Danny l`eletto - Studium Cartello

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Nome file
060520AL_RC3.pdf
data
20/05/2006
Contesto
ALTRO
Relatore
R Colombo
Liv. revisione
Pubblicazione
Lemmi
Cultura novecentesca
Ebraismo
Freud, Sigmund
Genio
Gesù Cristo
Ideale
Odio
Pensiero individuale
Potok, Chaim
Psicoanalisi
Psicoanalisi-psicologia accademica
Resistenza
Scissione dell’Io
Soluzione
STUDIUM CARTELLO 2005/06
COOPERATIVA EDITH STEIN - RIMINI
CONVEGNO “MOSÉ GESÙ FREUD”
20 MAGGIO 2006
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Raffaella Colombo
Chaïm Potok1 è morto il 24 luglio 2002. Scrivo queste note con
il desiderio di onorarlo.
1
Chaïm Potok (New York, 1929 – Merion, Pennsylvania, 2002), autore di numerosi
romanzi, è considerato tra i più prestigiosi narratori americani contemporanei. In Italia i suoi libri sono editi da Garzanti. Tra gli ultimi libri pubblicati in italiano vi sono
due libri di storia. Il primo, Storia degli Ebrei, pubblicato in inglese nel 1978 e dalla
Garzanti Collezione storica nel 2003, raccoglie la ricerca di Potok intorno alla comprensione e interpretazione della storia ebraica e dei suoi “quasi quattromila anni di
confronto culturale teso, fecondo e spesso violento”; il secondo, Novembre alle porte.
Cronache della famiglia Slepak, pubblicato in inglese nel 1996 e dalla Garzanti nel
1998, narra le vicende di Solomon Slepak e di suo figlio Volodya. Di come Solomom
Slepak, ebreo, bolscevico, comandante militare e diplomatico, sopravvissuto alle purghe staliniane e comunista fino alla fine, combatta il figlio Volodya che, dopo essere
entrato a far parte della élite scientifica moscovita, sceglie con la moglie la strada del
dissenso, e di come questi, con la moglie, si batta per 20 anni per ottenere il visto di
espatrio (1967-1987) e venga condannato e sconti 5 anni di esilio (1978-1982) prima di riuscire a espatriare, ormai sessantenne e impossibilitato a riprendere la vita
professionale, interrotta ormai da vent’anni. Potok incontrerà Volodya Slepak a Mosca nel 1985 quando le prospettive per poter emigrare sembrano sempre più remote.
2
1. Introduzione
Il Novecento è segnato da un dibattito colossale: il dibattito sulla
libertà di pensiero o psicologia e Chaïm Potok vi prende posizione in modo ingente.
Il dibattito novecentesco è in stretta continuità con quello ottocentesco che aveva visto l’Europa centrale impegnata intorno alla
questione della formazione (Bildung) e della rispettabilità
(Sittlichkeit ). L’idea dell’emancipazione individuale, resa possibile mediante la cultura e la professione, aveva generato un movimento di intellettuali, con gli ebrei tedeschi in prima linea, impegnati in un’azione meticolosa di riforma e assimilazione che
avrebbe portato al risultato del primato degli ebrei stessi sui non
ebrei in ogni campo. Di fatto, sulla scena mitteleuropea, i primi
decenni del Novecento annoverano tra i principali protagonisti
della cultura e del sapere proprio degli ebrei.
E fu ancora un ebreo, Sigmund Freud, a compiere il gigantesco
passo di mostrare all’uomo la sua natura individuale, di svelare la
sua esistenza come corpo sui generis tra altri corpi nella natura,
distinto da ogni altro corpo in quanto avente una sua specifica
legge di moto, e fornirne per la prima volta una definizione. Fino
allora l’uomo non esisteva molto: lo surrogava la filosofia. O meglio, il reale dell’uomo come individuale aveva avuto inizio con il
pensiero individuale di un uomo, Cristo, tanto da dare inizio a
una nuova era. Ma l’era cosiddetta cristiana ha poi scartato il
pensiero individuale di quell’uomo e, invece di appropriarsene –
quel pensiero era un bene usufruibile da chiunque lo volesse riconoscere come facilitazione e salute – si era appoggiata alla filosofia. Il pensiero greco, penetrato precocissimamente nell’Occidente poi “cristiano”, ne aveva occultato la novità: quella del
pensiero individuale. Ne aveva anche occultato la natura giuridica, tra legge giudaica e diritto romano. L’Occidente cristiano
imboccava la strada dell’ontologia.
