetto finanziato dalla Fondazione Ricerca Fibrosi Cistica con l’adozione della Famiglia Pizzinato”. PARASSITOSI MULTIPLA IN PAZIENTE NIGERIANA GRAVIDA. Masucci. L.1, Graffeo R.1, Damiano F.2, Pinnetti C.2, Federico G.2 e Fadda G.1 1 Istituto di Microbiologia, 2 Istituto di Clinica delle malattie infettive Università Cattolica del Sacro Cuore - Policlinico “A. Gemelli” - Roma La malaria è tutt’oggi una malattia significativamente presente a livello mondiale anche per la mortalità di cui è causa, da 1.5 a 2.7 milioni di decessi ogni anno. Un tempo endemica in molti paesi occidentali, tra cui l’Italia, è ora confinata in paesi tropicali e sub-tropicali, laddove vive oltre il 40% della popolazione mondiale. L’alta morbosità e mortalità, dovute all’infezione del genere Plasmodium in queste popolazioni, possono essere largamente attribuite alle scarse condizioni socio-economiche. Le categorie ad alto rischio sono rappresentate da: bambini, donne in gravidanza e viaggiatori frequenti. Il caso clinico qui descritto, riguarda una paziente Nigeriana di 34 anni, alla 37° settimana di gravidanza, che presentava sintomi clinici di sospetta malaria. L’indagine di Laboratorio, condotta su campione di sangue intero, era comprensiva di esame microscopico dello striscio di sangue previa colorazione Giemsa, ricerca della lattico deidrogenasi prodotta dal Plasmodio (pLDH) e di una Polymerase Chain Reaction (PCR), da noi modificata. Tale metodica ha evidenziato la presenza sia di Plasmodium falciparum che di Plasmodium vivax. La paziente inoltre presentava parassitosi vaginale da Trichomonas vaginalis e parassitosi intestinale da Blastocystis hominis forma vacuolare. Anche se già all’indagine microscopica dello striscio di sangue era presente il sospetto di una doppia infezione, con questo caso clinico possiamo confermare l’importanza della metodica molecolare nella diagnosi di malaria, soprattutto nei casi di bassa parassitemia e/o infezione mista. SOCIETÀ ITALIANA DI MICROBIOLOGIA 55 34° Congresso 06 5-10-2006 11:35 Pagina 56 ISOLAMENTO E CARATTERIZZAZIONE MOLECOLARE DI ADENOVIRUS DA CAMPIONI CLINICI Stefania Manzara1, M. Sali1, G. La Rosa2, M. Iaconelli2, A. Di Grazia2, S. Fontana2, A. Siddu1, T. Lopizzo1, P. Cattani, G. Fadda1, M. Muscillo2 1Istituto di Microbiologia, Università Cattolica del Sacro Cuore, Roma 2Istituto Superiore di Sanità, Dipartimento Ambiente e Connessa Prevenzione Primaria, Roma Gli Adenovirus umani (HadV), famiglia Adenoviridae, sono responsabili di un ampio spettro di forme cliniche che, sebbene nella maggior parte dei casi si risolvano spontaneamente, possono dare forme assai gravi o letali nei bambini e nei pazienti immunocompromessi. Gli HadV sono classificati in sei sottogruppi (da A a F) sulla base delle loro caratteristiche biologiche, dell’omologia della sequenza nucleotidica e delle proprietà delle proteine delle fibre. Circa 47 sierotipi differenti sono stati isolati nell’uomo. Alcuni specifici sierotipi sono stati associati alle forme più severe ed una rapida identificazione di particolari ceppi virulenti può essere di particolare utilità nella prevenzione e nel controllo della patologia da Adenovirus. Esistono scarse informazioni sulla epidemiologia delle infezioni da Adenovirus in Italia e sulla distribuzione dei sierotipi circolanti. In questo studio sono stati analizzati 103 ceppi virali isolati da campioni clinici di pazienti ricoverati presso il Policlinico A. Gemelli (Università Cattolica del Sacro Cuore) di Roma. Tutti i campioni (tamponi faringei, feci, urine, liquor, biopsie intestinali) sono stati inoculati in colture cellulari (HEp-2 e Vero) e la conferma del virus isolato è stata fatta mediante immunofluorescenza diretta. Ciascun isolato è stato quindi studiato mediante amplificazione ed analisi della sequenza di porzioni della regione genica dell’esone. L’analisi filogenetica ha permesso di identificare 9 differenti sierotipi appartenenti alle sei specie di HadV: il sierotipo 2 (53,4%) e il sierotipo 1 (15,6%) della specie C sono risultati i più frequenti, seguiti dal sierotipo 41 (9,7%) della specie F. Una minore prevalenza è stata osservata per i sierotipi 6 (HAdV-C), 7 (HAdV-B), 31 (HAdV-A), 3 (HAdV-B), 37 (HAdV-D), e 4 (HAdV-E). I risultati ottenuti mostrano l’importanza di una indagine di tipo molecolare per la ricerca di Adenovirus. Infatti, la maggiore sensibilità e specificità delle metodiche di amplificazione permetterebbero indagini più accurate su quei materiali biologici scarsi o con cariche virali estremamente basse, mentre la caratterizzazione genotipica di sierotipi di importanza clinica o l’individuazione di nuovi sierotipi o varianti genetiche risulta fondamentale per uno studio epidemiologico delle infezioni da Adenovirus. VALUTAZIONE DELL’EFFICACIA DELLA REAL-TIME PCR E DELLA RICERCA DI ANTIGENI VIRALI (PP65), NELLA DIAGNOSI DI INFEZIONE ATTIVA DA CYTOMEGALOVIRUS IN PAZIENTI IMMUNOCOMPROMESSI Simona Marchetti, R. Graffeo, S. Manzara, R. Santangelo, A. Siddu, P Cattani, G Fadda. Istituto di Microbiologia, Università Cattolica del Sacro Cuore, Roma Il Cytomegalovirus (CMV) è in grado di stabilire infezioni persistenti, nelle quali lo stato di latenza può essere interrotto da riattivazioni del ciclo replicativo virale. In particolare, la fase attiva dell’infezione può rappresentare un’importante causa di morbilità e mortalità, soprattutto in pazienti immunocompromessi. Lo scopo di questo studio è stato quello di confrontare e valutare l’efficacia di due metodiche diagnostiche, la real-time PCR e la ricerca di antigeni virali (pp65) nel monitoraggio di pazienti immunocompromessi, al fine di diagnosticare un’infezione attiva da CMV, e fornire indicazioni utili per una corretta terapia. Nel presente lavoro è stato condotto uno studio retrospettivo su 478 pazienti ricoverati presso i reparti di Ematologia e Trapianti d’Organo del Policlinico Universitario “A. Gemelli“ dell’ Università Cattolica del Sacro Cuore di Roma, negli anni 2004-2006. Di tutti i campioni di sangue analizzati, il 26% è risultato positivo per la ricerca del DNA virale e il 4,8 % per la ricerca degli antigeni virali (pp65). Tutti i prelievi esaminati mediante real time sono risultati amplificabili, mentre circa il 20% dei prelievi analizzati con l’antigenemia, è risultato non idoneo per l’esame, causa il numero insufficiente di polimorfonucleati (PBMC). Nel 55% dei pazienti studiati, i campioni sono stati analizzati sia per la determinazione della carica virale, che per la ricerca degli antigeni virali (pp65). Il 5,4 % dei campioni è risultato positivo con entrambe le metodiche, il 71,6% negativo per entrambi gli esami, mentre nel 23% dei casi si è ottenuto un risultato discordante, con una positività della real-time PCR del 22,2% e dell’antigenemia dello 0,6%. Nei pazienti immunocompromessi, per i quali è stato possibile analizzare più campioni, la real-time PCR si è mostrata estremamente efficace e significativa per la determinazione della carica virale e della presenza quindi, di una infezione attiva. In conclusione la real-time PCR ha mostrato una maggiore applicabilità rispetto all’antigenemia, non essendo quest’ultima sempre eseguibile in campioni di pazienti immunocompromessi per lo scarso numero di polimorfonucleati. 56 34° CONGRESSO NAZIONALE DELLA S A 34° Congresso 06 5-10-2006 11:35 Pagina 57 RIDUZIONE DELLA PREVALENZA DELLA FARMACO-RESISTENZA DI HIV IN PAZIENTI IN HAART Rosaria Santangelo1, M. Sali1, A. De Luca2, S. Di Giambenedetto2, S. Marchetti1, R. Ricci1, P. Cattani1, R. Cauda2, G. Fadda1. Istituti di 1Microbiologia e 2Clinica delle Malattie Infettiva, Università Cattolica del Sacro Cuore, Roma La comparsa di ceppi di HIV resistenti ai farmaci è una delle cause di fallimento della terapia antiretrovirale. Per individuare nuove strategie terapeutiche è fondamentale la conoscenza del genotipo della resistenza virale. In questo lavoro è stata fatta un’analisi retrospettiva della prevalenza della farmaco-resistenza, delle sue caratteristiche e della sua evoluzione nell’arco di 7 anni (1999-2005) utilizzando una coorte di pazienti con infezione da HIV afferenti alla Clinica di Malattie Infettive dell’UCSC. A tale scopo è stato selezionato l’ultimo genotipo disponibile di ciascun paziente per anno. Come numeratori sono stati usati (a) il numero delle mutazioni che determinano farmaco resistenza definite dall’IAS e (b) il numero stimato di pazienti con isolati farmaco resistenti presenti nell’intera popolazione trattata. Come denominatori sono stati usati (a) i pazienti testati e (b) la popolazione trattata. La carica virale è stata saggiata sui sieri dei pazienti mediante System 340bDNA analyzer (Bayer Health Care). Le mutazioni, che determinano la resistenza ai farmaci, presenti nell’intero gene della proteasi e nei due terzi del gene della RT, sono state individuate utilizzando il metodo di genotipizzazione HIV-1 Viroseq (Abbott) e il software in dotazione (HIV1 genotyping system software v2.6). La popolazione dei pazienti trattati è aumentata passando da 494 soggetti nel 1999 a 1429 nel 2005. La proporzione di pazienti con mutazioni definite dall’IAS associate a NRTI-DR, NNRTI-DR e PI-DR maggiori e passata rispettivamente da 89.3%, 33.6% e 63.9% nel 1999 a 47.4%, 10.3% e 23.1% nel 2005 (p tutti <0.001). Nella popolazione trattata, la prevalenza di pazienti viremici con resistenze a NRTI, NNRTI e PI è passata rispettivamente da 53.0%, 20.2% e 38.1% nel 1999 a 5.3%, 1.1% e 2.6% nel 2005 (p tutti <0.001). La proporzione delle mutazioni che determinano farmaco resistenza alle 3 classi di farmaci è passata dal 21.3% nel 1999 al 3.8% nel 2005 (p<0.001) nella popolazione saggiata e dal 12.7% nel 1999 allo 0.4% nel 2005 (p<0.001) nella popolazione trattata. L’analisi dei risultati ottenuti evidenzia che c’è stata negli ultimi anni una riduzione statisticamente significativa della farmacoresistenza per tutte le classi di farmaci antiretrovirali. Inoltre, i dati ottenuti rappresentano un ulteriore contributo all’utilizzo del sequenziamento genico mirato allo scopo di ritardare e/o impedire lo sviluppo di multifarmacoresistenza. MENINGITE E BATTERIEMIA CAUSATE DA “SMALL COLONY VARIANTS” DI STAPHYLOCOCCUS EPIDERMIDIS Teresa Spanu1, Tiziana D’Inzeo1, Luca Masucci1, Barbara Fiori1, Fiammetta Leone1, Michela Sali1, Giovanni Sabatino2, Angelo Pompucci2, Maurizio Sanguinetti1, Giovanni Fadda1 1Istituto di Microbiologia, 2Dipartimento di Neurochirurgia, Università Cattolica del Sacro Cuore, Roma Le“small coloy variants” (SCV) di Staphylococcus spp. sono responsabili di infezioni persistenti, e ricorrenti scarsamente responsive alla terapia antimicrobica. Una importante caratteristica di queste sottopopolazioni stafilococciche è costituita dalla difficoltà di una accurata identificazione a livello di specie con i metodi fenotipici commerciali, spesso utilizzati in laboratorio. In questo studio viene descritto il primo caso di un uomo, portatore di una derivazione liquorale ventricolo-atriale (V-A), affetto da ricorrenti episodi di meningite e batteriemia causati da SCVs di S. epidermidis. SOCIETÀ ITALIANA DI MICROBIOLOGIA 57 34° Congresso 06 5-10-2006 11:35 Pagina 58 STUDIO EPIDEMIOLOGICO DI AEROCONTAMINAZIONE DA ASPERGILLUS SPP. IN UN REPARTO EMATOLOGICO OSPEDALIERO M. Cavallo1, S. Andreoni2, M. Rinaldi1, M.G. Martinotti1 1DiSCAFF, Università degli Studi del Piemonte Orientale “A. Avogadro” (Novara) 2Azienda Ospedaliera “Maggiore della Carità” (Novara) Negli ultimi anni, il controllo dei livelli di contaminazione microbica in ambiente ospedaliero ha assunto un ruolo di primaria importanza, in particolare per quelle infezioni nosocomiali per le quali è stata ipotizzata una via di trasmissione aerea, come le aspergillosi. I funghi appartenenti al genere Aspergillus sono infatti ubiquitari e le loro spore, aerodiffuse nell’ambiente, possono causare infezioni disseminate o localizzate soprattutto in pazienti immunodepressi ospedalizzati. Scopo della presente ricerca è stato quello valutare l’incidenza stagionale e la distribuzione ambientale di specie fungine in genere e in particolare di Aspergillus spp. presso il reparto di Clinica Medica Generale dell’Ospedale “Maggiore della Carità” di Novara e di eseguire una analisi epidemiologica su ceppi di A. fumigatus di isolamento sia ambientale che clinico. Il monitoraggio aerobiologico, effettuato attraverso un campionatore ad impatto SAS Super 180, è stato condotto per un periodo di 18 mesi in quattro stanze di degenza, prive di sistemi di conduzione e filtrazione dell’aria, ospitanti pazienti immunodepressi, nei rispettivi bagni, in quattro punti nel corridoio della corsia posti di fronte l’ingresso delle stanze e in tre postazioni all’esterno dell’edificio. L’analisi epidemiologica è stata condotta su isolati di A. fumigatus utilizzando il metodo RAPD-PCR. Durante il periodo di monitoraggio aerobiologico, la concentrazione di spore fungine è risultata più elevata in estate e in autunno che in inverno e primavera. Il conteggio totale fungino è stato significativamente più elevato nei siti esterni rispetto a quelli interni. I valori medi rilevati nelle stanze e nel corridoio non sono risultati significativamente differenti in tutte le stagioni. Concentrazioni medie totali di Aspergillus spp. superiori a 5 CFU/m3 sono state rilevate all’interno di una stanza e in due bagni. Le specie di Aspergillus più frequentemente rilevate nel reparto sono state A. fumigatus (44.7%), A. niger (16.1%) e A. flavus (8.1%). L’analisi epidemiologica tramite RAPD-PCR su ceppi di A. fumigatus di origine ambientale ha indicato, nella maggior parte dei casi, la presenza di profili distinti, rendendo difficile l’individuazione di sorgenti comuni. Non è stata evidenziata una correlazione genetica tra ceppi di A. fumigatus di isolamento clinico e ceppi di origine ambientale. Lavoro eseguito con fondi “Progetto di Ricerca Sanitaria Finalizzata e Applicata 2003” della Regione Piemonte. L’INFLUENZA IN UMBRIA NELL’INVERNO 2005/06 Iorio AM*, Camilloni B.*, Neri M.*, Lepri E.*, la Regione dell’Umbria e i Medici Sentinella *Dip. Sp. Med. Chir. e Sanità Pubblica, Università di Perugia Nell’inverno 2005/06 gli studi condotti in Umbria nell’ambito del progetto nazionale di controllo delle infezioni da virus influenzale hanno preso in considerazione: 1) Immunogenicità ed efficacia protettiva del vaccino influenzale negli anziani: allo studio hanno partecipato 105 soggetti anziani residenti in case di riposo, 40 sono stati vaccinati con vaccino split (Isigrip Zonale, Kedrion) e 65 con vaccino adiuvato (Fluad, Chiron). La risposta immunitaria indotta dal vaccino è stata determinata valutando gli anticorpi inibenti l’emoagglutinazione. Nella maggior parte dei casi non sono state trovate differenze significative fra i due vaccini, anche se si è evidenziata una tendenza a indurre risposte migliori da parte del vaccino adiuvato nei confronti degli antigeni A/H3N2 e B. La vaccinazione ha per lo più determinato incrementi significativi dei titoli anticorpali, ma non sempre sono stati soddisfatti i criteri fissati dalla Commissione Europea per i vaccini negli anziani. La ricerca di infezioni influenzali accertate su base sierologica (presenza di incrementi significativi nei titoli anticorpali nei sieri prelevati 1 e 5 mesi dopo il vaccino) ha dato risultati negativi. 2) Incidenza delle sindromi influenzali: le sindromi influenzali, rilevate clinicamente dai medici sentinella nei mesi invernali nei soggetti residenti in Umbria, hanno evidenziato una scarsa presenza di sintomatologie influenzali con una più elevata incidenza a livello delle prime fasce di età, soprattutto nell’ultima parte della stagione invernale. 3) Circolazione dei virus influenzali: dei 28 campioni pervenuti al laboratorio, 8 sono risultati positivi per presenza di virus influenzali (6 virus di tipo B e 2 di tipo A/H1N1). I virus di tipo A/H1N1 sono risultati antigenicamente correlati al ceppo vaccinale, quelli di tipo B distinguibili dal ceppo vaccinale e omologhi alla variante B/Malaysia/2506/04. Tutti i campioni positivi sono stati prelevati nella fase tardiva della stagione (fra il 15 marzo e il 19 Maggio 2006) da soggetti giovani/adulti e mai da soggetti anziani. CONCLUSIONI: pur non avendo la vaccinazione antinfluenzale di soggetti anziani residenti in case di riposo in Umbria dato risultati del tutto soddisfacenti, essa è stata in grado di conferire resistenza alle infezioni nell’inverno 2005/06, caratterizzato da una attività influenzale piuttosto limitata e tardiva, ma con presenza di virus influenzali B antigenicamente distinguibili dal ceppo vaccinale. 58 34° CONGRESSO NAZIONALE DELLA S A 34° Congresso 06 5-10-2006 11:35 Pagina 59 VALUTAZIONE COMPARATIVA DI ALCUNI TEST SIEROLOGICI NELLA DIAGNOSI DI SIFILIDE B. Pavone, M. Calapai, A. Arena e D. Iannello. Unità Operativa Complessa di Microbiologia, Azienda Ospedaliera Universitaria Policlinico G. Martino, Messina. Negli ultimi anni, si è verificato in numerosi paesi, nonché in Italia, un notevole incremento nei casi di sifilide. In considerazione dell’aumento di richieste per le relative indagini sierologiche, pervenute presso questa UOC, e dell’aumento di risultati positivi osservati negli ultimi anni, si è intrapreso uno studio retrospettivo dei risultati ottenuti con diverse metodiche. Si sono valutati comparativamente alcuni test sierologici impiegati nella diagnosi di sifilide: RPR, TPHA, ELISA (test di screening per la ricerca di anticorpi anti Treponema e test per le corrispondenti IgG ed IgM) e Western Blot per IgG e IgM. Il primo, RPR, è un test di screening basato sul rilievo di reagine nei confronti di cardiolipina, e quindi poco specifico. Il TPHA e l’ELISA rilevano anticorpi diretti verso proteine del Treponema; il Western blot è un test di conferma che permette di dimostrare nel siero anticorpi diretti verso le proteine 47, 17 e 15,5 del Treponema. I diversi test impiegati come screening (RPR,TPHA, ELISA) hanno dato risultati sovrapponibili in caso di negatività Si è inoltre osservata una correlazione del 90% tra TPHA ed ELISA screening in caso di positività. Tuttavia, si è osservata in una percentuale minore di sieri una correlazione tra la positività nei test precedenti e nei test ELISA per IgG e/o IgM anti Treponema. Inoltre, alcuni sieri, positivi nei test di screening ma negativi nel test ELISA per IgG e/o IgM, sono invece risultati positivi nel Western Blot. I dati riportati confermano l’importanza dell’impiego di numerosi test diagnostici nella diagnosi sierologica della sifilide. RISPOSTA DIFFERENZIALE DELLA CELLULA DI MICROGLIA AD ISOLATI CLINICI DI CANDIDA ALBICANS CON DIFFERENTE GENOTIPO Rachele Neglia*, Bruna Colombari*, Samuele Peppoloni*, Carlotta Orsi*, Arianna Tavanti°, Sonia Senesi°, Elisabetta Blasi* *Dipartimento di Scienze di Sanità Pubblica, Università di Modena e Reggio Emilia °Dipartimento di Biologia, Università di Pisa Introduzione: Candida albicans è un importante patogeno opportunista. L’insorgenza e la gravità dell’infezione nell’ospite suscettibile sono il risultato di complesse interazioni tra meccanismi di virulenza del fungo e sistema immune dell’ospite: neutrofili e fagociti mononucleati sono responsabili della clearance del patogeno attraverso la fagocitosi, mentre la loro attività secretoria avvia e polarizza la risposta adattativa. Il genotipo del ceppo infettante risulta influenzare la reattività anti-Candida in vitro di macrofagi umani non circolanti (1), mentre è da definire il suo ruolo nei riguardi di cellule effettrici tissutali, quali la microglia, fagocita residente del SNC, cruciale nel controllo della meningoencefalite sperimentale da C. albicans (2). Materiali e metodi: Cellule microgliali, linea murina BV2 (2), sono state esposte ad isolati clinici di C. albicans, di genotipo b e c, noti per il diverso comportamento in monociti umani (1), e quindi valutate per a) suscettibilità all’infezione (attività di fagocitosi e killing/ internalizzazione e sopravvivenza del fungo) mediante osservazione di citopreparati e saggi di inibizione delle unità formanti colonia, b) risposta secretoria mediante dosaggio (ELISA) di fattori solubili e c) attivazione del fattore nucleare NF-kB (ELISA). Risultati: Gli isolati di genotipo b e c, del tutto simili nella sensibilità alla fagocitosi operata da cellule microgliali e nella capacità di transizione dimorfica; presentano tuttavia differenze di sopravvivenza intracellulare, in particolare solo il ceppo di genotipo c si moltiplica all’interno delle cellule microgliali. Le cellule BV2 rispondono all’infezione, in modo significativamente più elevato verso il genotipo c, con l’attivazione del NF-kB e con rilevabile produzione di Mip1α. Conclusioni. Questi risultati indicano che l’interazione fra C. albicans e microglia è strettamente dipendente dal genotipo fungino e suggeriscono l’impiego della genotipizzazione degli isolati clinici come parametro prognostico nelle infezioni da C. albicans. Studio parzialmente finanziato dal MIUR-PRIN, (n. 2005068754_003). (1) A. Tavanti, D. Campa, A. Besozzi, G. Pardini, J.R. Naglik, R. Barale, S. Senesi (2006). Microbes and Infection, 8: 791-800. (2) E. Blasi , R. Mazzolla , R. Barluzzi R. , P. Mosci, A. Batoli, F. Bistoni (1991) J Neuroimmunol , 32:249–57 SOCIETÀ ITALIANA DI MICROBIOLOGIA 59 34° Congresso 06 5-10-2006 11:35 Pagina 60 BIOFILM MICROBICI COME SISTEMA DINAMICO IN RISPOSTA ALLO STRESS AMBIENTALE. APPROCCI INNOVATIVI NELLA PREVENZIONE E FORMULAZIONE DI NUOVE STRATEGIE TERAPEUTICHE INTEGRATE aL. Cellini,aR. Piccolomini,bM. Prenna,cC. Passariello a Dip. Scienze Biomediche, Università “G. d’Annunzio”- Chieti-Pescara-Unità 1-2 bDip. Biologia Molecolare, Cellulare e Animale-Università di Camerino-Camerino-Unità 3 cDip. Scienze di Sanita’ Pubblica “G. Sanarelli” Università “La Sapienza”-Roma-Unità 4 Il Biofilm è una comunità complessa di cellule batteriche racchiuse in una matrice polimerica autoprodotta ed adesa a superfici biotiche ed abiotiche. Il Biofilm può essere considerato l’espressione di una forma ancestrale di adattamento all’ambiente che si sviluppa come possibile strategia di sopravvivenza allo stress. Acquisire nuove conoscenze sui meccanismi che modulano la costituzione di tali consorzi microbici ed individuare nuove strategie finalizzate ad una adeguata sorveglianza clinica, costituisce l’obiettivo in cui si inquadra la ricerca svolta dalle Unità Operative afferenti al Programma di Ricerca Scientifica di Rilevante Interesse Nazionale PRIN 2005 dal titolo sopra indicato. Verranno riportati i risultati più significativi relativi al primo anno di studio ottenuti dalle 4 Unità afferenti al programma di Ricerca. Unità 1 “Biofilm di Helicobacter pylori: dinamica di formazione, caratterizzazione della matrice esopolisaccaridica e individuazione di sistemi innovativi per l’eradicazione” Attraverso esame molecolare (RT-PCR del gene glmM e luxS) ed ultrastrutturale è stata dimostrata la capacità di H.pylori di formare Biofilm ex vivo su biopsia gastrica. Unità 2 “Produzione di Biofilm da parte di Trichosporon asahii: sviluppo, struttura e controllo biologico mediante chemioterapici” T.asahii colonizza il polistirene producendo un Biofilm altamente resistente agli antifungini che potrebbe render conto della cronicizzazione e dell’elevata mortalità associate all’infezione. Unità 3 “Meccanismi di antibiotico resistenza in Biofilm di Staphylococcus epidermidis e S.aureus” Sono riportati dati sull’effetto della vancomicina su Biofilm prodotto da Stafilococchi e l’azione sinergica di sostanze capaci di influenzare la produzione di slime. Unità 4 “Studio della rilevanza di meccanismi di adesività ed invasività e della presenza di agenti infettanti multipli nella patogenesi di infezioni opportunistiche e sviluppo di potenziali strategie di inibizione” Modelli sperimentali di studio hanno evidenziato diversi meccanismi di cooperazione fra virus respiratori (Influenza A e Rhinovirus) e alcuni patogeni opportunisti (S.aureus e C.albicans) del tratto respiratorio inferiore. L’interazione cooperativa Rhinovirus-S.aureus è stata caratterizzata a livello molecolare. IDENTIFICAZIONE DI NUOVI ANTIGENI PROTEICI DI STREPTOCOCCUS PNEUMONIAE MEDIANTE SCREENING DI UNA LIBRERIA GENOMICA λ-DISPLAY S. Peppoloni1, E. Beghetto2, N. Gargano2, S. Ricci3, G. Garufi4, F. Montagnani3, M. Oggioni3, G. Pozzi3 e F. Felici2,4 1Dipartimento di Scienze di Sanità Pubblica, Università degli Studi di Modena e Reggio Emilia, Modena; 2Kenton Srl, Pomezia, Roma; 3Dipartimento di Biologia Molecolare, Università degli Studi di Siena; 4 Dipartimento di Microbiologia, Genetica e Biologia Molecolare, Università degli Studi di Messina. Streptococcus pneumoniae è un batterio Gram+ che causa otite media, polmonite, meningite e sepsi nell’uomo. Per lo sviluppo di un vaccino efficace in grado di prevenire le malattie sostenute da pneumococco è necessario caratterizzare gli antigeni batterici coinvolti nella risposta immunitaria dell’ospite. Allo scopo di identificare proteine di pneumococco riconosciute dalla risposta anticorpale dell’ospite, abbiamo costruito una libreria genomica dal ceppo D39 di S. pneumoniae, espressa sul capside del batteriofago λ. Lo screening di questa libreria con sieri di individui infettati o di topi immunizzati con il ceppo D39 ha permesso l’identificazione di cloni fagici che portano diversi epitopi B pneumococcici. Sono stati identificati infatti frammenti proteici contenenti epitopi all’interno di antigeni della famiglia delle proteine della triade delle istidine (PhtE, PhtD), delle proteine leganti la colina (PspA, CbpD) e della zinco metalloproteasi B (ZmpB). Questo screening ha permesso inoltre l’isolamento di cloni che portano tre distinte regioni antigeniche appartenenti ad una ipotetica proteina, codificata dalla ORF spr0075 del ceppo R6. In questo studio è stata descritta per la prima volta la proteina pneumococcica Spr0075, con proprietà antigeniche espresse durante le infezioni da S. pneumoniae. Sono in corso indagini per la caratterizzazione immunobiologica di questo antigene proteico. Progetto cofinanziato dal MIUR-PRIN2005. 