L'UTOPIA DELLO STATO ISLAMICO CONTRO IL RELATIVISMO DELL'OCCIDENTE. SERVE LA NOVITÀ CRISTIANA di Fady Noun Da una ricerca elaborata dall’ong internazionale Alert e incentrata sulla “ricerca del senso” è emerso che fra i motivi che spingono i giovani siriani a unirsi ai gruppi jihadisti vi sono il bisogno economico e il desiderio di vendetta. Questa inchiesta merita un’analisi approfondita (vedi L’Orient-Le Jour del 5 maggio 2016). Chiariamo fin da subito che questa scoperta non è così nuova, né sorprendente. In uno degli articoli firmati a suo nome Joseph Ratzinger, futuro papa Benedetto XVI, sottolineava che “l’uomo non può vivere senza un senso, ne ha bisogno come del pane” (Crédo pour aujourd’hui, Presse du Châtelet, p.147). Così, dopo aver fallito nel trovare un senso alla loro vita nel progetto di società che era stato loro proposto, questi giovani siriani hanno quindi cercato altrove. Le società alle quali ci riferiamo sono quelle dei regimi militari o dei partiti unici di impronta laica che si è cercato di costruire nel mondo arabo durante il XXmo secolo. Abbiamo discusso sin troppo a lungo di questi regimi nati dallo smantellamento dell’Impero ottomano, o sul prolungamento della decolonizzazione, perché si debba ritornare nel dettaglio sull’argomento. Di opere scritte in materia, quella che porta il titolo più altisonante è stata realizzata da Ghassan Tuéni, in collaborazione con Gérard Khoury e Jean Lacouture (Albin Michel): “Un secolo per niente”. In poche parole si dice tutto, il resto sono solo dimostrazioni pratiche. I regimi arabi non hanno saputo proporre, e men che meno mettere in pratica, dei progetti di società capaci di soddisfare l’aspirazione dei popoli arabi a una vita che assicurasse loro, assieme alla prosperità, un “decollo” per usare un’espressione terzomondista, la dignità e il senso di una missione storica da compiere. Sappiamo inoltre che questa “ricerca del senso” risulta pure in cima alle motivazioni che hanno spinto i giovani occidentali a raggiungere la piana di Ninive. La ricerca del senso è irrinunciabile: essa definisce la natura del rapporto che ciascuna persona umana intrattiene con la sua società, la sua storia, la propria finitezza. Questa ricerca non si accontenta di una non risposta, perché questa non risposta finisce per essere una forma di risposta. E forse perché è stata dimenticata, o perché non è stata data una risposta soddisfacente a questa domanda, che la “Primavera araba” non è riuscita a diventare una alternativa valida alle società arabe tradizionali. Il piccolo volume di Renaud Fabbri “Eric Voeglin et L’Orient, millénarisme et religions politiques de l’Antiquité à Daech” (*), fornisce alla questione uno sguardo che merita di essere approfondito. L’opera mostra che la “ricerca del senso” su cui è fondato l’equilibrio della persona umana si impone al contempo come necessità sul piano della società politica nella sua interezza. “Voegelin usa il termine ‘rappresentazione trascendentale’ per indicare il bisogno (assoluto, paradigmatico) che ha una società di organizzarsi in funzione di una verità che la superi” ricorda Fabbri. Ed è questa “rappresentazione trascendentale” che è stata abolita in via simbolica con la cancellazione del “Califfato” nel 1923, dopo la caduta dell’Impero ottomano, per la cui rinascita si sono battuti pensatori e gruppi islamici, percorrendo sfortunatamente il terreno segnato da modelli di società arcaiche, con impronte apocalittiche, piuttosto che cercare una espressione conforme ai criteri di una modernità chiara, storica, ancora tutta da definire. Un fenomeno analogo di abolizione di tutta la “rappresentazione trascendente”, quella che in un secondo momento abbiamo chiamato il “disincanto del mondo”, è avvenuta in Occidente a partire dal XIXmo secolo, con la civiltà della “morte di Dio”. E, in un certo modo, la storia ha dato ragione alla proposta di Eric Vogelin, sotto la forma di quello che consideriamo un ritorno delle religioni negate, questo ritorno che ha finito per manifestarsi