Freud ha sconvolto il mondo intero, almeno per un po’.
La psicoanalisi ha rilanciato il pensiero individuale come
3
pensiero corporale, cioè come vocazione a legiferare il moto del
corpo. Ha sovvertito da capo a fondo la divisione tra colto e
incolto, tra alto e basso, tra maschio e femmina, tra interiore e
esteriore, tra pubblico e privato. Ha introdotto una nuova distinzione mai accettata: quella tra pensiero e teoria patogena/psicopatologia – non coincidente con la distinzione medica tra salute
e malattia, ma inclusiva di essa –, senza concessioni alla tradizionale separazione tra alta storia del pensiero e basse vicende individuali. È stata una “rivoluzione” accessibile a chiunque. Ma non
è andata così. Neanche per i Cristiani, che avevano in dotazione
tale soluzione, come Freud stesso annotava.2
Una documentazione della generale scelta contro la soluzione ci
viene fornita proprio dall’opera di Chaïm Potok, di cui lo scorso
anno l’editrice Garzanti ha iniziato a curare la riedizione completa delle opere tradotte in italiano.
Potok ci interessa e lo trattiamo per quello che diceva di essere:
un individuo che dà forma al pensiero scrivendo romanzi. Il suo
pensiero è attingibile e, avendo lui preso nettamente posizione
nel dibattito psicoanalisi-psicologia accademica, ci potrà far luce
sulla resistenza al pensiero.
2. La grande alternativa del secolo: o Freud o la psicologia
The Chosen (1967), tradotto in italiano con il titolo Danny l’eletto (1969), è il primo romanzo scritto da Potok. È il libro che ha
portato l’autore alla fama internazionale ed è un pregevole esempio di romanzo di formazione contemporaneo il cui tema manifesto è fornito dal rapporto tra padre e figlio, o meglio, dall’odio
2 Si veda S. Freud, Epistolari. Lettere tra Freud e il Pastore Pfister. 1909-1939, Bollati
Boringhieri, Torino 1990. Il carteggio Freud-Pfister risalta tra tutti quelli che sono
stati pubblicati per la vivacità e per l’allegra assenza di scrupoli con cui Freud affronta
questioni inerenti il pensiero e risponde al suo pedante interlocutore che insistendo
su problemi religiosi ripetutamente elude soluzioni a portata di mano.
4
del figlio verso il padre e verso gli insegnamenti della sua cultura
e della sua tradizione religiosa. Eppure, la problematica psicologia-psicoanalisi vi prende tanto spazio da dare luogo a un interrogativo: Freud è davvero un pretesto narrativo o è piuttosto un
secondo tema, anzi, il tema centrale intorno al quale si muovono
i personaggi? Di fatto, il conflitto psicologia-psicoanalisi troverà
uno sviluppo ulteriore in La scelta di Reuven,3 che nell’intenzione
dell’autore avrebbe dovuto costituire la seconda parte di Danny
l’eletto, e verrà continuamente menzionato o quanto meno alluso
nel corso dell’intera sua opera.
Il tema è trattato in riferimento al ristretto contesto dell’ebraismo americano degli anni Cinquanta – cultura di cui Potok stesso fa parte –, nondimeno è impiantato sul soggetto principale
della ricerca dell’autore: la trasformazione personale e di rapporti
che avviene in un individuo allorché questi si imbatte in eventi
di quella che egli chiama “Cultura generale, permanente”, o
“Umanesimo occidentale secolarizzato”,4 che mettono in crisi la
credibilità della vita condotta fino allora, degli insegnamenti ricevuti e delle convinzioni coltivate, che sembravano ineccepibili e
inossidabili.5
3
The Promise, pubblicato nel 1969 dopo The Chosen e uscito in italiano nel 1987 con
il titolo La scelta di Reuven.
4
Potok si riferisce alla Civiltà nata due-tre secoli or sono in Europa centrale con l’Illuminismo, da Voltaire e Diderot, Kant e Marx, fino a Kafka, Joyce, Stravinsky, Picasso.
