Tucidide (Atene 460 a.C. ca. - 400 a.C.?) è stato uno fra i più acuti e lucidi storici ed un grande esponente della letteratura greca. Il suo racconto della guerra del Peloponneso è considerato uno dei maggiori modelli narrativi dell'antichità, sicuramente uno dei primi esempi di analisi degli eventi storici secondo il metro della natura umana, con l'esclusione quindi dell'intervento di ogni divinità. Vita e carriera pubblica Tucidide nacque ad Atene nel demo di Alimunte. In questo demo, stando a quanto fino ad oggi è giunto, l’unica famiglia di rilevanza notevole era quella di Tucidide. La data di nascita ha da sempre suscitato varie questioni e controversie. Apollodoro di Atene afferma che durante la guerra peloponnesiaca (431 a.C.) Tucidide aveva quarant’anni, (akmè) stando a questo calcolo la data di nascita dovrebbe corrispondere con il 471 a.C. Ma il fatto stesso che si volesse collocare l’akmè dello storico proprio all’inizio dell’importante guerra fa sorgere giustamente qualche dubbio anche in considerazione di altre testimonianze tra cui quella di Marcellino (vita di Tucidide, 34) secondo il quale al momento della sua morte lo storico era più che cinquantenne, momento della morte che egli pone nel 403 a.C. Quindi rispetto a quest’altra opinione la nascita di Tucidide sarebbe avvenuta non molto prima del 454 a.C. Questa è la tesi per la quale propendono anche oggi gli studiosi moderni anche in considerazione del fatto che nel 423 a.C. Tucidide fu uno stratego e a quel tempo ad Atene, per accedere a quella carica, l’età minima era quella di trent’anni, anche se lo stesso Tucidide nella descrizione di Alcibiade afferma che uno stratego appena trentenne era considerato assolutamente troppo giovane. Quindi la collocazione della data dovrebbe essere ulteriormente arretrata. L’accesso alla carica di stratego (gli strateghi erano dieci ad Atene), avveniva democraticamente per elezione. (Era l’unica carica per la quale l’elezione avveniva per voti oltre all’ipparchia cioè il comando della cavalleria). Perciò i dieci strateghi erano il riflesso delle correnti politiche predominanti ad Atene ogni anno, infatti, ogni gruppo politico che godeva di una discreta influenza eleggeva i suoi uomini, ciò dimostra e attesta l’importanza che Tucidide aveva nella politica del suo tempo. Tucidide subito dopo l’elezione si fece affidare il controllo strategico della Tracia insieme con il collega Eukles, ribadendo così quale fosse la rilevanza dell’attaccamento al territorio per gli strateghi greci. Eukles e Tucidide presero posizione ad Amfipoli e a Taso, secondo quanto era stato stabilito ad Atene durante il collegio generale al quale ciascuno stratega arrivava avendo già deciso la sua destinazione, come anche afferma Tucidide riferendosi ad Eukles che era giunto ad Atene con lo scopo preciso di “curare la difesa di Amfipoli”. Ciò avvenne nell’anno della famosa grande campagna di Brasida, comandante valoroso, che riuscì ad attuare quello che nessun comandante spartano aveva mai fatto: condusse, infatti, una campagna vittoriosa in Tracia molto lunga e per molto tempo lontano dalle basi di partenza. Lo spartano Brasida risultò vittorioso anche perché riuscì a bilanciarsi sia sul fronte politico sia sul fronte militare. Anche nell’assedio di Amfipoli il condottiero si comportò in questo modo affrontando inizialmente una marcia forzata per giungere prima del tempo, ma poi evitando un attacco frontale e preferendo trattare con le forze interne che erano già vicine al distacco da Atene. Le truppe di Eukles diventarono quindi in breve esigue e rarefatte. Tucidide, anche prendendo spunto dai resoconti degli Ateniesi che erano fuggiti da Amfipoli, ricostruì in modo impeccabile la defezione di Amfipoli. Tucidide in quell’occasione sopraggiunse con la sua grande influenza solo alla fine dell’operazione militare riuscendo a salvare il porto della città, le altre città nelle vicinanze presto capitolarono e per Atene la perdita della zona di Amfipoli fu di consistente peso. La tradizione biografica antica. Tucidide ad Atene Tucidide nei mesi che succedettero quel fatto proseguì la sua attività di stratega riportando con molta cura l’evolversi della situazione ateniese in campo militare, anche se quel periodo fu assai povero di episodi rilevanti anche a causa della tregua annuale. Tucidide successivamente, anche stando ad Atene, continuò a seguire le vicende della guerra, tant’è che racconta la partenza delle truppe ateniesi verso la Sicilia e altri fatti più o meno rilevanti. E’ inoltre preziosa la testimonianza di Aristotele secondo la quale Tucidide assistette ad Atene anche al processo contro Antifonte, appena dopo la caduta dell’oligarchia. Ciò in qualche modo contrasta con la diffusa credenza secondo la quale Tucidide dopo l’insuccesso della campagna in difesa di Amfipoli sarebbe stato mandato in esilio presso i Peloponnesiaci per vent’anni conclusosi con un’amnistia generale. Questa opinione è nata da un’analisi del secondo proemio in una nota autobiografica dell’autore di discussa autenticità. Tuttavia la tradizione colloca il luogo dell’esilio di Tucidide nei siti più vari, escluso il Peloponneso. Lo storico Timeo è l’unico sostenitore del viaggio in Italia di Tucidide che, secondo questa tesi sarebbe anche