60 34° CONGRESSO NAZIONALE DELLA S A 34° Congresso 06 5-10-2006 11:35 Pagina 61 ADESIONE ALLA CHITINA DI VIBRIONI ISOLATI NEL MAR LIGURE B. Repetto1, A. Schito2, E. Debbia2, L. Pane1, G.C. Schito2, C. Pruzzo1. Dipartimento di Biologia1 e DiSCAT Sezione di Microbiologia2, Università di Genova. I vibrioni sono microrganismi indigeni dell’ambiente acquatico la cui sopravvivenza nel mare è facilitata dalla capacità di formare biofilm su diversi substrati biotici e abiotici. In particolare, questi batteri aderiscono efficientemente a superfici contenenti chitina mediante proteine di superficie (chitin binding proteins, cbp) che interagiscono con residui di N-acetil glucosamina (Nag), il monomero costituente la chitina. Recentemente è stato dimostrato nel nostro laboratorio (Zampini et al., 2005, FEMS Microbiol. Lett. 244:267-73.) e successivamente confermato da altri (Kirn et al. 2005, Nature 438:863-6) che queste proteine sono anche implicate nell’adesione di V. cholerae a cellule intestinali in coltura. Questi risultati hanno evidenziato l’esistenza di uno stretto legame tra la persistenza nell’ambiente di batteri potenzialmente patogeni e la loro capacità di infettare l’uomo, sostenendo l’ipotesi che la capacità di utilizzare ligandi multivalenti potrebbe rappresentare una caratteristica discriminante tra i ceppi ambientali patogeni e quelli innocui. In questo lavoro, abbiamo analizzato le interazioni con particelle di chitina e con cellule intestinali in coltura (“Intestine 407”, ATCC CCL 6) di ceppi appartenenti a specie ambientali del genere Vibrio (V. nereis, V. anguillarum, V. splendidus e V. alginolyticus) isolati nel Mar Ligure nel corso di diversi campionamenti. Tutti i ceppi esaminati si sono mostrati in grado di aderire a particelle di chitina sebbene con diverse efficienze. L’analisi delle capacità adesive nei confronti dei monostrati cellulari ha messo in evidenza che i ceppi con maggiore capacità di interagire con le particelle di chitina (appartenenti alla specie V. alginolyticus) sono anche in grado di aderire alle cellule intestinali in coltura. Una riduzione significativa dell’interazione con le cellule intestinali e le particelle di chitina è stata osservata in presenza di Nag. In tutti gli isolati sono state messe in evidenza cbp, in numero variabile da 1 a 5 e con PM compreso tra 15 e 80 kDa. Questi risultati suggeriscono che anche in V. algimolyticus siano presenti ligandi con la duplice funzione di mediare l’adesione a substrati presenti nell’ambiente e nell’uomo. BATTERIOFAGI DI VIBRIO ALGINOLYTICUS ISOLATI NEL MAR LIGURE B. Repetto1, L. Pane1, A. Schito2, C. Pruzzo1 e G.C. Schito2 Dipartimento di Biologia1, DiSCAT Sezione di Microbiologia2, Università di Genova E’ stato dimostrato che Vibrio cholerae acquisisce nelle acque la capacità di produrre enterotossina mediante almeno due fenomeni di conversione lisogena; questi eventi sarebbero responsabili della trasformazione di batteri ambientali innocui in stipiti potenzialmente patogeni per l’uomo. Fenomeni di trasferimento genico orizzontale non sono confinati a V. cholerae ma interessano tutti i membri del genere Vibrio che, nei diversi ambienti acquatici colonizzati, possono incontrare le condizioni favorevoli per fenomeni di ricombinazione mediati da batteriofagi e altri elementi genetici trasferibili. Vibrio alginolyticus è il vibrione più comune nelle nostre acque dove è presente in forma libera nella colonna d’acqua, all’interno dei bivalvi, adeso al plancton e alle superfici di altri animali acquatici. Per la sua ampia diffusione, questo microrganismo potrebbe svolgere il ruolo di ricevente e/o serbatoio di elementi genetici mobili ad ampio spettro, capaci di infettare batteri diversi e trasferire caratteristiche da una specie all’altra, partecipando all’evoluzione e selezione di ceppi patogeni nell’ambiente. Per verificare questa ipotesi, abbiamo dapprima studiato la presenza di batteriofagi capaci di infettare V. alginolyticus in campioni di plancton (n = 32) e sedimento (n = 22) raccolti nel Mar Ligure e risultati positivi per la presenza di vibrioni in forma coltivabile. I campioni sono stati saggiati sia nei confronti di ceppi di collezione che di ceppi di V. alginolyticus (n = 55) isolati dagli stessi materiali. Successivamente, è stato studiato lo stato lisogeno dei ceppi di V. alginolyticus in esame mediante valutazione della presenza di particelle virali nei sopranatanti di brodocolture incubate per 20 giorni a temperatura ambiente e/o irradiate con raggi UV. Tutti i campioni sono stati saggiati anche nei confronti di ceppi di Vibrio parahaemolyticus, Vibrio vulnificus e V. cholerae di collezione e ceppi isolati dagli stessi campioni di acqua e plancton. Quattro sopranatanti (Va13/1, Va38086, VaGe, VaGe2, Va57) hanno dato esito positivo con formazione di placche su V. alginolyticus e V. parahaemolyticus. Sono in corso esperimenti mirati a caratterizzare i virus in esame e valutarne la capacità di lisogenizzare e trasdurre geni tra i ceppi risultati sensibili. SOCIETÀ ITALIANA DI MICROBIOLOGIA 61 34° Congresso 06 5-10-2006 11:35 Pagina 62 STATO VITALE MA NON COLTIVABILE IN BATTERI COINVOLTI IN INFEZIONI URINARIE E PERITONEALI A. M. Schito1, B. Repetto2, G. Piatti1, E. Debbia1, C. Pruzzo1, G. Caburlotto3, M.M. Lleo3 DiSCAT1 e Dipartimento di Biologia2, Università di Genova Dipartimento di Patologia, Sezione di Microbiologia3, Università di Verona Le cellule vitali ma non coltivabili (VBNC) sono forme batteriche quiescenti di resistenza allo stress, incapaci di formare colonie sui terreni di coltura e in grado di “riattivarsi” al ritorno delle condizioni ambientali favorevoli, in presenza di stimoli adeguati (e.g., shock termico, aggiunta nutrienti, ecc). Di recente, è stato ipotizzato che le forme VBNC possano essere implicate in alcune patologie infettive ad eziologia non definita e nella eziologia e recrudescenza di infezioni caratterizzate dal fenomeno della ricorrenza. Allo scopo di verificare tale ipotesi, abbiamo iniziato uno studio, che fa parte di un progetto PRIN2005, volto a verificare il ruolo di forme VBNC nelle infezioni peritoneali di pazienti affetti da cirrosi epatica e nelle infezioni delle vie urinarie (UTI), risultate negative all’indagine colturale. Allo scopo di valutare la capacità di ceppi uropatogeni di E. coli di attivare in vitro lo stato VBNC, le cellule sono state raccolte in fase di crescita logaritmica e diluite in soluzione salina, in urina sintetica e in urina raccolta da volontari sani, e filtrata. Gli esperimenti sono stati condotti anche in presenza di concentrazioni subMIC di ciprofloxacina e fosfomicina. A intervalli regolari, è stato valutato il numero delle unità formanti colonia e il numero delle cellule vitali mediante “Live/Dead BacLIGHT viability staining”. Cellule non coltivabili ma vitali sono state osservate a partire da due settimane circa di incubazione a 4°C, in tutte le condizioni sperimentali. I batteri VBNC hanno mostrato di mantenere i geni di virulenza e, in forma ridotta, le caratteristiche adesive. Per quanto riguarda gli studi condotti sulle infezioni in pazienti affetti da cirrosi epatica, 25 campioni di liquido ascitico negativi all’esame colturale sono stati analizzati mediante PCR per la ricerca di DNA batterico utilizzando una coppia di primer universali. DNA batterico è stato rilevato in 5 campioni; in un caso il DNA è stato identificato come appartenente a E. coli e in 2 come appartenente a E. faecalis. La presenza di DNA di batteri della flora fecale in campioni negativi all’esame colturale suggerisce il possibile coinvolgimento di forme VBNC nei pazienti esaminati. PRESENCE OF INFECTIOUS AGENTS IN PATIENTS WITH CORONARY AND CAROTID ARTERY ATHEROSCLEROTIC DISEASE Cocuzza C.1, Broccolo F1., Musumeci R.1, Formica F2., Careddu A.M. 1, Giuliano A1., Gatto F1., Cassina G1., Paolini G2., Parati G1 1Department of Clinical Medicine and Prevention, 2Department of Surgical Sciences University of Milano-Bicocca, Italy Background. During the last decades, numerous clinical and epidemiologic studies have explored the possible direct or indirect role of infectious agents in the pathogenesis of atherosclerosis. The infectious agents that have in recent years gained considerable interest as potential pathogens in the development atherosclerosis include: Chlamydophila pneumoniae, herpesviruses (particularly cytomegalovirus) and periodontal pathogens (such as Porphynomonas gingivalis). The high prevalence of infection by some of these pathogens in the human population has represented a major drawback in interpreting results of serological studies. More recently newer diagnostic methods, such as Real-Time PCR, have been developed for the direct detection of infectious agents from atherosclerotic plaques; however few studies have applied these methods to analyse the presence of pathogens in plasma of atherosclerotic patients. Objective. To evaluate the presence of β herpesviruses (CMV, HHV-6 and HHV-7) and bacteria (C. pneumoniae and P. gingivalis) in patients with carotid or coronary artery atherosclerosis. Study design. DNA of these pathogens in plasma samples from patients with atherosclerotic carotid artery disease (ACaAD, n=28) and atherosclerotic coronary artery disease (ACoAD, n=24). Plasma specimens were also obtained from a group of patients with risk factors for atherosclerosis but without coronary and carotid arteries disease (negative for EcoColorDoppler, n=21) and healthy subjects (n=25). Multiple sections from atherosclerotic carotid and coronary arteries (n=18) were also analyzed. Results. The pathogens found with the highest frequency in plasma of patients with ACaAD were CMV (38%) and C. pneumoniae (25%); whilst in patients with ACoAD P. gingivalis (46%) was the most frequent. In particular infection/reactivation of CMV was significantly higher in patients affected from ACaAD as well as patients with risk factors for atherosclerosis compared to healthy subjects (9/24 [38%] vs. 0/25[0%]; 5/21 [24%] vs. 0/25[0%], respectively P<0.05) but not in patients affected from ACoAD (2/28 [7%] vs. 0/25[0%]). Moreover CMV was also detected in 13 (93%) of 14 atherosclerotic carotid arteries and in 0 of 4 atherosclerotic coronary arteries. HHV-7 and, to a lesser extent, HHV-6 were also found in the plasma of patients with atherosclerotic disease irrespective of the artery involved (11/52 [21%] and 4/52 [8%], respectively). Conclusions. The presence of the infectious agents studied (particularly CMV, P. gingivalis, C. pneumoniae) was demonstrated in both blood and plaques samples of patients with atherosclerotic disease. Interestingly, some of these pathogens showed differences in their association with either coronary or carotid artery atherosclerotic disease. 62 34° CONGRESSO NAZIONALE DELLA S A 34° Congresso 06 5-10-2006 11:35 Pagina 63 TIPRANAVIR: UN NUOVO INIBITORE DELLE PROTEASI NON PEPTIDICO POSSIEDE ATTIVITÀ ANTIFUNGINA Cenci E.1, Francisci D.2, Pierucci S.2, Belfiori B.1, Mencacci A.1, Baldelli F.2, Vecchiarelli A.1 1Dipartimento di Medicina Sperimentale e Scienze Biochimiche, Sezione di Microbiologia, Università di Perugia 2Clinica di Malattie Infettive, Università di Perugia, Ospedale “R. Silvestrini”, Sant’Andrea delle Fratte, Perugia. Tipranavir (TPV) è un nuovo inibitore non-peptidico delle proteasi (IP) che possiede attività contro HIV-1. Tale farmaco rappresenta un’efficace opzione terapeutica nei pazienti AIDS che hanno già sperimentato un trattamento antivirale poiché TPV sembra fornire una superiore riduzione del carico virale ed un maggior incremento della conta delle cellule CD4+ rispetto ad altri regimi terapeutici. Le interazioni del TPV con altri farmaci comunemente utilizzati nella pratica clinica nei pazienti HIV+ sono state ben definite e caratterizzate. TPV è un induttore del citocromo p450 e riduce la attività di altri IP, come Nevirapina e Efavirenz, con l’eccezione del Ritonavir. Per la sua struttura molecolare, il TPV è attivo anche contro ceppi di HIV altamente resistenti agli IP attualmente presenti in commercio. In uno studio pubblicato recentemente è stato visto che isolati virali altamente resistenti a Indinavir (IDV), Ritonavir, Nelfinavir o Saquinavir, erano completamente sensibili al Tipranavir. E’ noto ormai da tempo che gli IP hanno drasticamente ridotto l’insorgenza di infezioni opportunistiche in pazienti AIDS ed è stato visto che questo fenomeno non sempre era correlato al ripristino di alcune funzioni immunologiche. E’ stato anche pubblicato che alcuni inibitori delle proteasi sono direttamente attivi nei confronti di Candida albicans mediante l’inibizione della secrezione delle aspartyl proteinasi, che sono potenti fattori di virulenza in C. albicans. In un precedente lavoro abbiamo dimostrato che IDV ha un effetto diretto verso Cryptococcus neoformans. In questo studio abbiamo valutato la possibilità che TPV agisca direttamente contro C. neoformans e ne abbiamo valutato le similarità e le differenze rispetto a IDV. I risultati hanno mostrato che TPV: 1) inibisce la crescita di C. neoformans in maniera significativa e paragonabile a IDV; 2) inibisce la produzione di capsula in maniera minore rispetto ad IDV; 3) inibisce la produzione di proteasi in maniera simile ad IDV, ma differentemente da IDV inibisce l’attività delle fosfolipasi; 4) inoculato nell’animale riduce fortemente la crescita di C. neoformans nel cervello in maniera simile ad IDV. In conclusione, i nostri dati dimostrano che TPV presenta un’ attività antifungina diretta verso C. neoformans che per alcuni aspetti è dissimile da quella riscontrata per IDV. HBD-2 INDUCE PROLIFERAZIONE, MIGRAZIONE E FORMAZIONE DI TUBULI IN CELLULE HUVEC Paoletti I.1, Donnarumma G.1, Longanesi Cattani I.2, Tudisco L.1, Baroni A.3, Carriero M.V.2, Tufano M.A.1 1Dipartimento di Medicina Sperimentale, Sezione di Microbiologia, Seconda Università degli Studi di Napoli 2Istituto Nazionale per lo Studio e la Cura dei Tumori “Fondazione Pascale” 3Dipartimento di Psichiatria, Neuropsichiatria Infantile, Audiofoniatria e Dermatovenereologia, Seconda Università degli Studi di Napoli Le β−defensine sono peptidi antimicrobici cationici di 29-30 aminoacidi con sei residui di cisteina. Isolate per la prima volta nei granuli citoplasmatici dei neutrofili di mammifero e nelle cellule di Paneth dell’intestino tenue, esse sono espresse in diversi tipi di cellule epiteliali, cute compresa. È stato recentemente dimostrato che alcuni peptidi antimicrobici possiedono altre attività biologiche apparentemente non correlate alla loro azione antimicrobica come l’angiogenesi. L’angiogenesi è la formazione di nuovi vasi sanguigni a partire da quelli preesistenti ed è di fondamentale importanza sia in processi fisiologici che patologici. Scopo di questo progetto è stato quello di valutare se HBD-2 è capace di indurre proliferazione, migrazione e formazione di vasi in cellule endoteliali umane (HUVEC). A tale fine, cellule HUVEC sono state piastrate in multiwells da 96 e trattate con varie concentrazioni di HBD-2 e VEGF (Vascular endothelial growth factor) come controllo positivo. Dopo 72 h mediante saggio MTT, è stata valutata la proliferazione cellulare. Inoltre, utilizzando le camerette di Boyden è stata verificata la capacità dell’ HBD-2 di indurre migrazione cellulare. Infine, utilizzando il matrigel abbiamo verificato la capacità della defensina di indurre formazione di tubuli. I nostri risultati, indicano che HBD-2, alla concentrazione di 5µg/ml, stimola proliferazione di cellule endoteliali, paragonabile a quella indotta da VEGF; inoltre, alla concentrazione di 0.5 µg/ml induce migrazione ed ha attività tubulo-formativa. Sia la migrazione che l’attività tubulo-formativa, indotte da HBD-2, vengono inibite dall’aggiunta dell’endostatina, un noto inibitore dell’angiogenesi. In conclusione, i nostri dati indicano che HBD-2 è capace di indurre angiogenesi un processo essenziale nella difesa dell’ospite, nella guarigione delle ferite e nella riparazione dei tessuti. SOCIETÀ ITALIANA DI MICROBIOLOGIA 63 34° Congresso 06 5-10-2006 11:35 Pagina 64 STUDIO SULL’EFFETTO ANTIVIRALE DEL CHININO SOLFATO IN CELLULE HaCat INFETTATE CON HSV-1 Paoletti I., Sommese L., Paoletti I., Solla D., Ayala F., Corrado F., Orlando M., Tufano M.A. Dipartimento di Medicina Sperimentale, Sezione di Microbiologia e Microbiologia Clinica, Seconda Università degli Studi di Napoli I farmaci antimalarici, tra cui il chinino solfato (QS), sebbene utilizzati principalmente nel trattamento contro la malaria, sono adoperati anche in numerosi disturbi dermatologici, immunologici e reumatologici. Nel corso degli anni, numerosi studi hanno attribuito a tali farmaci proprietà antivirali ed antibatteriche. L’ herpes simplex virus di tipo 1 (HSV-1) è un importante patogeno, responsabile nell’uomo dell’insorgenza di varie manifestazioni cliniche. Scopo di questa ricerca è stato quello di investigare gli effetti del chinino solfato (QS) sulla moltiplicazione di HSV-1 in cheratinociti umani coltivati in vitro, utilizzando il saggio di riduzione placche. Inoltre, per comprendere il possibile meccanismo di azione antivirale, sono stati analizzati gli effetti di questo farmaco sulla regolazione dell’espressione di HSP-70, VP16 e ICP27 e sull’attivazione del fattore trascrizionale NF-kB. A tale fine, cheratinociti umani sono stati pretrattati con chinino solfato (10µM) per 24 h e poi infettati con HSV-1 (MOI 0.1) per 24 e 48 h. A questi tempi, sono state estratte le proteine totali e nucleari e mediante western blot, è stata analizzata la modulazione dell’ espressione di HSP-70, VP16, ICP27, IkB e NF-kB. I nostri risultati indicano che QS induce sia l’ espressione di Hsp-70 che delle proteine virali ICP-27 e VP16. Inoltre, il pretrattamento dei cheratinociti con il farmaco antimalarico stabilizza IkB con conseguente diminuzione dell’espressione di NF-kB nello stesso modello sperimentale. In conclusione, i nostri risultati suggeriscono che QS agisce inducendo un meccanismo di difesa cellulare, che coinvolge l’attivazione di heat shock proteins, e può interferire con molteplici eventi durante la replicazione virale. Inoltre l’inibizione di NFkB indotta da QS blocca l’espressione genica causando una considerevole riduzione della moltiplicazione virale. STAFILOCOCCHI METICILLINO RESISTENTI ISOLATI DA CAVALLI IN PUGLIA Marialaura Corrente 1, Marta Totaro 1, Rosa Monno 2, Grazia Greco1, Domenico Buonavoglia1. 1Dipartimento di Sanità e Benessere degli animali- Facoltà di Medicina Veterinaria Università degli Studi di Bari - Valenzano (BA) Italia 2 Dipartimento di Medicina Interna e salute pubblica Facoltà di Medicina, Università degli Studi di Bari. Gli stafilococchi coagulasi negativi (CNS) sono batteri patogeni opportunisti, spesso soggetti a fenomeni di antibiotico-resistenza. In ambito umano sono molto diffusi i ceppi meticillino-resistenti (MR). L’isolamento di MRCNS è riportato anche in campo veterinario, tuttavia il ruolo ezio-patogenetico di tali microorganismi non è stato ben definito. Il presente studio riporta i risultati relativi alla caratterizzazione di ceppi MRCNS isolati da cavalli da sella in Puglia. Un cavallo affetto da osteolisi a livello del 3° metacarpale è stato sottoposto ad intervento chirurgico. Dal frammento osseo asportato e da un tampone nasale effettuato per controllo dopo l’intervento sono stati isolati 2 ceppi di S. epidermidis risultati MR mediante PCR per il gene mecA e con le stesse caratteristiche fenotipiche e genotipiche: resistenti a acido nalidixico, eritromicina e cotrimossazolo, Non Tipizzabili (NT) mediante la multiplex PCR descritta da Oliveira et al (2002) specifica per la regione SCCmec, del sottotipo ccrB 2 e positivi alla PCR per i geni marker di virulenza icaA e IS256. Tamponi prelevati dalle narici dei cavalli sani ubicati nella scuderia (n=14) e dalle narici del personale (n=5) sono stati seminati su Mannitol Salt Agar (MSA) + oxacillina. Gli stafilococchi cresciuti su MSA sono stati identificati mediante api system, testati per la presenza di mecA ed per la sensibilità ad un pannello di antibiotici non beta-lattamici. Da 11 dei 14 cavalli sani sono stati isolati 14 differenti ceppi di CNS. Tre di questi erano del SCCmec tipo II, 1 del tipo I, 1 ceppo del tipo IV, 9 stipiti NT. Tutti i ceppi tranne 1 sono risultati resistenti ad almeno 2 classi di farmaci non beta-lattamici e di tipo ccrB 2. Nei tamponi di origine umana non sono stati isolati MRS. La presente nota è la prima segnalazione di MRCNS in cavalli in Italia. L’elevata prevalenza evidenziata sottolinea l’importanza del monitoraggio delle infezioni da MRS negli animali. Inoltre il riscontro di nuovi tipi SCCmec e del gene per la ricombinasi ccrB 2, che promuove il trasferimento della regione SCCmec, suffraga l’ipotesi che i ceppi equini possano rappresentare un “breeding round” di geni di resistenza potenzialmente trasferibili a stafilococchi di origine umana. 64 34° CONGRESSO NAZIONALE DELLA S A 34° Congresso 06 5-10-2006 11:35 Pagina 65 RIATTIVAZIONE DELL’INFEZIONE OCCULTA DA HBV NEL PAZIENTE IMMUNOCOMPROMESSO: STUDIO DELLA ETEROGENEITA’ VIRALE P. Pizzillo, D. Ferraro, A. Vultaggio, E. Iannitto*, R. Di Stefano Dip.di Igiene e Microbiologia, * Dip. di Oncologia, Sezione di Ematologia, Università di Palermo Background: La presenza di sequenze genomiche del virus dell’epatite B (HBV) nel fegato e/o nel sangue di soggetti HBsAg–vi definisce una infezione occulta, caratterizzata da forte soppressione della replicazione e della trascrizione virale. In soggetti con malattie linfoproliferative è possibile osservare, in corso di trattamento chemioterapico, una riattivazione da HBV simile ad una epatite acuta de novo. Obiettivi:Valutare in pazienti con malattie linfoproliferative e riattivazione dell’ infezione occulta, in seguito a trattamento immunosoppressivo, la variabilità genetica di HBV, al momento della riattivazione(T0) e dopo 2-11 mesi di trattamento con lamivudina (LAM)(T1). Pazienti e metodi: 5 pazienti, M/F 3/2, età media 44.2, genotipo D/A 4/1, in trattamento con LAM dopo riattivazione dell’infezione occulta, 3/2 Responder (R)/Non Responder (NR), sono stati selezionati per lo studio della eterogeneità virale della regione PreS/S di HBV. L’HBV-DNA è stato estratto e amplificato mediante una PCR one step da campioni sierici prelevati ai tempi T0 e T1. I prodotti PCR sono stati clonati mediante l’uso del vettore p-GEM T e il DNA plasmidico, estratto dalle colonie ricombinanti, è stato sottoposto a sequenziamento. Le sequenze nucleotidiche sono state allineate con CLUSTAL W 1.4. L’analisi filogenetica è stata eseguita con il software MEGA 3.0 con l’impiego del modello Kimura 2-parameter e l’algoritmo neighbour joining. Risultati e conclusioni:Gli alberi filogenetici a T0 e T1, costruiti in base al confronto delle sequenze di 10 cloni per ogni paziente, mostrano per 4 una aggregazione dei cloni con una differenza di lunghezza dei rami non significativa (diversità nucleotidica(d.n.) 0-1%, diversità aminoacidica(d.a.) 0-2.2%) mentre per uno si osserva a T0 un clone con una lunghezza del ramo maggiore rispetto agli altri (d.n. 7.5%, d.a. 63.7%), pur in presenza di una aggregazione dei cloni stessi, dovuta ad una inserzione nucleotidica. L’analisi della variabilità genetica, valutata in base al confronto dei cloni dei 3 pazienti R, ha evidenziato una d.n. di 0-3.4% e una d.a. di 0-6.4%, sia a T0 che a T1. Per i pazienti NR la d.n. a T0 e T1 è 0-2.6%, mentre la d.a. a T0 è 0-67% e a T1 è 0-3.4%. Tali dati dimostrano che la risposta al trattamento con LAM dei pazienti esaminati non è influenzata dalla variabilità genetica di HBV e che, sotto la pressione selettiva esercitata dal farmaco, non si osserva una diversificazione della quasispecie virale. BIORISANAMENTO DA PIOMBO MEDIANTE L’UTILIZZO DI SERRATIA MARCESCENS Pizzimenti F., Trombetta D., Cristani M., Spinzia C., *Barilà L., Marino M., Nostro A. Dipartimento Farmaco-Biologico, Facoltà di Farmacia, Università di Messina *Docente di Biologia Scuola Media Superiore, Messina Il biorisanamento è divenuto un argomento estremamente attuale, che merita una approfondita ricerca e lo studio di sempre nuove applicazioni. In tale lavoro viene utilizzato un ceppo di Serratia marcescens , batterio gram negativo, produttore di un pigmento rosso, la prodigiosina, che potrebbe essere utilizzato come biosensore, in alternativa ad altri microrganismi e ad altri meccanismi biosensoriali. Scopo di questo lavoro è stato quello di indagare sulla possibilità di utilizzo di Serratia marcescens come “bioaccumulatore” nei confronti del piombo, valutando contemporaneamente la possibilità di determinare la concentrazione dello stesso in una matrice contaminata, con la verifica della produzione o dell’inibizione del pigmento. A tale scopo è stata inizialmente determinata la concentrazione ottimale del piombo in un terreno sintetico a concentrazione definita, già precedentemente oggetto di studio, in cui l’α-chetoglutarato è stato utilizzato come unica fonte di carbonio. Successivamente la sperimentazione è proseguita determinando, alla concentrazione sub-inibente di 0,025 mg/ml, la cinetica di morte batterica e la concentrazione del piombo residuo sia nel terreno di coltura che nei sedimenti cellulari ottenuti a vari tempi di contatto, mediante tecnica di spettrofotometria di assorbimento atomico. 500 µl di terreno di coltura o 500 µl di acque di lavaggio sono stati mineralizzati, in un forno a microonde in presenza di 2 ml di HNO3 al 70 % (v/v). Il pellet di batteri, ottenuto mediante centrifugazione del brodo di coltura, è stata mineralizzato nelle stesse condizioni precedentemente descritte. La determinazione del piombo è stata effettuata mediante uno spettrofotometro di assorbimento atomico (AAS) equipaggiato con fornetto di grafite. La determinazione quantitativa in ciascun campione è stata effettuata utilizzando il metodo dello standard esterno. Dai risultati ottenuti possiamo stabile che una dose di Pb superiore a 0,5 mg/ml inibisce la crescita batterica una dose di 0,025 permette una crescita microbica con formazione di pigmento. Dalle determinazioni effettuata mediante AAS del Pb si è potuto constatare che fino a 10 minuti dall’inoculo non vi è nessuna interazione tra il piombo e le cellule batteriche, dopo tale periodo comincia l’assunzione del metallo, che prosegue fino a un tempo di 70 minuti trascorso il quale avviene la morte cellulare. Per quanto riguarda il probabile meccanismo di azione dell’assunzione del piombo si può ipotizzare che esso possa attraversare la membrana citoplasmatica mediante un meccanismo simile all’assunzione del ferro grazie a i siderofori. SOCIETÀ ITALIANA DI MICROBIOLOGIA 65 34° Congresso 06 5-10-2006 11:35 Pagina 66 IL GENE ksgA DI BORRELIA BURGDORFERI SVOLGE UN RUOLO NELLA RESISTENZA AGLI MLSB? Santino I., Berlutti F., Pantanella F., Scazzocchio F., del Piano M. Dipartimento di Scienze di Sanità Pubblica, Università”La Sapienza”, Roma. La borreliosi di Lyme è attualmente la più comune antropozoonosi trasmessa da zecche in USA, Europa ed Asia. L’agente eziologico della malattia è la Borrelia burgdorferi trasmessa dalle zecche appartenenti al genere Ixodes. Delle 11 genospecie di Borrelia note, attualmente solo tre sono coinvolte nella patologia umana: B. burgdorferi sensu stricto, unico agente di infezione nel Nord America, e presente anche in Europa, B. afzelii e B. garinii presenti in Europa ed Asia. La terapia si avvale del trattamento di antibiotici quali cefalosporine, macrolidi e penicilline anche se non sempre di sicuro successo terapeutico, come dimostrato dalla persistenza in alcuni pazienti di segni e sintomi clinici dopo la terapia. Non è ancora chiaro se tale fenomeno sia dovuto a problemi di farmacocinetica, o alla capacità del microrganismo di localizzarsi in siti dove gli antibiotici arrivano in concentrazioni al di sotto della MIC, e/o all’emergenza di ceppi antibiotico-resistenti. Studi precedenti da noi condotti in vitro hanno dimostrato che alcuni isolati clinici di B. burgdorferi, pur evidenziando una buona sensibilità a macrolidi, lincosamidi e streptogramine (MLSB), nella condizione di pre-esposizione a concentrazioni sub-inibenti di eritromicina, mostrano valori di MIC più alti verso gli antibiotici utilizzati. Allo scopo di accertare la presenza di un determinante genetico per la resistenza agli MLSB, abbiamo effettuato una ricerca BLAST nella sequenza del genoma di B. burgdorferi. I risultati ottenuti hanno evidenziato la presenza di un gene (ksgA) codificante per una proteina (dimetiladenosin transferasi) con sequenza omologa alla proteina ErmA di Streptococcus spp. Il gene da noi amplificato per PCR è stato clonato in un vettore idoneo per verificare il ruolo del prodotto proteico nel fenomeno della resistenza di B. burgdorferi agli MLSB PROFILI DI SENSIBILITÀ DEI LIEVITI AL VORICONAZOLO E AL FLUCONAZOLO CON UN NUOVO METODO DI DIFFUSIONE IN AGAR N. Mandras, V.Tullio, V. Allizond, G. Banche, J. Roana, S. Andreotti, A.M. Cuffini e N.A. Carlone Dipartimento di Sanità Pubblica e di Microbiologia, Università di Torino Le infezioni sistemiche causate da lieviti e muffe sono caratterizzate, sempre più spesso, da elevata morbilità e mortalità soprattutto per l’insorgenza di ceppi emergenti resistenti agli azoli di uso più comune, come il fluconazolo. Anche se la resistenza agli antifungini non si è mostrata così problematica come quella agli antibiotici, l’osservazione di resistenze intrinseche ed emergenti e l’aumento dell’incidenza delle micosi sistemiche hanno orientato la ricerca in questi ultimi anni verso nuovi farmaci, tra i quali è emerso il voriconazolo, dotato di un’elevata attività sia in vivo che in vitro, in particolare verso C.krusei, intrinsecamente resistente al fluconazolo. Scopo di questo lavoro è stato quello di valutare la sensibilità al voriconazolo, confrontandola con quella al fluconazolo, di 200 lieviti patogeni isolati da campioni clinici provenienti da ospedali torinesi. Per la valutazione della sensibilità agli agenti antifungini è stato usato il metodo della diffusione in agar con dischetto, approvato recentemente dal CLSI (M44-A). La metodica prevede l’utilizzo di Mueller-Hinton agar addizionato di glucosio al 2% e di 5mcg/ml di blu di metilene al fine di aumentare la crescita dei lieviti da saggiare e migliorare la definizione del margine degli aloni di inibizione. La lettura degli aloni di inibizione è stata eseguita con il BIOMIC, un sistema di video lettura automatizzato che rende la lettura più semplice e uniforme, assicurando risultati obiettivi degli endpoint degli aloni. Tra i lieviti isolati C.albicans è risultata la specie più frequente, seguita da C.glabrata, C.parapsilosis, C.tropicalis, C.famata, C.krusei e dai lieviti emergenti C.norvegensis e C.valida. Per i lieviti saggiati, la resistenza al fluconazolo è risultata in generale un fenomeno ancora molto ristretto (3.5%) e la maggior parte dei ceppi è risultata sensibile (86.5%). La sensibilità dei lieviti al voriconazolo è risultata simile a quella del fluconazolo per C.albicans, C. parapsilosis, C.famata e C. tropicalis, mentre il voriconazolo è risultato più attivo nei confronti di specie resistenti al fluconazolo come C.glabrata, C.krusei, C.norvegensis e C.valida. 66 34° CONGRESSO NAZIONALE DELLA S A 34° Congresso 06 5-10-2006 11:35 Pagina 67 ATTIVITÀ IN VITRO DI TELITROMICINA ED AZITROMICINA NEI CONFRONTI DI S. PYOGENES ERITROMICINO-RESISTENTI DI ISOLAMENTO CLINICO E DETERMINAZIONE DEI FENOTIPI DI RESISTENZA. G. Banche, J. Roana, V. Allizond, S. Andreotti, A. Malabaila1, N. Mandras, V.Tullio, N.A. Carlone, D. Savoia2, A.M. Cuffini. Dip. di Sanità Pubblica e Microbiologia, Università di Torino. 1Lab. Analisi di Microbiologia, ASL 12, Biella. 