5
«Cresciamo in questo mondo particolare, e poi andiamo a diventare grandi all’interno di questa che io chiamo la cultura generale, che non è la cultura pop, o qualunque
cultura che passa e va; no, io parlo di questa cultura generale, permanente. Parlo di
Freud, piuttosto che di Kant, piuttosto che di Voltaire; parlo di quella cultura che ha
profondamente inciso sul nostro modo di pensare. E poco importa che voi abbiate
letto o meno Newton piuttosto che Kant o Voltaire: loro ormai sono parte di questo
mondo e di questa cultura, sono l’aria che respiriamo. […] Oggi tutti noi nasciamo e
cresciamo in un piccolo mondo particolare. Apprendiamo il sistema dei valori di
questo piccolo mondo, e nel periodo pre-moderno questo era tutto quello che noi
avevamo imparato […] il mondo è pieno di esempi di vite vissute in modo alternativo a quello in cui noi viviamo e ci fu insegnato nel nostro piccolo mondo particolare.
E pensiamo che questo sia un modo normale di vivere: no, avrà soltanto trecento anni! […] Ribadisco ancora una volta: nasciamo nel cuore della nostra cultura, e poi ci
5
Potok non è solamente un narratore avvincente e uno storico accurato. Potok è un pensatore della modernità e, da vero ricercatore, ne esplora i fattori, sfaccettando di volta in volta il suo soggetto in un nuovo romanzo o cronaca. I suoi scritti non si limitano a un’indagine sociologica o storica sulla modernità, sono delle
prese di posizione.
Attraverso i due libri del romanzo ritengo di avere potuto individuare che proprio l’alternativa epocale: o Freud o la psicologia
accademica, rappresenti la questione centrale di Potok. È la grande alternativa del Ventesimo secolo. Per questo Potok ci interessa.
3. Danny l’eletto. Il romanzo
Ambientato nel quartiere ebraico di Williamsburg, nella Brooklyn degli anni Cinquanta, Danny l’eletto narra le vicende di due
giovani ebrei coetanei, Danny Saunders e Reuven Malter, nel periodo della loro formazione liceale e universitaria negli anni tra il
1944 e il 1949. Danny e Reuven sono amici fin dal liceo mentre
i loro padri sono personalità di spicco nella comunità ebraica di
New York di quegli anni.
La storia dei due giovani continua nel secondo romanzo, La scelta di Reuven, ambientato tra il 1950 e il 1951. Qui, Reuven è
dottorando in filosofia e si prepara a ricevere l’ordinazione rabbinica, mentre Danny sta compiendo il suo dottorato in psicologia
con un tirocinio in una clinica psichiatrica per adolescenti. Reuven era già apparso per la prima volta come personaggio seconda-
dobbiamo confrontare, ci incontriamo con il cuore di questa cultura generale. E da
qui scaturisce quel confronto tra due nuclei, nucleo contro nucleo, e io intendo nei
miei racconti esplorare questo confronto. Questa è la mia realtà, la realtà della maggior parte della gente, che ha avuto una sorta di educazione significativa: ecco l’argomento delle mie storie.» Dall’incontro con Chaïm Potok, “Modernità e tradizione,
esperienza e fede”. Coordinatore Luca Doninelli con il professor Paolo De Benedetti.
Milano, 14 settembre 1998.
6
rio in un terzo romanzo, L’arpa di Davita 6 che, svolgendosi nel
periodo tra le due guerre, precede cronologicamente la narrazione dei suddetti due.
Danny Saunders, il primo protagonista dei primi due romanzi, e
Reuven Malter, il secondo protagonista e voce narrante, si conoscono dal giugno 1944, quando un incontro di baseball tra le
squadre delle loro due scuole ebraiche si trasforma in uno scontro violento tra nemici e finisce con il ferimento di Reuven da
parte di Danny, il quale, preso dall’odio, sarebbe disposto a uccidere e solo per una fortuita coincidenza manca di accecare l’avversario con la palla. Danny e Reuven, a quel tempo quindicenni
e abitanti a pochi isolati di distanza tra loro, non si conoscono: la
lontananza è dovuta alla comunità di appartenenza, che divide
gli ebrei ortodossi chassidici da altri e soprattutto da quelli meno
intransigenti. Noti a entrambi sono i rispettivi genitori: il padre
di Danny, rabbino ortodosso discendente da un’antica dinastia
chassidica di origine russa, ha salvato la sua comunità di origine
portandola con sé dalla Russia all’America dopo la prima guerra
mondiale e ne è ora il capo spirituale (tzaddik). Egli è pure il
fondatore della scuola rigorosamente ortodossa frequentata dal
figlio Danny il quale, in quanto primogenito, è destinato a succedergli nella carica di rabbino; il padre di Reuven, ebreo osservante ma liberale, professore di Talmud in una scuola rabbinica,
è noto per le sue pubblicazioni scientifiche in materia e per il suo
impegno attivo a favore della fondazione dello Stato di Israele,
cose che lo renderanno bersaglio di pesantissimi attacchi da parte
degli ortodossi chassidim.