morto e avrebbe trovato sepoltura nella penisola. La teoria di Timeo tuttavia fu contrastata mezzo secolo dopo da Polemone di Ilio con la tesi delle tombe cimoniane. Così da quel momento il luogo dell’esilio di Tucidide fu considerato la Tracia anche se le tesi furono sempre le più disparate: così ad esempio Didimo immagina che Tucidide fosse andato a trascorrere il suo esilio nei suoi possedimenti in Tracia e che poi, ritornato ad Atene, fosse stato ucciso da un antico nemico; altri invece, come Plutarco, immaginano che Tucidide sia morto in Tracia sempre di morte violenta e che le sue ossa siano state trasportate ad Atene solo successivamente. Quindi le discordanze tra la nota autobiografica del secondo proemio, e la tradizione nata subito dopo Aristotele, sono molteplici anche se però rimane fisso e in un certo senso appurato il fatto che Tucidide abbia vissuto per un certo periodo, forse fino alla morte, a Skaptesyle, nei suoi possedimenti in Tracia. Tuttavia questo dato toglie valore alla tesi dell’esilio per il semplice fatto che un condannato non avrebbe potuto correre il rischio di rimanere a gestire una miniera, facendo affluire ad Atene regolarmente i lingotti d’oro poiché il rischio di essere ucciso impunemente era altissimo. La morte è collocata con il periodo dei trenta tiranni, poiché nell’opera di Tucidide non vi è alcun cenno a quel fatto strettamente collegato al contesto storico, e alla precedente oligarchia della quale Tucidide invece traccia un profilo chiaro e ben delineato. Quindi è plausibile collocare la morte dello storico nel momento nel quale la repressione dei tiranni, rispetto coloro che si erano schierati con la precedente oligarchia senza timore, fu durissima. Le “inedite carte tucididee” L’opera tucididea è caratterizzata da un’elaborazione imperfetta che avvalora la tesi di una scomparsa prematura ed improvvisa dell’autore. Infatti ad alcuni passi molto elaborati e precisi con data di inizio e di fine delle varie guerre, si alternano altri passi nettamente più trascurati e ricchi di contraddizioni e di imperfezioni stilistiche. Una parte che presenta molte imperfezioni ed omissioni è quella relativa al blocco degli anni che vanno dalla pace di Nicia (421) alla ripresa delle ostilità in Sicilia (415) parte da ritenere tra le più incompiute. E’ presente infatti solo una stesura, una prima bozza del racconto. Ne dà infatti notizia lo stesso Tucidide nel secondo proemio con l’affermazione “Anche queste cose ha scritto il medesimo Tucidide…”. E’ quindi sicuro che Tucidide avesse cominciato a scrivere almeno una prima parte del racconto; sono infatti molteplici le affermazioni con le quali asserisce di essere alla costante ricerca di materiale informativo da quando gli attriti militari e diplomatici sono iniziati. Il racconto, che si interrompe con la provvisoria pace di Nicia, trova il suo proseguimento nelle Elleniche di Senofonte, opera anch’essa parzialmente incompiuta e quasi del tutto incomprensibile come documento a se stante. E’ infatti probabile che Senofonte si sia appropriato delle inedite carte tucididee aggiungendo anche note e commenti personali, come si deduce dal secondo proemio e successivamente le abbia pubblicate come sue. Le Elleniche sono da considerarsi posteriori e realizzate con gli ultimi blocchi dell’opera tucididea. Struttura In seguito alla separazione dei “Paralipomeni” che sono poi confluiti nelle Elleniche, la suddivisione attuata nell’opera dello storico è stata quella che oggi è considerata come moderna. L’opera venne divisa quindi in otto libri, senza tuttavia dimenticare i criteri di classificazione precedenti secondo i quali ad ogni anno di guerra corrispondeva un libro. Ciò probabilmente è cambiato con la nascita della Biblioteca Alessandrina, con la quale entrarono in uso i cosiddetti rotoli; questi erano di dimensioni assai maggiori rispetto ai libri in uso al tempo di Tucidide. Così quello che era contenuto in tre volumi fu trascritto in un rotolo, ed è quindi questo il motivo per il quale ogni libro secondo la classificazione attuale porta memoria di tre anni di guerra. Mentre i libri II, III e IV contengono ciascuno il racconto di tre anni di guerra i libri VI e VII narrano interamente la campagna di Sicilia, in altre parole la guerra di Atene contro Siracusa. In questi due libri la suddivisione è stata attuata a prescindere dagli anni di guerra, poiché si è preso come filo conduttore un elemento contenutistico molto rilevante. Troviamo così vari anni di guerra con ambientazioni differenti e varie come non troviamo nei libri precedenti o nell’ottavo che, dal punto di vista contenutistico è assai meno rilevante. Nonostante la campagna siciliana sia narrata così uniformemente e in modo diverso rispetto agli altri avvenimenti, la continuità e la scorrevolezza del racconto è garantita da un’ordinata numerazione progressiva degli anni di guerra. La questione che da sempre ha affascinato gli studiosi è la seguente: come fece Tucidide ad avere l’intuizione di inserire dopo la guerra decennale la narrazione di un periodo di pace quasi a prevedere l’avvento di un’altra guerra? Molto probabilmente l’intuizione di Tucidide deriva dalla sua concezione unitaria della guerra in generale, ed in particolare degli eterni dissidi esistenti