2Dip. di Scienze Cliniche e Biologiche, Università di Torino. Lo Streptococcus pyogenes, responsabile di una serie di manifestazioni infiammatorie, suppurative e post-streptococciche, che interessano vari distretti anatomici, è la specie di più frequente riscontro nelle infezioni delle prime vie respiratorie. Sebbene le penicilline siano considerate la terapia di elezione, i macrolidi rappresentano una valida alternativa in caso di intolleranza ai βlattamici; tuttavia, il loro impiego clinico è stato recentemente limitato a causa della crescente incidenza di resistenza batterica a questi farmaci. Esiste quindi una reale esigenza di somministrare macrolidi dotati sia di una maggiore attività antibatterica, con spettro d’azione che includa batteri resistenti all’eritromicina ed ai nuovi macrolidi, sia di una bassa capacità di selezionare ceppi resistenti. Alla luce di queste considerazioni nel presente lavoro è stata saggiata l’attività antibatterica in vitro della telitromicina, confrontata con quella dell’azitromicina, determinando la MIC e la MBC su ceppi di S. pyogenes di isolamento clinico. Parallelamente, sugli stessi ceppi, è stato valutato il fenotipo di resistenza ai macrolidi sulla base del test del triplo disco per verificare eventuali differenze di comportamento. I risultati indicano che circa il 20% dei ceppi studiati presenta resistenza ai macrolidi con predominanza di ceppi con fenotipo di resistenza costitutiva e M. La maggior parte dei ceppi eritromicino-sensibili presentano bassi valori di MIC sia nei confronti della telitromicina che dell’azitromicina, mentre i ceppi di S. pyogenes eritromicino-resistenti mostrano valori di MIC relativi all’azitromicina nettamente superiori rispetto ai ceppi eritromicino-sensibili. Al contrario, il ketolide presenta un’attività maggiore; i valori di MIC sono risultati bassi soprattutto nei confronti dei ceppi con fenotipo di resistenza M. In conclusione, la migliore attività della telitromicina, rispetto a quella dell’azitromicina, dimostrata nei confronti di tutti i ceppi di S. pyogenes saggiati, suggerisce il suo impiego nel trattamento delle infezioni delle prime vie respiratorie, in particolare quando sono coinvolti streptococchi eritromicino-resistenti con fenotipo M. VIE DI SEGNALE A VALLE DEL RECETTORE HVEA UTILIZZATE DA HSV-1 PER INDURRE L’ATTIVAZIONE DI NF-kB Sciortino M.T.,1 Medici M.A.,1 Marino-Merlo F.,1 Zaccaria D.,1 Giuffrè-Cucculetto M.,1 Venuti A.,1 Grelli S.,2 Mastino A.1 1Dip. di Scienze Microbiologiche, Genetiche e Molecolari, Università di Messina, Messina; 2Dip. di Medicina Sperimentale e Sc. Biochimiche, Università di Roma “Tor Vergata”, Roma. Abbiamo precedentemente dimostrato che herpes simplex 1 (HSV-1) non replicante inattivato agli UV era in grado di attivare prontamente il fattore nucleare kB (NF-kB) in cellule monocitoidi U937 e che la glicoproteina D (gD) di HSV-1 era di per sè sufficiente a determinare un simile effetto. Abbiamo quindi indagato sulla via di segnale, non replicazione dipendente, utilizzata da HSV-1 per stimolare NF-kB. Tale via di segnale può essere avviata dall’interazione di gD di HSV-1 con il suo recettore cellulare HveA, membro della famiglia dei recettori del TNF, come abbiamo recentemente messo in evidenza mediante diversi approcci sperimentali. Completamente sconosciuti sono però i segnali cellulari a valle di HveA che conducono alla attivazione di NF-kB. Per chiarire tale aspetto abbiamo quindi effettuato una analisi dell’espressione di geni coinvolti nella via di segnale dell’attivazione di NF-kB mediante un sistema commerciale di “gene-array”. A tal fine, cellule U937 sono state esposte per 1h a HSV-1 inattivato agli UV o a gD purificata. Al termine è stato estratto l’RNA delle cellule trattate e quello di cellule di controllo per la successiva processazione per analisi dell’espressione genica. Per alcuni dei geni che risultavano modulati sono state quindi eseguiti saggi di conferma di espressione proteica mediante metodica di western blotting. I risultati sembrano indicare il coinvolgimento di Ikkα, Ikkβ, Ikkε ma non di Ikkγ, oltre a quello dei geni TRAF e di p44/42 MAPK. Queste nuove osservazioni contribuiscono a chiarire gli eventi precoci dell’infezione da HSV-1 ed i loro rapporti con lo stato di permissività cellulare. SOCIETÀ ITALIANA DI MICROBIOLOGIA 67 34° Congresso 06 5-10-2006 11:35 Pagina 68 ESPRESSIONE DI ß-DEFENSINA-2 IN CELLUE U937 INFETTATE CON CHLAMYDIA PNEUMONIAE C. Romano Carratelli, R. Paolillo, A. Galeota Lanza, A. Rizzo Dipartimento di Medicina Sperimentale. Sezione di Microbiologia e Microbiologia Clinica. Facoltà di Medicina e Chirurgia. Seconda Università degli Studi di Napoli. I monociti sono una popolazione di cellule che esercitano un ruolo fondamentale contro i patogeni invasivi; essi esercitano, infatti, un’ampia varietà di funzioni che comprende la regolazione della risposta immune, l’eliminazione di cellule senescenti, la lisi di cellule alterate e il riparo di ferite . I monociti, inoltre, contribuiscono alla difesa dell’ospite anche mediante la produzione di peptidi antimicrobici con la funzione di limitare l’ingresso di batteri intracellulari e di altri microrganismi. Un’importante classe di peptidi antimicrobici umani è la famiglia delle defensine. In particolare, le ß-defensine umane (HBD) sono peptidi con peso molecolare di circa 4 a 5 KDa con un ampio spettro di attività antimicrobica contro batteri invasivi, funghi e alcuni virus e si presentano come molecole effettrici dell’immunità innata. La Chlamydia pneumoniae è un patogeno gram-negativo intracellulare obbligato, che causa principalmente infezioni del tratto respiratorio con tendenza ad infezioni persistenti; il germe attraverso i monociti circolanti o i macrofagi infetti può essere trasportato dal tratto respiratorio ad altra superficie endoteliale, contribuendo al suo danneggiamento. Per determinare il ruolo della HBD-2 nell’infezione da Chlamydia, in questo lavoro si è studiato l’induzione in vitro dell’espressione della defensina in cellule umane epiteliali alveolari A549, in cellule umane monocitarie U937 e in cellule monocitarie di sangue periferico (PBMC) proveniente da donatori sani infettate con C. pneumoniae. I risultati preliminari da noi ottenuti dimostrano che cellule U937 e cellule monocitarie isolate dal sangue periferico infettate con C. pneumoniae con un MOI di 4 presentano una aumentata espressione di HBD-2 dopo 48 e 72h dall’infezione rispetto alle cellule non infettate. Le cellule A549 infettate con C. pneumoniae (MOI=4) mostrano, invece, espressione di HBD-2 già dopo 24h dall’infezione, che aumenta dopo 48h e 72h dall’infezione. I risultati vengono confermati con metodo ELISA, evidenziando aumentati livelli del peptide nel supernatante delle culture infettate rispetto alle culture controllo. In conclusione, i nostri risultati dimostrano che le cellule U937 e i monociti periferici e le cellule A549 infettati con C. pneumoniae producono HBD-2, che potrebbe essere un componente della risposta immune innata nei confronti della Chlamydia. RESISTENZA AI FLUOROCHINOLONI IN ISOLATI CLINICI DI C. DIFFICILE Patrizia Spigaglia, Fabrizio Barbanti e Paola Mastrantonio Dipartimento di Malattie Infettive, Parassitarie ed Immuno-mediate, Reparto Malattie Batteriche, Gastroenteriche e Neurologiche, Istituto Superiore di Sanità, Roma. L’uso dei fluorochinoloni nella terapia di molte patologie si è ampiamente diffuso negli ultimi anni. Recentemente sono stati identificati ceppi di C. difficile resistenti a questa classe di antibiotici ed anche il ceppo epidemico responsabile dei severi outbreaks accorsi in Europa e negli USA negli ultimi cinque anni presenta una elevata resistenza sia a moxifloxacina che a levofloxacina. I fluorochinoloni agiscono inibendo la replicazione del DNA batterico. In C. difficile la resistenza è dovuta a mutazioni presenti a livello delle regioni QRDR dei geni codificanti le subunità della DNA girasi, in quanto il batterio manca dei geni per la topoisomerasi IV. In questo lavoro abbiamo esaminato un campione di 60 isolati clinici, collezionati nel nostro Istituto tra il 1987 ed il 2005, con lo scopo di identificare ceppi resistenti alla moxifloxacina e di caratterizzarne il meccanismo di resistenza. Saggi di sensibilità sono stati effettuati utilizzando il metodo E-test, i geni gyrA e gyrB sono stati amplificati ed i frammenti sequenziati. Sedici ceppi sono risultati resistenti con MICs comprese tra 4 e 32 mg/L. Tredici di questi ceppi sono stati isolati tra il 1999 ed il 2005, tre nel periodo 1993-1998 e nessuno fino al 1992. Due mutazioni aminoacidiche sono state identificate nel gene gyrA (da Thr82 a Ile e da Gly113 a Glu) e quattro nel gene gyrB (da Ser416 a Ala, da Asp426 a Asn, da Arg447 a Lys e da Asp481 a Asn). La maggioranza dei ceppi (9/16) presenta mutazioni solo nel gene gyrA (5 ceppi) o solo nel gene gyrB (4 ceppi). E’ interessante notare che sei ceppi mostravano mutazioni in entrambi i geni, un evento mai osservato fino ad ora in C. difficile. Un solo ceppo, anche se resistente, non sembrava avere variazioni nucleotidiche dei geni gyr. E’ ipotizzabile che in questo ceppo le mutazioni siano avvenute in una diversa regione genica, oppure che sia presente un diverso meccanismo di resistenza. Mentre sono state evidenziate fino a due mutazioni nel gene gyrA di uno stesso ceppo, solo una mutazione è stata identificata nel gene gyrB dei ceppi resistenti. La mutazione Thr82 è la più frequente nel gene gyrA, mentre la mutazione Ser416, la più frequente nel gene gyrB. Non è evidente una correlazione tra tipo di mutazione e livello di resistenza alla moxifloxacina nei ceppi analizzati Questi dati indicano che la diffusione della resistenza ai fluorochinoloni anche nei ceppi di C. difficile circolanti in Italia e la necessità di un continuo monitoraggio delle loro caratteristiche genotipiche e fenotipiche. 68 34° CONGRESSO NAZIONALE DELLA S A 34° Congresso 06 5-10-2006 11:35 Pagina 69 INDUZIONE DI CITOCHINE IN FIBROBLASTI GENGIVALI UMANI INFETTATI SPERIMENTALMENTE CON CHLAMYDIA PNEUMONIAE A. Rizzo, R. Paolillo, L. Guida1, C. Romano Carratelli Dipartimento di Medicina Sperimentale. Sezione di Microbiologia e Microbiologia Clinica. 1Dipartimento di Discipline Odontostomatologiche, Ortodontiche e Chirurgiche. Facoltà di Medicina e Chirurgia. Seconda Università degli Studi di Napoli. La Chlamydia pneumoniae è un batterio patogeno intracellulare obbligato gram-negativo con un ciclo di sviluppo bifasico che può causare infezioni persistenti. I piccoli e densi corpi elementari (EB) penetrano nella cellula ospite dove si differenziano in corpi reticolari (RB), che costituiscono la forma metabolicamente attiva del microrganismo. Nell’uomo, la C. pneumoniae causa infezioni delle vie respiratorie oltre che malattie infiammatorie croniche come l’aterosclerosi e malattie cardiovascolari come evidenziato in molti studi di sieroepidemiologia. Di recente è stata messa in evidenza la presenza di Chlamydia nelle placche subgengivali e tasche parodontali di pazienti con severe parodontiti, correlata all’incremento della risposta infiammatoria dell’ospite e successive complicazioni cliniche. Si è dimostrato, inoltre, che batteri patogeni parodontali (es.batteri gram-negativi) presenti nei fibroblasti gengivali umani (HGF) possono indurre la sintesi ed il rilascio di citochine e di altri mediatori dell’infiammazione. I fibroblasti gengivali sono cellule residenti del parodonto che rispondono alla stimolazione dei recettori, producendo una varietà di sostanze compreso le citochine e diversi fattori di crescita. L’obiettivo di questo lavoro era di studiare la reazione dei fibroblasti gengivali umani all’infezione da C.pneumoniae correlata alla produzione di citochine infiammatorie. I risultati da noi ottenuti dimostrano che fibroblasti gengivali umani stimolati con C. pneumoniae vive o inattivate agli UV presentano un incremento della produzione delle citochine IL-6 e IL-10, ma non della citochina IL-4; al contrario, fibroblasti infettati con C. pneumoniae uccisa al calore non presentano secrezione delle citochine considerate in maniera significativa. La definizione del profilo citochimico rilasciato dagli HGF dopo stimolazione con batteri interi o componenti batterici potrebbe concorrere a chiarire la relazione tra l’ospite e i microrganismi nel parodonto e potrebbe tendere al miglioramento di una medicina preventiva per le parodontiti. LA FEBBRE CATARRALE MALIGNA DEI BOVINI DA HERPESVIRUS Marco Campolo1, Viviana Mari1, Costantina Desario1, Maria Loredana Colaianni2, Maria Stella Lucente1, Eleonora Lorusso1, Vito Martella1, Nicola Decaro1,* 1Dipartimento di Sanità e Benessere degli Animali, Facoltà di Medicina Veterinaria di Bari, Valenzano (BA) 2Veterinario libero professionista, Bari La febbre catarrale maligna (MCF) è una grave malattia a carattere sistemico, che colpisce i ruminanti delle famiglie Bovidae e Cervidae. Nelle specie sensibili, la malattia è caratterizzata da un lungo periodo di incubazione e decorso rapido ad esito quasi sempre letale. In Europa, la malattia è sostenuta da ovine herpesvirus-2 (OvHV-2), che riconosce come carrier asintomatici gli ovicaprini. Non è attualmente nota la diffusione della malattia in Italia. Si riportano i risultati degli esami di laboratorio effettuati su campioni prelevati in un allevamento di 30 bovini e 2 pecore, nel quale è stato evidenziato un caso clinico riferibile a MCF in una bovina da latte di razza frisona di 7 anni. I campioni sono stati testati mediante real-time PCR per OvHV-2, mentre la ricerca di anticorpi è stata effettuata con l’immunofluorescenza indiretta (IFI) su vetrini multispot allestiti con cellule di polmone embrionale bovino infettate con lo stipite AlHV-1 WC-11. Il test real-time PCR per OvHV-2 ha rivelato la presenza del DNA virale nel sangue e nei tamponi nasali e oculari prelevati dalla bovina prima della morte, con titoli compresi tra 9,36x104 e 1,96x106 per 10 µl di estratto, e nei campioni d’organo prelevati post-mortem dallo stesso animale, con titoli compresi tra 5,96x102 (fegato) e 7,27x105 (rene) per 10 µl di estratto. I campioni biologici (sangue, tamponi oculari e nasali) prelevati dalle pecore e dai bovini sani sono risultati negativi per OvHV-2. Il siero della bovina infetta è risultato positivo per anticorpi (titolo 1:400). I sieri prelevati dalle pecore e, sorprendentemente, più della metà dei sieri degli altri bovini dell’allevamento sono risultati positivi per anticorpi anti-MCFV, con titoli compresi tra 1:50 e 1:200. Il presente studio, oltre che confermare la presenza della MCF in Italia, ha evidenziato che anche la specie bovina, contrariamente a quanto ritenuto finora, può sviluppare infezioni che decorrono in forma asintomatica. Il presente studio è stato finanziato dal Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca, progetto PRIN 2004 “Patologia infettiva dei ruminanti”. SOCIETÀ ITALIANA DI MICROBIOLOGIA 69 34° Congresso 06 5-10-2006 11:35 Pagina 70 ATTIVITÀ ANTI-INFIAMMATORIA DELLA LATTOFERRINA IN CELLULE INTESTINALI INFETTATE CON CEPPI DI ESCHERICHIA COLI NON INVASIVI ED INVASIVI. Francesca Berlutti 1, Serena Schippa 1, Clara Morea 2, Serena Sarli 1, Alessandra Frioni1, Brunella Perfetto 2, Giovanna Donnarumma 2 e Piera Valenti 2 1Dip. Scienze di Sanità Pubblica, Università di Roma “La Sapienza”; 2Dip. Medicina Sperimentale, II° Università di Napoli, Italia. Nell’intestino le cellule epiteliali, continuamente stimolate dall’interazione con microorganismi, sono in grado rispondere differentemente ai batteri saprofiti o patogeni, attivando uno stato infiammatorio fisiologico o distruttivo. La lattoferrina, una proteina dell’immunita’ naturale in grado di chelare ioni ferrici, e’ presente in tutte le secrezioni mucose inclusa quella intestinale. Tra le sue molteplici funzioni, nella difesa delle infezioni delle mucose, e’ ben nota l’attivita’ antimicrobica ed antivirale. Recentemente e’ stata ascritta alla lattoferrina anche un’attività anti-infiammatoria. In questo lavoro e’ stata analizzata l’influenza della lattoferrina nella risposta infiammatoria da parte di cellule epiteliali intestinali infettate da un batterio saprofita (infiammazione fisiologica) o da un batterio patogeno (infiammazione distruttiva). Al fine di mimare l’interazione ospite-microrganismo, cellule intestinali in coltura sono state infettate con un ceppo di Escherichia coli HB101 non invasivo o con Escherichia coli HB101(pRI203) invasivo. E’ stata valutata l’espressione di diverse citochine da parte delle cellule epiteliali infettate in presenza o in assenza di lattoferrina. I risultati hanno mostrato che in assenza di lattoferrina solo le cellule intestinali infettate con il ceppo invasivo esprimevano significativamente delle citochine pro-infiammatorie. L’aggiunta della lattoferrina in forma nativa o satura in ferro non influenzava l’espressione genica di cellule non infettate né di quelle infettate con il ceppo non invasivo. Viceversa, e’ stato dimostrato che l’aggiunta di lattoferrina diminuiva significativamente l’espressione delle citochine proinfiammatorie nelle cellule intestinali infettate con il ceppo invasivo indipendentemente dalla saturazione con ioni ferrici. I dati ottenuti dimostrano che la lattoferrina potrebbe essere un importante modulatore della risposta infiammatoria delle cellule epiteliali ai batteri patogeni, limitando in tal modo il danno cellulare dovuto all’infiammazione distruttiva e la successiva diffusione dell’infezione. IDENTIFICAZIONE DI UNA NUOVA PROTEINA PARIETALE LDG7 IN C.ALBICANS Angiolella1 L. , G. Mignogna 2, M.A. Bonito1, C. Testa 1, B.Maras2, A.T.Palamara1. 1 Dipartimento di Scienze di Sanità Pubblica “ G. Sanarelli ”, Univ. “La Sapienza” Roma. 2Dipartimento di Scienze Biochimiche “ Rossi Fanelli ”, Univ. “La Sapienza” Roma. Precedenti studi condotti sulle proteine parietali legate covalentemente al glucano (GAP) di C.albicans hanno messo in evidenza la presenza di proteine appartenenti essenzialmente al pathway glicolitico come enolasi, aldolasi e fosfogliceromutasi. Tali proteine sono modulate in presenza di dosi sub-inibenti di differenti antimicotici (fluconazolo e micafungin) in cellule lievito di C.albicans sensibili, con la scomparsa o la comparsa di nuove proteine come ad esempio la β 1-3 glucanasi 1. Studi eseguiti mediante l’utilizzo di elettroforesi bidimensionale ed analisi spettrofotometrica MALDI-TOF delle GAP sia di cellule lievito sensibili (CO23S) che resistenti (CO23RFK) in presenza ed in assenza di micafungin, confermano quanto già identificato ed evidenziano nuove proteine. In particolare è stata individuata una nuova proteina che ci è sembrata interessante in quanto potenzialmente coinvolta nella resistenza al micafungin. Identificata come appartemente alla famiglia delle LDG7, la cui funzione è ancora in gran parte sconosciuta, l’inserimento della sua sequenza aminoacidica nella banca dati del genoma di C.albicans ha permesso il riconoscerla come proteina di parete con il nome di PGA29/RDH (Repressed during Hyphae development). I risultati ottenuti hanno mostrato la presenza della LDG7 sia nel campione sensibile (CO23S) che nel campione resistente (CO23RFK), ma in seguito al trattamento con il farmaco la sua espressione diminuisce notevolmente nel ceppo sensibile mentre aumenta in modo evidente nel ceppo resistente. Questo suggerisce che l’aumento sia dovuto ad una risposta cellulare che presiede al meccanismo di resistenza che si attiva in presenza dell’antimicotico, piuttosto che ad una induzione diretta da parte del farmaco. Al fine di identificare, l’eventuale ruolo biologico è stata valutata la sua espressione durante la transizione lievito-micelio che ha confermato il suo stato di “Repressed during Hyphae development” anche in relazione alla concentrazione di ferro disponibile nel terreno. In conclusione l’identificazione di fattori associati alla resistenza ai farmaci in Candida potrà dare un contributo essenziale nella individuazione di strategie terapeutiche basate su caratteristiche peculiari del fungo e delle sue specifiche modalità di risposta agli antimicotici. 70 34° CONGRESSO NAZIONALE DELLA S A 34° Congresso 06 5-10-2006 11:35 Pagina 71 ATTIVITA’ IN VITRO DI UN NUOVO TRIAZOLO DERIVATO DALL’ITRACONAZOLO M Drago, P. Mascagni*, D. Modena*, MV. Monzani*, E. Borghi, MM. Scaltrito, F. Sisto e G. Morace Dipartimento di Sanità Pubblica – Microbiologia – Virologia, Polo Universitario San Paolo, Università degli Studi di Milano; *Italfarmaco, Centro Ricerche - Milano, Italy ITF 2534 (ITF; Italfarmaco, Milano) è un nuovo triazolo enantiomero, selezionato da un programma di screening di derivati dell’itraconazolo (ITR), sulla base della migliore solubilità, assorbimento (determinato in vitro in cellule di colon carcinoma umano CaCo-2) e interazione con i principali CYP umani (enzimi citocromo P450). L’attività antifungina è stata saggiata nei confronti di 38 ceppi di Candida spp. e 18 ceppi di Aspergillus spp. di isolamento clinico e su tre ceppi di controllo ATCC (Candida krusei ATCC 6258, Candida. parapsilosis ATCC 22019, Aspergillus flavus ATCC 204304) in confronto con fluconazolo (FLU) ed ITR, utilizzando i protocolli CLSI M27-A2 per Candida spp. e M38-A per Aspergillus spp. L’analisi dei risultati consente di affermare che la molecola mostra un’attività comparabile a quella di ITR nei confronti sia dei lieviti sia delle muffe. L’utilizzo di ceppi ATCC, di cui sono noti i range di attività delle molecole commerciali, permette di considerare tale molecola una valida alternativa all’ITR. ITF2534 mostra inoltre una farmacocinetica favorevole come dimostrato nel ratto dopo somministrazione orale del prodotto (20 mg/Kg). La molecola è infatti ben assorbita e mostra un buon profilo dei livelli plasmatici. STUDIO DELL’ATTIVITA’ INIBENTE DEL CARVACROLO SUL BIOFILM PRODOTTO DA S. EPIDERMIDIS A. Nostro1, A. Sudano Roccaro2, A. Marino1, F. Pizzimenti1, G. Crisafi1, A.R. Blanco2. 1Dipartimento Farmaco-Biologico. Università degli Studi di Messina 2 Dipartimento R&D, SIFI S.p.A, - Catania Introduzione. Il ruolo del biofilm nella patogenesi delle infezioni stafilococciche è oggi ampiamente documentato. La più allarmante conseguenza clinica della formazione di biofilm è l’instaurarsi di una tolleranza agli antimicrobici. E’ chiara, quindi, la necessità di mettere a punto strategie di controllo e ritrovare nuove molecole efficaci nell’inibire la formazione di biofilm e/o capaci di attraversare o disgregare la matrice polisaccaridica prodotta dai microrganismi. Il carvacrolo è un composto fenolico, presente in molti oli essenziali, noto per le proprietà antimicrobiche in vitro e in vivo. Scopo del presente lavoro è stato quello di estendere gli studi e rilevare gli effetti del carvacrolo sul biofilm prodotto da Staphylococcus epidermidis. Metodi. Biofilm con diverso grado di maturità, preformati su piastre di polistirene, sono stati esposti per 3 e 24 h a trattamenti con carvacrolo, sia in fase liquida che di vapore, alla concentrazione pari allo 0,5% (v/v). Gli effetti di tali esposizioni sono stati rilevati mediante metodi complementari: quantificazione del biofilm recuperato mediante conta vitale in piastra, rilievo della vitalità del biofilm mediante colorazione fluorescente differenziale delle cellule vive/morte (Live/Dead Kit), quantificazione della biomassa adesa espressa come densità ottica, analisi morfostrutturale del biofilm mediante osservazione in Microscopia Elettronica a Scansione. Risultati. I risultati evidenziano che i trattamenti con carvacrolo determinano una riduzione del biofilm preformato con effetti più evidenti dopo contatto per 24 h con carvacrolo in fase liquida. E’ stata, infatti, riscontrata una riduzione della vitalità batterica superiore al 99,99%, confermata da un’omogenea colorazione fluorescente rossa con poche cellule vitali verdi, e una diminuzione di circa il 20-30% rispetto al controllo della biomassa formata. Studi ultrastrutturali della morfologia documentano, inoltre, proprietà disorganizzanti il biofilm. I risultati di questo studio incoraggiano a prendere in considerazioni strategie di controllo alternative nel trattamento dei biofilm. SOCIETÀ ITALIANA DI MICROBIOLOGIA 71 34° Congresso 06 5-10-2006 11:35 Pagina 72 REAL-TIME PCR PER LA DIAGNOSI DI INFEZIONE DA MYCOPLASMA AGALACTIAE NELLE PECORE Domenico Buonavoglia1, Alessio Lorusso1, Grazia Greco1, Francesco Cirone1, Antonio Fasanella2, Donato Narcisi1, Gabriella Elia1 1Dipartimento di Sanità e Benessere degli Animali, Facoltà di Medicina Veterinaria di Bari, Valenzano (BA) 2Istituto Zooprofilattico Sperimentale della Puglia e Basilicata, Foggia L’agalassia contagiosa è una grave malattia dei piccoli ruminanti, a diffusione endemica nel bacino del Mediterraneo, caratterizzata da mastite, artitre, cheratocongiuntivite e, occasionalmente, aborto. Il principale agente eziologico della agalassia contagiosa è rappresentato da Micoplasma agalactiae (Ma), anche se altri micoplasmi sono stati isolati da focolai della malattia, tra cui alcuni membri del cluster mycoides (M. mycoides subsp. mycoides Large Colony, M. capricolum subsp. capricolum, M. mycoides subsp. capri) e, nelle capre, M. putrefaciens. A causa del forte impatto economico sulle produzioni zootecniche, una diagnosi precoce della infezione sostenuta da Ma rappresenta un valido strumento per l’attuazione di programmi di eradicazione della malattia. Nonostante la disponibilità di numerose tecniche di PCR convenzionale, al momento non esistono metodiche di real-time PCR per la ricerca di Ma nei campioni di latte infetto. Nel presente studio si riporta la messa a punto di un test realtime PCR per la ricerca e la quantificazione del DNA di Ma nei campioni biologici. La metodica messa a punto è basata sulla tecnologia TaqMan ed ha come target il gene della proteina di membrana 81 (ma-mp81), il quale presenta caratteristiche differenziali rispetto all’analogo gene di M. bovis, specie strettamente correlata a Ma. Il DNA standard per la quantificazione assoluta è stato ottenuto mediante clonaggio di un frammento del gene ma-mp81 in un vettore plasmidico. La specificità del test real-time PCR è stata dimostrata dalla assenza di segnale in campioni contenenti micoplasmi diversi da Ma, inclusa la specie affine M. bovis. La metodica si è dimostrata inoltre riproducibile ed altamente sensibile, permettendo una precisa quantificazione del DNA di Ma in un range di nove logaritmi (da 101 a 109 copie di DNA standard). Dal confronto con una PCR convenzionale già standardizzata è stato evidenziato che il test real-time PCR possiede una sensibilità superiore di 1 logaritmo, assicurando la identificazione di Ma anche quando presente a bassi titoli nei campioni di latte infetto. Il presente studio è stato finanziato dal Ministero della Salute, Ricerca corrente 2003, progetto n° IZS-PB 002/03 “Sviluppo di un vaccino ad alto titolo contro l’agalassia contagiosa”. VALUTAZIONE IN VITRO DELL’ATTIVITÀ ANTIFUNGINA DELL’ESTRATTO DI SEMI DI POMPELMO NEI CONFRONTI DI CANDIDA ALBICANS ED ALTRI LIEVITI I. Falcone, V. Tullio, J. Roana, N.Mandras, G.Banche, V.Allizond, A.M.Cuffini e N.A. Carlone Dipartimento di Sanità Pubblica e di Microbiologia, Università di Torino Le candidosi sono un gruppo di affezioni che possono interessare la cute, gli annessi cutanei e gli organi interni, causando nei casi più gravi setticemie e meningiti. Possono essere provocate da lieviti del genere Candida e soprattutto da C. albicans, che fa parte della normale microflora umana. I farmaci più utilizzati nella terapia delle micosi sono gli azoli,in particolare il fluconazolo che, tuttavia, negli ultimi anni si è spesso rilevato inefficace a causa dello sviluppo di resistenze sia tra i ceppi di C.albicans sia tra quelli non albicans tra cui C.glabrata che negli ultimi anni rappresenta la seconda o terza causa di infezione fungina dopo C.albicans. Anche la fitoterapia sta tentando, recentemente, di apportare il proprio supporto nella cura delle infezioni fungine recidivanti provocate dal genere Candida nei distretti mucocutanei che richiedono terapie ricorrenti. Nel seguente studio è stata saggiata l’attività in vitro dell’estratto di semi di pompelmo (GSE) nei confronti di lieviti isolati per lo più da tamponi vaginali. L’attività in vitro (MIC ed MFC) è stata valutata usando il metodo in liquido consigliato dal CLSI per i lieviti. I risultati dimostrano che il GSE ha un’elevata attività antifungina sia nei confronti delle specie appartenenti al genere Candida sia di quelle del genere Saccharomyces.Il valore delle MIC oscilla,infatti,tra 0,019 e 0,000235%(v/v), mentre le MFC hanno valori compresi tra 0.015 e 0.000235 % (v/v). E’ da sottolineare che anche per C.glabrata le MIC sono risultate basse comprese tra 0,019 e 0,000235%(v/v). L’attività antifungina del GSE sembrerebbe dovuta alla presenza di fenoli e flavonoidi di cui non è ancora del tutto determinato il meccanismo d’azione nei confronti dei miceti;i fenoli sembrerebbero inibire enzimi anti–ossidanti attraverso il legame con gruppi sulfidrilici o interazioni non–specifiche con alcune proteine, mentre i flavonoidi inibirebbero la moltiplicazione dei miceti grazie alla capacità di formare complessi con proteine solubili e con la parete dei microrganismi. Le potenzialità del GSE sembrano tali da ritenere che in futuro questo estratto potrebbe rappresentare un ottimo “strumento” di supporto nella cura di candidosi mucocutanee ricorrenti.Ulteriori studi risultano evidentemente necessari per verificare e quantificare l’attività e l’eventuale tossicità in vivo su animali, stabilendo così le dosi di sicurezza ed efficacia. 