in un modo patologico nelle “religioni politicizzate” (come il nazismo e il comunismo), che hanno contraddistinto il XXmo secolo con le loro devastazioni. Oggi assistiamo all’incapacità delle società musulmane di identificarsi in un modello di società laica, così come la vediamo oggi in Occidente, per un semplice motivo messo bene in evidenza da Vogelin “che interpreta questa secolarizzazione come una forma aberrante di ‘immanentismo’, una divinizzazione della società stessa” (pagina 18). Così si spiega chiaramente perché l’Oriente (arabo) e l’Occidente (liberale) non riescono a incontrarsi se non nella forma di un conflitto sterile, fatto di una “rappresentazione trascendente” comune o, quantomeno, di rappresentazioni trascendenti convergenti. In particolare, quanto è avvenuto con l’organizzazione Stato islamico è l’emergere di una rappresentazione ostile al modello secolare occidentale “auto-divinizzato”. Questa ostilità prende forme diverse, passando attraverso l’economia, la metafisica e l’escatologia. Certo, questa rappresentazione non è nata con lo Stato islamico, ma con quest’ultimo ha saputo per la prima volta trovare una connotazione concreta e territoriale, e non solo delocalizzata, come era avvenuto in precedenza con la rete di al-Qaeda. Detto questo, anche lasciando da parte il modello estremo rappresentato dallo Stato islamico, emerge in modo più chiaro il percorso che si prospetta in tema di incontri fra civiltà favorito dalla mondializzazione, che si manifestano tramite organizzazioni internazionali come l’Onu, o da organismi quali il partenariato euro-mediterraneo, che portano frutti non solo in tema di scambio di beni e prodotti. Perché essi diventino però anche fattori di scambio umano, o di scambio di valori, questi organismi, queste entità, devono ancora evolversi sul piano culturale, ma soprattutto sul piano spirituale. Cosa manca alla partnership euro-mediterranea per fiorire, ci si chiede alle volte? La risposta è la seguente: un’anima comune, come aveva già detto Giovanni Paolo II; delle rappresentazioni convergenti; un progetto esaustivo di natura olistica. Su questo punto in particolare, Fabri ritiene che “la risposta al disordine contemporaneo non può essere che di natura spirituale e deve giungere innanzitutto dai musulmani stessi”. E ancora, servirà che l’Europa smetta di dubitare di se stessa! Senza dubbio la risposta al jihadismo non potrà mai essere solo di natura militare e riguardante la sicurezza, ma dovrà proporsi al contempo come un modello di civilizzazione, di rapporti internazionali. Certo, la sua stessa natura utopica porterà il progetto dello Stato islamico ad autodistruggersi. “Se lo Stato islamico fosse ancorato solo a una costruzione razionale, non moltiplicherebbe gli attentati all’esterno del proprio territorio, soprattutto in Occidente. Senza questo elemento, è probabile - sottolinea Hamit Bozarslan, direttore di Ehess - che le grandi potenze internazionali avrebbero già trovato un compromesso, visto che già ora controlla un territorio e una popolazione. Mentre ora è diventato il nemico comune di tutti”. Tuttavia, sotto l’utopia irrazionale continuerà sempre a sonnecchiare la necessità di una rappresentazione trascendente. La risposta a Daesh [acronimo arabo per lo SI] sarà dunque affare non solo dei governi, ma dei popoli e delle civiltà, e sarà interessante anticipare il ruolo che gli arabi cristiani, al di là dell’esodo e delle paure, potranno avere come intermediari della modernità, spartiacque fra fede e ragione. A condizione che questi stessi cristiani si risveglino! Per le linee di pensiero che essa apre, per le intuizioni che saprà fornire, la lettura dell’opera di Renaud Fabbri è di grande ricchezza. L’autore è docente di Scienze politiche all’università di Versailles, specialista in filosofia politica e in filosofia delle religioni. E ha vissuto diversi anni in Medio oriente. * Renaud Fabbri, Eric Voegelin et l’Orient, millénarismes et religions politiques de l’antiquité à Daech, L’Harmattan. da «AsiaNews»