tra Sparta ed Atene, potenze che in nessun modo avrebbero potuto coesistere. Da qui discende di conseguenza la concezione ampia del conflitto in base alla quale Tucidide non vide nella pace di Nicia lo sciogliersi delle ostilità fra le due egemonie e ciò quasi sicuramente lo spinse a proseguire la narrazione considerando la pace come un evento straordinario da includere in una narrazione storica. E’ a questo punto che nella concezione storica cominciano a prendere più importanza le cause vere, le cause originarie dei fatti che si contrappongono a quelle occasionali, pretestuose che ne sono solo la concretizzazione. Di conseguenza abbiamo l’immissione nel corpo del primo libro, originariamente dedicato ai pretesti, di una serie di riassunti e rivisitazioni dei fatti precedenti identificando in essi la causa di quelli attuali. Ha così notevole importanza la crescita del dominio di Atene iniziata dopo la guerra in Persia, che avvalora la tesi che mai nessun altro storico prima aveva sostenuto per la quale la progressiva crescita di Atene insopportabile per Sparta “aveva reso inevitabile la guerra”. La “questione tucididea” La disputa sorse intorno alle fasi della successiva rielaborazione dell’opera da parte di Tucidide. La questione nacque con Franz Wolfang Ulrich i cui elementi erano già stati presi in considerazione da Karl Wihelm Kruger la cui tesi si basa sull’ovvietà. Secondo questi studiosi infatti era impossibile per Tucidide prevedere che la guerra sarebbe durata per ventisette anni. Quindi secondo gli studiosi tedeschi nell’opera era possibile ritrovare gli strati precedenti alla scoperta della finta pace di Nicia. Essi affermarono inoltre che i primi libri non furono affatto riveduti da Tucidide. Questa seconda affermazione tuttavia non è affatto accettabile, infatti sin dai primi libri sono messi in risalto quelli che sono soltanto i sintomi di un’impossibile coesistenza tra due egemonie così potenti che porterà all’inevitabile crollo di una delle due. Un elemento che dà senso a questa tesi è la frase presente nel primo capitolo dove la guerra è definita come “un sommovimento che ha coinvolto la gran parte degli uomini”, tale riferimento assume un senso solo se lo si pone in relazione al coinvolgimento di Tissaferne, Farnabazo e Ciro a sostegno di Sparta. Quindi tale affermazione presuppone una conoscenza dei successivi sviluppi della vicenda bellica. Inoltre l’idea della ricerca delle cause vere è riscontrabile anche nelle considerazioni circa le conseguenze politiche a cui la morte di Pericle avrebbe portato, tra le quali è citata, anche se indirettamente, la disfatta finale di Atene. Quindi è probabile, se non certo, che la rielaborazione dell’opera avvenuta in seguito alla scoperta della finta pace di Nicia, abbia riguardato l’intero lavoro, a partire dai primi capitoli. Per Ulrich il secondo proemio rappresenta il momento in cui Tucidide riprende la stesura dell’opera dopo aver compreso che le nuove ostilità erano la prosecuzione della guerra decennale. Rimane però sempre la questione sull’interruzione finale dell’opera. Infatti era ritenuto imbarazzante rendere la resa di Atene il motivo principale della rinuncia di Tucidide nella prosecuzione dell’opera quindi nacque la tesi secondo la quale Tucidide, morto prematuramente, non aveva avuto il tempo di completare la stesura della sua opera. Ma se era andata in questo modo perché non vi erano stati ritrovamenti del materiale raccolto da Tucidide? Riguardo a ciò l’ipotesi più avvalorata fu quella di uno studioso delle Ellenistiche, Ludwig Breitenbach che riteneva che Senofonte avesse trovato le stesure grezze di Tucidide e le avesse riorganizzare per costituire il racconto degli anni finali della guerra. Tucidide pur avendo iniziato a scrivere molto presto non aveva lasciato alcuno scritto per gli anni 411-404, ciò costrinse gli studiosi ad assegnare ad un’opera fin troppo imperfetta un tempo lunghissimo. Quindi si formò l’ipotesi secondo la quale nella composizione di Tucidide ci fu una lunga pausa, un lungo periodo di stasi probabilmente collocabile tra il periodo della guerra decennale al fallimento della pace di Nicia. E’ quindi ipotizzabile che lo storico durante la guerra decennale si sia limitato ad una semplice raccolta di materiale anche se egli stesso lo nega con la sua dichiarazione iniziale. Un’altra questione che i critici più volte hanno ripreso è quella riguardante il contrasto tra i cosiddetti libri perfetti (VI, VII) e quelli imperfetti (V, VIII). La distinzione è nata da un equivoco in quanto non si considerò il fatto che la divisione in libri non risale a Tucidide, che ripete nella sua opera, in modo quasi ossessivo, che la sua intenzione era di suddividere l’opera secondo gli anni di guerra. Così nei libri imperfetti sono presenti parti compiute e corrette accostate a parti ancora da ultimare e rivedere: così si trovano passi come la campagna di Mantinea (418-417 a.C.) elaborati e minuziosi, e parti che, sebbene importanti, sono appena citate come il conflitto commerciale di Megera. L’impianto dell’opera è diviso in anni e stagioni e questo rende molto precarie le tesi dei sostenitori della questione tucididea in quanto si trovano di fronte ad anni perfetti con elementi imperfetti perché appartenenti ad un altro