72 34° CONGRESSO NAZIONALE DELLA S A 34° Congresso 06 5-10-2006 11:35 Pagina 73 STUDI IN VITRO SUGLI EFFETTI FARMACODINAMICI DELL’ASSOCIAZIONE OLIO ESSENZIALE DI MELALEUCA ALTERNIFOLIA E TOBRAMICINA SU S. AUREUS. M. D’Arrigo, G. Ginestra, G. Mandalari, G. Bisignano. Dip. Farmaco-Biologico, Università di Messina, Vill. SS. Annunziata - Messina L’olio essenziale di Melaleuca alternifolia, conosciuto anche come tea tree oil (TTO) è stato utilizzato in Australia come farmaco da oltre 80 anni. La sua composizione chimica è stata ampiamente caratterizzata ed è risultato essere costituito da circa 100 terpeni e dai loro relativi alcoli. Questo olio, presentando attività antibatteriche oltre che antifungine, antivirali e proprietà antinfiammatorie in vitro potrebbe avere un ruolo nel trattamento delle infezioni cutanee: potrebbe essere utilizzato in associazione alla tobramicina nella terapia di patologie per cui questo antibiotico è normalmente somministrato. OBIETTIVO: è stato quello di studiare il sinergismo delle due sostanze in esame nei confronti di S. aureus ATCC 6538 attraverso il metodo della scacchiera e della curva di mortalità ed osservare l’effetto postantibiotico prodotto dall’interazione tobramicina-olio essenziale. METODI: le concentrazioni del TTO e della tobramicina utilizzate in questo lavoro derivano dalle MIC determinate secondo il metodo della microdiluizione in brodo Mueller Hinton. Colture di S. aureus ATCC 6538 sono state incubate in agitazione continua a 37°C per 1h sotto l’azione della tobramicina, dell’olio essenziale a due diverse concentrazioni e della loro associazione. Per eliminare l’antibiotico e l’olio essenziale sono stati eseguiti tre cicli di lavaggio con PBS in centrifuga e le cellule risospese in terreno fresco. La conta delle CFU/ml è stata effettuata prima dell’esposizione, dopo l’esposizione e dopo i lavaggi in centrifuga. Il PAE (Postantibiotic Effect) è stato determinato al Bioscreen C e calcolato in base alla variazione della densità ottica. RISULTATI: dai risultati ottenuti la tobramicina e l’olio essenziale di M. alternifolia hanno mostrato di essere sinergiche come appare dai valori di FICI < 1 osservati attraverso il metodo della scacchiera. Questi dati sono stati confermati dalla curva di mortalità. Il PAE, calcolato attraverso la formula T – C, ovvero come la differenza tra il tempo necessario alla coltura esposta all’azione delle sostanze test e al corrispondente controllo per ricrescere ad un punto definito (A50) sulla curva OD, dove A50 è definita come il 50% della massima OD del controllo, è risultato maggiore nell’associazione tobramicina-olio (16,6h e 9,9h rispettivamente alla concentrazione maggiore e minore di olio) rispetto all’olio da solo (6,67h e 5h rispettivamente) e alla tobramicina da sola (-1,6h). CONCLUSIONI: L’associazione tobramicina - olio essenziale di melaleuca può essere utilizzata in applicazioni farmaceutiche. INFLUENZA DELLA TEMPERATURA SULLA SOPRAVVIVENZA DI ASPERGILLUS OCHRACEUS E SULLA PRODUZIONE DI OCRATOSSINA A IN SUCCO D’ARANCIA CITRUS SINENSIS. A. Marino, C. Fiorentino, A. Nostro, F. Pizzimenti, G. Crisafi. Dipartimento Farmaco-Biologico. Università degli Studi di Messina. Introduzione. Nell’area Mediterranea grazie al clima mite, la coltivazione degli agrumi ha ampia diffusione. Aspergillus ochraceus e Aspergillus niger cosiddetti “storage fungi” rappresentano un alto rischio di contaminazione per questi prodotti durante lo stoccaggio o quando vengono utilizzati per la preparazione di alimenti e mangimi. Obiettivo. L’obiettivo di questo studio è stato quello di valutare l’influenza della temperatura sulla sopravvivenza di Aspergillus ochraceus e sulla produzione di Ocratossina A (OTA) in succo d’arancia fresco Citrus sinensis (cv Tarocco). Materiali e Metodi. Il succo filtrato, ottenuto da arance selezionate, è stato contaminato con una carica iniziale di A. ochraceus NRRL 5175 pari a 3,4 x 105 spore/ ml, suddiviso e mantenuto per quattro settimane a 26°C, 20°C e 4°C. Ogni settimana è stata eseguita la conta vitale e l’estrazione della tossina. L’analisi quantitativa della tossina è stata effettuata mediante un saggio immunoenzimatico. Risultati. La carica iniziale di A. ochraceus nel succo d’arancia mantenuto a 26°C dopo una settimana si riduce di 2 unità logaritmiche (UL) e si mantiene tale per tutto il periodo dello studio. Il tenore massimo di OTA rilevato dopo una settimana è 0,563 ng/ml. La carica nel succo mantenuto a 20°C si riduce di 3 UL dopo una settimana, aumenta di 1 UL dopo due e poi rimane costante. La concentrazione massima di OTA rilevata dopo 2 settimane è pari a 0,792 ng/ml. Nel succo d’arancia mantenuto a 4°C si osserva solo una carica residua di circa 30 UFC/ml che permane per tutte le settimane. La temperatura più alta favorisce l’adattamento di A. ochraceus nel succo d’arancia e la produzione di tossina. Conclusioni. I dati presentati sono a supporto dell’ipotesi che ceppi produttori di ocratossina, come A. ochraceus, possono sopravvivere e produrre OTA nelle arance e nei suoi derivati soprattutto nelle aree con un clima mediterraneo. Da qui la necessità di approfondire le conoscenze monitorando le concentrazioni della tossina durante tutto il percorso produttivo delle arance e dei suoi derivati al fine di stabilire il tenore massimo consentito a tutela della salute del consumatore. SOCIETÀ ITALIANA DI MICROBIOLOGIA 73 34° Congresso 06 5-10-2006 11:35 Pagina 74 APOPTOSI E STATO REDOX NEI LINFOCITI T E NEI MACROFAGI INFETTATI DA CHLAMYDIA PNEUMONIAE R. Sessa, M. Di Pietro, G. Schiavoni, C. Zagaglia, B. Maras*, A. Macone*, P. Cipriani, M. del Piano Dipartimento di Scienze di Sanità Pubblica, *Dipartimento di Scienze Biochimiche, Università degli Studi di Roma “La Sapienza” Chlamydia pneumoniae, patogeno intracellulare obbligato, si distingue dagli altri microrganismi per il peculiare ciclo di sviluppo e, in relazione ai differenti stadi (persistente o replicativo), può dar luogo ad effetti pro-apoptotici o anti-apoptotici nelle cellule ospiti. La complessa regolazione del processo di apoptosi nelle cellule infettate da C. pneumoniae contribuisce significativamente al meccanismo di patogenicità modificando la risposta immunitaria e quindi lo sviluppo dell’infiammazione. Studi sperimentali hanno dimostrato l’importante ruolo svolto dalla forma ridotta del glutatione (GSH), indicatore di stress ossidativo, in diversi processi cellulari come l’apoptosi. Lo scopo del lavoro è stato quello di studiare l’interazione di C. pneumoniae con i linfociti T ed i macrofagi valutando due aspetti: l’apoptosi e lo stato redox. I linfociti T ed i macrofagi, isolati da buffy coats, provenienti da donatori di sangue, sono stati infettati con C. pneumoniae ad una MOI=5. Dopo 6 giorni nelle colture infettate da C. pneumoniae e in quelle non infettate è stata valutata l’apoptosi e la concentrazione della forma ridotta (GSH) ed ossidata (GSSG) del glutatione. Il numero delle cellule apoptotiche ed i livelli di GSH e GSSG sono stati determinati rispettivamente mediante citofluorimetria a flusso (TUNEL assay) e HPLC. I risultati ottenuti hanno dimostrato, da una parte, che C. pneumoniae è in grado di indurre apoptosi dei linfociti T ma non dei macrofagi e, dall’altra, che non è stata riscontrata una variazione significativa dei livelli intracellulari di GSH, sia nei linfociti T che nei macrofagi. In conclusione ulteriori studi sono necessari al fine di chiarire il meccanismo coinvolto nell’apoptosi dei linfociti T. REAL-TIME PCR PER LA RICERCA DI CHLAMYDIA PNEUMONIAE NELLA SCLEROSI MULTIPLA R. Sessa, M. Di Pietro, C. Zagaglia, G. Schiavoni, P. Cipriani, C. Pozzilli*, M. del Piano Dipartimento di Scienze di Sanità Pubblica,*Dipartimento di Scienze Neurologiche, Università degli Studi di Roma “La Sapienza” Chlamydia pneumoniae, agente eziologico delle infezioni del tratto respiratorio, è stata recentemente associata a diverse malattie infiammatorie croniche quali l’aterosclerosi, la sindrome di Alzheimer e la sclerosi multipla. Il coinvolgimento di C. pneumoniae nell’eziologia della sclerosi multipla è stato ipotizzato dal momento che una infezione, da parte di questo microrganismo, a livello sistemico può determinare un aumento delle molecole di adesione in corrispondenza dell’endotelio cerebrale e del midollo spinale, permettendo così ai leucociti di attraversare la parete vasale. In particolare C. pneumoniae, in seguito ad un’infezione respiratoria, può diffondere, per la sua capacità di sopravvivere nelle cellule del sistema immunitario, promuovendo la trasmigrazione dei monociti dall’endotelio dei vasi cerebrali e quindi provocando un danno cronico al sistema nervoso centrale. Lo scopo del nostro studio è stato quello di valutare la presenza di DNA di C. pneumoniae nelle cellule mononucleate del sangue periferico (PBMC) di pazienti affetti da sclerosi multipla. Sono stati arruolati 112 pazienti (39 uomini e 73 donne) provenienti dal Centro di Sclerosi Multipla dell’Università “La Sapienza” di Roma; da ciascun paziente è stato prelevato un campione di sangue per l’isolamento dei PBMC. La ricerca di DNA di C. pneumoniae nei PBMC è stata effettuata mediante real-time PCR, basata sul frammento Pst I specie specifico di C. pneumoniae. Due campioni di PBMC sono risultati positivi alla C. pneumoniae (1.7%) con una quantità di copie genomiche per reazione, rispettivamente di 107 e 71. I nostri risultati preliminari dimostrano che, nonostante l’elevata sensibilità della real-time PCR, i PBMC non rappresentano un campione idoneo per la ricerca di C. pneumoniae nella sclerosi multipla. 74 34° CONGRESSO NAZIONALE DELLA S A 34° Congresso 06 5-10-2006 11:35 Pagina 75 ATTIVITÀ ANTIMICOPLASMICA IN VITRO DI ULIFLOXACINA Nicoletta Firrito1, Alessandra Capezzone de Joannon2, Paolo Ceccarini2, Vilma Rossi2, Gianna Tempera1, e Pio Maria Furneri1 1Dipartimento di Scienze Microbiologiche e Scienze Ginecologiche, Università degli Studi di Catania -Catania, Italia; 2 A.C.R.A.F. S.p.A - S. Palomba, Roma, Italia Prulifloxacina è il profarmaco di ulifloxacina, un nuovo fluorochinolone ad ampio spettro, utilizzato nel trattamento delle infezioni del tratto urinario e del tratto respiratorio. Al pari degli altri fluorochinoloni, ulifloxacina impedisce la replicazione batterica agendo sulla trascrizione, riparazione e ricombinazione del DNA bloccando le DNA topoisomerasi. In vitro ulifloxacina risulta generalmente più attiva degli altri fluorochinoloni nei confronti di un gran numero di batteri Gram negativi responsabili di infezioni comunitarie e nosocomiali (Escherichia coli, Klebsiella sp., Proteus sp, Providencia sp., Morganella sp. e Pseudomonas aeruginosa). Ulifloxacina risulta attiva anche su microrganismi Gram positivi, inclusi Staphylococcus sp (meticillina o oxacillina sensibili) ed Enterococcus sp (responsabili delle IVU comunitarie in Italia). Lo scopo del presente lavoro è la valutazione dell’attività antimicoplasmica di ulifloxacina. I micoplasmi sono i più piccoli organismi capaci di vita autonoma e sono di grande interesse evolutivo per la struttura estremamente semplice e per il genoma ridotto. Questi microrganismi si differenziano da tutti gli altri procarioti per la totale assenza di parete cellulare (o di strutture con lo stesso significato funzionale) ed il possesso di una membrana cellulare contenente steroli. Nel presente lavoro è stata valuata l’attività antimicoplasmica di ulifloxacina su 5 ceppi di Mycoplasma hominis, 5 ceppi di Mycoplasma fermentans e 2 ceppi di Mycoplasma pneumoniae. Le MIC in vitro sono state ottenute mediante test di microdiluizione in brodo SP-4 ed utilizzando Staphylococcus aureus e Muller-Hinton II brodo come controllo. I risultati sono riportati in tabella. Batteri (numero di ceppi) M. hominis (5) M. fermentans (5) M. pneumoniae (2) µg/ml MIC50 MIC90 Range 1 0.125 - 1 0.125 - 1-2 0.06 – 0.125 1-4 La sensibilità in vitro è stato definita usando seguenti breakpoint: sensibile = MIC ≤1 µg/ml; intermedio= MIC 2 µg/ml e resistente= MIC ≥4 µg/ml. Ulifloxacina si è mostrata attiva nei confronti della quasi totalità dei ceppi saggiati, ad eccezione di un ceppo di Mycoplasma pneumoniae che si è mostrato resistente. DIAGNOSI RAPIDA DI MENINGITE BATTERICA Giacomazzi C.G.* ¥, Ferrari D.* ¥, Martini I.* ¥, McDermott J.L.*¥, Mannelli S. §, Varnier O.E.* ¥§ *Sez Microbiologia DISCAT Università e §Az. Ospedaliera Universitaria San Martino; ¥Centro Biotecnologie Avanzate, Genova La meningite batterica, detta anche meningite a liquor torbido, determina un grave quadro clinico che può evolvere rapidamente verso l’exitus del paziente. Una corretta diagnosi eziologica è necessaria per l’ottimizzazione della terapia antibiotica e per una adeguata profilassi sulla popolazione. È stato messo a punto un protocollo diagnostico Real Time PCR che consente di identificare Neisseria meningitidis, Streptococcus pneumoniae e Haemophilus influenzae con un’unica seduta di PCR permettendo così di diagnosticare o escludere un’infezione meningococcica in meno di due ore dall’arrivo del campione in laboratorio. In caso di risultato negativo è possibile eseguire ulteriori PCR specifiche per altre specie batteriche mentre nel caso in cui venisse isolata N. meningitidis si eseguono ulteriori Real Time PCR di tipizzazione del ceppo per i sierotipi A, B e C La metodica prevede l’estrazione del DNA dai campioni utilizzando il kit High Pure PCR Template Preparation (Roche Diagnostics), procedura che richiede 30-40 minuti, e la successiva esecuzione di una real-time PCR utilizzando il termociclatore LightCycler2 (Roche). Dal 2004 ad oggi sono pervenuti al nostro laboratorio 43 campioni da 40 pazienti dei quali 36 liquor e 7 sieri. Sono risultati positivi per N. meningitidis 10 campioni da 8 pazienti, per S. pneumoniae 8 campioni, 1 per L. monocytogenes e nessuno per H. influenzae. La tipizzazione delle N. meningitidis identificate ha visto 6 ceppi di sierotipo B e 4 di sierotipo C. Solo per 31 campioni è stata eseguita la diagnostica tradizionale in parallelo alla PCR per insufficiente volume dei campioni. Tra i campioni negativi all’esame colturale, sono risultati positivi in PCR 2 campioni per N. meningitidis, 1 per S. pneumoniae e 1 per L. monocytogenes. L’utilizzo della Real Time PCR nella diagnosi delle meningiti batteriche ha consentito di ottenere una diagnosi eziologica precisa in meno di due ore dall’arrivo del campione in laboratorio, o di escludere la presenza di N. meningitidis e quindi ovviare la necessità di una profilassi antibiotica sulla popolazione. La Real Time PCR è il test elettivo per la diagnosi delle meningiti batteriche qualora il paziente sia stato trattato con antibiotici prima della raccolta dei campioni, come suggerito dai risultati ottenuti in 4 campioni negativi all’esame colturale e positivi alla Real Time PCR. SOCIETÀ ITALIANA DI MICROBIOLOGIA 75 34° Congresso 06 5-10-2006 11:35 Pagina 76 ATTIVITÀ IN VITRO DI CEFDITOREN SUI BIOFILM PRODOTTI DAI PATOGENI COINVOLTI NELLE ESACERBAZIONI BATTERICHE ACUTE DELLE BRONCHITI CRONICHE (ABECB) Roveta S., Marchese A., Schito G.C. Sezione di Microbiologia, Di.S.C.A.T., Università di Genova Introduzione: In questo studio è stata verificata la capacità di cefditoren, una cefalosporina orale di terza generazione dotata di un ampio spettro d’azione sui principali patogeni respiratori, di inibire la sintesi e promuovere la disgregazione del biofilm prodotto dai microrganismi coinvolti nelle ABECB. Metodi: Sono stati impiegati tre stipiti recentemente isolati da campioni clinici di Haemophilus influenzae, Streptococcus pneumoniae, Moraxella catarrhalis, Staphylococcus aureus e Escherichia coli in grado di formare biofilm. La produzione di biofilm in H. influenzae, S. pneumoniae, M. catarrhalis è stata valutata secondo il protocollo descritto da Wen et al., (2005), mentre i ceppi di S. aureus e E. coli sono stati sottoposti a screening qualitativo con piastre di rosso Congo (Freeman et al. 1989). Cefditoren (Zambon Group, Milano) è stato utilizzato a concentrazioni tra 0.06-2 mg/l. La formazione di biofilm è stata quantificata spettrofotometricamente su micropiastre di polistirene (Cramton et al.,2001). Risultati: Utilizzando cefditoren 1 mg/l la sintesi di biofilm in H. influenzae, S. pneumoniae e M. catarrhalis è stata inibita più dell’80%. Alla stessa concentrazione la riduzione del biofilm variava tra 30-84% in S. aureus e 40-75% in E. coli. Cefditoren, alla stessa concentrazione, ha disgregato anche biofilm preformato, sia dopo maturazione iniziale (5 ore) che pienamente consolidata (48 ore). Il biofilm iniziale ha subito una disgregazione del 60-72% in H. influenzae, 80-85% in S. pneumoniae, 64-80% in M. catarrhalis. In S. aureus ed E. coli la disgregazione è stata più variabile (27-80% in S. aureus e 33-70% in E. coli) e dipendente dallo stipite considerato. Risultati analoghi sono stati ottenuti su biofilm maturi: cefditoren 1mg/l ha prodotto una disgregazione del 50-62% in H. influenzae, 58-74% in S. pneumoniae e 54 -69% in M. catarrhalis. Riduzioni meno evidenti sono state ottenute in S. aureus (6 -40%) e E. coli (20-43%). Conclusioni: Cefditoren, a concentrazioni facilmente raggiungibili nella mucosa bronchiale durante la terapia, ha prodotto nei microrganismi saggiati in vitro una significativa inibizione della sintesi e una riduzione del biofilm sia iniziale che consolidato. Questa caratteristica, se riscontrata anche in vivo, conferirebbe un vantaggio all’utilizzo di questa farmaco nel trattamento delle infezioni croniche, come le ABECB, sostenute da germi in grado di formare biofilm. PERSISTENZA DI BATTERI NON FERMENTANTI NEI REPARTI DI TERAPIA INTENSIVA Grasso E, Amodeo A, Grassi P, Torrisi C, Trapanotto P, Guardo G, Sciacca A Laboratorio Microbiologia Policlinico Universitario Catania Come è noto i reparti di Terapia Intensiva e Rianimazione (RIA) sono un serbatoio di batteri Gram-negativi non fermentanti(P.aeruginosa, A.baumannii e S.maltophilia), spesso multiresistenti . La somministrazione di un’adeguata terapia antibiotica diventa così un grosso problema da gestire perché oltre alle multiresistenze devono essere considerate le condizioni di base, spesso critiche, dei pazienti che si trovano ricoverati in questi reparti. E’ questo il caso di specie come A. baumannii che è intrinsecamente resistente alle cefalosporine di prima generazione, aminopenicilline, carbossipenicilline, cefamicine e piperacillina. Nel nostro studio abbiamo voluto monitorare l’isolamento di tali specie nel periodo compreso dal gennaio 2004 ad agosto 2006. La specie isolata con maggior frequenza è stata P.aeruginosa con 104 isolati seguita da A.baumannii.(n.51 ) e S. maltophilia (n.12) Un attento studio degli antibiogrammi eseguiti nell’arco di tempo considerato dallo studio ha permesso la valutazione delle eventuali diversità dei profili di antibiotico-resistenza di questi microrganismi Dei 104 isolamenti di P. aeruginosa il 35% dei ceppi isolati da pazienti ricoverati nel reparto di terapia intensiva neonatale, ha mostrato sensibilità solo per l’amikacina Gli altri ceppi di P.aeruginosa, isolati tutti da pazienti diversi, hanno evidenziato la presenza di 5 diversi profili. Indicando la variabilità e la non persistenza nel tempo di un unico clone. I 12 isolati di S.maltophilia, hanno mostrato profili diversi. Lo stesso profilo è stato notato su 3 ceppi provenienti da campioni diversi di uno stesso paziente. Tale risultato ci conforta nella “non importanza”, in un reparto a rischio, di questa specie batterica. I 15 ceppi di A.baumannii, provenienti da19 pazienti differenti. hanno mostrato tutti lo stesso profilo evidenziando la presenza di un ceppo epidemico che si trasmette da paziente a paziente. I ceppi di P.aeruginosa, S.maltophilìa e A.baumannii sono stati tutti identificati biochimicamente utilizzando le card ID-GN Vitek2 (BioMérieux) ed i pannelli GN Phoenix Becton Dickinson. 76 34° CONGRESSO NAZIONALE DELLA S A 34° Congresso 06 5-10-2006 11:35 Pagina 77 STUDIO IN VITRO DI ASSOCIAZIONI ANTIBIOTICHE MEDIANTE CHECKERBOARD: DIFFICOLTÀ TECNICHE RILEVATE CON CEPPI DI P. AERUGINOSA ISOLATI DA PAZIENTI CON (FC). Guardo G.; ScriffignanoV.; Grassi P.; Grasso E.; Torrisi C.; Patamia I.; Sciuto C; Stefani S.; Sciacca A. Dipartimento di Microbiologia ,Laboratorio Azienda Policlinico Broncopneumologia Dipartimento Pediatria Università Catania L’utilizzo delle associazioni antibiotiche è necessario nelle riacutizzazioni di infezioni croniche dei pazienti con FC e indispensabile in presenza di ceppi batterici multi-resistenti. Scopo del nostro lavoro è stato quello di saggiare in vitro su micropiastra - con il metodo di checkerboard – l’attività di alcune associazioni antibiotiche verso n. 15 ceppi di Pseudomonas aeruginosa isolati da pazienti con FC. Sono state saggiate le seguenti combinazioni antibiotiche: tobramicina + ciprofloxacina, tobramicina + piperacillina e piperacillina+ciprofloxacina Contemporaneamente veniva eseguito il test di associazione su piastra di Muller-Hinton con metodica di Kirby Bauer al fine di confrontare i due metodi. I risultati da noi ottenuti hanno messo in evidenza sinergia tra cip /pip nel 50% dei ceppi saggiati , tra tobr/pip nel 37,5% , tra cip/tobr nel 25% e un sinergismo parziale rispettivamente del 25% e 37,5% tra cip/pip e tob/cip. Indifferenza è stata riscontrata tra tob/pip nel 50% degli isolati. Risultati sovrapponibili sono stati ottenuti utilizzando il metodo di Kirby Bauer. L’esecuzione delle prove di sensibilità con metodica di checkerboard verso gli isolati non fermentanti ha messo in evidenza alcune difficoltà tecniche: alcuni saggi eseguiti su due ceppi mucoidi di P.aeruginosa richiedevano tempi di incubazione superiori di almeno 12 h, rispetto a quelli suggeriti; due ceppi di P.aeruginosa mucoidi non evidenziavano alcuna crescita anche dopo 48 h, pur essendo vitali nella conta dell’inoculo in piastra; in questi casi l’aumento dell’inoculo fino a 10 6consentiva di effettuare la lettura del saggio; Abbiamo migliorato la lettura dei tests ponendo in termostato a 37°C per 5’ l’inoculo batterico dei ceppi mucoidi ; In un caso è stato necessario abbassare la temperatura di incubazione a 30°C. Le nostre conclusioni sono che sarebbe necessario rivedere le metodiche per lo studio delle associazioni, tanto utilizzate nel caso di infezioni in questo gruppo di pazienti. PREVALENZA DI STAFILOCOCCHI METICILLINO RESISTENTI NELLE INFEZIONI NOSOCOMIALI Grasso E, Amodeo A, Grassi P, Torrisi C, Trapanotto G, Guardo G, Sciacca A. Laboratorio Microbiologia Policlinico Universitario Catania La diffusione negli ospedali di microrganismi resistenti agli antibiotici rappresenta un problema di grande entità: infatti l’abuso diffuso ed ingiustificato degli antibiotici contribuisce al fenomeno della resistenza batterica, agendo come fattore di selezione in grado di favorire nell’ambiente lo sviluppo di germi divenuti resistenti. Nella pratica giornaliera ci si interroga sul significato clinico da dare all’isolamento di Stafilococchi coagulasi negativi (SCN) dalle emocolture e nei cateteri specie in presenza di Stafilococchi meticillino resistenti. Va sottolineato che la maggior parte degli SCN isolati dalle emocolture sono contaminanti cutanei; ciò espone al rischio di un sovrautilizzo di antibiotici ed in particolare di vancomicina. Nel nostro studio sono stati analizzati gli Stafilococchi isolati dalle emocolture positive nel periodo Gennaio 2005 /Agosto 2006, provenienti da quei reparti considerati “critici”(uti, ematologia,). Con il Clinico del reparto è stata valutata la situazione del paziente ed in particolare: la terapia in atto, l’aggravamento o il miglioramento delle condizioni, la presenza di altri focolai di infezione, vari parametri chimici, presenza di leucocitosi o leucopenia, presenza di cateterizzazioni o drenaggi, aumento degli indici di flogosi (PCR, Fibrinogeno, VES) e tempo di positivizzazione del flacone. Sulla base di queste considerazioni si è stabilito se considerare l’isolamento di SCN una contaminazione o una vera batteriemia . I ceppi di Stafilococco sono stati tutti identificati biochimicamente utilizzando il sistema Phoenix Becton Dickinson. Risultati: sono stati isolati n° 3 S.aureus ,4 S.epidermidis e 1 S.hominis tutti produttori di beta- lattamasi e 3 S.homins, 6 S.haemoliticum e 13 S. epidermidis resistenti alla meticillina. Il numero di flaconi positivi è un buon parametro predittivo di infezione vera, ma va sempre correlato con il dato clinico. Vengono considerati indicativi di sepsi vera anche la crescita in coltura in meno di 36 ore, la multiresistenza e l’isolamento di S. hominis o di S. haemolyticus. La costruzione di rapporti di comunicazione costanti con i medici dei reparti e altri operatori sanitari è fondamentale perchè si traduce in una diminuzione del carico di lavoro e dei costi ma soprattutto in un beneficio concreto per il paziente SOCIETÀ ITALIANA DI MICROBIOLOGIA 77 34° Congresso 06 5-10-2006 11:35 Pagina 78 DNA-FINGERPRINTING DI STIPITI DI ENTEROCOCCUS FAECIUM VANCOMICINA-RESISTENTI E. Roscetto, A. Lambiase, G. Pulcrano, M. Del Pezzo, F. Rossano Dipartimento di Biologia e Patologia Cellulare e Molecolare “L. Califano”- Facoltà di Medicina e Chirurgia, Università di Napoli “Federico II”. Nell’ultimo decennio è stato descritto un aumento rilevante del numero di infezioni nosocomiali sostenute da enterococchi resistenti a diversi antibiotici; in particolare, enterococchi glicopeptide-resistenti sono stati isolati in ospedali d’Europa e del Nord America. Dati recenti evidenziano un ruolo sempre più importante dell’Enterococcus faecium resistente alla vancomicina (VRE. faecium). Obiettivo: Scopo del nostro studio è la caratterizzazione molecolare di isolati clinici di VR-E. faecium ottenuti da pazienti del reparto di Terapia Intensiva dell’Università di Napoli FedercoII. Materiali e metodi: Nel periodo Gennaio 2003-Dicembre 2004 sono stati esaminati 26 isolati di VR-E. faecium (la resistenza alla vancomicina e alla teicoplanina è stata determinata attraverso un metodo di microdiluizioni standardizzato in accordo con le linee-guida NCCLS). Tutti i ceppi sono stati ottenuti da diversi campioni biologici quali urine, sangue, cateteri, prelievi del tratto respiratorio. Genotipi vancomicina resistenti (Van-A, Van-B) sono stati identificati mediante PCR. I ceppi sono stati poi tipizzati mediante PFGE (pulsed field gel electrophoresis) utilizzando SmaI come enzima di restrizione. Risultati: Il nostro studio ha dimostrato una prevalenza del genotipo Van-A (20/26; 77%); nei rimanenti ceppi (6/26; 23%) è stato identificato il genotipo Van-B. L’analisi tramite PFGE e la comparazione dei patterns di restrizione SmaI hanno permesso di identificare un unico cluster: il cluster “A”. In questo cluster sono stati identificati 14 patterns (A1-A14) e 25 su 26 VR-E. faecium vi appartengono. Solo un ceppo ha mostrato un pattern differente (ceppo con pattern tipo B) ed è un ceppo con genotipo Van-B. Conclusioni: La presenza di VR-E. faecium è collegata a fattori di rischio quali immunosoppressione, trapianti di organo, esposizione ad antibiotici; i risultati del nostro studio suggeriscono che si può verificare all’interno degli ospedali la diffusione clonale di VR-E. faecium. L’uso della PFGE potrebbe essere utile ai clinici per attuare effettive misure di controllo dell’infezione al fine di contenere la diffusione di questi organismi. VALUTAZIONE DELLA RISPOSTA INFIAMMATORIA DI DUE DIFFERENTI FILI DI SUTURA DOPO INTERVENTI CHIRURGICI DEL CAVO ORALE C. Lombardo, E. Grasso, P. Grassi, C. Torrisi, V. Scriffignano, I. Patamia, A. Sciacca Laboratorio Microbiologia Azienda Ospedaliero-Univarsitaria di Catania Clinica di Odontoiatria 2°Azienda Ospedaliero-Universitaria di Catania Le ferite chirurgiche infette rappresentano una grave complicanza nei pazienti operati. Nella chirurgia orale la ferita è a stretto contatto con contaminazioni batteriche provenienti dal cavo orale ed in particolare saliva, residui alimentari, liquidi ingeriti, microrganismi,ecc. La manipolazione di materiali di sutura all’interno del cavo orale, come la loro rimozione, favorisce il passaggio in circolo di batteri, con il rischio di una batteriemia, particolarmente temuta nei pazienti con patologie sistemiche in atto.La presenza di materiale da sutura nella ferita favorisce lo sviluppo delle infezioni nella stessa; in particolare questo fenomeno è presente se il materiale utilizzato è un filo multifilamento.I materiali sintetici hanno consentito la produzione e l’immissione sul mercato di vari fili di sutura con caratteristiche diverse, buoni costi di produzione e qualità migliori. Abbiamo valutato la risposta infiammatoria, sia sotto l’aspetto clinico che batteriologico. Sono stati esaminati 55 pazienti(30 trattati con la seta e 25 con acido poliglicolico), di età compresa tra i 9 e 76 anni, che sono stati sottoposti ad interventi di chirurgia orale. Gli interventi sono stati eseguiti tutti nella regione dell’angolo della mandibola,essendo le regioni posteriori più difficili da trattare per l’igiene orale. Ai pazienti dopo l’intervento, è stato raccomandato l’uso di collutorio a base di clorexidina allo 0,2%. Dopo 8 giorni dalla data dell’intervento i punti sono stati rimossi e inviati in laboratorio. Nelle colture dei fili in seta nera si sono riscontrate alte cariche di batteri aerobi e numerose specie batteriche: S. viridans, Neisserie saprofite, Corinebatteri e Stafilococchi. Inoltre è stata rilevata la presenza di specie batteriche potenzialmente patogene: P. aeruginosa, K. pneumoniae, S. aureus, S. pyogenes ed Enterobatteri. In 9 suture abbiamo riscontrato la presenza di miceti, in particolare della Candida albicans. Le colture sui fili di sutura in acido poliglicolico hanno rilevato la presenza degli stessi ceppi batterici saprofiti isolati nei fili in seta, ma non è stata rilevata la presenza né di batteri patogeni, né di miceti. I batteri anaerobi sono stati riscontrati in entrambi le suture esaminate e appartengono alla stessa specie: Fusobacterium nucleatus, Peptococcus e Bacteroides melaninogenicus. Tali batteri sono stati rilevati con % sovrapponibili in tutti i due i tipi di fili. 78 34° CONGRESSO NAZIONALE DELLA S A 34° Congresso 06 5-10-2006 11:35 Pagina 79 ANEMIA SIDEROPENICA e RISCONTRO DI H.PYLORIS NELLE FECI Vaccaro L., Grassi P., Grasso E., Torrisi C., Scriffignano V., Trapanotto G., Patamia I., Sciacca A. Laboratorio Analisi Azienda Policlinico Università Catania Nell’ultimo decennio le conoscenze sul rapporto patologie umane ed Helicobacter pyloris si sono evolute ed ampliate . Si è assistito, inoltre, alla messa a punto di una grande varietà di test invasivi e di laboratorio che ha permesso di facilitarne la diagnosi. La ricerca diretta degli antigeni di Hp nelle feci ci consente di evidenziare l’infezione indipendentemente dalla localizzazione gastrica ma soprattutto ha permesso un largo uso nei bambini anche molto piccoli e la possibilità di verificare i risultati di una terapia eradicante dopo breve tempo. L’ antigene H.p. è stato ricercato, con metodo E.L.I.S.A., su 450 campioni di feci. I campioni fecali provenivano da piccoli pazienti la cui età era compresa tra 2-15 anni venuti alla nostra osservazione con sintomatologie varie : anemia sideropenica (70 %) piastrinopenia , scarso accrescimento, patologie intestinali (dolori, vomito, dispepsia, bruciori), malattie autoimmuni (tiroidite, celiachia, artriti autoimmuni) Il 30% dei pazienti con anemia sideropenica e piastrinopenia era risultato positivo per Hp , mentre nei piccoli con disturbi gastro-enterici la positività si riscontrava solo nel 10 % dei casi . Il contagio familiare è stato confermato nella nostra casistica, ben 9 nuclei familiari da noi osservati presentavano positività all’antigene Hp nelle feci Il trattamento antibiotico mirato per l’Hp è stato risolutivo in 11 pazienti con anemia sideropenica; infatti la stabile normalizzazione dei depositi marziali è stata ottenuta solo dopo terapia eradicante l’Hp e senza alcuna somministrazione di composti a base di ferro . L’elenco delle malattie correlato all’Hp tende ad aumentare ma sono soprattutto le prospettive di ricerca che sembrano sconfinare in campi fino a pochi anni fa inimmaginabili . VALUTAZIONE COMPARATIVA DEI SISTEMI REAL TIME ROCHE E ABBOTT PER LA DETERMINAZIONE DELLE CARICHE VIRALI HIV E HCV ML. Vatteroni, F. Maggi, S. Anzillotti, R. Morganti, S. Frateschi, M. Pistello, L. Ceccherini-Nelli, M. Bendinelli U.O. Virologia, Dipartimento di Patologia Sperimentale, Università di Pisa, Pisa. Nelle infezioni da HIV e HCV la carica virale ha notevoli implicazioni per la prognosi e la strategia terapeutica. Il nostro scopo è stato quello di valutare la performance di due sistemi real time recentemente introdotti in commercio esaminando campioni pervenuti alla U.O. per la determinazione della carica di HIV o di HCV. Lo studio è stato condotto su 140 campioni di siero/plasma selezionati in base alla carica virale valutata con COBAS AmpliPrep/COBAS TaqManTM HIV-1 Roche (68 campioni: 65 anti-HIV positivi e 3 anti-HIV negativi) e con COBAS AmpliPrep/COBAS TaqManTM HCV Roche (72 campioni: 63 anti-HCV positivi e 9 anti-HCV negativi) e stoccati a -80°C entro 6 ore dal prelievo. Dei campioni HIV, 24 erano risultati < 40 copie/ml e 44 avevano titolato tra 40 e 9.6 x 105 copie/ml. Di quelli HCV, 30 campioni avevano presentato una carica sotto 15 UI/ml, 40 avevano cariche comprese tra 15 e 0,69 x 108 UI/ml e 2 > 0,69 x 108 UI/ml. I campioni sono stati analizzati, rispettivamente, con i kit Abbott RealTime HIV-1 e RealTime HCV su apparecchiatura m2000rt secondo le procedure indicate dal produttore. L’estrazione degli acidi nucleici è stata effettuata in altro laboratorio mediante apparecchiatura automatizzata Abbott m2000sp. L’analisi con i sistemi Abbott è stata possibile solo su 125 (89%) dei 140 campioni in quanto 9 campioni HCV e 6 campioni HIV hanno generato un segnale di errore durante la fase di amplificazione/rilevazione. La valutazione comparativa dei risultati ottenuti con i due sistemi ha evidenziato una correlazione lineare con r=0,871 per le cariche di HIV e r=0,997 per le cariche di HCV. Otto campioni HIV con viremia compresa tra 40 e 1070 copie/ml sono risultati sotto il range analitico del test Abbott. Nei campioni HIV risultati positivi con ambedue i metodi, i valori Abbott sono stati mediamente inferiori di 0,66 log rispetto a quelli ottenuti Roche. Relativamente ad HCV, si è avuta piena concordanza tra i due sistemi per quanto attiene positività/negatività. I dati Abbott sono però stati mediamente inferiori di 0,85 log rispetto a quelli Roche. Da notare che, per ambedue i virus, i differenziali maggiori tra i titoli ottenuti con i due metodi si sono avuti esaminando i campioni a più alta carica virale. I dati sottolineano la necessità che, nonostante la continua evoluzione e standardizzazione delle metodiche, le cariche virali dei pazienti HIV e HCV siano seguite nel tempo