Durante il ricovero ospedaliero e la lunga convalescenza, tra i due
quindicenni inizia l’amicizia che per sette anni sosterrà l’avvicendarsi degli eventi narrati nei due libri, fino al dottorato in psicologia clinica di Danny e al suo matrimonio con Rachel, figlia di
genitori ebrei atei e dottoranda in letteratura inglese, e al dotto-
6
Davita’s Harp, 1985, pubblicato in italiano nel 1994.
7
rato in filosofia e all’ordinazione rabbinica di Reuven con la sua
nomina a insegnante di Talmud presso la stessa facoltà rabbinica
in cui si è formato.
Ho ritenuto opportuno citare alcuni brani di entrambi i libri del
romanzo. Si potrà in tal modo seguire passo per passo la costruzione del posto che Potok ha preparato per Freud.
Le numerose e non brevi citazioni anziché comparire nel testo figureranno in appendice secondo la numerazione romana.
3.1. Il primo libro
Nell’amicizia tra Danny e Reuven, iniziata per l’insistenza del padre di Reuven, [I] Danny avrà modo di uscire dall’isolamento in
cui dall’età di sei-sette anni si trovava per volere di suo padre, che
Danny subisce fin da allora e a cui il padre stesso non è più in
grado di porre fine, tanto che dovrà ricorrere a Reuven come mediatore tra sé e il figlio. Il Rabbino Saunders, temendo l’intelligenza brillante e fredda del figlio – «Era una mente, lui, in un
corpo senz’anima» –, decide di erigere una barriera di silenzio tra
sé e il figlio che viene infranta solo mentre studiano insieme il
Talmud. Vuole insegnare al figlio cosa significa soffrire. [II]
Danny teme a tal punto il padre da non raccontargli nulla di sé,
delle sue scelte, delle sue ambizioni: in quanto primogenito, egli
sa di essere destinato a diventare rabbino, ma non lo vorrebbe, sa
di essere destinato a sposare una giovane già scelta per lui ma non
ne vuole sapere. Sa del valore di suo padre, ma è impietrito dal
rancore nei confronti di quest’uomo intransigente e onorato dalla sua comunità che per lui non ha il men che minimo moto di
affetto. Danny legge parecchio, ma di nascosto dal padre che, per
quanto riguarda le letture, è estremamente rigido e teme la letteratura profana. Non ha amici e se anche ne avesse dovrebbero ottenere il benestare del padre. Desidera abbracciare la professione
di psicologo ma è schiacciato dal padre: dal suo silenzio e dalle
sue scenate. [III]
Reuven non conosce per il momento simili difficoltà. Le conoscerà in seguito – di esse tratta ampiamente il secondo romanzo –,
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quando frequentando la facoltà rabbinica per ricevere l’ordinazione, si imbatte nello zelo che sfiora il fanatismo di un
insegnante di Talmud da poco entrato nella facoltà rabbinica e
proveniente dai campi di sterminio, come molti altri in quegli
anni dell’immediato dopoguerra, e che condivide con costoro la
massima intransigenza per la Legge ebraica. Figlio unico e orfano
di madre fin dalla nascita, Reuven ha sempre potuto trattare
qualsiasi argomento con il padre, porre ogni genere di domanda
e ottenerne soddisfazione, leggere di tutto e ottenerne suggerimenti. Le amicizie, la scelta della professione, l’eventuale ordinazione rabbinica non sono vincolate da restrizioni da parte del padre, che vuole una sola cosa: che il figlio sia serio con la propria
storia. Da suo figlio Reuven, il professor Malter vuole che egli assuma il compito di colmare la sua vita di significato, in quanto
«il significato non viene attribuito automaticamente alla vita».