libro. Di conseguenza i discorsi diretti che denotano la perfezione o l’imperfezione dell’opera, compaiono alternatamene sia negli anni perfetti sia in quelli imperfetti non coincidendo affatto con la suddivisione in libri. Quindi l’opera tucididea è da considerarsi molto meno articolata e precisa di quanto abbiano voluto credere gli studiosi della questione tucididea, risulta bensì sfumata e ricca di rielaborazioni e ritocchi che denotano una progressiva maturazione della coscienza storica di Tucidide che pur non prevedendo il futuro, ma analizzando attentamente il presente ha complessivamente raccontato un periodo di storia in modo pressoché ineccepibile. L'opera Tucidide narra in otto libri la guerra del Peloponneso. Il titolo Storie, come pure la ripartizione in otto libri, non sono originari ma, come per Erodoto, furono voluti dai grammatici alessandrini e tramandati nei codici. Gli avvenimenti narrati vanno dal 431 a.C., anno di inizio delle ostilità, al 411. Ma l’autore intendeva giungere fino alla fine della guerra e gli ultimi avvenimenti, forse narrati dallo stesso Tucidide, saranno poi pubblicati nelle Elleniche di Senofonte. LIBRO I - Storia della Grecia dalle origini alle guerre persiane, la cosiddetta «Archeologia». Premessa metodologica relativa agli scopi e ai metodi. Presentazione della causa occasionale del conflitto (ostilità tra Corinto e Corcira e intervento di Atene a favore di quest’ultima) contrapposta alla vera causa (rivalità fra Atene e Sparta per l’egemonia sulla Grecia). Excursus sui cinquant’anni intercorsi tra le guerre persiane e il conflitto tra Atene e Sparta («pentacontaetia»). Ad Atene Pericle presenta il piano di guerra, che si basa principalmente sulle forze di mare. LIBRO II - Vengono narrati i primi tre anni di guerra (431-429). Discorso funebre di Pericle per i caduti ateniesi nel primo anno del conflitto. Descrizione della peste che colpì Atene e di cui fu vittima lo stesso Pericle. LIBRO III - Anni 428-425. Gli Ateniesi incitati da Cleone, nuovo capo dei popolari, reprimono la ribellione di Mitilene, gli Spartani conquistano Platea e la radono al suolo. Le atroci violenze, cui si abbandonano a Corcira i democratici nei confronti degli oligarchici, forniscono lo spunto per un’amara riflessione sull’imbarbarimento morale causato dalla guerra. LIBRO IV - Anni 425-422. Dopo l’invasione dell’Attica da parte degli Spartani, Cleone porta la guerra nel Peloponneso. Falliscono le trattative di pace. In Tracia si verifica l’episodio di Anfipoli, nel quale rimane coinvolto Tucidide stesso. LIBRO V- Pace di Nicia seguita alla battaglia di Anfipoli (421 a.C.). Ma in realtà si prepara un nuovo periodo di guerra. È narrato l’episodio degli abitanti dell’isola di Melo, che si erano rifiutati di abbandonare lo stato di neutralità e verranno spietatamente trucidati dagli Ateniesi. Segue un’altra riflessione dell’autore sulla logica orrenda della guerra. LIBRO VI e VII - Spedizione in Sicilia promossa, a partire dal 416 a.C., da Alcibiade. È allestita una flotta imponente, ma la partenza avviene sotto cattivi auspici: sono trovate sfregiate le Erme, busti in pietra del dio Hermes posti agli angoli delle strade. Alcibiade, accusato dell’empio atto, si rifugia presso gli Spartani. Nicia e Lamaco, capi ateniesi della spedizione, non riescono a prevalere sui Siracusani alleati degli Spartani e presso Siracusa sono vinti. I superstiti, catturati, sono gettati nelle latomie, terribili prigioni siracusane scavate nella pietra. LIBRO VIII - Anni 413-411. Condanna a morte di Alcibiade per l’episodio delle erme. Colpo di stato oligarchico ad Atene («i Quattrocento») e defezione degli alleati. Vittoria navale ateniese a Cinossena. A questo punto il libro si interrompe. L’ultima parte del conflitto è raccontata da Senofonte all’inizio delle Elleniche. Tucidide “erodoteo” Dionigi di Alicarnasso fu il primo critico di Tucidide ad ipotizzare il “riordinamento della materia” contenuta nel primo libro. Arrivò a questa conclusione considerando la molteplicità delle digressioni che sono presenti nell’opera partendo dalla Pentecontetia, fino ad arrivare alle varie altre digressioni che affrontano gli insulti diplomatici provocatori che Atene e Sparta si scambiano prima dell’accentuarsi delle ostilità. Così attraverso questo excursus veniamo a sapere che Sparta aveva chiesto agli Ateniesi di allontanare dalla città gli eredi di coloro che avevano ucciso Cilone, quindi era loro desiderio che Pericle si allontanasse dalla città. Atene invece, avanzando una richiesta non meno provocatoria, aveva richiesto di espiare l’uccisione del re Pausania avvenuta per mano degli efori. La morte di Pausania nell’opera di Tucidide richiama la violenza della morte di Temistocle in esilio, una vicenda del tutto estranea al contesto storico del periodo. Solo giunti a questo punto dell’opera, cioè alla fine del primo libro, inizia la narrazione vera e propria della guerra che trova il suo compimento nel secondo libro. Lo stile ricco di digressioni è tipico di Erodoto e quindi in questo senso è possibile affermare che Tucidide seguisse lo schema dell’altro autore, tuttavia è possibile anche affermare che la materia che Tucidide aveva intenzione di trattare nella sua opera fosse una continuazione di ciò che