utilizzando uno stesso sistema analitico. SOCIETÀ ITALIANA DI MICROBIOLOGIA 79 34° Congresso 06 5-10-2006 11:35 Pagina 80 CARATTERIZZAZIONE DI CEPPI DI NEISSERIA GONORRHOEAE A DIMINUITA SENSIBILITA’ ALLA TETRACICLINA Stefania Starnino1, Arianna Neri1, Paola Stefanelli1 e Gruppo di Studio “Progetto gonococco”2 1Dipartimento di Malattie Infettive Parassitarie ed Immunomediate -Istituto Superiore di Sanità- Roma 2 I. Dal Conte, R. Milano; Sergio Del Monte, F. Robbiano; A. D’Antuono, E. Galluppi, E. Mirone, O. Varoli; M. Cusini, L. Scioccati; A. di Carlo, G. Prignano. La tetraciclina viene largamente utilizzata in diversi Paesi per il trattamento delle coinfezioni da Neisseria gonorrhoeae (Ng) e Chlamydia trachomatis. Da una recente analisi condotta dall’Istituto Superiore di Sanità è emerso che 135 ceppi di Ng, su 216 analizzati, sono risultati a diminuita sensibilità verso la tetraciclina. In particolare, sono stati distinti 3 gruppi in base ai valori di MIC (Minima Concentrazione Inibente) ottenuti mediante E-test: 44% intermedi con 0.25≥MIC<2 µg/ml, il 10% a bassa e il 9% ad alta resistenza, con valori 2≥MIC<16µg/ml e MIC≥16 µg/ml rispettivamente. L’analisi molecolare ottenuta tramite PCR e sequenziamento del gene rpsJ, codificante la proteina ribosomiale S10, ha evidenziato la presenza di una sostituzione aminoacidica V57µM tra i ceppi definiti a bassa resistenza. Nei ceppi a più alta resistenza sono stati ritrovati i plasmidi definiti “American” e “Dutch”, contenenti il determinante molecolare di resistenza alla tetraciclina TetM. Il 55% dei ceppi intermedi alla tetraciclina è risultato resistente anche a penicillina e ciprofloxacina. La resistenza alla penicillina era dovuta esclusivamente alla presenza di un plasmide ß-lattamasi produttore definito di tipo “Africano” (44%) e di tipo “Toronto-Rio” (56%). I ceppi intermedi mostravano anche un 30% di resistenza alla ciprofloxacina, dovuta a mutazioni già descritte nei geni gyrA e parC. La tipizzazione molecolare ottenuta tramite PCR-RFLP dei geni opa, PFGE e NG-MAST, non ha tuttavia, evidenziato uno specifico clone circolante in Italia, nonostante la prevalenza di un opatipo, l’opatipo 1. In conclusione, questi dati preliminari rivelano che, sebbene la tetraciclina non venga utilizzata nella pratica terapeutica delle infezioni da Ng in Italia, un’elevata percentuale di ceppi risulta essere a diminuita sensibilità. La presenza di ceppi multiresistenti sottolinea la necessità di monitorare la sensibilità agli antibiotici per Ng, sebbene non sia stato finora evidenziato uno specifico clone resistente a uno o più antibiotici nel nostro Paese. AV119, UNO ZUCCHERO NATURALE, MODULA L’ESPRESSIONE DI HBD2 E CITOCHINE IN CHERATINOCITI UMANI INFETTATI CON MALASSEZIA FURFUR *Auricchio L., *Buommino E., *Orlando M., *De Filippis A., *Damiano N., °Piccardi N., °Msika P., §Cozza V., *Donnarumma G.,*Tufano M.A., *Dipartimento di Medicina Sperimentale, Sezione di Microbiologia e Microbiologia Clinica, Seconda Università degli Studi di Napoli, Italia. - °Laboratoires Expansciences, R and D Centre, Epernon, France. §Dipartimento di Matematica e Statistica, Università degli Studi di Napoli Federico II, Italia. AV119 è uno zucchero brevettato di origine naturale, in grado di indurre l’espressione genica della beta defensina-2 (HBD-2) in cheratinociti umani. In questo studio abbiamo analizzato l’effetto di AV119 sulla crescita e sulla capacità invasiva di Malassezia furfur, un lievito dimorfico lipide-dipendente, che fa parte del microbiota cutaneo umano, responsabile di patologie quali la psoriasi o la pitiriasi versicolor. E’ stata valutata, inoltre, la capacità dello zucchero di modulare l’espressione delle citochine proinfiammatorie e immunomodulatorie in cheratinociti umani. L’effetto di AV119 sulla crescita e sulla capacità invasiva di M. furfur è stata valutata pre-incubando i cheratinociti umani con lo zucchero alla concentrazione di 0.1% per 24 ore e, successivamente, stimolando con il lievito per 24 e 48 ore, in un rapporto lievito/cheratinocita di 30:1. Al termine dell’incubazione le piastre sono state lavate e colorate con May-Grumwald Giemsa e osservate al microscopio ottico per valutare l’avvenuta penetrazione del lievito nelle cellule. Inoltre, è stato raccolto l’RNA totale per analizzare l’espressione genica di HBD-2, IL-1α, IL-6, IL-8 e TGFβ-1. I risultati sono stati interpretati mediante l’utilizzo dell’ ANOVA. I nostri risultati indicano che AV119 è in grado di indurre l’aumento dell’espressione di HBD-2 nei cheratinociti, raggiungendo il massimo dopo 48 ore di trattamento. In aggiunta, quando i cheratinociti vengono pre-incubati con AV119 e successivamente stimolati con M. furfur, si osserva un forte incremento dell’espressione genica di IL-1α, IL-6 e IL-8, sia a 24 che a 48 ore, e una significativa riduzione del TGFβ-1. In contrasto, la sola stimolazione con il lievito evidenzia una riduzione dell’espressione delle citochine proinfiammatorie ed un aumento delle immunomodulatorie. Lo zucchero, inoltre, non modifica l’espressione genica delle citochine rispetto al controllo. Saggi microbiologici hanno dimostrato che AV119 è in grado di indurre l’aggregazione delle cellule di lievito inibendone l’invasività, senza alterarne la crescita. E’ stato dimostrato, inoltre, che il mezzo di coltura di cheratinoiciti trattati con lo zucchero, è in grado di inibire la crescita di M. furfur. Tale effetto potrebbe essere determinato dal rilascio, nel mezzo di coltura, della HBD-2 indotta da AV119. I dati ottenuti dimostrano che AV119 è in grado di indurre il recupero di una corretta risposta proinfiammatoria nei cheratinociti umani. Inoltre, poiché ha un effetto aggregante sul lievito, inibendone le capacità invasive potrebbe essere usato nella preparazione di creme cosmetologiche o farmacologiche, contrastanti la colonizzazione e l’invasività di cheratinociti da parte di M. furfur. Infine, questo studio potrebbe suggerire il possibile uso innovativo di AV119 nel trattamento di patologie cutanee complicate da infezioni ricorrenti da parte di funghi patogeni. 80 34° CONGRESSO NAZIONALE DELLA S A 34° Congresso 06 5-10-2006 11:35 Pagina 81 TEST IN VITRO, PER LA SELEZIONE COME POTENZIALI PROBIOTICI DI LACTOBACILLUS SP. ISOLATI DA LATTE E DERIVATI Ortu S.1, Usai D. 1, Molicotti P. 1, Sechi L.A. 1, Felis G.E. 1,2, Zanetti S1. 1 Dipartimento di Scienze Biomediche, Sezione di Microbiologia, Università degli Studi di Sassari 2 Dipartimento Scientifico e Tecnologico, Università degli Studi di Verona Negli ultimi anni un numero sempre maggiore di ceppi batterici appartenenti al genere Lactobacillus è stato selezionato per le proprietà prebiotiche o probiotiche. L’isolamento geografico della Sardegna, costituisce un elemento favorevole per la selezione di nuove e peculiari identità tassonomiche. La scarsa letteratura disponibile sulla caratterizzazione funzionale dei ceppi di Lattobacilli isolati da prodotti lattierocaseari sardi ha stimolato un nostro vivo interesse all’analisi di questa nicchia batterica ancora poco conosciuta. In questa prospettiva dall’analisi di un totale di 50 campioni, comprendenti latte crudo (bovino ed ovino) e yogurt preparato in modo artigianale da latte ovino (Gioddu), sono stati isolati ed identificati 16 ceppi appartenenti al genere di Lactobacillus. Per valutare le loro caratteristiche probiotiche, i risultati dei test effettuati su questi isolati sono stati confrontati con quelli di ceppi probiotici appartenenti alla stessa specie caratterizzati e/o isolati da prodotti probiotici commerciali. Per tale motivo, oltre all’identificazione genotipica e fenotipica per una collocazione tassonomica certa, è stata eseguita la resistenza all’acido gastrico simulato, la resistenza ai sali biliari, l’adesione a due diverse linee cellulari intestinali (Caco-2 e MIM/PPK). È stata investigata, inoltre, la presenza di plasmidi, l’abilità di produrre biofilm, la capacità di produrre sostanze con attività antibatterica, nonché la suscettibilità agli antibiotici. I risultati ottenuti da questi test preliminari mostrano che i ceppi da noi isolati potrebbero essere dei candidati interessanti per quanto riguarda il loro utilizzo come probiotici pertanto è probabile che i prodotti sardi possano costituire una importante fonte di lattobacilli con tali caratteristiche. DETERMINAZIONE DEL RISCHIO POTENZIALE DI INFEZIONE PER BORRELIOSI DI LYME ED ENCEFALITE TBE IN REGIONE FRIULI VENEZIA GIULIA Giulia Menardi1, Romina Floris1, Marialisa Bandi1, Katja Mignozzi2, Barbara Boemo2, Alfredo Altobelli2, Marina Cinco1 1 Laboratorio Spirochete, Dipartimento di Scienze Biomediche, Università di Trieste 2 Dipartimento di Biologia, Università di Trieste, Trieste, Italia Nell’ambito delle misure preventive nei confronti delle zoonosi trasmesse da vettori, il monitoraggio di questi e la conoscenza del loro grado di infettività sul territorio possono rappresentare un valido strumento di controllo. La zecca della specie Ixodes ricinus è il principale vettore della borreliosi di Lyme (BL) e del virus dell’encefalite TBE (Tickborne Encephalitis). Il Friuli Venezia Giulia (FVG) è zona endemica per la BL già dal 1986. In regione sono presenti le 3 specie patogene: B. afzelii, B. garinii e B. burgdorferi s.s.. La loro distribuzione e prevalenza sul territorio non sono ancora definite, perciò questo genere di dati fornirebbe informazioni importanti sulla circolazione delle genospecie ed il loro rapporto con i diversi tipi di borreliosi. Negli ultimi anni si è rilevata inoltre la comparsa del virus TBE con un incremento costante dei casi d’infezione. Ci si è proposti pertanto, di valutare il rischio potenziale di tali infezioni in FVG e nell’area transfrontaliera. A questo scopo, l’utilizzo di Sistemi Informativi Geografici (GIS), ha permesso l’integrazione dei dati epidemiologici, ossia prevalenza di B.burgdorferi e virus TBE in zecche e individuazione delle genospecie predominanti, ottenuti mediante tecniche biomolecolari, con dati biofisici e fitoclimatici, telerilevati. Sono state campionate 15 stazioni raccogliendo 2.444 esemplari di I. ricinus. B. burgdorferi è stata individuata amplificando una porzione cromosomiale dello spazio intergenico 5S-23S. Un nuovo sistema RFLP diretto verso il gene ospA ha permesso la genotipizzazione dei campioni positivi. Per la rilevazione del virus si è impiegata una nested-RT-PCR specifica per la regione non codificante all’estremità 5’ dell’RNA virale, seguita da sequenziamento per l’identificazione del sottotipo. Nel caso di B. burgdorferi, la prevalenza d’infezione per singola zecca ha dato valori tra 0 e 36.7% in rapporto agli ambienti considerati. La genotipizzazione ha dimostrato la prevalenza di B. afzelii (54.9%) rispetto a B. garinii (31.7%) e B. burgdorferi s. s. (6%) e il 3.6% di una specie non ancora determinata. Il virus TBE è stato rilevato in gran parte delle stazioni campionate con una prevalenza tra 0 e 70%. L’analisi di sequenza ha dimostrato un’omologia del 98.4% con il sottotipo Western European TBE. L’integrazione, tramite GIS, dei dati ottenuti dalle analisi biomolecolari con quelli telerilevati (sensore satellitare MODIS), ha permesso lo sviluppo di una mappa territoriale del rischio d’infezione per B. burgdorferi e per il virus TBE dalla quale emerge un rischio più elevato nell’ambiente carsico, per la prima e nell’ambiente prealpino carnico, per il secondo. SOCIETÀ ITALIANA DI MICROBIOLOGIA 81 34° Congresso 06 5-10-2006 11:35 Pagina 82 CASO DI NEFROPATIA ASSOCIATA A JC POLIOMAVIRUS IN UN PAZIENTE TRAPIANTATO DI RENE Ferrari D.* ¥, Giacomazzi C.* ¥, McDermott J.L.*¥, Rolla D.#, Cannella G.#, Varnier O.E.* ¥§ *Sez Microbiologia, DISCAT, Università; ¥DiMMI, Centro Biotecnologie Avanzate; §UO Microbiologia e #UO Nefrologia, Dialisi e Trapianto, Az. Ospedaliera Universitaria San Martino, Genova La reinfezione da Poliomavirus nel soggetto sottoposto a terapia immuno-soppressiva per trapianto renale costituisce una patologia infettiva emergente, soprattutto per lo specifico tropismo per l’epitelio transizionale, tubulare e parietale della capsula di Bowman di BKV. Viene descritto il caso (3° segnalazione in letteratura) di una nefrite tubulo-interstiziale progressiva ed irreversibile da JC poliomavirus in trapianto renale. Si è trattato di una paziente di 53 anni, sottoposta a trapianto di rene da donatore cadavere nel novembre 2004, trattata con basiliximab in induzione e quindi con tacrolimus, mofetil-mycofenolato (MMF) e steroide, che è stata ricoverata nel luglio 2005 per un improvviso deterioramento della funzione renale. La biopsia renale dimostrava un’intensa flogosi tubulo-interstiziale di tipo linfoplasmacellu-lare associata a diffuse modificazioni nucleari, in assenza di segni di glomerulite e con negativa la ricerca di C4d. La ricerca di poliomavirus in campioni sequenziali di plasma e urine mediante LighCycler Real Time PCR, utilizzando un protocollo modificato della Mayo Clinic con due amplificazioni specifiche, non ha evidenziato la presenza di sequenze specifiche di BK, mentre una viruria persistente è stata quantificata nei 2 campioni esaminati di urina con livelli superiori a 1x108 copie di DNA per ml. I campioni di plasma contenevano > di 105 copie di JCV DNA per ml. In parallelo è risultata positiva la ricerca di Decoy cells nell sedimento urinario, mentre gli esami virologici hanno escluso una viremia da citomegalovirus. La sospensione di MMF e la somministrazione pulsata quindicinale di cidofovir alla dose di 0.5 mg/Kg, incrementata a 1 mg/Kg per il 4° e 5° ciclo, complicata da severa acidosi tubulare, induceva soltanto una minima riduzione della JCV viremia (da 168.00 a 125.000 copie dopo il 3° ciclo). Nel dicembre 2005 la paziente è stata sottoposta e nefrectomia del rene trapiantato per uremia irreversibile. L’analisi microscopica del tessuto renale evidenziava aspetti morfologici tipici dell’infezione da poliomavirus e l’esame molecolare confermava la presenza di 130.000.000 di copie di JCV DNA per ug di tessuto renale. In letteratura sono stati descritti solo due probabili casi di nefropatie irreversibile da JCV, mentre il caso da noi descritto è il primo ad avere una documentata viremia persistente da JCV che precede una grave nefropatia con nefrectomia in una paziente trapiantato di rene. Cag A E Vac A DI HELICOBACTER PYLORI INIBISCONO LA PROLIFERAZIONE DI CELLULE EPITELIALI GASTRICHE Buommino E.1, De Luca A.2, , Manente L.1, Paoletti I.1, Iovene M.R.1, Tufano M.A.1 1Dipartimento di Medicina Sperimentale, Sezione di Microbiologia e Microbiologia Clinica, Seconda Università degli Studi di Napoli 2Dipartimento di Medicina Pubblica, Clinica e Preventiva, Sezione di Anatomia Clinica, Seconda Università degli Studi di Napoli. Lo scopo del nostro lavoro è stato quello valutare gli effetti sulla cinetica cellulare di alcune proteine secrete dall’Helicobacter pylori. Studi precedenti, condotti dal nostro gruppo, hanno dimostrato che la co-espressione di GagA e di HspB in cellule epiteliali gastriche (AGS) induceva un aumento della frazione di cellule in fase S/G2-M del ciclo cellulare (Cancer Research 2003, 63: 6350-6356). In seguito, ci siamo interessati all’effetto di VacA sul ciclo cellulare da sola o in combinazione con le altre due proteine già analizzate precedentemente: CagA e HspB. I nostri esperimenti sono stati condotti su cellule epiteliali gastriche (AGS) transfettate con vettori di espressione codificanti per CagA, HspB e VacA ed analizzate con il citofluorimetro. I nostri risultati indicano che VacA è in grado di inibire la progressione del ciclo cellulare dalla fase G1-S. E’ stato interessante notare che questo effetto è differente se gli esperimenti sono condotti su AGS ciclanti o su AGS sincronizzate nella fase G1 del ciclo cellulare. In entrambi i casi si nota un accumulo nella fase G1 del ciclo cellulare ma si osserva una differente sensibilità all’apoptosi. Infatti, in seguito alla transfezione di VacA, nelle cellule ciclanti la frazione di cellule apoptotiche è inferiore rispetto a quella osservata nelle cellule sincronizzate. Il passo successivo è stato analizzare quale fosse il pathways apoptotico attivato da VacA. Abbiamo dimostrato, che in seguito alla transfezione con VacA, viene attivata sia la caspase8 (coinvolta nel pathway recettore-mediato) sia la caspase9 (coinvolta nel pathway mitocondriale) ed in particolare la caspase9 ha una attività molto alta rispetto alla caspase8. Questo suggerisce l’ipotesi che entrambi i pathways cooperano al programma di morte cellulare indotto da VacA con una prevalenza del pathway mitocondriale. In fine, abbiamo mostrato che VacA è in grado di indurre un blocco nella fase G1 del ciclo cellulare anche quando viene co-transfettata con CagA o HspB. Questi dati forniscono ulteriori informazioni sul meccanismo molecolare attraverso cui le proteine secrete dall’Helicobacter pylori alterano lo stato di crescita delle cellule epiteliali gastriche. 82 34° CONGRESSO NAZIONALE DELLA S A 34° Congresso 06 5-10-2006 11:35 Pagina 83 GSH-C4: UN DERIVATO DEL GLUTATIONE CON POTENTE ATTIVITA’ ANTINFLUENZALE R. Sgarbanti1, L. Nencioni1, M. Magnani2, E. Garaci3, A. T. Palamara1 1Dip. Sc. Sanità Pubblica, Univ. Roma “La Sapienza”; 2Ist. Biochimica, Univ. Urbino; 3Dip. Med. Sper. Sc. Bioch., Univ. Roma “Tor Vergata” Diversi virus provocano una variazione dello stato redox intracellulare in senso pro-ossidante mediante deplezione di glutatione (GSH), principale antiossidante intracellulare. Numerose evidenze sperimentali suggeriscono che tali alterazioni abbiano un ruolo rilevante nella patogenesi delle infezioni virali attraverso l’attivazione di fattori di trascrizione e di vie di signalling intracellulare, importanti nella risposta infiammatoria e nella regolazione del ciclo replicativo virale. Il nostro gruppo di ricerca ha dimostrato che la somministrazione di GSH corregge lo stress ossidativo ed inibisce la replicazione di virus a RNA e DNA sia in vitro che in vivo. Più recentemente è stata descritta l’attività antivirale del GSH-C4, derivato butanoile del GSH con aumentate proprietà idrofobiche, contro il virus Sendai e Herpes Simplex-1. Obiettivo del nostro studio è stato quello di valutare l’efficacia del GSH-C4 sulla replicazione del virus influenzale A/PR8/H1N1 ed identificarne il meccanismo d’azione. I risultati ottenuti dimostrano che il GSH-C4 inibisce la replicazione virale in maniera dose-dipendente. In particolare, il titolo virale, misurato sia in HAU che in PFU nel sovranatante di cellule trattate con GSH-C4 10 mM, era ridotto del 90% rispetto al controllo, senza alcun effetto tossico sulle cellule non infettate. L’analisi in western blot delle proteine virali ha rivelato che il GSH-C4 provoca un abbassamento del peso molecolare della proteina emoagglutinina (HA) di circa 5 kDa rispetto alle cellule di controllo. Inoltre, mediante immunofluorescenza è stato messo in evidenza che il trattamento con GSH-C4 impedisce la localizzazione della HA sulla membrana cellulare, fenomeno normalmente osservato 24 ore dopo l’infezione nelle cellule di controllo. Tali risultati fanno ipotizzare che il GSH-C4 possa interferire con la formazione dei legami disulfidici presenti nella struttura dell’HA compromettendo la stabilità della molecola e, come conseguenza, i processi di glicosilazione che precedono la localizzazione in membrana. L’aggiunta di GSH-C4 a cellule infettate inibisce inoltre la fosforilazione della pkC e delle chinasi a valle e blocca la traslocazione nucleare della subunità p65 del fattore di trascrizione NF-κB. L’efficacia antivirale e la capacità di interferire con le vie di segnalazione implicate nella risposta infiammatoria fanno del GSH-C4 un nuovo potenziale strumento contro il virus influenzale. CIRCULATION OF HUMAN METAPNEUMOVIRUS-ASSOCIATED LOWER RESPIRATORY TRACT INFECTIONS IN INPATIENTS CHILDREN Sonia Caracciolo, Daniele Rossi, Arnaldo Caruso, Simona Fiorentini University of Brescia Medical School, Dept. of Experimental and Applied Medicine Section of Microbiology, Brescia, Italy Acute respiratory tract infections (ARTIs) are a leading cause of morbidity and mortality in children, but the aetiology of many ARTIs is still unknown. Recently, several previously unrecognized respiratory pathogens has been identified. In 2001, researchers in The Netherlands reported the discovery of the human metapneumovirus (hMPV) and, since its initial description, it has been associated with ARTI in individuals of all ages. The incidence of infection varies from 1.5% to 25%, indicating that hMPV is a ubiquitous virus with a worldwide distribution. hMPV seems to play an important role as a cause of paediatric upper and lower respiratory tract infection, with similar, but not identical, epidemiological and clinical features to those of respiratory syncytial virus (RSV) and influenza virus. Aim of this study was to estimate the incidence of hMPV in children hospitalized in the Brescia Children’s Hospital with clinical symptoms of ARTI and to evaluate the molecular epidemiologic profile of hMPV infection. Our study, performed on nasal washes collected from November 2005 to April 2006 and assessed by RT-PCR, revealed that hMPV were found in 24,8% of paediatric inpatients. Dual infection by hMPV and RSV was detected in 19 of 157 (12.1%) children hospitalized and it is interesting to note that 74.3% of hMPV was detected concomitantly to other respiratory viruses suggesting that hMPV can contribute to the worsening of clinical conditions in children with ARTI. The phylogenetic analysis based on the RT-PCR product sequences of F gene shows that different hMPV genotypes simultaneously circulated during the study period. In particular, we were able to detect hMPV isolates belonging to all the four previously described genogroups A1, A2, B1 and B2. This work shows that hMPV is a common pathogen in children with ARTI and that a concurrent annual circulation of all 4 hMPV subtypes was common in our study population. However, because this study evaluates only one winter season with a relative low number of hMPV infected children, further researches are needed to elucidate the quantitative and qualitative importance of hMPV infection. SOCIETÀ ITALIANA DI MICROBIOLOGIA 83 34° Congresso 06 5-10-2006 11:35 Pagina 84 RUOLO DELLA REGIONE PRE-TRANSMEMBRANA DELLA GLICOPROTEINA gH NEL PROCESSO DI FUSIONE E NELL’INFETTIVITÀ DI HSV-1 Massimiliano Galdiero1, Mariateresa Vitiello1, Marina D’Isanto1, Annarita Falanga1, Aikaterini Kampanaraki1, Carlo Pedone 2,3, Stefania Galdiero 2,3 1Dip. Medicina Sperimentale, Sez. di Microbiologia e Microbiologia Clinica, Seconda Università degli Studi di Napoli; 2Dip. di Scienze Biologiche, Divisione Biostrutture, Università di Napoli Federico II; 3Ist. di Biostrutture e Bioimmagini, CNR, Napoli Gli herpesvirus sono virus ad envelope complesso caratterizzati dalla presenza di almeno 12 glicoproteine. Diversamente dagli orthomyxovirus, paramyxovirus, filovirus e retrovirus che utilizzano una sola glicoproteina per la fusione di membrana, il processo di fusione mediato dagli herpesvirus è molto più complesso e prevede il coinvolgimento di almeno 3 glicoproteine quali la glicoproteina B (gB), la glicoproteina H (gH) e la glicoproteina L (gL), tutte altamente conservate nella famiglia Herpesviridae. Oltre a queste glicoproteine, il processo di fusione è mediato dalla cooperazione con altre gicoproteine diverse a secondo della specie di Herpes. La fusione mediata da HSV-1 richiede l’intervento di 4 differenti glicoproteine (gB, gD, gH e gL). Noto è il ruolo di ciascuna proteina coinvolta nel processo di fusione degli herpesvirus, quello che invece non è chiaro è il meccanismo molecolare con cui tali glicoproteine cooperano al processo di fusione e quali sono i sistemi di interazione tra loro. In questo studio abbiamo esaminato il ruolo della regione pre-transmembrana della glicoproteina gH di HSV-1 evidenziando il coinvolgimento di questo dominio e di alcuni peptidi derivati da questa regione nel processo di fusione e nell’inibizione dell’infettività virale. MODIFICAZIONI PATOFISIOLOGICHE NELLE INFEZIONI DA BATTERI GRAM-NEGATIVI RIPRODOTTE DA UN PEPTIDE SINTETICO CHE MIMA LA SEQUENZA DEL LOOP 7 DELLA PORINA DI HAEMOPHILUS INFLUENZAE Marilena Galdiero1, Marina D’Isanto1, Katia Raieta1, Emiliana Finamore1, Michele D’Amico2, Clara Di Filippo2, Carmela Moccia1, Maria Caiazza1, Mariateresa Vitiello1 Dipartimento di Medicina Sperimentale, Sez. di Microbiologia e Microbiologia clinica1 e Sez. di Farmacologia2, Seconda Università di Napoli. La sepsi e lo shock settico nelle infezioni sostenute da batteri gram-negativi sono caratterizzate da ipotensione e disfunzioni a carico di più organi e risultano associati ad un’attivazione non controllata della coagulazione e dei sistemi fibrinolitici. Sebbene sia stato ampiamente documentato che l’LPS rivesta un ruolo centrale nella patologia associata alle infezioni mediate da questi organismi, numerosi lavori dimostrano che anche altri componenti dei batteri gram-negativi, incluse le proteine della membrana esterna, svolgono un ruolo fondamentale. In particolare, è ben documentato che le porine giocano un ruolo cruciale nella patogenesi batterica e che sono coinvolte nei fenomeni di adesione ed invasione. L’attività biologica della porina P2 di Haemophilus influenzae è svolta dalle sequenze amminoacidiche che costituiscono i loop esposti in superficie della porina. In questo studio abbiamo dimostrato in vivo che il peptide del loop 7 (L7) della porina P2 di H. influenzae ha effetto simile a quello dell’endotossina sui parametri emodinamici, biochimici, di coagulazione, di fibrinolisi e sul rilascio di citochine infiammatorie. I nostri risultati dimostrano che la somministrazione endovenosa di L7 in ratti aumenta significativamente la frequenza cardiaca inducendo un effetto ipotensivo dopo 3h che è ancora significativo dopo 8h, ed è inoltre associata ad un aumento delle concentrazioni plasmatiche di molecole coinvolte nel danno tissutale: PAI-1 (inibitore dell’attivatore del plasminogeno), tPA (attivatore tissutale del plasminogeno) ed E-selettina. I risultati confermano l’importanza del loop L7 per l’attività biologica svolta anche in vivo e permettono di ipotizzare che i loop di superficie possono essere considerati target per il disegno di molecole complementari utili per lo sviluppo di terapie innovative. 