Nell’amicizia di Reuven e di suo padre – Danny aveva già incontrato il professor Malter in biblioteca senza conoscerne l’identità,
prima dell’incontro-scontro con suo figlio Reuven sul campo di
baseball, ottenendo da lui preziose indicazioni sulle letture che
faceva clandestinamente – Danny trova il conforto necessario
non solo per sostenere l’opprimente silenzio del padre di cui non
conosce le ragioni, ma anche per affrontare un’ulteriore
circostanza angusta di cui il romanzo parla in seguito e che menzionerò tra breve.
Reuven viene coinvolto suo malgrado nel difficile rapporto tra
padre e figlio, descritto nel romanzo in modo mirabile, trovandosi nella posizione di informatore del padre dell’amico. Impossibilitato a parlare al figlio, il Rabbino Saunders aveva bisogno di notizie su colui che un giorno avrebbe preso il suo posto. L’occasione gli si presenta con il primo incontro con Reuven, che egli aveva voluto per conoscere di persona il nuovo amico del figlio. La
visita di presentazione avviene nello studio del rabbino nella forma di un duplice esame: dapprima, in presenza del figlio, con
una discussione di un passo del Talmud, poi, in sua assenza, con
un interrogatorio sulle abitudini del figlio. [IV]
9
A. Freud come autore avvincente
Freud inizia a questo punto a entrare nel testo, dapprima come
autore avvincente, poi come fonte di pensiero che muove il pensiero del lettore Danny.
Reuven, controvoglia, risponde alle domande del Rabbino Saunders, tacendogli tuttavia che Danny stava studiando il tedesco
per poter leggere Freud in lingua originale e che aveva letto libri
sul chassidismo ottenendone un quadro che gli aveva fornito elementi critici sulla propria storia.
Quanto all’altra circostanza che oltre al silenzio paterno opprime
Danny, si tratta dello studio della psicologia, che egli intraprende
al College e che ben presto scoprirà essere insegnata unicamente
nella forma di psicologia sperimentale.
Siamo nel 1945, all’inizio del College, in una scuola rigidamente
ortodossa in cui le lezioni si tengono dalla domenica al venerdì e
sono suddivise tra studio del Talmud (circa sei ore al giorno) e
studio di materie ordinarie (circa tre ore al giorno). Mentre Reuven si iscrive a Matematica, Danny studia Psicologia. Le letture
fatte in biblioteca durante gli ultimi due anni e in particolare la
lettura (in tedesco) di Freud che Danny intraprende da solo –
trova da solo il modo di “studiare Freud” applicando al testo
freudiano il metodo usato per studiare il Talmud – lo avevano
portato alla decisione di laurearsi in psicologia.
B. Freud ha ragione
La portata di Freud è descritta bene nelle pagine del libro ed è
evidente che si tratta di pensiero. Di fatto Danny non studia
Freud: lo legge, ne riconosce l’innegabile novità e non può che
dargli ragione. [V]
C. La psicoanalisi e il disprezzo accademico nei
confronti di Freud
La scoperta che allo Hirsch College i corsi di psicologia sono
esclusivamente corsi di psicologia sperimentale e che il titolare
della cattedra disprezza la psicoanalisi e Freud – testi che non
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nominano neppure Freud, docenti che disprezzano la psicoanalisi
in generale e Freud in particolare – getta Danny nello sconforto.
La delusione è tale, vedendosi ridotto per i successivi quattro anni a «far correre ratti in labirinti e controllare reazioni umane in
base ai lampeggiamenti e ai ronzii emessi dagli appositi ordigni»,
da indurlo a cambiare specializzazione. [VI] Ma Reuven ha un
suo pensiero riguardo alla scienza [VII] e, forte di ciò, riesce a
convincere l’amico a non abbandonare la psicologia, tanto che
Danny si disporrà a parlare con il suo professore e a continuare
gli studi. Il dialogo riportato in appendice inizia con Reuven che,
dopo l’ennesimo sfogo dell’amico, rilancia. [VIII]
D. Freud come genio ma non scienziato
La posizione di Freud si demarca più precisamente secondo la
psicologia sperimentale come metodologicamente inadeguata alle
esigenze della psicologia come scienza. A tale demarcazione
danno voce sia l’amico Reuven, sia il professor Appleman. L’elezione a genio è una vera e propria operazione di “sistemazione”
di Freud da parte degli accademici. La “soluzione” accademica
renderà infatti superflua ogni presa di posizione riguardo alle sue
tesi sulla religione. [IX]
A questo punto l’amico Reuven, che non ha mai riconosciuto la
psicoanalisi come scienza, confessa a sua volta ciò che ne pensa.