aveva narrato Erodoto, quindi secondo questa ipotesi il fine di Tucidide sarebbe stato quello di riportare gli avvenimenti che vanno dal 478-421 che mai nessuno storico aveva affrontato. Tuttavia la materia che Tucidide aveva iniziato a trattare nel primo libro fin da subito cominciò a subire l’influenza dell’imminente guerra fino al punto che ne diventò la storia. Quindi in definitiva la tesi che vede un Tucidide erodoteo afferma che inizialmente lo storico avesse come intenzione quella di proseguire ciò che Erodoto aveva narrato, ma che poi, affascinato e distratto dai conflitti tra Sparta ed Atene, avesse cambiato la materia della sua opera. Comunque le analogie riscontrabili fra Tucidide ed Erodoto si riducono a questo; sono infatti del tutto contrapposte le impostazioni che i due storici danno alla loro opera. Mentre Tucidide mira ad una narrazione concreta resa attraverso la constatazione e mette da parte la mitologia e la leggenda specialmente nella descrizione dei protagonisti, Erodoto fa del mito parte integrante del suo racconto riuscendo sicuramente a produrre una narrazione più avvincente e piacevole ma perdendo una parte della verità nell’esaltazione delle virtù dei vari eroi. L’archeologia Per archeologia in Tucidide si intende lo studio della storia antica, della storia di cui non si ha esperienza diretta, la storia che si studia solo attraverso i documenti trovandosi nella condizione di non poter analizzare reperti diretti. La storia è quindi indiziaria, come si nota facilmente dalla notevole introduzione presente nel primo libro dell’opera dove Tucidide narra l’intera storia greca sintetizzata al massimo, partendo dalla comparsa di alcune popolazioni nomadi ancora poco sviluppate, passando attraverso il progresso economico, militare e politico fino a giungere al grande conflitto tra le due egemonie. Seguendo il corso della narrazione di Tucidide l’impressione che si ha è quella di un progressivo aumento delle dimensioni, dell’importanza delle cose via via che ci si avvicina al presente. Così, mentre le guerre persiane, considerate nella parte che tratta la storia antica, sono minimizzate, ridotte ad una leggenda, alla guerra tra Sparta ed Atene è data la massima importanza e il massimo coinvolgimento. Si nota inoltre dall’intera opera come la storia sia storia di guerre. In Tucidide appare quindi una concezione riassumibile nell’espressione “la guerra è misura di tutte le cose”, secondo la quale ogni civiltà, ogni città è valutabile se considerata nel momento della guerra. Nella archeologia tucididea si cominciano ad acquisire alcune importanti categorie storiografiche. Importante è sicuramente il rapporto tra la conoscenza dei fatti storici e il loro significato. Infatti lo stesso Tucidide afferma nel primo libro, alla fine dell’archeologia di essere a conoscenza di aver dato poca importanza ai fatti passati, per il semplice fatto di non averli affrontati direttamente; si rileva quindi una matura comprensione del rapporto tra la dimensione dei fatti storici e la distanza temporale che esiste tra essi ed il narratore. Famosa è la critica che Tucidide fa nei confronti di Omero, considerando i dati forniti dal poeta nell’Iliade riguardo all’invasione di Troia. La sua considerazione attenta e ragionata è tesa a dimostrare che i Greci che partirono per Troia furono di numero esiguo. Per tale dimostrazione si avvale degli elementi forniti dalla testimonianza poetica di Omero e, considerando la presenza di esagerazioni poetiche (iperboli) arriva a stabilire che anche se Omero esalta il gran numero di Greci che erano partiti per Troia, in realtà il numero di questi non era poi così grande. Tucidide dà i primi cenni di quella che sarà l’archeologia del futuro, analizzando i documenti sulle rovine di Micene che la descrivono come una piccola città sicuramente non molto grande. Tucidide si rende conto di quante interpretazioni errate potessero essere stilate partendo da un sito archeologico che poteva non essere una rappresentazione fedele di quello che era stata la città. Fa quindi l’esempio di Sparta, forte potenza sia dal punto di vista economico, sia dal punto di vista militare, ed immagina che essa fosse ridotta ad un sito archeologico in base al quale fosse riconoscibile solo la struttura della città. Ipotizza quindi che le conclusioni degli studiosi potrebbero arrivare ad affermare che Sparta era stata una città piccola che aveva minima influenza quando invece la sua grandezza è ancora nota. In base a ciò Tucidide afferma che la tradizione poetica, sebbene da considerarsi con cautela, fornisce strumenti, a volta anche più validi dell’analisi archeologica per lo studio di una civiltà. Tucidide molto modernamente analizza l’evoluzione, il progresso della società ponendo la grande contrapposizione antropologica, di grande rilievo in seguito per tutta la storia, tra nomadi e stanziati. Analizza quindi il progresso della sua civiltà partendo dai nomadi fino ad arrivare al presente che identifica come “pienezza dei tempi”. Un tale metodo d’analisi storica basato su più fronti di studio e teso nell’insieme alla ricerca e allo studio di prove valide e concrete, è sicuramente la strada migliore verso la verità, è segnale di un grande progresso nella storiografia. Si comincia, con