84 34° CONGRESSO NAZIONALE DELLA S A 34° Congresso 06 5-10-2006 11:35 Pagina 85 ATTIVITÀ ANTIVIRALE DI ESTRATTI DI MELALEUCA ALTERNIFOLIA (TEA TREE OIL) NEI CONFRONTI DEL VIRUS DELL’INFLUENZA A B. Bisignano1, R. Timpanaro1, A. Garozzo1, G. Mandalari2, G. Bisignano2, P.M. Furneri1, A. Stivala1, A. Castro1 1 Dipartimento di Scienze Microbiologiche e Scienze Ginecologiche, Università di Catania 2 Dipartimento Farmaco-biologico, Università di Messina L’influenza è una malattia infettiva acuta che causa enorme morbilità in tutto il mondo. L’epidemie influenzali sono causa anche di elevata mortalità soprattutto quando emergono nuovi ceppi virali. Sono noti i meccanismi biomolecolari che regolano la replicazione del virus influenzale, e, su questa base, sono stati sviluppati diversi composti antiinfluenzali, ma la loro efficacia è spesso limitata dalla tossicità o dalla inevitabile selezione di ceppi mutanti resistenti. In precedenti ricerche è stata dimostrata l’attività antimicoplasmica e anti-Herpes simplex dell’olio di Melaleuca alternifolia (TTO: Tea tree oil), una pianta della famiglia delle Myrtaceae presente solamente in alcune zone dell’Australia e nota fin dai tempi più antichi per le sue proprietà antisettiche. I composti organici contenuti nel TTO consistono principalmente in monoterpeni ossigenati e non ossigenati, sesquiterpeni e alcoli triterpenici. La nostra ricerca si è basata sullo studio dell’attività antivirale in vitro dell’olio essenziale di Melaleuca alternifolia e di alcuni suoi costituenti nei confronti del virus dell’Influenza A/Puerto Rico 8/34 H1N1 (PR8) in cellule MDCK. L’inibizione della replicazione del virus è stata valutata mediante l’inibizione diretta dell’effetto citopatico e mediante il saggio dell’attività emoagglutinante, dopo 24 e 48 h d’incubazione. Il TTO si e mostrato in grado di inibire la replicazione del virus dell’Influenza A/PR8 fino a concentrazioni di 0,00125%. I costituenti del TTO che hanno dimostrato attività antinfluenzale sono stati il terpinem 4ol, l’α-terpineolo ed il terpinolene. Gli esperimenti condotti allo scopo di evidenziarne un eventuale azione diretta sul virus, non hanno dimostrato per tutti i composti una attività virucida nei confronti del virus influenzale. Allo scopo di determinare quale fase del ciclo replicativo virale fosse inibita da questi composti sono stati effettuati esperimenti con aggiunta del TTO a tempi diversi dall’infezione. I risultati ottenuti hanno dimostrato un’interferenza sulle prime fasi del ciclo replicativo virale successive all’adsorbimento; la massima riduzione dell’infettività è stata dimostrata quando la sostanza veniva aggiunta subito dopo ed entro 1 ora dopo il periodo d’adsorbimento. LA MICROFLORA ORALE DI SOGGETTI CON DIVERSE ABITUDINI ALIMENTARI: CONFRONTO TRA METODO COLTURALE E METODO MOLECOLARE Franco Bianchi, Caterina Signoretto, Gloria Burlacchini e Pietro Canepari Dipartimento di Patologia, sezione di Microbiologia, facoltà di Medicina e Chirurgia,Università di Verona. Associazioni individuate di recente tra salute orale e malattie sistemiche hanno portato ad un rinnovato interesse per le malattie del cavo orale. E’ dimostrato che esiste un legame tra l’alimentazione e le malattie sistemiche ma il legame tra nutrizione e salute del cavo orale non è stato ancora dimostrato. Studi recenti hanno dimostrato che in alimenti quali caffè, caffè d’orzo, te, vino, succo di mirtillo sono contenute sostanze, appartenenti alla famiglia dei polifenoli, che possiedono attività inibente il processo di adesività batterica alla superficie dentale. Scopo di questo lavoro è stato identificare differenze nella composizione della microflora orale in campioni di placca sovra e sottogengivale e successivamente correlare questi dati con le abitudini alimentari. La grande variabilità e complessità della microflora orale e la presenza di batteri anaerobi riduce l’efficacia dell’uso delle tecniche microbiologiche classiche. Tecniche molecolari basate sulla PCR combinate con metodi separativi, nel caso di questo lavoro la PCR-DGGE, offrono la possibilità di analizzare popolazioni complesse in breve tempo e in modo affidabile. La PCRDGGE consiste nell’amplificazione di una specifica regione del DNA e successiva separazione in un gel di acrilammide in presenza di un gradiente di denaturante (DGGE) che permette di separare i frammenti in base alle loro proprietà di dissociazione. In questo studio è stata amplificata la regione V2 e V3 del 16S rDNA dei batteri presenti in campioni di placca sopra e sotto gengivale e successivamente i frammenti sono separati mediante la DGGE con l’obiettivo di identificare i batteri che la compongono e differenze quali/quantitative nelle due zone di prelievo. Un lavoro successivo sarà quello di correlare i risultati con le abitudini alimentari. Mediante tecnica sono state identificate specie batteriche appartenenti ai generi Lattobacillus, Gemella, Campylobacter, Treponema, Fusobacterium, Selenomonas, Veillonella, Enterococcus, Neisseria, Actinomyces. I risultati ottenuti dimostrano la grande sensibilità del metodo molecolare. Tale tecnica ha consentito di individuare significative differenze nella composizione della placca sopra e sotto gengivale. Inoltre pare emergere anche una correlazione tra abitudini alimentari e qualità della placca gengivale. SOCIETÀ ITALIANA DI MICROBIOLOGIA 85 34° Congresso 06 5-10-2006 11:35 Pagina 86 PROCALCITONINA E CD64 COME MARCATORI DI SEPSI: RISULTATI DI UNO STUDIO PRELIMINARE NEI PAZIENTI DELLA TERAPIA INTENSIVA Cardelli P.; Amodeo R.; Ferraironi M.; Sessa R*.; Tabacco F.; Costante A.; De Blasi R.; Petrucca A.; Cipriani P. Azienda Ospedaliera Sant’Andrea - Roma *Dipartimento di Sanità Pubblica, Università La Sapienza di Roma La letteratura scientifica riporta a tutt’oggi, nei pazienti in terapia intensiva, una morbidità e una mortalità dovuta a sepsi variabili tra il 35 e il 70%, e questo nonostante le terapie antibatteriche sempre più mirate. Uno tra i motivi che possono giustificare queste percentuali così elevate è la difficoltà di effettuare precocemente diagnosi di sepsi. A questo va aggiunto che risulta molto difficile discriminare tra sepsi e systemic inflammatory response sindrome (sirs). In questo studio, abbiamo valutato le indicazioni che si ottengono confrontando il risultato relativo alla procalcitonina (PCT), alla conta dei PMN, alla proteina C reattiva (CRP) e a quello del CD64, un antigene di superficie dei PMN che si esprime precocemente in caso di sepsi. Sono stati reclutati 30 pazienti ricoverati in Terapia Intensiva dell’ospedale Sant’Andrea di Roma, suddivisi in: gruppo 1 (pazienti con sirs; n=16); gruppo 2 (pazienti con sepsi; n=14); gruppo 3 (gruppo di controllo; n=18). La PCT è stata determinata con metodica immunoluminometrica con sistema Kriptor (Bramhs), la CRP è stata determinata con metodo nefelometrico (Ortho), il CD64 è stato dosato con metodo citofluorimetrico utilizzando il QuantiBrite CD64 (BD). La significatività statistica è stata invece determinata con il programma Prisma 4 (GraphPad Prism). I risultati hanno permesso di definire un valore di cut-off (mediante curva ROC) di 2398 molecole/cellula neutrofila in grado di discriminare i pazienti con sepsi (gruppo 2) dai pazienti con sirs (gruppo 1). A differenza del CD64, l’espressione della PCT dosata negli stessi gruppi di pazienti oggetto di questo studio non mostra differenze significative tra i due gruppi. Per quanto riguarda la CRP e la conta dei PMN non vi è correlabilità con la gravità della patologia. In conclusione riteniamo che i dati preliminari finora ottenuti siano incoraggianti per quanto riguarda l’utilizzo del CD64 come marcatore precoce per distinguere pazienti con sepsi e pazienti con sirs. CARATTERIZZAZIONE GENETICA E MOLECOLARE DEI GENI CODIFICANTI IL FLAGELLO IN CEPPI DI STENOTROPHOMONAS MALTOPHILIA ISOLATI DA PAZIENTI CON FIBROSI CISTICA (FC). F. Del Chierico1, P. Cipriani2, A. Petrucca2, S. Cannavacciuolo1, M. Casalino3, B. Colonna4, A. Calconi4, F. Superti5, M. G. Ammendolia5, L. Bertuccini5, A. Ianieri6, D. Paludi7 E. Fiscarelli8 e M. Nicoletti1. Dip. di Sc. Biomediche, Un. G. D’Annunzio, Chieti1; Biologia, Un. RomaTre3; Biol. Cell. e dello Sviluppo, Un. La Sapienza, Roma4; Sicurezza degli Alimenti, Un. di Parma6; e Sc. degli Alimenti, Un. di Teramo7; Lab. Microbiologia, Osp. Sant’Andrea2, Ist. Superiore di Sanità5, e Osp. Ped. Bambin Gesù, Roma8. S. maltophilia è un batterio ambientale emerso come opportunista associato ad infezioni nosocomiali ed in pazienti FC. Ad oggi, scarse sono le informazioni riguardo i suoi fattori di virulenza (flagelli, biofilm, proteine secrete, etc.) ed il loro ruolo nella patogenesi. In questo lavoro abbiamo valutato alcuni caratteri di virulenza di due cloni di S. maltophilia isolati da pazienti FC. Entrambi i ceppi aderiscono a linee cellulari in coltura (A549 e HeLa) ed invadono monostrati di cellule A549, producono biofilm su plastica, ma non su vetro, ed apparentemente non sembrano possedere un sistema di secrezione di tipo III funzionante. I flagelli svolgono un ruolo importante per la colonizzazione e la diffusione del microrganismo. In Pseudomonas ed E. coli è ben documentata la capacità dei flagelli di mediare aderenza ed invasione così come la formazione di biofilm. Al fine di stabilire il ruolo del flagello di S. maltophilia sui suddetti profili di virulenza, abbiamo iniziato la costruzione di mutanti nulli dei due ceppi per l’ATPase associata al flagello. Utilizzando primer degenerati, è stata amplificata una regione di 1.3 kb di S. maltophilia la cui sequenza è omologa (99%) al gene fliI di Xanthomonas campestris che codifica per l’ATPase associata al flagello. Utilizzando la sequenza determinata e mediante “primer-walking” abbiamo sequenziato un frammento di 3.5 kb contenente le regioni fiancheggianti l’ATPase. Tale frammento è stato successivamente amplificato e clonato e, nella regione codificante il putativo gene fliI, è stata introdotta una delezione di 1148 bp ed al suo posto inserita una cassetta cloramfenicolo (Cmr). Il costrutto così ottenuto è stato clonato nel vettore suicida pEX18Tc ed il plasmide ricombinante introdotto in S. maltophilia per coniugazione. Mutanti Cmr sono stati isolati e saranno utilizzati per definire il ruolo del flagello nella patogenicità di S. maltophilia. La ricerca è stata finanziata dalla Italian Cystic Fibrosis Research Foundation- Project adopted by “Famiglia Pizzinato (PN)”. 86 34° CONGRESSO NAZIONALE DELLA S A 34° Congresso 06 5-10-2006 11:35 Pagina 87 L’ACIDO 5-AMINOLEVULINICO INIBISCE LA REPLICAZIONE DI HSV-1 IN CHERATINOCITI UMANI Grimaldi E., Paoletti I., Donnarumma M., De Filippis A., Buommino E., Ayala F., Tufano M.A. Dipartimento di Medicina Sperimentale, Sezione di Microbiologia e Microbiologia Clinica, Seconda Università degli Studi di Napoli L’ acido 5- aminolevulinco (5-ALA) è una sostanza utilizzata nella Terapia fotodinamica cutanea (PDT), applicabile ai tumori della cute, a lesioni pretumorali, a lesioni ad eziologia virale (verruche) e alla psoriasi. In questo studio è stata valutata l’attività dell’acido 5-aminolevulinico, in seguito a fotoattivazione, su cheratinociti umani coltivati in vitro. La valutazione degli effetti di questa sostanza sulla replicazione virale e gli effetti del 5-ALA sulla regolazione dell’espressione delle proteine virali e sull’attivazione del fattore trascrizionale NF-kB sono stati oggetto della nostra ricerca. A tale scopo, cellule HaCat sono state coltivate in mezzo DMEM supplementato con 10%FBS. Al fine di valutare gli effetti del 5- ALA sulla replicazione di HSV-1, è stato utilizzato il saggio di riduzione placche. Inoltre, per comprendere il possibile meccanismo di azione antivirale di questa molecola, o più precisamente della protoporfirina IX (PpIX) molecola fotosensibilizzante vero bersaglio della fotoattivazione di cui il 5-ALA è un precursore, sono stati analizzati gli effetti sulla regolazione dell’espressione delle proteine virali VP16, ICP27, gD e sull’attivazione del fattore trascrizionale NF-kB. A tale scopo, cheratinociti umani sono stati infettati con HSV-1 (MOI 0.1), trattati con ALA (1; 0,5; 0,25 mM) per 3 h e poi irradiati con una fonte di luce policromatica (40 J cm -2)per 20’. Dopo 24 , 48 e 72 h sono state estratte le proteine totali e mediante western- blot è stata analizzata la modulazione dell’ espressione di VP16, ICP27, gD e IkB. I nostri risultati mostrano un’inibizione totale della formazione delle placche con una concentrazione di Ala di 1 e 0.5 mM. L’espressione delle proteine virali ICP-27, VP16 a 48 e 72 h è inibita con concentrazioni di ALA di 1 e 0,5 mM. Dopo 72 h con ALA 0,25mM, l’espressione di tali proteine ritorna ai livelli del controllo. L’espressione della proteina virale gD, già visibile dopo 24 h d’infezione nei controlli infetti, mostra un andamento analogo alle altre proteine virali. Inoltre IkB risulta degradato in cellule infettate con HSV-1 anche in presenza di 5-ALA. Ciò suggerisce che la sostanza non interferisce con l’attivazione di NF-kB HSV-1 mediata. In conclusione i nostri dati suggeriscono che il 5-ALA, grazie alla sua capacità di accumularsi selettivamente nelle cellule infette rispetto a quelle sane, agisce riducendo drasticamente l’infettività virale.Le procedure di inattivazione fotodinamica possono avere diversi meccanismi d’azione relativamente alla sostanza fotosensibile utilizzata e al virus coinvolto. Nel caso delle ematoporfirine e dell’HSV-1sembra risultino danneggiate alcune delle proteine virali di superficie. Ulteriori studi ci potranno chiarire se il danno sia dovuto alla formazione di ROS prodotti in seguito alla fotoattivazione della PpIX. CONFRONTO TRA DIVERSI GENI PER PILINE IN CEPPI DI PSEUDOMONAS AERUGINOSA ISOLATI DA PAZIENTI AFFETTI DA FIBROSI CISTICA Giovanna Pulcrano1, Antonietta Lambiase1, Mariassunta Del Pezzo1, Valeria Raia2, Emanuela Roscetto1, Fabio Rossano1 1Dipartimento di Biologia e Patologia Cellulare e Molecolare ‘Luigi Califano’; 2Dipartimento di Pediatria – Facoltà di Medicina e Chirurgia – Università degli Studi di Napoli “Federico II” Pseudomonas aeruginosa (PA) rappresenta uno dei patogeni di maggiore interesse in pazienti affetti da fibrosi cistica (FC) dal momento che causa più dell’80% delle infezioni croniche alle vie respiratorie. I primi ceppi isolati dalle vie respiratorie di bambini affetti da fibrosi cistica avevano le stesse caratteristiche dei ceppi rinvenuti nell’ambiente esterno, presentando inoltre una morfologia non mucoide e pili sulla superficie esterna. I pili sono costituiti da piline, subunità monomeriche di circa 15-16 kDa caratterizzate da una regione N-terminale, coinvolta nell’assemblaggio del pilo, fortemente conservata, e una regione C-terminale, strutturata a formare un “disulfide-bonded loop” (DSL) e coinvolta nell’interazione con i recettori delle cellule epiteliali, più variabile sia in composizione che in numero di amminoacidi (Keizer et al., J Biol Chem 2001, 276: 24186-93). Uno studio comparativo piline estratte da ceppi isolati da pazienti affetti da FC o dall’ambiente esterno, ha evidenziato l’esistenza di 6 gruppi di piline distinguibili sia per la struttura del DSL che per quella dell’operone. Il gruppo II presenta un DSL di 12 amminoacidi ed è più frequente in ceppi isolati dai pazienti affetti da FC, mentre gli altri gruppi sono di solito isolati in ceppi dell’ambiente esterno. Dal punto di vista genico invece l’operone della pilina si trova strettamente a monte del gene tRNA-Thr nei ceppi appartenenti al gruppo II, mentre negli altri gruppi, tra i due geni, sono frapposte sequenze codificanti per proteine coinvolte nella biosintesi del pilo (Kus et al., Microbiology 2004, 150: 1315-26). Ceppi di PA sono stati isolati dagli espettorati di pazienti affetti da FC e colonizzati in modo cronico. Dai ceppi isolati è stato estratto il DNA genomico e il gene per la pilina è stato amplificato mediante PCR impiegando due oligonucleotidi che cadono rispettivamente nella regione conservata all’estremità 5’ del gene e a valle dello stesso gene nella regione del tRNA-Thr. Nei ceppi analizzati sono stati evidenziati due prodotti di PCR di lunghezza differente, uno corrispondente alla lunghezza attesa per il gene della pilina (circa 500 bp) e l’altro di circa 1500 bp corrispondente alla lunghezza del gene pilA e un gene aggiuntivo. Gli amplificati di 500 bp sono stati sequenziati e in alcuni casi sono risultati identici al gene pilA del ceppo PAK (Gene Bank X02402), in altri casi simili al 90% al gene del ceppo PA103 (Gene Bank M14850). L’amplificato di circa 1500 bp è stato sequenziato solo in parte ma risulta molto simile al ceppo noto UCBPP-Pa14 (Gene Bank AY 049071). Da tali risultati si evince che i ceppi analizzati appartengono ai gruppi filogenetici II e III. SOCIETÀ ITALIANA DI MICROBIOLOGIA 87 34° Congresso 06 5-10-2006 11:35 Pagina 88 TYPE-SPECIFIC ASSOCIATIONS OF HUMAN PAPILLOMAVIRUS LOAD WITH RISK OF DEVELOPING CERVICAL CANCER Broccolo F1., Garcia-Parra R.2., Cassina G.1, Gatto F. 1, Chiari S.2, Leone B.E.3, Maneo A2., Mangioni C.2 & Cocuzza C.E1. 1Department of Clinical Medicine and Prevention, University of Milano-Bicocca, 2Division of Obstetrics and Gynecology and 3Pathology, San Gerardo Hospital, Monza, Italy. Background. High-risk HPV types 16, 18, 31, 33, 45 and 58 are known to be a major risk factor in the development of cervical cancer and recently quantification of HPV-16 DNA has been suggested as a surrogate marker of persistent infection. Objective. To investigate whether viral load of specific oncogenic HPV types is associated to the risk of developing cervical cancer. Study design. Oncogenic HPV viral load was evaluated on 578 cervical cytology specimens obtained from patients with diagnosis of undetermined significance cells [ASCUS], low- or high-grade squamous intraepithelial lesions [SIL] and normal women. In this regard, four independent quantitative PCR assays (16, 18/45, 31, 33/58) were optimized and carried out with four separate aliquots of the same DNA specimen; a single-copy human CCR5 gene quantitative detection system was also used to normalize the HPV viral load to number cells. Results. In the group of Italian women studied, the two most frequent oncogenic HPV types 31 and 16 account together for 57.8% of the screened genotypes (32.1% and 25.7%, respectively) followed by HPV 33 and/or 58 types (27.9%) and HPV-18 and/or 45 (14.3%). In general viral load increased in parallel to the severity of the associated cervical lesions: however a higher association between viral load and severity of disease was observed for HPV-31 and HPV-16 (γ = 0.43 and γ = 0.34, , respectively)) compared to HPV-18/45 and HPV-33/58 (γ= 0.2 and γ = 0.18, respectively). Furthermore our results showed that H-SIL are associated to high HPV 16 and 18-45 viral load (odds ratio (OR) 81.3 and 28.7, respectively) compared to HPV 31 and 33/58 (OR 6.53 and 3.46, respectively). Likewise, the OR increased with total viral load and reached a maximum of OR= 61.2 for the percentile with the highest viral load. Conclusions. In this study HPV genotype 31 was found to be first most frequent genotype in Italy. The findings also indicate that HPV load is a type-dependent risk marker for the development of precancerous lesions. PRESENZA DI STREPTOCOCCUS PYOGENES, MYCOPLASMA PNEUMONIAE E CHLAMYDOPHILA PNEUMONIAE IN TAMPONI FARINGEI DI BAMBINI AFFETTI DA INFEZIONI DEL TRATTO RESPIRATORIO ACQUISITE IN COMUNITÀ Rosario Musumeci, Francesco Broccolo, Anna Careddu, Giulia Cassina, Francesca Gatto, Marina Molin, Valentina Galimberti, Franca Parizzi, Ambrogina Pirola, Clementina Cocuzza Laboratorio di Microbiologia – Dipartimento di Medicina Clinica e Prevenzione, Università di Milano-Bicocca - Monza Il presente studio è stato condotto raccogliendo 244 tamponi faringei da 202 pazienti pediatrici che, nel periodo compreso tra Gennaio e Maggio 2006, si presentavano a pediatri di base dell’area di Monza con patologie riconducibili ad infezioni del tratto respiratorio. Di questi pazienti, 177 mostravano una sintomatologia riconducibile ad infezioni delle alte vie respiratorie (URTI), 8 ad infezioni delle basse vie respiratorie e 17 bambini presentavano altre patologie. Da tutti i pazienti, al momento della visita, sono stati raccolti due tamponi faringei, uno per la ricerca di S. pyogenes ed uno per la ricerca del genoma di Mycoplasma pneumoniae e Chlamydophila pneumoniae mediante la tecnica di Real-time PCR. I risultati della ricerca su pazienti con evidenza di faringotonsillite (48%) hanno mostrato una positività per S. pyogenes pari al 37,5%, per M. pneumoniae del 2,3% e del 3,4% per C. pneumoniae. Solo un paziente mostrava una contemporanea positività per S. pyogenes e M. pneumoniae con un basso numero di copie presenti (24 copie x 104 cellule) per quest’ultimo. In pazienti con altre infezioni delle alte vie respiratorie, S. pyogenes risultava presente nel 14,6% dei casi, mentre M. pneumoniae e C. pneumoniae erano presenti rispettivamente nel 2,45 e nel 6,1% dei casi. Sono stati osservati due casi di co-infezioni, uno tra M. pneumoniae (18405 copie x 104 cellule) e C. pneumoniae (136 copie x 104 cellule) e l’altro tra S. pyogenes e C. pneumoniae (5 copie x 104 cellule). Negli 8 pazienti affetti da patologie a carico delle basse vie respiratorie, S. pyogenes era presente in un solo campione senza evidenziare una sintomatologia riconducibile alla faringotonsillite mentre per M. pneumoniae la positività era del 25%. Nel gruppo di controllo di 17 soggetti senza manifestazioni cliniche di patologie delle vie respiratorie la positività per S. pyogenes è stata osservata in due casi, evidenziando un probabile stato di portatore ed un solo bambino è risultato positivito per C. pneumoniae con un basso numero di copie presenti (24 copie x 104 cellule). Infine tra i 51 ceppi di S. pyogenes isolati, la valutazione del fenotipo di resistenza MLS ha condotto alla evidenziazione di 3 ceppi riconducibili al fenotipo costitutivo (cMLS), 1 al fenotipo inducibile (iMLS) e 3 al fenotipo M con una resistenza totale alla eritromicina pari al 15.7%. 88 34° CONGRESSO NAZIONALE DELLA S A 34° Congresso 06 5-10-2006 11:35 Pagina 89 VALUTAZIONE COMPARATIVA DELL’ATTIVITA’ANTIBATTERICA IN VITRO DI PRULIFLOXACINA NEI CONFRONTI DI BATTERI UROPATOGENI DI RECENTE ISOLAMENTO 1Rosario Musumeci, 1Anna Careddu, 1Valentina Galimberti, 2Simone Bramati, 3Paolo Romano, 1Clementina Cocuzza 1Laboratorio di Microbiologia – Dipartimento di Medicina clinica e Prevenzione, Università di Milano-Bicocca - Monza 2Laboratorio di Microbiologia – Ospedale S. Gerardo, Monza - 3Direzione Medica, SPA-Società Prodotti Antibiotici - Milano La prulifloxacina è il pro-farmaco della ulifloxacina, un agente antibatterico appartenente alla classe dei fluorochinoloni orali che nel 2004 ha ottenuto l’autorizzazione per la commercializzazione in Italia e che possiede un ampio spettro di attività antibatterica rivolto verso batteri sia Gram-negativi che Gram-positivi. Scopo del nostro studio è stato quello di valutare, su ceppi batterici uropatogeni di recente isolamento e provenienti da urinocolture analizzate presso il laboratorio di Microbiologia dell’Ospedale San Gerardo di Monza, l’attività in vitro di questo agente antimicrobico, in confronto ad altri di comune uso clinico. A tale scopo sono stati eseguiti saggi di valutazione della sensibilità dei vari antibiotici mediante la determinazione della MIC (Minima Concentrazione Inibente) secondo la tecnica della brododiluizione scalare al raddoppio così come raccomandata da CLSI. Su un totale di 400 ceppi isolati da urinocolture tra Novembre e Dicembre 2005, di cui 213 (53,3%) provenienti da vari reparti ospedalieri e 187 (46,7%) di origine ambulatoriale, sono state riscontrate 24 differenti specie batteriche con la seguente frequenza di isolamento: E. coli 59%, E. faecalis 8,5%, K. pneumoniae 6,8%, S. agalactiae 5,5%, P. mirabilis 4,8%, M. morganii 2,3%, P. aeruginosa 2%, altri 11,1%. L’attività della prulifloxacina è stata testata su tutti i ceppi isolati e confrontata con quella dei seguenti antibiotici: amoxicillina, amoxicillina-clavulanato, piperacillina-tazobactam, ampicillina-sulbactam, cefuroxime, ceftriaxone, aztreonam, imipenem, norfloxacina, ciprofloxacina, levofloxacina, cotrimossazolo, nitrofurantoina e gentamicina. In mancanza di valori di breakpoint di sensibilità per la prulifloxacina, sono stati utilizzati i valori suggeriti per ciprofloxacina (<1 mg/L sensibile, 2 resistenza intermedia, >4 resistente) sulla base dei dati di farmacodinamica e farmacocinetica, come già riportato in letteratura (Roveta S et al, IJAA, 2005). Sulla base di questi valori di breakpoint la prulifloxacina ha mostrato una attività in vitro sovrapponibile a quella di ciprofloxacina e levofloxacina (E. coli %S prulifloxacina/ciprofloxacina/levofloxacina = 86,5/81,6/82,3%; E. faecalis %S prulifloxacina/ciprofloxacina/levofloxacina = 70,6/73,5/73,5%; K. pneumoniae %S prulifloxacina/ciprofloxacina/levofloxacina = 92,6/88,9/88,9%; P. mirabilis %S prulifloxacina/ciprofloxacina/levofloxacina = 76,5/73,7/78,9%) ma con una tendenza a valori di MIC inferiori rispetto a questi due fluorochinoloni. ATTIVITÀ DI UN DERIVATO ISOTIOSEMICARBAZONICO CICLICO NEI CONFRONTI DI BIOFILM DI CANDIDA ALBICANS FLC-S E FLC-R IN COMBINAZIONE CON AMB Manuela Saddia, Lorenza Chisua, Maria Cristina Cardiab, Barbara Saddic, Elias Maccionib, Alessandro De Logua aSezione di Microbiologia Medica, Dipartimento di Scienze e Tecnologie Biomediche, Università di Cagliari bDipartimento Farmaco Chimico Tecnologico, Università di Cagliari cLaboratorio di Microbiologia, Laboratorio di Analisi, Ospedale SS. Trinità, Cagliari La elevata mortalità determinata dalle infezioni fungine è spesso conseguente ad una diagnosi tardiva o a una terapia inappropriata o non sufficientemente aggressiva. La diffusione dell’AIDS e l’aumento dell’impiego della radioterapia e della chemioterapia per la cura dei pazienti trapiantati o con neoplasie maligne rappresentano le cause principali dell’incremento della frequenza di tali infezioni. Le micosi sostenute da C. albicans, in particolare quelle contratte in ambiente ospedaliero, costituiscono un problema di grande rilievo per la capacità di formare biofilm su mucose, tessuti e dispositivi medici e la profilassi mediante derivati azolici si dimostra inefficace, in particolare nel paziente immunocompromesso, a causa dell’effetto fungistatico. Inoltre la pre-esposizone al FLC di cellule planctoniche di C. albicans FLC-sensibili induce una resistenza fenotipica transitoria all’AmB. Nostri studi hanno evidenziato che tale resistenza transitoria si osserva anche nei confronti di cellule sessili in biofilm di C. albicans. Si rendono necessarie delle strategie alternative per la profilassi e la terapia delle micosi nel paziente immunocompromesso. Viene descritta la attività antifungina di un derivato ciclico isotiosemicarbazonico (EM01D2), AmB e FLC nei confronti di cellule planctoniche di isolati di diverse specie di Candida e nei confronti di ceppi di C. albicans FLC-S e FLC-R di isolamento clinico. L’inibizione dello sviluppo di biofilm è stata determinata mediante riduzione di un sale di tatrazolio e lettura spettrofotometrica a 490 nm. Impiegando il medesimo modello sperimentale sono stati determinati gli effetti della pre-esposizione di biofilm di C. albicans a EM01D2 o FLC sull’attività di AmB. EM01D2 si dimostra più attivo di AmB e FLC nei confronti di C. krusei e cellule planctoniche di C. albicans. I valori di MCF determinati nei confronti degli isolati di C. albicans FLC-R sono comparabili con quelli determinati per AmB. L’inibizione nei confronti di cellule sessili di C. albicans si manifesta generalmente a concentrazioni superiori alla MIC. Un incremento della sensibilità di biofilm di C. albicans FLC-S e FLCR è stato osservato dopo pre-esposizione a concentrazioni sub-inibemti di EM01D2. SOCIETÀ ITALIANA DI MICROBIOLOGIA 89 34° Congresso 06 5-10-2006 11:35 Pagina 90 INTERLEUCHINA 18: UN NUOVO MARCATORE DI SEPSI? Catania MR1, Gallè F1, Ortega De Luna L1, Peluso L1, Lonardo M2, Piazza O2, Rossano F1, Tufano R2 1Dipartimento di Biologia e Patologia Cellulare e Molecolare “L. Califano” 2Dipartimento di Scienze Chirurgiche, Anestesiologiche-Rianimatorie e dell’Emergenza; Facoltà di Medicina e Chirurgia Università degli Studi di Napoli “Federico II” La sepsi rappresenta una delle principali cause di morbidità e mortalità postoperatorie. Numerosi indicatori biochimici sono stati presi in considerazione per il loro potenziale prognostico nei casi di sepsi [1, 2]. Le citochine rappresentano le principali molecole coinvolte nella regolazione dei processi infiammatori e della risposta immune alle infezioni. Tra di esse, l’interleuchina 18 (IL-18) riveste un ruolo fondamentale in quanto capace non solo di promuovere la produzione di altre molecole pro-infiammatorie quali Tumor Necrosis Factor-α (TNF-α), Interferone-γ (IFN-γ), Granulocyte-Macrophage Colony Stimulating Factor (GM-CSF) e diverse interleuchine (IL-8, IL-1β) da parte di linfociti B, T e NK, ma anche, ad esempio, di indurre apoptosi e di inibire la produzione di citochine anti-infiammatorie. Diversi studi hanno suggerito che l’IL-18 possa avere un ruolo importante nella patofisiologia della sepsi [2, 3]. Oggetto di questo studio è stata la valutazione dei livelli di IL-18 prodotti in pazienti settici rispetto a quelli raggiunti da altre molecole quali mediatori dell’infiammazione (TNF-α, ΙL−2), acido lattico o proteine di fase acuta (proteina C-reattiva): ciò allo scopo di definire la capacità dell’IL-18 di costituire un buon marcatore di risposta infiammatoria in corso di sepsi. Dieci pazienti ricoverati nell’Unità di Terapia Intensiva del Dipartimento di Scienze Chirurgiche, Anestesiologiche-Rianimatorie e dell’Emergenza dell’Università degli Studi di Napoli “Federico II” affetti da sepsi sono stati arruolati nello studio. Al momento della diagnosi per ciascun paziente sono stati determinati gli indici di valutazione clinica (SAPS-III, SOFA), ed è stata valutata la produzione di acido lattico, proteina C-reattiva, IL-18, IL-2 e TNF-α. Tali parametri sono stati valutati parallelamente in altrettanti pazienti controllo. I risultati hanno mostrato un incremento rispetto ai controlli dei livelli di tutte le molecole analizzate. L’unico aumento significativo è però fatto registrare dall’IL-18 ( 862±588.8 pg/ml vs 182.8±35.59 pg/ml, p<0.02). Tra i marcatori esaminati, l’IL-18 rappresenta dunque un buon indicatore delle prime fasi della risposta infiammatoria indotta dalla sepsi. 1. Hopf HW. Crit Care Med 2003; 31:S518-23. - 2. Novotny A, Emmanuel K, Bartels H et al. Chirurg. 2005; 76(9):837-44. 3. Emmanuilidis K, Weighardt H, Matevossian E et al. Shock 2002; 18(4):301-5. LA VALUTAZIONE DELLA “MUTANT PREVENTION CONCENTRATION” PER IL CONTENIMENTO DELLO SVILUPPO DELLE RESISTENZE ANTIBIOTICHE Antonietta Lambiase, Giovanna Pulcrano, Mariassunta Del Pezzo, Fabio Rossano. Dipartimento di Biologia e Patologia Cellulare e Molecolare “Luigi Califano”; Facoltà di Medicina e Chirurgia; Università di Napoli “Federico II”. L’ incremento dello sviluppo di resistenze batteriche, in concomitanza ad un periodo di stallo da parte delle società farmaceutiche per la produzione di nuovi antimicrobici, impone lo sviluppo di strategie che arginino tale problema. Per la scelta del chemioterapico, oltre ai più noti parametri di MIC e MBC, si affianca attualmente e solo per alcune classi di antibiotici (fluorochinoloni), un nuovo criterio di valutazione in vitro della potenza di un antibiotico, definito “Mutant Prevention Concentration” (MPC), ossia la concentrazione di antimicrobico in grado di prevenire lo sviluppo di batteri portatori di una singola mutazione di resistenza. Essa si valuta solo per microrganismi con dimostrata suscettibilità ai fluorochinoloni attraverso saggi standardizzati conformi alle indicazioni dell’NCCLS. Il saggio di MPC (Dong et al. Antimicrob Agents Chemother 1999;43:1756-58) prevede l’uso di un inoculo batterico di 1010 cfu/mL su piastre antibiotate a diversa concentrazione. Dopo incubazione a 37°C in presenza o meno di CO2 per 24/ 48 h, la più bassa concentrazione antibiotica inibente completamente la crescita batterica rappresenta la MPC. Nel procedimento descritto, appare evidente la difficoltà di ottenere densità batteriche sufficientemente elevate (1010 cfu/mL), difficoltà che sussiste ad esempio per S. pneumoniae, ma non è rilevante per batteri quali P. aeruginosa o Enterobacteriaceae in generale. Con la presente nota gli AA intendono mettere in risalto la necessità di saggiare alcuni antibiotici utilizzando questi nuovi parametri: infatti, considerando la più recente letteratura (Metzler et al. Int J Antimicrob Agents 2004;24:161-7) si evince che l’uso di levofloxacina verso P. aeruginosa accresce maggiormente il tasso di resistenza rispetto all’uso di ciprofloxacina. La pressione selettiva esercitata dagli antimicrobici sui ceppi batterici provoca inevitabilmente la selezione di ceppi resistenti. Tale fattore biologico, assieme alla carenza della produzione di nuovi farmaci, deve far adottare nuovi criteri di valutazione dell’attività dell’antimicrobico che si traducono poi in nuovi criteri per la scelta del farmaco. L’uso della MPC concretizza un’ efficiente strategia per impedire l’amplificazione selettiva delle popolazioni batteriche resistenti e quindi per razionalizzare l’uso degli antibiotici disponibili. 