La psicoanalisi non è neanche più l’epocale scoperta che non ha
niente a che fare con la sperimentazione in laboratorio, cosa che
sembrava costituire il fattore principale di inconciliabilità tra
Freud e la psicologia accademica; la psicoanalisi non è proprio
niente a confronto con la psicologia sperimentale. [X]
Nel frattempo la seconda guerra mondiale è finita, lo sterminio
di circa sei milioni di ebrei è ormai noto, la morte del presidente
Roosevelt viene colta ovunque in America come una ulteriore
tragedia, iniziano gli arrivi dei superstiti dai campi di prigionia
nazisti, inizia la campagna di sostegno per la fondazione dello
stato di Istraele.
Il padre di Reuven è impegnato attivamente nella campagna.
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Ma il padre di Danny, contrario al Sionismo, fonda una Lega
antisionista e pone il veto sull’amicizia tra i due giovani e dichiara la scomunica per il padre di Reuven. Per circa due anni i
due amici e compagni di scuola si tratteranno come perfetti
estranei. [XI]
In seguito alla fondazione di Israele, i movimenti antisionisti si
sciolgono. Anche la scomunica sembra essere stata revocata: la
frequentazione tra i giovani riprende. Siamo nel 1948. Sono trascorsi circa cinque anni dal primo incontro. L’avversione di Reuven per la condotta del padre dell’amico si è rinforzata, nondimeno il rapporto tra i giovani ricomincia.
E. La psicoanalisi ridotta a metodo psicoterapico
Ora la psicoanalisi viene a trovare posto tra le tante specie di terapia che la psicologia clinica ha sviluppato.
Danny e Reuven si stanno preparando all’ultimo anno di College. Filosofia per Reuven (logica simbolica) e Psicologia clinica
per Danny.
Diversamente dagli inizi dell’università, quando Danny ancora
sosteneva che la psicologia sperimentale fosse altra cosa rispetto
alla psicologia, ora egli ammette che la psicologia, pur permanendo altro, non è solo Freud e conclude che si dedicherà non alla
psicologia sperimentale ma alla psicologia clinica in quanto
applicazione di quella. Si dedicherà cioè alla sperimentazione su
individui, un campo che approfondirà facendo carriera accademica presso un’università. Danny giunge infine a far sua l’opinione del suo professore quanto a Freud, che va ritenuto un genio e
scienziato prudente ma che riguardo alla psicologia ha fornito un
apporto parziale anche se influente e decisivo: l’“acritica rivendicazione d’indipendenza dalla minima forma di disciplina” da
parte della psicoanalisi porrebbe questa in una posizione più
simile al dogmatismo che non alla scienza. Danny resta tuttavia
convinto che la psicologia sperimentale sia piuttosto fisiologia e
non abbia nulla a che vedere con la mente umana. Ma presta
orecchio all’amico Reuven che si occupa di logica e che gli dà
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una mano nella soluzione dei problemi matematici che incontra
nello studio e che non afferra; Reuven, affascinato più da quello
che impara impartendo lezioni di ripetizione a Danny che non
da quanto aveva già imparato su Freud, continua a difendere di
fronte all’amico la bontà della sperimentazione. Sarà Reuven, appoggiato dal parere del padre, a convincere Danny quanto all’utilità della psicologia sperimentale come via obbligata per la costruzione di una scienza della psicologia. [XII]
F. L’irrilevanza di Freud
Ormai la “sistemazione” di Freud come pensatore è stata portata
a termine. Perfino per la tradizione religiosa, rappresentata nel
romanzo dal Rabbino Saunders e dalla sua pedagogia (del silenzio), Freud risulta del tutto innocuo. Nulla cambierà.