Tucidide, ad affrontare la vera causa di ogni azione, l’uomo diviene centro della storia e si comincia a parlare di responsabilità. La peste: il metodo tucidideo e la temperie ippocratica Sebbene l’opera di Tucidide, sia soprattutto di carattere politico, cioè con una netta prevalenza dell’analisi dei fattori politici nella storia, esiste anche un’amplissima descrizione sintomatologica di quell’epidemia che colpì Atene nel secondo anno di guerra poi definita come peste. Anche se l’apparenza sembra smentirlo, esiste una grande affinità tra il campo politico e quello medico. In entrambe le discipline Tucidide applica il metodo scientifico mediante la ricerca di indizi. Lo storico è quindi definibile un sintomatologo che trasferisce lo studio dei sintomi dall’ambito patologico a quello umano. E’ quindi la scelta di questo metodo che induce il ricercatore ad affrontare il problema della diversa conoscibilità di tutte le cose, problema che Tucidide affronta ampliamente nella “Archeologia”, nel primo libro. Partendo da questi presupposti Tucidide quindi afferma che il suo lavoro si limita a descrivere i sintomi della peste per quelli che a lui risultano a prescindere da quale sia la persona contagiata. Vi è quindi una ricerca di una regola generale in base alla quale rendersi conto dell’insorgenza o meno dello stesso morbo in un ipotetico futuro. Lo studio dei fenomeni basato sullo studio dei sintomi è indice di una concezione di una fissità della natura e quindi, di conseguenza, di una fissità del pensiero umano. Ciò è reso particolarmente esplicito da Tucidide quando, descrivendo la guerra civile a Corcira, afferma che le cose terribili che avvennero sono quelle che tra gli uomini sono sempre avvenute e sempre avverranno. Risulta quindi che il metodo dell’osservazione dei sintomi, dei segni è applicato anche a livello storico, prendendo come elemento di studio i documenti scarsi o ingannevoli del passato. Sempre su base di questi segni è possibile in teoria uno studio del futuro secondo quanto affermato da Tucidide. La previsione (pronostico) che avviene attraverso i segni (sintomi) costituisce l’insieme di quegli strumenti che Tucidide adotta per lo studio dei fatti umani. Simili erano quelli adottati dalla medicina del V secolo, la medicina ippocratica in contrasto con quella magicodivinatoria del passato. Questo metodo di studio è descritto nel “Prognostico” e nelle “Epidemie”, opere nelle quali si riscontrano diverse analogie con il metodo di Tucidide. Dopo un’accurata lettura di tali opere si può arrivare a concludere che il medico è qualcuno che sa dire di presente, passato e futuro. Il suo studio infatti si basa sul presente, sull’analisi dei sintomi di un paziente, tuttavia prende spesso spunto da casi analoghi del passato (nelle “Epidemie” sono descritti molti casi particolari di pazienti) e tende a dare previsioni per il futuro. Allo stesso modo il politico che attraverso la lettura si è occupato di fatti precedenti sa dare delle previsioni sull’andamento futuro della situazione. Tucidide era un sostenitore del metodo ippocratico a tal punto che vi dedicò un lungo excursus trattante la sintomatologia della peste. L’imperversare della peste fu una delle prime grandi sconfitte che la medicina ippocratica subì, non riuscendo a curare affatto questo genere di morbo. Tornò quindi in parte a prendere piede il culto di Asclepio, dio guaritore che era il modello della medicina magica. Ciò evidenziò il fatto che i dissidi tra le due medicine non erano affatto cessati. Se la crisi della medicina ippocratica fu superata, grave danno invece ebbe la pratica medica vera e propria. I medici non avevano più alcun interesse a stare ad Atene ormai povera sotto il profilo politico ed economico. Non venivano pagati ed inoltre non avevano più stimolo di alcun genere. Questa è quindi la descrizione della perdita di influenza della pratica medica, le cui cause sono spiegabili agevolmente. Risulta invece assai meno agevole presentare come questa pratica medica fosse nata. E’ saputo della grande influenza che ebbe Ippocrate, ma quello che si sa riguardo alla sua figura è per lo più leggendario o comunque evanescente. Le uniche due testimonianze notevoli sono quelle di Protagora e di Fedro. In Protagora è noto l’accostamento tra colui che chiede l’intervento di un sofista per curare i suoi interessi e colui che chiede l’intervento di un medico, nel caso specifico Ippocrate. In Fedro invece, ad Ippocrate si fa risalire un pensiero che non ha tuttavia corrispondenza nel corpus, si tratta della concezione secondo la quale non è possibile un corretto studio della natura e del corpo indipendentemente dalla natura del tutto. Simile concezione è anche quella che Platone chiama col nome di dialettica secondo cui attraverso lo studio dei particolari si giunge al concetto unico che poi va diviso nuovamente per lo studio dei casi specifici. Altre informazioni sulle idee di Ippocrate ci sono pervenute verso la fine dell’Ottocento con la scoperta dell’Anonimo Londinese, nel quale sono contenuti dei trattati di medicina compilati da Menone. Le teorie ritrovate nell’Anonimo tuttavia, risultarono molto deludenti perché superficiali; infatti riguardavano solo alcune cause marginali delle malattie del tutto trascurabili e neanche