90 34° CONGRESSO NAZIONALE DELLA S A 34° Congresso 06 5-10-2006 11:35 Pagina 91 VALUTAZIONE DEL NUOVO SISTEMA AUTOMATICO “VIDIA” PER LA RICERCA DI ANTICORPI ANTI TOXOPLASMA E ROSOLIA Ferraironi M., Martinelli D., Sessa R.1 e Cipriani P. II Facoltà di Medicina e Chirurgia Università La Sapienza Roma - Servizio di Microbiologia, Azienda Ospedaliera S. Andrea, Roma 1Dipartimento di Sanità Pubblica, Facoltà di Medicina e Chirurgia Università La Sapienza Roma Introduzione Il sistema VIDIA (bioMérieux) è un nuovo strumento automatico con gestione della provetta primaria, concepito per semplificare la routine e per implementare il livello di rintracciabilità dei dati. Nel presente lavoro abbiamo valutato le performance dei test VIDIA per gli anticorpi anti-Toxoplasma ed anti-Rosolia confrontandola con il sistema attualmente in uso nel nostro laboratorio AxSym – Abbott. Metodi Sono stati analizzati complessivamente 200 campioni appartenenti ad una popolazione mista, per determinare TOXO IgG e IgM, e RUB IgG e IgM. I campioni con risultati discordanti sono stati ripetuti con il metodo VIDA e, inoltre, sono previsti ulteriori approfondimenti utilizzando il test di riferimento Toxo Isaga. E’ stata inoltre valutata la ripetibilità intra-serie e la riproducibilità inter-serie del test VIDIA TOXO IgG e VIDIA RUB IgG secondo i suggerimenti dell’NCCLS, utilizzando 2 pool di sieri a 4 diverse concentrazioni. Risultati Globalmente si è riscontrata una prevalenza pari a circa il 19% per Toxo IgG, il 3% per Toxo IgM, il 77% per Rosolia IgG e l’1% per Rosolia IgM. La concordanza tra i metodi a confronto è stata del 100% per il Toxo IgG, 98% per Toxo IgM, 99% per Rosolia IgG e 99% per Rosolia IgM. Sui risultati discordanti sono in corso approfondimenti diagnostici per stabilire se tale discordanza sia da imputare solo al metodo usato o possa dipendere anche dallo stato immunologico dei pazienti soprattutto se si tratta di donne in gravidanza. La precisione intra-serie e la ripetibilità inter-serie (CV%) dei test VIDIA TOXO IgG e VIDIA RUB IgG erano comprese tra 2 e 4% circa. Conclusioni Dai risultati emerge un elevato livello di concordanza tra il sistema VIDIA e il metodo AxSym attualmente in uso. Si rileva inoltre un elevatissimo grado di precisione intra-serie ed inter-serie dei test VIDIA. INCIDENZA DI STAFILOCOCCHI METICILLINO-RESISTENTI IN CAVALLI DELLA REGIONE CAMPANIA P. Catalanotti1, L. De Martino2, M. Lucido1, B. Facello2, L. Moscato1, U. Pagnini2, G. Iovane2, M.A. Tufano1 1Dipartimento di Medicina Sperimentale, Sezione di Microbiologia e Microbiologia clinica, Seconda Università di Napoli; 2Dipartimento di Patologia e Sanità Animale, Sezione di Malattie Infettive, Facoltà di Medicina Veterinaria, Università di Napoli “Federico II”. Gli stafilococchi sono microrganismi ubiquitari che possono occasionalmente causare infezioni di entità variabile nell’uomo e in diverse specie animali. Nel cavallo sono state descritte forme morbose causate prevalentemente da Staphylococcus aureus. Altre specie del genere Staphylococcus, classificate come coagulasi negative (CNS) perché non producono tale fattore di virulenza, generalmente, provocano infezione in soggetti ospedalizzati, immunodepressi o anziani e in animali defedati. La diffusione delle infezioni da stafilococchi è favorita dall’acquisizione di antibiotico resistenza, in particolare alla meticillina, per effetto del gene cromosomiale addizionale mecA che codifica per una Penicillin binding protein, a bassa affinità per i farmaci β-lattamici (PBP 2a). In questo studio abbiamo valutato l’incidenza di MRS in 90 tamponi nasali prelevati bilateralmente, in maniera randomizzata, da 45 fattrici di un centro equino di fecondazione artificiale della Regione Campania e in 8 tamponi nasali prelevati bilateralmente da 4 unità di addetti al governo degli animali. Gli MRS sono stati ricercati su ORSA agar (Oxoid); le colonie sospette sono state identificate con il micrometodo API STAPH (bioMérieux). Tutti i ceppi isolati sono stati sottoposti a PCR per il gene mecA, utilizzando primer specifici, e alla analisi del pattern di DNA mediante PFGE. Complessivamente, da 14 cavalle (31,1 %) sono stati isolati 16 ceppi di stafilococchi meticillino-resistenti, di cui 14 S. lentus e 2 S. xylosus. Solo in due casi l’isolamento era bilaterale. Dagli 8 tamponi nasali del personale si isolava, dalla narice destra, un ceppo di S. lentus. La PCR confermava la presenza del gene mecA in tutti gli isolati batterici. Relativamente ai profili PFGE, tutti i ceppi mostrano pattern sovrapponibili. In particolare sembrano appartenere allo stesso clone il ceppo di derivazione umana e quelli di derivazione equina. Tali risultati preliminari consentiranno di evidenziare i siti di colonizzazione degli MRS e la potenzialità degli animali a trasmettere i ceppi all’uomo. SOCIETÀ ITALIANA DI MICROBIOLOGIA 91 34° Congresso 06 5-10-2006 11:35 Pagina 92 RUOLO DEL VIRUS DI EPSTEIN-BARR NEI LINFOMI CUTANEI T PRIMITIVI: QUANTIFICAZIONE DELL’EBV-DNA NELLE BIOPSIE CUTANEE E NEL SANGUE PERIFERICO MEDIANTE REALTIME PCR C. Merlino, M. Bergallo, C. Costa, M. Novelli*, R. Ponti*, M.T. Fierro*, M.G. Bernengo*, R. Cavallo, A. Negro Ponzi Dip. Sanità Pubbl. e Microbiol., Lab.Virologia, * Dip. Scienze Biom. Oncol. Umana, Sez. Dermatol., Lab. Immunopatol. Cutanea; Università di Torino Introduzione. Micosi fungoide (MF) e Sindrome di Sézary (SS) sono due forme di linfoma primitivo nello spettro dei linfomi cutanei a cellule T (CTCL), dal diverso comportamento clinico, avendo la SS una prognosi nettamente peggiore. La loro eziopatogenesi è tuttora ignota, sebbene siano stati prospettati fattori genetici, ambientali e infettivi. Recentemente gli herpesviridae sono stati associati all’eziopatogenesi dei CTCL sia per la loro diretta potenzialità oncogena trasformante, sia perché capaci di innescare una stimolazione antigenica cronica. Alcuni studi molecolari sul ruolo di EBV nell’eziopatogenesi dei CTCL, hanno portato a risultati controversi a causa della diversa sensibilità delle tecniche utilizzate. Scopo e Metodi. In questo lavoro è stata indagata retrospettivamente la carica virale di EBV in biopsie cutanee e nei linfomonociti di pazienti con MF e SS utilizzando una real-time PCR che amplifica il gene per EBNA-1. Sono stati studiati i campioni di DNA di 89 soggetti: 51 pazienti con MF, 25 con SS. Come controllo sono stati esaminati i campioni di 13 pazienti con dermatosi cutanee infiammatorie. Risultati e Conclusioni. Cinque su 51 pazienti con MF (9,8%) sono risultati positivi per EBV-DNA (range 90-205 copie EBVDNA/µg). Nella SS la prevalenza è risultata maggiore: 6 pazienti su 25 (25%) (range 10-81.723 copie). In nessun paziente del gruppo di controllo è stata riscontrata la presenza di EBV-DNA. Sia nella SS che nella MF l’analisi statistica ha evidenziato una sopravvivenza significativamente maggiore nel gruppo EBV-DNA negativo (p=0.011 e p=0,0005, rispettivamente). La prevalenza di EBV-DNA a livello del sangue periferico è risultata invece sovrapponibile nei tre gruppi di soggetti e si discosta di poco dalla popolazione generale. Il nostro studio conferma che la presenza di genoma virale per EBV a livello cutaneo, sia nella MF che nella SS, sembra rappresentare un fattore prognostico negativo, probabilmente per un’azione cofattoriale. L’assenza di relazione tra la positività a livello cutaneo e quella del sangue periferico suggerisce che il riscontro di DNA virale a livello ematico non influenza la prognosi. Abbiamo intenzione di studiare l’attività trascrizionale del virus allo scopo di approfondire il ruolo di EBV in questo tipo di linfomi. CORRELAZIONE TRA DISTRIBUZIONE FILOGENETICA, FATTORI DI VIRULENZA E ANTIBIOTICO-RESISTENZA IN ESCHERICHIA COLI UROPATOGENI S. Puglisi1, A. Speciale1, C. Cocuzza2, G. Blandino1, S. Bramati3, R. Musumeci2 1Dipartimento di Scienze Microbiologiche e Scienze Ginecologiche - Università di Catania. 2Dipartimento di Medicina Clinica e Prevenzione - Università di Milano-Bicocca, Monza. 3Laboratorio di Microbiologia - Ospedale San Gerardo, Monza. Le infezioni del tratto urinario (IVU), che sono tra le più comuni patologie infettive nell’uomo e che possono essere suddivise in complicate e non complicate, sono processi flogistici acuti, subacuti o cronici, sostenuti da microrganismi, che possono riguardare le basse (cistite, uretrite) o le alte vie urinarie (nefrite, pielonefrite, ascessi). Escherichia coli è di gran lunga la causa più comune di IVU. In ceppi di E. coli che causano IVU sono stati descritti numerosi fattori di virulenza, i più importanti dei quali sembrano essere adesine, quali le fimbrie di tipo 1 e le fimbrie P, tossine, quali l’emolisina e il fattore citotossico necrotizzante 1 (CNF-1), e siderofori come l’aerobactina. I ceppi di E. coli rientrano in quattro gruppi filogenetici principali, A, B1, B2 e D, ma i ceppi virulenti extraintestinali appartengono principalmente al gruppo B2 e, in misura minore, al gruppo D, mentre la maggior parte dei ceppi commensali appartiene al gruppo A. Nel presente lavoro è stata valutata, con il metodo della brododiluizione scalare, l’antibiotico-sensibilità in vitro di 375 ceppi di E. coli provenienti da urine di pazienti con una batteriuria significativa e isolati, consecutivamente, dall’Azienda Policlinico dell’Università di Catania (163) e dall’Ospedale San Gerardo di Monza (212) nell’arco di due mesi. Sono stati saggiati alcuni degli antibiotici più comunemente impiegati nella pratica clinica in caso di infezioni del tratto urinario, ovvero antibiotici chinolonici, antibiotici β-lattamici, cotrimossazolo e nitrofurantoina. Inoltre, al fine di trovare una correlazione tra gruppo filogenetico, patogenicità e resistenza alle varie classi di antibiotici, di tutti i ceppi, mediante la tecnica PCR, è stato determinato il gruppo filogenetico ed è stata effettuata la valutazione genotipica dei 5 suddetti fattori di virulenza, amplificando i geni che codificano per tali fattori. I nostri risultati indicano che negli E. coli uropatogeni la resistenza agli antibiotici, e in modo particolare quella ai fluorochinoloni, è associata a una diminuita espressione di alcuni fattori di virulenza, che i ceppi dei gruppi B2 e D sono più virulenti, e che, tra i ceppi dei 4 gruppi filogenetici, non vi sono differenze molto significative in termini di sensibilità agli antibiotici. 92 34° CONGRESSO NAZIONALE DELLA S A 34° Congresso 06 5-10-2006 11:35 Pagina 93 INFEZIONE DA HHV-8 NEI TRAPIANTATI RENALI: STUDIO DI PREVALENZA NELLA REGIONE PIEMONTE R. Cavallo, S. Margio, F. Sidoti, C. Merlino, M. Bergallo, D. Re, C. Costa. Dipartimento di Sanità Pubblica e Microbiologia, S.C.D.U. Virologia, Università di Torino L’HHV-8 è un γ-herpesvirus associato a sarcoma di Kaposi (KS), patologie linfoproliferative e manifestazioni non neoplastiche. Dopo l’infezione primaria, trasmessa per via sessuale e non-sessuale, l’HHV-8 resta latente nei linfociti CD19+. A differenza degli altri herpesvirus, l’HHV-8 non è ubiquitario e i dati di sieroprevalenza differiscono significativamente a seconda delle aree geografiche: da <5% in Nord America e Nord Europa al 10-20% in certe aree mediterranee fino a >50% in Africa. In Italia la sieroprevalenza varia da <3% in Nord Italia fino a >30% in Italia centro-meridionale. Il ruolo dell’HHV-8 nello sviluppo di KS è poco noto e giocano un ruolo altri cofattori cancerogeni poiché solo una piccola parte dei soggetti infetti da HHV-8 sviluppa KS. Ciò dipende probabilmente da fattori ambientali e dalla risposta immunitaria dell’ospite. Una stretta associazione tra HHV8 e KS è stata evidenziata nei trapiantati d’organo, soprattutto renali. È tuttora ignoto se ciò dipenda da riattivazione del virus o trasmissione attraverso l’organo trapiantato. In questo studio abbiamo indagato la sieroprevalenza in pazienti in attesa di trapianto di rene e nei corrispondenti donatori, inoltre è stata valutata la presenza di HHV-8 DNA nei campioni sierici degli stessi pazienti a 6, 12 e >18 mesi post-trapianto.La sieroprevalenza è stata valutata mediante 2 test ELISA per la ricerca di anticorpi contro antigeni di latenza e litici in 408 pazienti (M/F, 260/148; età media 51.7 ± 12.14 anni, range 19-75) subito prima del trapianto renale e nei corrispondenti 356 donatori (M/F, 181/175; età media 51.12 ± 16.45, range 15-79). L’HHV-8 DNA è stato ricercato mediante nested PCR specifica su 128 campioni: 45 a 6 mesi, 42 a 12 mesi e 41 a >18 mesi dal trapianto. 20/408 (4.9%) riceventi e 7/356 (1.9%) donatori erano sieropositivi. L’età dei sieropositivi era mediamente 6 anni maggiore rispetto ai negativi (p <0.05). Nessuna correlazione tra sieropositività e sesso è stata evidenziata. Considerando l’area di residenza dei sieropositivi, 4/161 (2.48%) risiedevano in Piemonte o aree adiacenti vs 16/247 (6.47%) in altre aree (p = n.s.). Al follow-up post-trapianto l’HHV-8 DNA era negativo in tutti i pazienti sieronegativi prima del trapianto. Solo 1 paziente sieropositivo il cui donatore era anche sieropositivo ha sviluppato KS entro 6 mesi dal trapianto. Il Piemonte sembra essere una regione a bassa prevalenza per HHV-8. La sieropositività aumenta con l’età. Non vi sono correlazioni significative tra sieropositività e sesso o area di residenza. Non sembra che HHV-8 possa essere trasmesso via trapianto. L’incidenza di KS in una popolazione immunocompromessa quale i trapiantati di rene è molto bassa. STENOSI URETERALE DA JCV: CASE REPORT M. Bergallo, C. Costa, F. Forgnone, M. Messina*, A. Negro Ponzi, R. Cavallo Dipartimento di Sanità Pubblica e Microbiologia, S.C.D.U. Virologia, * Dip. Medicina Interna, Nefrologia,; Università di Torino I polyomavirus umani comprendono il virus BK (BKV) e il JC (JCV). La nefropatia da BKV è ben nota e può consistere in nefrite interstiziale o stenosi ureterale nei trapiantati renali e in cistite emorragica nei trapiantati di midollo. La nefropatia da BKV si sviluppa in condizioni di immunocompromissione, soprattutto con terapia tripla (tacrolimus, micofenolato mofetil e corticosteroidi). Il JCV è l’agente eziologico della leucoencefalopatia multifocale progressiva e sono stati descritti solo pochi casi di nefrite interstiziale perlopiù in coinfezione con BKV; due soli casi di nefrite interstiziale in assenza di BKV sono riportati in letteratura, mentre nessun caso di stenosi ureterale associato a JCV è stato descritto. Sia JCV che BKV sono frequentemente escreti per via urinaria sia in soggetti sani che immunocompromessi, in quanto il rene rappresenta un sito di latenza. In questo studio descriviamo un caso di stenosi e distacco ureterale in una trapiantata renale con coinfezione da BKV e JCV. Case report: donna di 65 anni sottoposta a trapianto per insufficienza renale cronica da nefropatia diabetica; protocollo immunosoppressivo: induzione con basiliximab; micofenolato mofetil; corticosteroidi; tacrolimus aggiunto quando la creatininemia è scesa a <2.5 mg/dl. Al giorno 9 comparsa di una fistola urinaria sottoposta a trattamento conservativo. Al giorno 12 PCR per polyomavirusDNA su siero e urina: BKV negativo, JCV positivo, 102 copie genomiche/ml su urine. Al giorno 51 eseguita anastomosi pieloureterale per mancata risoluzione della fistola. PCR su uretere: BKV, 103 copie genomiche/µg; JCV, 108/µg. Peggioramento di funzionalità renale e condizioni generali; espianto al giorno 65. Rene espiantato: stenosi e distacco ureterale; esame istologico, lesioni tubulointerstiziali e necrosi focali, ascessualizzazione suggestiva di infezione fungina, infarto ischemico e pielite cistica. Candida albicans è stata isolata dal rene espiantato. Aggravamento e morte al giorno 83. Sebbene BKV e JCV siano frequentemente latenti nel tratto urinario dei pazienti sottoposti a trapianto, la riattivazione concomitante dei due virus è rara. In questa paziente è stata rilevata una riattivazione concomitante dei due virus con una carica nettamente più elevata per il JCV. La negatività della DNAemia e la bassa carica del JCV su urine non hanno in questo caso suggerito l’opportunità di un monitoraggio stretto che sembra invece appropriato. Il significato clinico e patogenetico del riscontro di JCV ad alta carica sul campione ureterale resta da definire in quanto non possiamo stabilire con certezza la correlazione tra i due riscontri. SOCIETÀ ITALIANA DI MICROBIOLOGIA 93 34° Congresso 06 5-10-2006 11:35 Pagina 94 SVILUPPO DI UNA MULTIPLEX PCR PER IL RILEVAMENTO DEI PRINCIPALI HERPESVIRUS NEL LIQUIDO CEREBROSPINALE M. Bergallo, C. Costa, S. Margio, F. Sidoti, R. Cavallo Dipartimento di Sanità Pubblica e Microbiologia, S.C.D.U. Virologia, Università di Torino Le infezioni del sistema nervoso centrale (SNC) rappresentano un problema diagnostico sia per il clinico che per il microbiologo. La Famiglia Herpesviridae riveste un importante ruolo eziologico nelle infezioni del SNC. Le infezioni virali del SNC hanno acquisito crescente importanza negli ultimi anni per l’aumento dei pazienti immunocompromessi e la disponibilità di nuovi antivirali. In questo contesto una diagnosi rapida è critica per evitare conseguenze potenzialmente mortali o sequele permanenti. I metodi diagnostici tradizionali presentano molti svantaggi, mentre la PCR ha rivoluzionato la diagnostica neurovirologica. Questo studio descrive lo sviluppo di una multiplex PCR (mPCR) per il rilevamento simultaneo di 6 herpesvirus: cytomegalovirus (CMV), herpes simplex virus tipo 1 (HSV-1) e 2 (HSV-2), Epstein-Barr virus (EBV), varicella zoster virus (VZV) e human herpsevirus 6 (HHV-6). Condizioni della PCR, sensibilità e specificità sono state accuratamente determinate. Sono quindi stati esaminati 102 campioni di altrettanti pazienti (48 M, 54 F) con sospetta infezione virale del SNC mediante nested PCR commerciale specifica per ciascun virus e mediante la mPCR messa a punto. Mediante nPCR sono stati ottenuti i seguenti risultati: CMV DNA era positivo in 4/102 (3.9 %) pazienti, VZV DNA in 1/102 (0.9 %), EBV DNA in 1/102 (0.9 %), HSV-1 DNA in 1/102 (0.9 %). Con la mPCR solo 1/102 (0.9%) campione era positivo per HSV-1 DNA. Nessun paziente positivo alla nPCR presentava segni o sintomi clinici suggestivi di infezioni, in quanto il test era stato eseguito come diagnosi di esclusione. La tecnica messa a punto è risultata rapida ed economica consentendo in un’unica amplificazione di effettuare lo screening dei sei principali herpesvirus coinvolti nella eziologia delle infezioni virali del SNC. Rispetto ai risultati ottenuti con la nPCR, la mPCR consente di evitare il potenziale rischio di contaminazioni da carryover. AUTOANTICORPI IN UNA POPOLAZIONE DI TRAPIANTATI RENALI: CORRELAZIONE CON L’INFEZIONE DA CYTOMEGALOVIRUS E IL RIGETTO C. Costa, M. Bergallo, F. Sinesi, S. Margio, C. Merlino, R. Cavallo Dipartimento di Sanità Pubblica e Microbiologia, S.C.D.U. Virologia, Università di Torino Le infezioni virali sono state correlate allo sviluppo di risposte autoimmuni. I virus caratterizzati da persistenza dell’infezione in fase di latenza possono scatenare risposte autoimmuni tramite numerosi meccanismi: “molecular mimicry”, esposizione di epitopi antigenici propri normalmente sequestrati in seguito a danno delle cellule infette o anomalie nella presentazione e nel processamento degli antigeni virali. Manifestazioni autoimmuni quali la comparsa di anticorpi non-organo-specifici (NOSA) circolanti sono state associate a infezione da cytomegalovirus (CMV). L’infezione da CMV rappresenta un grave problema nei trapiantati d’organo e può condurre a sviluppo di rigetto mediato da danno alle cellule endoteliali dell’organo trapiantato infettate da CMV. Anticorpi anti-cellule endoteliali (AECA) sono stati rilevati in trapiantati di rene, cuore e fegato ed è stato ipotizzato che il danno endoteliale mediato dal CMV giochi un ruolo nello sviluppo del rigetto d’organo. Scopo di questo studio è stato di correlare la presenza di AECA e NOSA all’infezione da CMV e all’insorgenza di rigetto acuto o cronico. Sono stati studiati 59 trapiantati di rene (39 M, 20 F; età media 52.9 ± 13.8 anni, range 19-76), sono stati selezionati campioni multipli per ciascun paziente per un totale di 156 campioni. Gli autoanticorpi sono stati ricercati mediante immunofluorescenza indiretta: anticorpi anti-nucleo, ANA su cellule HEp-2 e anti-muscolo liscio, SMA; anti-microsomi epatici e renali, LKM-1 e anti-mitocondrio, AMA su sezioni tessutali di rene, fegato e stomaco di ratto; AECA su cellule endoteliali di cordone ombelicale umano (HUVEC). L’infezione da CMV è stata determinata mediante pp65-antigenemia. Un’infezione attiva da CMV (antigenemiapositivi) si è verificata in 27/59 (45.8%) pazienti (19 ≤50 cellule positive/200000; 8 >50). NOSA erano presenti in 14 pazienti (10 ANA, 2 SMA, 1 ANA+SMA, 1 LKM-1): 7/32 (21.9%) CMV-negativi e 7/27 (26.0%) positivi. AECA erano presenti in 13 pazienti, tutti CMV-positivi. Rigetto acuto si è sviluppato in 7 pazienti: 2 NOSA-positivi vs 5 NOSA-negativi e 3 AECA-positivi vs 4 negativi. In tutti i 3 pazienti AECA positivi il rigetto era di tipo vascolare, mentre negli altri 4 casi era di tipo interstiziale. Nessun paziente ha sviluppato rigetto cronico. In conclusione, l’infezione da CMV non sembra associata alla comparsa di NOSA, mentre sembra esistere una correlazione significativa tra CMV e AECA. La presenza di AECA, sebbene in un numero ristretto di casi, è associata a danno vascolare d’organo. 94 34° CONGRESSO NAZIONALE DELLA S A 34° Congresso 06 5-10-2006 11:35 Pagina 95 STRESS DA BASSA CONCENTRAZIONE DI SIERO INDUCE ATTIVAZIONE DI HUMAN ENDOGENOUS RETROVIRUS-K IN CELLULE DI MELANOMA UMANO 2Serafino A., 1Balestrieri E., 2Pierimarchi P., 2Matteucci C., 1Moroni G., 1Oricchio E., 2Sorrentino R., 3Mastino A., 1Garaci E., 2Rasi G. e 1Sinibaldi Vallebona P. 1Dipartimento di Medicina Sperimentale e Scienze Biochimiche, Università di Roma “Tor Vergata”; 2Istituto di Neurobiologia e Medicina Molecolare, CNR, Roma; 3Dipartimento di Scienze Microbiologiche, Genetiche e Molecolari, Università di Messina. I retrovirus endogeni umani (HERVs) possono costituire fino all’8% del genoma umano e verosimilmente hanno avuto origine dall’infezione di cellule germinali da parte di retrovirus esogeni, durante l’evoluzione dei primati. Recentemente è stato ipotizzato che l’espressione dei geni di HERV, possa essere attivata durante lo sviluppo del melanoma umano. In particolare, espressione di geni di HERV-K è stata ritrovata sia in linee cellulari che in colture primarie di melanoma ma non in melanociti normali. Ulteriori evidenze su un possibile ruolo dei retrovirus endogeni nella progressione del melanoma sono state fornite da studi condotti su modelli animali. In questo studio noi dimostriamo che, in condizione di stress indotto dall’impiego di bassa concentrazione di siero bovino fetale (FCS) nel mezzo di coltura, cellule di melanoma umano sono in grado di passare spontaneamente da un fenotipo di crescita in aderenza ad un fenotipo stabilmente modificato con crescita in sospensione, e tale transizione è strettamente associata all’espressione del provirus di HERV-K. Infatti, le cellule con fenotipo modificato, derivanti della selezione cellulare stress-indotta, mostrano sia positività per antigeni di HERV, come osservato in microscopia confocale, sia alti livelli di trascrizione dell’RNA di HERV-K, come evidenziato dall’analisi in RT-PCR. Inoltre, in tali cellule, l’analisi del contenuto di DNA, mediante citofluorimetria a flusso, ha registrato la presenza di una più alta percentuale di cellule ipoploidi rispetto alla linea parentale, condizione questa spesso associata ad una maggiore aggressività dei tumori. Il fenomeno sopra descritto è stato riprodotto sia in una linea cellulare allestita nel nostro laboratorio a partire da una lesione metastatica di melanoma (TVM-A12), sia in una linea commerciale (M14), indicando che tale fenomeno non è limitato ad una singola linea cellulare di melanoma. I nostri dati suggeriscono che l’attivazione di geni di HERV può essere un evento riproducibile in cellule di melanoma che siano sottoposte a condizioni di stress e che tale evento può risultare associato alla progressione del tumore. EFFETTI DI UNA METALLO-PROTEASI DI SERRATIA MARCESCENS SULL’ABILITÀ INVASIVA DI LISTERIA MONOCYTOGENES IN CELLULE UMANE CACO-2 G.L. Scoarughi 1, C. Longhi1, F. Poggiali1, A. Cellini1, A. Carpentieri2, L. Seganti1, P. Pucci2, A. Amoresano2, M. Artini1, L. Selan1 1Università di Roma “La Sapienza, 2Università di Napoli “Federico II Listeria monocytogenes è un batterio invasivo Gram+ associato con gravi patologie di origine alimentare. Listeria invade un’ampia varietà di cellule, inclusi fagociti professionali e non-professionali, in quanto possiede numerosi ligandi di superficie in grado di interagire con vari recettori eucariotici. Tra questi ci sono le internaline inlA e inlB, la proteina polimerizzante l’actina ActA, P60, Ami e Lap. Composti antimicrobici di origine naturale, che siano in grado di prevenire l’infezione da parte di Listeria degli enterociti e/o macrofagi, possono anche contrastare la diffusione dell’infezione ai tessuti dell’ospite. La Serratiopeptidasi (SPEP), un enzima proteolitico di 50 kDa prodotto da Serratia marcescens, modula l’espressione di varie adesine in diverse specie batteriche. In questo lavoro è stato studiato l’effetto della SPEP sulla capacità invasiva di Listeria nei confronti di linee cellulari umane e la potenziale interferenza della SPEP con i ligandi implicati nell’interazione batterio-cellula. È stato quindi valutato l’effetto di concentrazioni non-batteriostatiche e non-battericide della SPEP sull’invasività di Listeria nei confronti di cellule umane Caco-2 (enterocyte-like cells). L’abilità invasiva è stata analizzata in 10 stipiti di L. monocytogenes (7 isolati clinici, 2 isolati da alimenti e lo stipite di collezione ATCC 7644), in uno stipite di L. innocua e in uno stipite di L. ivanovii, determinando il numero di batteri vitali resistenti al trattamento con gentamicina ad un ora dall’infezione (Conte et al. 1999). Le proteine di superficie di L. monocytogenes sono state estratte secondo il protocollo descritto da Tabouret (Tabouret et al., 1992). L’analisi delle proteine di superficie è stata effettuata mediante SDS-PAGE e l’identificazione è stata ottenuta con analisi MALDI-MS; l’analisi 2D è in corso di attuazione. Dopo un trattamento di 24h con SPEP, tutti gli stipiti -con un’unica eccezione- hanno mostrato una significativa riduzione (50-60%) della capacità invasiva. L’analisi SDS-PAGE ha mostrato che anche in Listeria la SPEP modula l’espressione di differenti proteine di superficie. Tra le proteine negativamente regolate figurano Ami4b e il precursore dell’internalina B. Nel presente studio abbiamo mostrato come in Listeria la SPEP interferisca con l’invasione batterica di cellule bersaglio umane, probabilmente modulando l’attività di varie adesine. SOCIETÀ ITALIANA DI MICROBIOLOGIA 95 34° Congresso 06 5-10-2006 11:35 Pagina 96 L’INFEZIONE DA HIV DOPO 10 ANNI DI TERAPIA ANTIRETROVIRALE Jennifer McDermott¥, Isabella Martini¥, Davide Ferrari*¥, Claudio Giacomazzi*¥, Francesco Indiveri¥ & Oliviero E, Varnier*¥, *Sez di Microbiologia e ¥Clinica Medicina Interna orientamento Immunologico, Facoltà di Medicina dell’Università, e ¥Centro Biotecnologie Avanzate, Genova La dinamica dell’infezione da HIV è caratterizzata da un rapido ciclo di infezione dei linfociti CD4+, che vengono uccisi liberando progenie virale. HIV infetta altre cellule meno permissibili alla replicazione e all’effetto citopatico: macrofagi, monociti, cellule dendritiche, ecc., che con il loro ridotto metabolismo favoriscono la persistenza e la diffusione protetta di HIV nell’organismo. La capacità di HIV di inserire il genoma virale nel DNA cellulare rende la persistenza permanente per tutta la vita della cellula ospite. Alcune cellule (memoria) arrestano fisiologicamente la loro replicazione e rendono la presenza di HIV latente per tutto il tempo della loro quiescienza. La risposta immune dell’ospite può contribuire in maniera decisiva sulla evoluzione dell’infezione, infatti gli studi sulla fisiopatologia immunitaria hanno evidenziato che si identificano popolazioni cellulari con attività diverse: effettrici e regolatrici il cui bilanciamento condiziona fortemente il tipo di risposta complessiva. Le conoscenze acquisite sulla replicazione retrovirale hanno consentito di identificare alcuni bersagli virus-specifici e sono stati identificati, disegnati e prodotti numerosi farmaci che, usati in una combinazione ad alto potenziale antiretrovirale (HAART), hanno reso non quantificabile la presenza di HIV nel plasma. Il paziente trattato con HAART ha interotto la progressione dell’infezione HIV verso l’AIDS, ha riacquistato la sua immunità ed è diventato aviremico. Il genoma ad RNA di HIV viene retrotrascritto in un cDNA lineare nel citoplasma delle cellule CD4+. Successivamente il cDNA lineare viene traslocato nel nucleo della cellula, nel quale si integra nel genoma oppure si circolarizza dando origine a circoli episomali contenenti 1 o 2 Long Terminal Repeats. Il DNA non-Integrato circolare di HIV, un prodotto ‘dead end’ della retrotrascrizione, è presente esclusivamente nelle cellule infettate ex novo ed è stato proposto quale marcatore di replicazione attiva. Elevati livelli di DNA non-integrato si osservano durante le prime fasi dell’infezione, nelle quali reinfezioni multiple avvengono prima dell’instaurarsi dell’interferenza virale. Quantità elevate sono presenti in soggetti con alti livelli di viremia, mentre si osserva una riduzione di DNA non integrato nelle cellule polimorfonucleate del sangue periferico (PBMC) di pazienti in HAART. Il significato clinico del DNA non-integrato è stato suggerito dal rilevamento di questo marker nel 76% di pazienti, nei quali la terapia HAART aveva soppresso la viremia plasmatica per oltre 30 mesi. È stato ipotizzato che la persistenza di HIV DNA non integrato sia attribuibile ad una replicazione criptica di HIV. Il significato prognostico di questo marcatore è stato messo in discussione da esperimenti in vitro attribuendo la riduzione dei livelli di DNA non integrato alla morte della cellula infettata e/o alla diluizione conseguente alla replicazione cellulare di un DNA episomale incapace di replicazione autonoma. Studi in vivo hanno confermato che il DNA circolare non-integrato correla con una attiva replicazione retrovirale. Affascinate interrogativo è verificare se un prolungato stato di aviremia trasformi l’infezione da persistente a latente controllabile dall’ospite. Recentemente abbiamo pubblicato che il DNA provirale è quantificabile nella maggior parte dei pazienti aviremici trattati con HAART all’inizio dello studio, ma solo 3 dei 20 pazienti studiati per 7-8 anni hanno mantenuto una carica virale rilevabile (Journal of Clinical Microbiology 43:5272–5274, 2005). La replicazione criptica residua di HIV, identificata con la ricerca di DNA circolare non integrato, era presente in quasi l’80% dei pazienti durante il primo anno di aviremia ed è rimasta quantificabile nel 60% per un periodo di 3 anni. La HAART ha modificato le prospettive di vita del soggetto HIV positivo: da una progressione verso l’AIDS conclamato ad una probabile regressione dello stato di infezione, caratterizzata da una diminuzione del numero di cellule contenenti HIV provirale. L’acquisizione di conoscenze sugli eventi virologici e immunologi associati alla regressione dell’infezione consentirà di identificare marcatori diagnostici e di ipotizzare nuovi protocolli terapeutici con interruzione programmata della terapia. 