Per Danny è ormai prossimo e inevitabile il momento cruciale e
penoso in cui dovrà comunicare al padre la sua decisione di
rinunciare alla carica rabbinica, alla promessa sposa, all’abbigliamento chassidico come pure la sua scelta di intraprendere lo
studio della psicologia clinica in vista della libera docenza.
Sarà nuovamente l’insistenza del padre di Reuven a fornire la
soluzione adeguata: il professor Malter inviterà Danny a prendere iniziativa verso il padre e richiamerà il proprio figlio a non
sottrarsi al compito dell’amicizia. Reuven dovrà dunque rispondere alla richiesta del padre di Danny che ha più volte domandato di vederlo.
Come già anni prima, all’inizio dell’amicizia, quando in occasione della visita di presentazione a casa Saunders, il padre di
Danny aveva domandato aiuto a Reuven, di nuovo Reuven viene
a trovarsi tra padre e figlio divisi dal loro muro di silenzio.
Accadrà, durante un colloquio drammatico, che il padre di
Danny parlerà al figlio grazie alla mediazione di Reuven. Spiegando i motivi della sua condotta, il rabbino dichiarerà chiuso il
lungo periodo del silenzio in cui egli stesso e suo figlio si erano
trovati imprigionati e libero il figlio di intraprendere la scelta
universitaria maturata come pure di rinunciare alla carica rabbi-
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nica, che passerà al secondogenito. Il dialogo [XIII], è un esempio magistrale della ripetizione in cui l’ingenuità dolosa dell’adulto si impunta nella psicopatologia allorché si fa vittima e carnefice ammansendo l’angoscia con i mezzi forniti dalla civiltà per
occultarne la natura di segnale di un errore di pensiero.
Il primo libro si chiude sulla laurea dei due protagonisti e con la visita di addio di Danny all’amico Reuven e al padre di questi. [XIV]
3.2. Il secondo libro
Il secondo libro, La scelta di Reuven, riprende la narrazione.
Siamo a Brooklyn, nel quinto anno del dopoguerra. Sono trascorsi sei anni dal primo incontro tra i due amici e un anno dai
fatti su cui termina Danny l’eletto. Danny Saunders e Reuven
Malters si trovano alla fine del primo anno di dottorato. Gli impegni reciproci hanno diradato la frequentazione che un tempo
era assidua e importante per entrambi, in particolare per Danny
che aveva trovato con Reuven e suo padre la possibilità di riscattare il penoso rapporto con il proprio padre. Danny ha già ottenuto l’ordinazione rabbinica e sta svolgendo un tirocinio in una
clinica per minori con il suo docente di psicoterapia per prepararsi al dottorato in psichiatria; Reuven si prepara agli esami di
dottorato in filosofia e frequenta la facoltà rabbinica in vista dell’ordinazione.
La malattia di Michael, un giovane quindicenne, diventa l’occasione che riavvicina i due amici e che dà inizio alla relazione che
porterà Danny al matrimonio. Michael è figlio di genitori ebrei,
entrambi atei, e allievo di una scuola ebraica ortodossa. Il padre è
un noto autore di libri religiosi rivolti a non-credenti, scomunicato per questo motivo dai rabbini ortodossi e insegnante in un
seminario rabbinico liberale. La conoscenza del ragazzo avviene
tramite sua cugina Rachel, una ragazza che Reuven comincia a
frequentare ma che poi sceglierà Danny.
Come già ai tempi del College, è Danny a domandare l’aiuto
dell’amico e questi a rispondere. L’estate precedente, Reuven ha
conosciuto Michael, impressionandolo positivamente.
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Il ragazzo non parla con nessuno, è evidentemente malato e in
cura psichiatrica da tempo, ma non vi sono miglioramenti. La
sua condotta mette a repentaglio la frequenza della scuola, che
egli dovrà interrompere per frequentare una scuola speciale. I genitori, avendo sentito parlare di Danny dai racconti di Rachel
che a sua volta ne ha sentito parlare da Reuven, fanno sì che
Danny ricoveri il ragazzo nella clinica in cui svolge il tirocinio
psichiatrico. Danny subentrerà nella terapia sotto supervisione
del suo professore e, memore della propria esperienza di silenzio
forzato, tenta un esperimento basato sulla stessa esperienza in cui
coinvolgerà Reuven, che ancora una volta si trova a fungere da
mediatore tra Danny e l’altro che non parla.