presenti nel corpus. Questo ha spinto i critici moderni a ritenere che Menone probabilmente avesse preso spunto da opere di falsa appartenenza a Ippocrate. Vari furono i trattati di medicina del tempo e furono fatti risalire ai più disparati autori, tuttavia merita una considerazione a parte il trattato “Sulle arie, le acque, i luoghi” poiché ha avuto un grandissimo influsso sulla successiva etnografia greca e romana. L’intero svolgimento ruota intorno a due tesi principali: a) le malattie sono in rapporto casuale con le condizioni climatiche, geografiche, idriche […] dei vari luoghi [… la molteplicità di manifestazioni patologiche dipende dalla costituzione fisiologica dei singoli individui]. B) L’ambiente naturale e le strutture sociali sono i fattori entro i quali prende forma l’assetto individuale e collettivo dei vari popoli. Mentre la prima tesi non è nuova come formulazione, in quanto può essere fatta risalire al pensiero diErodoto, la seconda molto importante si contrappone a quella sofistica che vedeva nella natura l’universale, aveva una concezione unitaria dell’ambiente. Al contrario invece l’impostazione ippocratica è assai più concreta poiché descrive la natura come una serie di ambienti collegati tra loro e funzionanti. Una tale concezione, ovviamente, rischia di cadere in una sorta di predestinazione razziale dei vari popoli le cui caratteristiche sono diversi poiché influenzate se non addirittura determinate da ambienti diversi, così ad esempio si giustifica la famosa indolenza degli Asiatici addossandone la colpa all’uniformità delle stagioni che, non presentando cambiamenti continui come quelle più occidentali, non danno alla popolazione una sufficiente spinta vitale. I discorsi in forma diretta sono numerosissimi e parrebbero contrastare con la professione di esattezza e fedeltà alla verità dei fatti. Tucidide sostiene che, se anche non furono pronunciati nella forma in cui li riporta, i suoi discorsi sono verosimili, nel senso che è molto probabile che, in quel contesto che egli ha minuziosamente ricostruito, venissero proferite quelle parole. I discorsi che furono pronunciati prima o durante la guerra è difficile ricordarli con esattezza, sia per me (quelli che io stesso ho sentito), sia per quelli che me li hanno riferiti da altre fonti: ho scritto qui quello che a mio parere di volta in volta è più verosimile che sia stato detto, tenendomi il più vicino possibile al senso generale dei discorsi effettivamente pronunciati. Il discorso sul vero e sul verosimile ci conduce alla retorica, in particolare a quella giudiziale: «Lo storico, analogamente al retore, deve ricostruire lo svolgimento dei fatti sulla base di testimonianze ed elementi di prova, che convalidino l’attendibilità della tesi esposta» (B. Gentili). Concezione politica e modello statale La caratterizzazione dell’opera che risulterebbe dando eccessiva importanza agli argomenti marginali, se pur trattati da Tucidide con ampie digressioni, sarebbe falsa e non corrispondente con il vero scopo dell’opera. Tucidide infatti si era proposto di fornire un mezzo valido per lo storico che in un ipotizzabile futuro avrebbe potuto usufruire di uno strumento ricco di esempi del passato da cui attingere per determinare il presente in modo migliore. Ne è una prova la continua comparsa del problema politico greco che ebbe vita da Solone fino ad Aristotele, cioè quello del miglior governo. Fondamentale in questa analisi è la figura di Pericle la cui opinione è esplicitata nell’epitafio per i morti del primo anno di guerra e il profilo politico e costituzionale del ruolo di Pericle nella città moderna. Il primo testo in un certo senso si può dire addolcito dalle necessità celebrative che forse non rendono più di tanto le valutazioni di Pericle rispondenti al pensiero tucidideo. Il secondo trattato è invece la chiara espressione delle idee di Tucidide in una fase matura, ed è un chiaro elogio al meccanismo di equilibrio democratico che si era stabilito nella distribuzione del potere, anche se nei fatti esso era solamente concentrato nelle mani del primo cittadino. Tuttavia alcuni critici hanno voluto interpretare questa visione di Tucidide come un elogio indiretto alla monarchia, come afferma Thomas Hobbes: “Ma ancora di più mostra di apprezzarlo [l’equilibrio] quando regnava Pisistrato” di gran lunga più monarchico di Pericle. Questo Tucidide che Hobbes rappresenta è tuttavia troppo forzato, infatti lo storico non parla mai di monarchia a proposito di Pericle. In seguito, anche se mette in luce il rapporto tra virtù e saggezza in Pisistrato, il pensiero politico tucidideo non mostra mai di muoversi in senso monarchico. Tucidide prende una posizione ed esplicita le sue convinzioni solo nel libro ottavo dove, analizzando gli esperimenti politici del 441 apprezza la direttiva statale secondo cui solo cinquemila cittadini scelti secondo un criterio di “mescolanza” economica godono dei diritti pieni. Sebbene però Tucidide affermi che l’oligarchia del 441 sia stata la miglior forma di governo che Atene abbia mai avuto, non asserisce mai che essa sia la migliore in senso assoluto, tanto meno afferma la possibilità di una frattura nel governo democratico di Atene per passare ad un’altra forma organizzativa diametralmente opposta. Quindi