96 34° CONGRESSO NAZIONALE DELLA S A 34° Congresso 06 5-10-2006 11:35 Pagina 97 ATTIVITA’ IN VITRO DI CEFPODOXIME PROXETIL NEI CONFRONTI DI PATOGENI RESPIRATORI COMUNITARI DI RECENTE ISOLAMENTO. Debbia E.A., Marchese A., Roveta S., Gualco L. Cagnacci S. e Schito G.C. Sezione di Microbiologia “C.A.Romanzi”, DISCAT, Università di Genova. Nel corso del 2006, è stato condotto uno studio comparativo teso a determinare la sensibilità dei più importanti patogeni respiratori nei confronti di cefpodoxime, una nuova cefalosporina di terza generazione, in paragone ad altre molecole ad uso orale, dopo 6 anni di utilizzo del farmaco. Sono stati raccolti e valutati 1012 patogeni respiratori comunitari rappresentativi della realtà epidemiologica italiana. Mediante tecniche quantitative approvate internazionalmente (CLSI, 2005), sono stati ottenuti i valori di MIC range, MIC 50, MIC 90 e MIC picco. Cefpodoxime continua a rappresentare uno degli antibiotici più efficaci sugli pneumococchi penicillino-sensibili (MIC90 1.0 mg/L), -intermedi (MIC90 2.0 mg/L) e -resistenti (MIC90 4.0 mg/L). Cefpodoxime è stato inoltre più attivo (MIC90 0.5 mg/L) di cefaclor e cefuroxime nei confronti dei patogeni respiratori Gramnegativi Moraxella catarrhalis e Haemophilus influenzae. Sugli isolati di Klebsiella pneumoniae la potenza del cefpodoxime è stata leggermente inferiore a quella di ceftibuten e cefixime, ma migliore di cefuroxime, cefaclor e cefprozil (MIC90 4.0 mg/L) Il valore di MIC90 ottenuto con S.aureus è stato di 4.0 mg/L. Amoxi-clavulanato e cefpodoxime sono rimasti i soli antibiotici orali capaci di inibire a livelli superiori al 90% i più importanti patogeni respiratori comunitari, indipendentemente dai loro fenotipi di resistenza, con l’eccezione degli pneumococchi ad alto livello di refrattarietà alla penicillina. Tabella. Distribuzione dei valori di MIC-90 (mg/L) di 12 antibiotici orali nei confronti di 1012 patogeni respiratori gram-positivi e gram-negativi isolati in Italia nel 2006. Farmaco Penicillina Ampicillina Amoxicillina Co-clavulanato Cefaclor Cefprozil Cefuroxime Cefixime Ceftibuten Cefpodoxime Claritromicina Azitromicina S.pneumoniae 2 1 1 16 8 4 > 32 64 2 >32 >32 H.influenzae. 16 4 8 16 4 0,03 0,5 0,5 16 1 Specie microbica M.catarrhalis S.aureus >4 > 16 >4 4,0 4 4 8 4 4 4 4 1 >64 8 >64 2,0 4 0.25 > 32 < 0,25 > 32 K.pneumoniae >64 8 32 32 16 1 1 4 - Nonostante un ampio uso del farmaco durante questi sei anni cefpodoxime ha mantenuto inalterato il livello di attività che aveva al momento del suo ingresso in Italia nei confronti di tutti i patogeni respiratori saggiati. Considerando oltre alle positive caratteristiche microbiologiche anche le favorevoli proprietà farmacocinetiche di questa moderna cefalosporina, è prevedibile un ulteriore proficuo impiego di cefpodoxime per il trattamento orale delle infezioni respiratorie comunitarie. SOCIETÀ ITALIANA DI MICROBIOLOGIA 97 34° Congresso 06 5-10-2006 11:35 Pagina 98 INFEZIONI DA STREPTOCOCCHI DI GRUPPO B IN TOPI DIABETICI: CORRELAZIONE TRA L’ALTERATO PROFILO CITOCHINICO E LA SEVERITÀ DELLA SEPSI E DELL’ARTRITE. Manuela Puliti, Francesco Bistoni, Paolo Mosci i e Luciana Tissi Sezione di Microbiologia, Dipartimento di Medicina Sperimentale e Scienze Biochimiche, Università degli Studi di Perugia, Perugia. Gli streptococchi di gruppo B (GBS) sono una delle principali cause di severe infezioni nei neonati, infanti o gestanti. Recentemente questi microrganismi sono stati riconosciuti quali causa di infezioni invasive anche in adulti diversi dalle donne in gravidanza. Le manifestazioni cliniche di tali infezioni includono batteremia, infezioni della pelle e dei tessuti molli, infezioni del tratto urinario e polmonite. Possono inoltre manifestarsi endocardite, meningite, peritonite, oftalmite e infezioni osteo-articolari. La maggior parte di infezioni invasive da GBS si riscontra in adulti in concomitanza con altre patologie croniche, la più comune delle quali è il diabete mellito. La presente ricerca è stata attuata in topi resi diabetici per studiare a fondo l’interazione ospite-patogeno nel corso di sepsi ed artrite causate da GBS. Il diabete di tipo I è stato indotto nei topi mediante somministrazione di streptozotocina a bassa dose. I topi sono stati infettati con diverse dosi di GBS, e sono state valutate la mortalità, la comparsa di lesioni articolari , la crescita di microrganismi negli organi e la produzione di citochine e chemochine. LA DL50 risultava minore nei topi diabetici rispetto ai controlli, mentre negli stessi animali si osservava un aumento dell’incidenza e della gravità dell’artrite. Inoltre, un maggior numero di microrganismi veniva isolato dagli organi degli animali diabetici Il peggioramento della sepsi e dell’artrite era associato ad un aumento significativo della produzione sistemica e locale di IL-6, IL-1β, TNFα, IL-10, MIP-1α e MIP-2. Al contrario, nei topi diabetici si aveva una minore produzione di IFNγ. In conclusione, questo studio dimostra che la diminuita resistenza dell’ospite affetto da diabete mellito all’infezione da GBS è attribuibile ad un difetto di regolazione della produzione di citochine sia a livello locale che sistemico. In particolare, la prolungata risposta infiammatoria a livello locale risulta responsabile della maggiore severità delle lesioni articolari riscontrata nei topi diabetici. EFFETTI DELLE CITOCHINE SULL’ATTIVITA’ TRASCRIZIONALE DELLA SEQUENZA REGOLATRICE DEI GENI E6/E7 DI PAPILLOMAVIRUS MUCOSALI (HPV-16) E CUTANEI (HPV-5 ED HPV-8) M. Donalisio, D. Lembo, M. Cornaglia, T. Musso, S. Landolfo Dipartimento di Sanità Pubblica e di Microbiologia, Università degli Studi di Torino L’instaurarsi dell’ infezione da HPV rappresenta una delle principali cause dello sviluppo di lesioni tumorali umane. Fortunatamente, la maggioranza di tali infezioni regredisce spontaneamente nel corso di un anno e lo sviluppo del cancro è un evento raro. La sorveglianza immunitaria dell’ospite svolge un ruolo cruciale nel controllo delle infezioni da HPV e le citochine risultano essere importanti mediatori della risposta cellulo-mediata. Nonostante sia noto il ruolo di alcune citochine nella regolazione intercellulare della trascrizione virale, non sono finora stati condotti studi sistematici sulla loro attività nei confronti dell’espressione dei geni E6 ed E7 di HPV mucosali e cutanei. A tale scopo, abbiamo sviluppato cloni cellulari di cheratinociti umani (HaCaT) contenenti stabilmente la sequenza LCR di differenti HPV, in particolare HPV-16, HPV-5 ed HPV-8, la quale contiene l’enhancer/promoter dei geni E6 ed E7. Tali linee cellulari rappresentano sistemi indicatori in cui l’attività del gene Luciferasi è una misura proporzionale dell’attività trascrizionale della sequenza LCR e possono quindi essere vantaggiosamente utilizzate per lo screening di molecole biologiche o sintetiche. E’ stata quindi saggiata una collezione di più di trenta fattori solubili umani tra cui citochine anti- e pro-infiammatorie, chemochine e fattori di crescita. Lo screening ha evidenziato citochine inibitorie dell’attività trascrizionale dell’LCR, in misura variabile a seconda dell’HPV considerato. Per valutare gli effetti delle citochine sull’espressione dei geni E6 e d E7 e sul fenotipo di cellule umane HPV-positive, sono state impiegate come modello cellule CaSki, HPV-16 positive, derivate da un carcinoma della cervice uterina. Mediante RT Real-Time PCR abbiamo dimostrato che le citochine identificate come inibitorie della sequenza LCR di HPV-16, effettivamente riducono i livelli dei trascritti di E6 ed E7 nelle cellule CaSki. L’analisi biochimica ha rivelato che il trattamento con TGF-β può sovvertire l’inattivazione di p53 mediata da E6 e si evidenzia una parziale induzione della senescenza nelle cellule trattate. Nel loro insieme questi dati rappresentano il primo studio sistematico dell’effetto delle citochine sulla trascrizione del genoma di HPV. 98 34° CONGRESSO NAZIONALE DELLA S A 34° Congresso 06 5-10-2006 11:35 Pagina 99 DIFFERENTE ASSOCIAZIONE DI MSRV (RETROVIRUS ENDOGENO MS-ASSOCIATO) E HHV-6 DURANTE IL DECORSO DELLA SCLEROSI MULTIPLA Serra1 C, Astone1 V, Mameli1 G, Arru2 G, Marconi5 S, Lovato5 L, Sotgiu2 S, Bonetti5 B, Biolchini1 A, Mei1 A, Riverol3 M, Uccelli4 A, Villoslada3 P, Sepulcre3 J, Dolei1 A. 1Sezione di Microbiologia, Dipartimento di Scienze Biomediche, Università di Sassari, Italia - 2Istituto di Clinica Neurologica, Università di Sassari, Italia - 3Dipartimento di Neurologia e Microbiologia, Università di Navarra, Spagna - 4Departimento di Neurologia, Università di Genova, Italia - 5Dipartimento Scienze Neurologiche e della Visione, Sezione di Neurologia Università di Verona, Italia Gli herpesvirus e i retrovirus endogeni possono considerarsi parte della normale flora virale umana, sebbene, in alcune situazioni essi possono contribuire alla degenerazione della risposta immunitaria favorendo l’inizio di malattie degenerative. Infatti, il retrovirus associato alla Sclerosi Multipla (MSRV/HERV-W) (retrovirus endogeno umano W) e l’Herpes 6 umano (HHV-6) sono stati associati alla sclerosi multipla, e sono i due virus più studiati e discussi come co-fattori ambientali scatenanti fenomeni immunopatologici alla base della SM. Entrambi i virus possono essere neurotropi, possono latentizzare ed essere riattivati; possiedono inoltre proprietà immunopatogeniche. Per chiarire meglio il ruolo di questi due virus nella Sclerosi Multipla, abbiamo valutato la loro espressione nel cervello e nelle cellule del sangue di pazienti SM e controlli, poiché la sola rilevazione del loro genoma potrebbe non essere indice di attività virale. Abbiamo valutato due differenti trascritti di ciascun virus. Per MSRV/HERV-W env e pol codificanti rispettivamente per l’envelope e la trascrittasi inversa (RT); per HHV-6 U94/rep (indice di latenza virale) e DNA pol indicativa di attiva replicazione virale. I campioni di sangue derivano da pazienti SM di differenti popolazioni ad alto o basso rischio di MS. I nostri studi su MSRV/HERV-W e HHV-6, indicano che MSRV/HERV-W è attivamente espresso nel cervello umano e fortemente attivato in pazienti SM, mentre non ci sono significative differenze tra pazienti SM e controlli per la presenza/replicazione di HHV-6. Per quanto riguarda il sangue, sia la presenza di MSRV che il numero di copie di RNA virale sono più elevate nei pazienti SM rispetto ai controlli; la carica virale aumenta con la progressione della malattia e si riduce con la terapia in tutte le coorti saggiate. Per quanto riguarda HHV-6, abbiamo trovato una presenza/espressione molto limitata del virus, con riduzione statisticamente significativa con la progressione della malattia. Uno studio parallelo in una coorte spagnola ha evidenziato risultati molto simili, confermando l’associazione tra il titolo di IgM anti-HHV-6 e stadio precoce della SM e tra MSRV e stadio tardivo della malattia. Concludendo i nostri risultati suggeriscono un’associazione temporale tra presenza dei due virus e SM; l’espressione di HHV-6 aumenta negli stadi precoci della malattia per poi ritornare, negli stadi successivi, ai valori riscontrati nei controlli, mentre l’espressione di MSRV incrementa col tempo e la progressione della malattia. Questo lavoro è stato finanziato dalla Fondazione Italiana Sclerosi Multipla Onlus (grant N° 2003/R/21), Ministero Università e Ricerca e Regione Autonoma Sardegna. CORRELAZIONE TRA NEOANGIOGENESI E PROGRESSIONE DELLA DISPLASIA CERVICALE ASSOCIATA ALL’INFEZIONE DA PAPILLOMAVIRUS UMANO M. De Andrea1,2, J. Mazibrada1, M. Rittà1, B. Azzimonti2, C. Borgogna1, N. Surico2, M. Ciotti3, M. Gariglio3, S. Landolfo1. 1Dipartimento di Sanità Pubblica e Microbiologia, Università di Torino - 2Dipartimento di Medicina Clinica e Sperimentale, Università del Piemonte Orientale, Novara - 3Laboratorio di Microbiologia Clinica e Virologia, Università di Tor Vergata, Roma. I diversi sottotipi di papillomavirus umani (HPV) sono caratterizzati da un differente potenziale oncogeno nei confronti dell’epitelio della cervice uterina. Nonostante le persistenza dell’infezione e la capacità del DNA virale di integrarsi nel DNA cellulare siano strettamente associate all’evento trasformante, le ragioni di questa differenza nel potenziale oncogeno di ogni sottotipo di HPV rimangono incerte. Scopo di questo studio è stata quindi la valutazione della capacità degli HPV ad alto rischio (HR-HPV) di scatenare la risposta infiammatoria e la neoangiogenesi e di stimare l’impatto di questi due parametri sulla progressione della displasia cervicale da LSIL a HSIL. 65 campioni di cervice prelevati tra il 2001 ed il 2005 sono stati sottoposti ad analisi immunoistochimica per marcatori di angiogenesi (CD31, CD105), di infiammazione (CD45, CD68, iNOS, IFI16), del ciclo cellulare e proliferazione (p16INK4a, p53, Ki67). La presenza e la tipizzazione del DNA virale sono state condotte tramite PCR. I casi, precedentemente divisi secondo l’analisi istologica in LSIL e HSIL, sono stati riclassificati considerando la positività per la marcatura con p16INK4a. Il grado proliferativo Ki67-associato era minore del 25% nei casi con pattern di marcatura episomale per p16INK4a e superiore nei casi con pattern integrato. Il numero di vasi decorati con anti-CD31 e anti-CD105 (Endoglina) differiva in modo significativo (p < 0,001) tra LSIL e HSIL. Inoltre si è riscontrata una correlazione significativa (p = 0,008) tra la densità dei microvasi (CD105), infiltrato infiammatorio (CD45, CD68) ed espressione di Ki67. L’espressione di iNOS è risultata più elevata nelle LSIL, mentre l’espressione della p53 era ristretta a cellule isolate nello strato basale e parabasale, con il più alto livello di attività intorno al 20%. Tuttavia, l’espressione di p53 e di iNOS non correlavano con il tipo di HPV, con il grado di proliferazione o con la densità di microvasi e di macrofagi. Nel complesso, i risultati riportati indicano come i marcatori pro-infiammatori e di neoangiogenesi possano migliorare la comprensione della progressione della displasia cervicale da LSIL a HSIL. SOCIETÀ ITALIANA DI MICROBIOLOGIA 99 34° Congresso 06 6-10-2006 17:34 Pagina 100 COMPOMENTI DI ALIMENTI IN GRADO DI INTERFERIRE IN VITRO CON LA FORMAZIONE DEL BIOFILM DA PARTE DI ALCUNI STREPTOCCOCHI ORALI Caterina Signoretto, Gloria Burlacchini, Franco Bianchi, Maria Daglia*, Adele Papetti*, Gabriella Gazzani* e Pietro Canepari Dip. Patologia, Sez. Microbiologia, Facoltà di Medicina e Chirurgia, Università di Verona *Dip. Chimica Farmaceutica, Facoltà di Farmacia, Università di Pavia Il biofilm dentale alberga una grande varietà di batteri i quali sono strettamente correlati con l’insorgenza e la progressione di due importanti patologie infettive del cavo orale: la carie e la malattia parodontale. L’interferenza con i meccanismi di adesione batterica alla superficie dentale può rappresentare un valido aiuto per la riduzione della formazione della placca. Recenti studi hanno messo in evidenza come in molti alimenti/bevande di uso quotidiano (caffé, tè, vino) siano contenute sostanze che possiedono attività inibente il processo di adesività batterica alla superficie dentale. In particolare, sono stati identificati e purificati alcuni componenti appartenenti alla famiglia dei polifenoli, (catechine, trigonellina, acidi nicotinico e clorogenico) che hanno mostrato attività inibitoria nei confronti di vari enzimi batterici quali le glucosiltransferasi di Streptococcus mutans e di Streptococcus sobrinos. In questo lavoro noi abbiamo valutato, mediante la tecnica della formazione del biofilm batterico in “piastre microtitre”, il ruolo esercitato da parte di varie frazioni purificate dagli alimenti oggetto di studio, nell’ostacolare la formazione del biofilm da parte di alcuni streptococchi del cavo orale. Allo scopo colture di S.mutans, Streptococcus anginosus, Streptococcus oralis sono state poste in pozzetti di piastre microtitre e incubate, in presenza di varie frazioni purificate ed a differenti concentrazioni, per circa 7 giorni. Al termine la formazione del biofilm è stata valutata con metodo colorimentrico. I risultati finora ottenuti dimostrano che alcune frazioni, in particolare la frazione estratta dal vino rosso con PM < di 1000 Da e quella estratta dal caffé con PM >di 1000 Da sono in grado di inibire la formazione del biofilm batterico da parte di S. mutans e S. anginosus, sulla superficie delle piastre microtitre. Inoltre per poter meglio “mimare” l’ambiente del cavo orale, gli stessi esperimenti sono stati eseguiti utilizzando come substrato di adesione denti umani estratti, sterilizzati e ricoperti da saliva umana sterile. In questo caso la presenza e la consistenza del biofilm è stata valutata con un microscopio stereoscopico dotato di fotocamera. Con questo studio ci prefiggiamo pertanto di potere identificare composti naturali presenti nei cibi e nelle bevande, che sono in grado di interagire con la formazione o la persistenza del biofilm batterico, con il fine di portare alla realizzazione di prodotti cosmetici arricchiti in queste sostanze da utilizzarsi per una più efficace igiene orale. INDUZIONE DI PROFAGI CONTENENTI GENI DI VIRULENZA-RESISTENZA IN CEPPI DI STREPTOCOCCUS PYOGENES Stefania D’Ercole, Luca Agostino Vitali, Dezemona Petrelli, Silvia Rombini, Chiara Ripa, Franco Marmocchi, Sandro Ripa. Dipartimento di Biologia Molecolare Cellulare Animale, Università degli Studi di Camerino. Una interessante caratteristica dello Streptococcus pyogenes (streptococchi di gruppo A, GAS) è la polilisogenia unita al fatto che molti profagi contengono geni di virulenza e di antibiotico-resistenza. In un precedente lavoro condotto nel nostro laboratorio, una popolazione di 212 S. pyogenes era stata esaminata, mediante PCR, per valutare la presenza di 16 differenti geni di resistenza e virulenza (speA, speC, speH, speI, speK, speL, speM, ssa, spd1, spd3, spd4, sdn, sda, sla, mefA, and Tet O) associati a profagi (abbreviato F-vir). Il numero medio di F-vir per ceppo era di 3,8 e la distribuzione dei geni molto variabile. In questo lavoro, è stata valutata la capacità di rilasciare DNA fagico da parte di 59 ceppi, appartenenti alla succitata popolazione, a seguito di induzione con mitomicina C. Il DNA totale di ciascun ceppo indotto è stato analizzato mediante elettroforesi in campo pulsato (PFGE). Bande corrispondenti al DNA fagico sono state ottenute solamente nelle cellule trattate con la mitomicina C. Esse sono state escise e il loro contenuto analizzato mediante PCR per la rilevazione dei geni F-vir. Un terzo dei ceppi F-vir-positivi è stato in grado di rilasciare DNA fagico. La PCR condotta sul DNA esciso dal gel di PFGE, ha rilevato un gene F-vir nel 36,8% dei campioni, due nel 5,3%, tre nel 15,8% e cinque nel 5,3%. sdn, spd4 e speC sono risultati essere i più frequenti. Un ulteriore osservazione degna di nota è quella per cui i ceppi positivi al mef(A) non hanno rilasciato DNA fagico mef(A)-positivo a seguito d’induzione. Il restante 36,8% dei ceppi che hanno rilasciato DNA fagico, non è risultato positivo a nessuno dei geni F-vir considerati. Questo risultato suggerisce due ipotesi: 1) alcuni fagi funzionali conterrebbero nuovi geni di virulenza non ancora caratterizzati; 2) alcuni geni di virulenza sarebbero inseriti in fagi difettivi. La seconda interpretazione è sostenuta dal rapporto tra il numero di fagi rilasciati per ceppo e il numero medio di F-vir per ceppo. In questo caso la polilisogenia risulterebbe da un accumulo di fagi temperati divenuti difettivi in una fase successiva dell’evoluzione. Alcuni fagi tuttavia conservano la loro funzionalità e, quindi, la potenzialità di essere trasferiti orizzontalmente da ceppo a ceppo, aumentando la probabilità di comparsa di ceppi con aumentata virulenza. 100 34° CONGRESSO NAZIONALE DELLA 34° Congresso 06 6-10-2006 17:34 Pagina 101 INDICE DEGLI AUTORI 34° Congresso 06 6-10-2006 17:34 Pagina 102 A Allizond Altobelli Amato Ammendolia Amodeo Amodeo Amoresano Andreoli Andreoni Andreotti Angeloni Angiolella Antinori Antonelli Anzillotti Aquaro Aquilanti Ardizzoni Arena Arru Arsenijevic Artese Artini Ascolani Astone Auricchio Ayala Azzimonti V. A. T. M.G. A. R. A. E. S. S. A. L. A. G. S. S. L. A. A. G. S. A. M. A. V. L. F. B. 66 37 32 86 76 86 95 40 58 66 42 70 30 2 79 30 49 30 59 99 38 32 31 31 41 51 64 99 67 81 72 77 31 67 32 46 45 42 99 80 87 95 B Bacarese-Hamilton Baldelli Baldracchini Balestrieri Balzano Banche Bandi Barbanti Barbaro Barchiesi Barilà Barnini Baroni Barra Barzon Batoni Beghetto Belfiori Bellacicco Bellocchio Bendinelli Bergallo Berlutti T. F. F. E. G. G. M. F. R. F. L. S. A. D. L. G. E. B. A.L S. M. M. F. 30 63 30 31 51 66 37 68 32 46 65 43 63 41 28 21 60 63 48 17 40 92 66 Bernengo Berrilli Bertoli Bertuccini Bianchi Biasin Biolchini Bisignano Bisignano Bistoni Blanco Blandino Blasi Boemo Bonanni Bonetti Bonifazi Bonito Bonora Bonura Borghi Borgogna Bozza Bramati Branca Brancatisano Broccolo Bruno Bua Buommino Buonavoglia Buonavoglia Burlacchini M.G. F. A. L. F. A. A. B. G. F. A.R. G. E. B. D. B. P. M.A. S. C. E. C. S. S. G. F. F A. A. E. C. D. G. 92 35 32 86 85 46 99 85 73 17 71 92 30 37 38 99 17 70 30 32 71 99 17 89 50 35 62 35 50 80 48 64 85 T. S. M. C. M. A. A. M. B. M. M. P. S. S. G. N. E. A. A.P. S. 45 49 84 32 59 86 2 48 58 35 69 3 50 86 82 52 3 75 4 83 100 85 98 33 81 59 92 54 41 88 82 87 72 100 C 42 95 67 81 72 35 79 93 70 41 94 Cabras Cagnacci Caiazza Calà Calapai Calconi Calistri Camero Camilloni Campa Campolo Canepari Cannas Cannavacciuolo Cannella Canozo Capello Capezzone de Joannon Caputi Caracciolo 97 39 41 85 100 20 43 34° Congresso 06 6-10-2006 17:34 Cardelli Cardia Cardinali Careddu Carlone Carpentieri Carriero Caruso Casalino Casillo Casolari Cassina Cassone Castagna Castagnola Castro Catalanotti Catania Catavitello Cattani Cauda Cavallero Cavallo Cavallo Ceccarini Ceccherini-Nelli Ceccherini-Silberstein Celandroni Cellini Cellini Cenci Centofanti Ceragioli Cerini Cermelli Cevini Chessa Chiacchio Chiari Chiereghin Chisu Cicola Cinco Ciotti Cipriani Cirone Clarizio Clementi Clementi Cocuzza Colaianni Colombari Colonna Coppo Cornaglia Corrado Pagina 103 P. M.C. G. A. N.A. A. M.V. A. M. G. C. G. A. B. M. A. P. M.R. C. P. R. A. M. R. P. L. F. F. A. L. E. F. M. P. C. C. M. U. S. A. L. R M. M. P. F. S. F. M. C. M.L. B B. E. M. F. 86 89 4 62 66 31 63 83 6 52 30 62 5 43 45 85 91 90 53 56 57 35 58 93 75 42 32 44 31 5 63 45 44 50 30 35 50 31 88 39 89 33 33 99 74 72 54 49 6 62 69 33 6 49 40 64 27 88 67 95 Corrente Corte Costa Costante Cottoni Counoupas Cozza Crescenzo Crisafi Crisanti Cristani Cubeddu Cuccuru Cuciti Cuffini 89 72 86 88 55 M. L. C. A. F. C. V. G. G. A. M. M. M.A. N.F. A.M. 64 4 92 86 42 35 80 48 71 30 65 50 42 34 66 D’Arminio Monforte D’Arrigo D’Arrigo D’Orazi D’Aglia Damiano Damiano D’Amico Daniele De Andrea De Blasi De Caro De Carolis De Crescenzo De Crignis De Filippis De Gregario De Logu De Luca De Martino Debbia A. M. R. C. M. F. N. M. R. M. R. R. E. L. E. A. V. A. A. L. E.A. Decaro Del Chierico Del Duca Del Mar Lleò Del Pezzo Del Piano Delogu Delogu D’Ercole Deriu Desario Di Bonaventura Di Cave Di Filippo Di Giambenedetto Di Grazia N. F. C. M. M. M. G. R. S. A. C. G. D. C. S. A. 32 73 30 35 100 55 80 84 26 99 86 28 45 46 33 80 51 89 17 91 22 97 7 86 46 3 78 66 7 50 48 50 69 53 35 84 57 56 93 94 73 36 67 72 D 57 93 94 79 45 60 95 34 37 81 86 91 88 89 59 55 86 98 92 55 34 87 57 82 49 61 69 87 74 44 100 90 54 62 34° Congresso 06 6-10-2006 17:34 Pagina 104 Di Luca Di Perri Di Pietro, Di Stefano Di Trani Dieli D’Inzeo D’Isanto Distefano Dolei Donalisio Donelli Donnarumma M. G. M. R. L. F. T. M. S. A. M. G. G. Donnarumma Donofrio Drago M. G. M. 35 30 74 65 8 8 54 51 32 41 40 37 51 80 87 23 71 41 57 84 99 98 52 63 70 E Elia Endimiani Esin G. A. S. 9 19 35 Facchetti Facello Fadda F. B. G. Faggioni Falanga Falcone Fanali Fasanella Fatichenti Favilli Federico Felici Felis Ferraironi Ferrante Ferranti Ferrari A. A. I. C. A. F. F. G. F. G.E. M. P. C. D. Ferraro Fierro Finamore Fiorentini Fiorentino Fiori Firrito Fiscarelli Florio Florio Floris D. M.T. E. S. C. B. N. E. A. W. R. 26 91 44 56 42 84 72 55 72 4 35 55 60 81 86 9 34 3 96 65 92 51 83 73 57 34 86 45 35 37 72 41 F 45 57 50 54 91 36 20 75 84 36 55 41 81 75 82 Fontana Forgnone Formaggio Formica Francisci Francolini Frateschi Frioni Furneri S. F. F. F. D. I. S. A. P.M. Fusco A. 56 93 51 62 63 37 79 70 28 85 51 L. M. M. S. A. V. F. E. R. N. M. C. A. G. C. A. S. F. G. F. G. E. C. A. D. G. M. A. C. R. C. P. T. E. G. S. E. 39 51 84 51 68 88 90 15 88 60 99 49 85 60 38 27 35 62 100 26 10 10 20 32 16 73 67 62 32 55 39 76 46 76 64 67 87 E. F. L. 80 37 3 53 34 36 75 52 G Gabrielli Galdiero Galdiero Galdiero Galeota Lanza Galimberti Gallè Garaci Garcia-Parra Gargano Gariglio Garofalo Garozzo Garufi Garzelli Gasco Gatti Gatto Gazzani Gentili Gerna Ghelardi Giacomazzi Giammanco Gibellini Ginestra Giuffrè-Cucculetto Giuliano Gori Graffeo Grandi Grassi Grassi Grasso Greco Grelli Grimaldi Gruppo di Studio Progetto gonococco Guaglianone Gualandi Gualco 84 84 89 83 95 88 39 75 43 82 33 34 44 96 56 77 78 79 77 72 78 79 97 34° Congresso 06 6-10-2006 Guardo Guarino Guida 17:34 Pagina 105 G. J. L. 76 51 69 L. 39 M. A. F. D. E. F. R. A.M. G. M.R. 56 86 38 59 65 96 45 58 91 52 A. K. 84 41 M 77 H Hensgens I Iaconelli Ianieri Iannelli Iannello Iannitto Indiveri Inzitari Iorio Iovane Iovene 55 82 K Kampanaraki Khalili L La Rosa La Sorda Lambiase Landini Landolfo Lanzieri Lari Latella Lazzarotto Lembo Lengauer Leone Leone Lepri Lo Caputo Lombardo Lonardo Longanesi Cattani Longhi Lopizzo Lorusso Lorusso Lovato Low Lucente Lucido Luzzaro G. M. A. M.P. S. N. N. M.C. T. D. T. B.E. F. E. S. C. M. I. C. T. A. E. L. W. M.S. M. F. 56 45 78 39 40 51 38 6 39 40 32 88 57 58 30 78 90 63 95 56 72 69 99 30 69 91 19 87 90 98 52 99 98 Macchi Maccioni Macone Magelli Maggi Magnani Maida Maisetta Malabaila Mameli Mancardi Mancardi Mancuso Mandalari Mandras Manente Maneo Manganelli Mangioni Mangoni Mannazzu Mannelli Manzara Maras Marchese Marchetti Marconi Margio Mari Marino Marino Marino-Merlo Marmocchi Martella Martinelli Martini Martinotti Masala Mascagni Maserati Masi Mastino Mastrantonio Masucci Matteoli Matteucci Mazibrada Mazzotta McDermott B. E. A. C. F. M. C.M. G. A. G. G.F. G.L. G. G. N. L. A. R. C. M.L. I. S. S. B. A. S. S. S. V. A. M. F. F. V. D. I. M.G. M.V. P. R. G. A. P. L. B. C. J. F. J.L. Medici Mei Mele Melito M.A. A. G. A. 31 89 74 39 40 83 46 35 67 41 20 3 11 73 66 82 88 11 88 41 12 75 56 70 49 56 99 93 69 71 65 67 100 12 91 75 58 42 71 35 28 31 13 54 42 31 99 30 3 96 67 99 50 52 42 79 41 99 85 67 74 53 57 72 76 97 42 68 55 67 95 42 95 20 75 94 73 69 96 57 82 34° Congresso 06 6-10-2006 Menardi Mencacci Mengoli Merlino Meschi Messina Mignogna Mignozzi Milici Militello Minutolo Moccia Modena Molicotti Molin Mollace Monari Monno Montagnani Montagnoli Montesu Monzani Morace Morea Moretti Morganti Moriconi Moroni Morotti Moscato Mosci Msika Muscillo Muscoli Musso Musumeci 17:34 Pagina 106 G. A. C. C. S. M. G. K. M.E. V. A. C. D. P. M. V. P. R. F. C. M.A. M.V. G. C. S. R. F. G. M. L. P. P. M. C. T. R. 37 63 13 92 40 93 70 37 46 28 31 84 71 50 88 46 39 64 60 17 42 71 14 70 17 79 42 95 39 91 98 80 56 46 26 62 D. P. R. A. L. A. M. J. M. A. M. 72 30 30 26 15 80 58 48 86 65 92 81 93 94 81 42 81 39 98 88 71 89 33 92 83 59 93 71 73 O Oggioni Olmeo Oreste M. P. P. 38 50 40 43 E. M. C. L. S. A. 95 64 59 90 81 49 U. A.T. G. D. L. F. I. R. G. M. A. G. F. C. I. B. C. L. S. B. C.F. S. M. D. A. G. O. N. C. R. G. P. S. M. C. G. A. A. A. M. P. F. L. F. M. A. A. 91 15 2 86 61 66 63 68 62 49 100 62 88 60 77 59 84 90 30 52 15 33 52 48 86 62 90 80 53 53 43 95 63 40 55 50 37 31 88 79 65 65 41 31 46 53 57 80 P N Narcisi Narciso Neglia Negro Ponzi Nencioni Neri Neri Neyts Nicoletti Nostro Novelli Oricchio Orlando Orsi Ortega De Luna Ortu Osimani 60 92 Pagnini Palamara Palù Paludi Pane Pantanella Paoletti Paolillo Paolini Paoloni Papetti Parati Parizzi Passariello Patamia Pavone Pedone Peluso Peppoloni Perfetto Perno Perticarari Petrazzuolo Petrelli Petrucca Piatti Piazza Piccardi Picciani Piccolomini Pichierri Pierimarchi Pierucci Pifferi Pinnetti Pintore Piozzi Piperno Pirola Pistello Pizzillo Pizzimenti Poddighe Poggiali Pollicita Pompilio Pompucci 70 28 83 64 69 82 78 79 59 70 30 60 32 100 60 71 73 45 95 87 46 34° Congresso 06 6-10-2006 Ponti Pop Porzionato Posteraro Potena Pozzi Pozzilli Prenna Presani Prosseda Pruzzo Pucci Puglisi Pulcrano Puliti Pusceddu 17:34 Pagina 107 R. S. A. B. L. G. C. M. G. G. C. P. S. G. M. C. 92 39 28 45 39 16 74 48 33 6 61 31 92 78 98 54 Roveta Ruggeri 43 60 62 95 87 90 R Raia Raieta Rama Rao Rasi Re Re Rellini Repetto Rezza Riboldi Ricci Ricci Rinaldi Rindi Ripa Ripa Rittà Riverol Rizzo Roana Roccasalva Rocchi Rodinò Rolla Romani Romano Carratelli Romano Rombini Romeo Roscetto Rossano Rossi Rossi V. K. P. M. G. M.C. D. P. B. G. E. R. S. M. L. C. S. M. M. A. J. L.S. J. P. D. L. C. P. S. G. E. F. D. V. 87 51 35 51 95 16 93 4 61 17 26 57 60 58 38 48 100 99 99 68 66 34 40 46 82 17 68 89 48 31 78 78 83 75 84 33 34 62 100 69 67 36 72 69 87 87 76 37 G. B. M. M. 57 S. M. M. R. R. S. I. S. M. S. R. D. B.E M.M. F. P. G. S. A. G.C. A. M.T. C. G.L. V. S. L.A. L. L. S. J. A. C. R. R. A. A. F. C. G. F. T. P. F. D. L. 57 89 89 44 97 S 55 38 S. V. 90 60 Sabatino Saddi Saddi Sali Salvetti Sanguinetti Santagati Santangelo Santarelli Santarelli Santino Santona Santoro Sarli Satta Savoia Sawaya Scaltrito Scazzocchio Schiavone Schiavoni Schippa Schito Schito Sciacca Sciortino Sciuto Scoarughi Scriffignano Scutera Sechi Seganti Selan Senesi Sepulcre Serafino Serra Sessa Sgarbanti Sgura Siddu Sidoti Signoretto Silvestri Sinesi Sing Sinibaldi Vallebona Sisto Solla Sommese 44 44 38 54 42 49 66 41 30 70 42 67 41 71 66 16 74 70 61 53 76 67 77 31 77 26 50 95 31 39 99 95 41 74 15 46 56 93 3 49 94 32 95 71 64 64 54 55 56 45 55 57 56 57 32 62 61 77 76 78 45 78 95 79 81 45 44 95 59 99 86 83 91 94 85 100 97 79 34° Congresso 06 6-10-2006 Sorlini Sorrentino Sotgiu Sozzani Spanu Speciale Spigaglia Spinzia Starnino Stefanelli Stefani Stivala Sudano Roccaro Superti Surico Svicher 17:34 Pagina 108 C. R. S. S. T. A. P. C. S. P. S. A. A. F. N. V. 18 95 99 26 57 92 68 65 80 80 18 85 71 86 99 30 Tabacco Tanzarella Tavanti Tempera Tempesta Testa Thiry Thiry Timpanaro Tissi Toniolo Torelli Torrisi Tortoli Totaro Trapanotto Trapanotto Trappetti Tremonte Trombetta Tudisco Tufano F. C. A. G. M. C. E. J. R. L. A. R. C. E. M. G. P. C. P. D. L. M.A. Tufano Tullio R. V. 86 46 39 34 48 70 48 48 85 98 19 45 76 38 64 79 76 43 19 65 63 51 80 90 66 A. D. 99 81 V 38 77 32 T U Uccelli Usai Vaccaro Valenti Varcamonti Varnier L. P. M. O.E. Vatteroni Vecchiarelli Venuti Vermi Villoslada Visalli Visco-Comandini Vitali Vitiello Vitone Vultaggio M.L. A. A. W. P. V. U. L.A. M. F. A. 79 70 20 3 96 79 14 67 26 99 46 30 48 51 16 65 D. C. S. E. T. M. 67 74 50 49 17 26 20 75 63 100 84 Z 43 36 77 59 75 Zaccaria Zagaglia Zanetti Zannini Zelante Zucca 78 79 52 82 63 87 64 91 67 72 77 54 81 82