il tentativo di riforma oligarchica del 441 riempie Tucidide di ammirazione ma anche di incredulità poiché, anche se con una forma di governo apparentemente ineccepibile, si era tentato di levare ai cittadini i loro diritti cento anni dopo la cacciata dei tiranni. Necessità e responsabilità Problema centrale dell’opera tucididea è quello della fine di una grande potenza. Il mondo da cui Tucidide viene, da cui ha preso tutta la sua esperienza, non è quello ampio e vario di Erodoto che ha visto eserciti sgretolarsi e grandi città essere sottomesse. Il modo di Tucidide è di gran lunga più ristretto, è quello della sua città, questo è uno dei motivi per il quale è giunto alla conclusione che la disfatta di Atene sia stata dovuta ad una necessità. La stessa necessità che spinge le grandi potenze in cerca di un dominio sempre più grande e ne rende impossibile la coesistenza. Il concetto di necessità manda quindi a un qualcosa di oggettivo che allontana da qualsiasi considerazione riguardo a ciò che questa necessità procura sia dal punto di vista morale, sia dal punto di vista delle conseguenze. Quindi ritornando in ambito storico è possibile affermare che poiché è necessità di una potenza forte, quasi invincibile, scontrarsi e produrre violenza, essa non implica alcun responsabilità. Tale problema affiora costantemente nell’opera Tucididea quasi si trattasse di un filo parallelo alla narrazione. Lo storico affronta ripetutamente questo problema, a volte esponendo le proprie considerazioni in prima persona, a volte facendo strumenti del suo pensiero alcuni personaggi come ad esempio i Melii, colpevoli solamente di non essere sudditi di Atene ma comunque abitanti dell’isola, ciò costituiva un fattore con una forte spinta disgregativa per l’impero. Fu elemento di dibattito la questione riguardo alla stesura dei dialoghi dei Melii, infatti essi risultano una sorta di previsione della futura distruzione di Atene; ma è poco probabile pensare a una successiva stesura dei dialoghi anche perché per ogni politico minimamente esperto e consapevole dei fatti del momento sarebbe stato facile a intuirsi l’imminente disfatta soprattutto dopo la pace transitoria del 421. Nei dialoghi dei Melii la parola di questi appare meno credibile rispetto a quella degli Ateniesi poiché gli abitanti dell’isola dovettero difendere sofisticamente una tesi impossibile cercando di convincere gli Ateniesi che sarebbero sconfitti comunque e che non avrebbe avuto senso una dura ritorsione nei confronti dei deboli abitanti dell’isola. Tucidide pone gli argomenti degli Ateniesi secondo la tesi della necessità dicendo che essi obbediscono al fisso ordine della natura più potente anche della volontà degli dei e questo ordine vuole che tra potente e debole ci sia sempre contrasto e che il potente abbia sempre e comunque la meglio. Si conclude il dialogo con l’affermazione che è quindi una necessità il massacro dei Melii. Il fattore responsabilità tuttavia non è assente dalla mente calcolatrice degli Ateniesi che, come Tucidide più volte riporta, spesso ripensarono alla strage come si trattasse di un incubo collettivo che li faceva temere di subire, la notte della disfatta la stessa sorte dei Melii. E’ quindi presente in Tucidide una concezione matura e moderna della responsabilità: essa è il veramente utile che non coincide mai con il necessario. La centralità dell’uomo non implica tuttavia la sua onnipotenza. Il successo dell’azione umana trova precisi limiti nell’imponderabile, nella Tyche, che non è più come nella tragedia un principio metafisico, ma è, al pari dell’errore, un elemento costitutivo della natura e del destino umano: «Per loro natura gli uomini ... sono portati ad errare, e non c’è legge che possa impedirglielo» (III 45, 3). Di qui anche i limiti della capacità previsionale delle leggi enucleate dallo storico, che consentono di ipotizzare un esito probabile degli eventi, ma non saprebbero con certezza predire il futuro. Lo stile La prosa di Tucidide – densa, irregolare e scabra – riflette la sua concezione drammatica della storia. A volte appare intricata, «difficile», concentrata al limite dell’oscurità. Sebbene sussistano alcuni degli elementi, che già abbiamo rilevato in Erodoto, della cultura orale (in particolare i discorsi in forma diretta), tuttavia l’autore ha selezionato un pubblico non di uditori, ma di lettori. Questi potranno indugiare sulla pagina, ritornare sui punti precedenti, valutare i rapporti logici tra i vari blocchi del testo. Il metodo analitico e razionale di Tucidide non sarebbe stato proponibile in una cultura orale come quella a cui prevalentemente si rivolgeva Erodoto. Il resoconto freddo e distaccato privilegia i contenuti ideologici, apparentemente a discapito degli ornamenti formali. Tuttavia c’è un ampio uso di figure. In particolare abbondano la va- riatio e le dissimmetrie (anacoluti, costruzioni sintattiche che si accavallano, «inconcinnità») e soprattutto l’antitesi, assunta a principio dello stile tucidideo. Si tratta di procedimenti che, insieme con la brevità e la tinta arcaica della lingua, avranno imitatori tra i latini, in particolare Sallustio. I livelli stilistici sono vari in rapporto agli argomenti trattati e in ossequio al principio retorico della convenienza (prépon).