A. La banalizzazione di Freud
Ormai l’addomesticamento di Freud è compiuto anche rispetto
alla scoperta della psicopatologia e alla sua cura. Freud non è che
un autore da conoscere, i cui testi fanno parte del curriculum di
letture di chiunque. Ma è la psicologia clinica che ora presenta il
suo lato sinistro. [XV]
B. Freud è sparito
La tesi esplicita di Potok è chiara: è in forza della solidità della cultura di appartenenza che un individuo avrà successo mondano.
Non solo, ma proprio in quanto cresciuto in una cultura particolare egli potrà riuscire a incontrare il mondo e a trarne profitto
senza perdere i legami con gli inizi. In realtà Potok fa ben altro.
I due dialoghi che si svolgono tra Reuven e Danny intorno all’estremo tentativo che Danny arrischia con l’aiuto dell’amico,
chiamandolo a intervenire in un momento cruciale del trattamento di Michael, permettono di intravedere il pensiero dell’autore. [XVI], [XVII]. È vero che l’intervento di Reuven favorirà
Michael nell’uscire dalla catatonia in cui era piombato durante
l’esperimento di isolamento cui era stato sottoposto per rompere
la resistenza al trattamento, ma non favorirà affatto il rapporto
tra i due amici, al contrario li separerà.
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Nel frattempo, Reuven vive giorni di grande stanchezza. La malattia di Michael con l’impegno da parte sua che essa comporta,
senza contare l’abbandono da parte di Rachel che ha scelto l’amico, si aggiunge alle tensioni create dalla pubblicazione di un testo
di ermeneutica letteraria sui testi religiosi da parte del padre, cui
egli collabora, invisa agli ortodossi e in special modo al suo insegnante, alla preparazione all’ordinazione rabbinica e alle prove
cui viene sottomesso dallo stesso insegnante, il quale osteggia la
formazione che Reuven ha ricevuto dal padre e che applica a
lezione. [XVIII]
Messo a dura prova da tutto ciò, Reuven constata duramente e
impietosamente la pessima condizione in cui versa la comunità
ebraica americana in quegli anni del dopoguerra. Le immigrazioni di ebrei mitteleuropei scampati allo sterminio nazista ne hanno modificato la fisionomia a tale punto da dare l’impressione di
un ritorno indietro, lontano nel tempo. [XIX]
Una volta superati brillantemente gli esami e salvata la vita di
Michael, Reuven potrebbe dirsi appagato: ha persino ottenuto la
nomina all’insegnamento proprio presso il seminario in cui ha
studiato, il più prestigioso di tutti, eppure lui, che fino all’ultimo
risulta la figura del figlio perfetto di un padre ideale e che si mostra finalmente nella sua vivacità intellettuale, si scopre invidioso
e carico di rancore verso la sua propria storia. Egli stesso aveva
già dato voce a questa impressione, poco prima dell’esperimento
su Michael, ponendo a Danny la domanda sull’odio di un figlio
nei confronti del padre che aveva fatto sussultare l’amico ed esitando di fronte alla medesima domanda rivolta a lui da suo
padre.7 In quel grave momento aveva appena ricevuto l’annuncio
di matrimonio dell’amico, figura emergente fino all’ultima riga
del romanzo, e si era accorto di essere solo. [XX] Dopo l’esperimento egli farà di tutto per prendere distanza dalla scoperta imbarazzante, ma sappiamo benissimo che una volta concepito, un
7
Vedi citazioni [XVI] e [XVII]
16
pensiero non si cancella. O si conclude o diventa pesante come
una palla al piede.
Di fatto, il romanzo termina così come era iniziato. Ma il campo
di battaglia non è, diversamente da quello iniziale, un ben delimitato campo da gioco. Ora il campo è un mondano giardino
pieno di sole e di risa festaiole. All’inizio c’era solo il pugno di
ferro dell’odio iroso; ora c’è anche il guanto di velluto dell’odio
coltivato.
4. La scelta di Chaïm Potok8
Bisogna rendere merito a Potok per due importantissimi motivi:
dopo gli anni Settanta è stato uno tra i pochi autori a continuare
a dare rilievo a Freud e alla psicoanalisi – è significativo che lo
abbia fatto sui temi che, in quanto professore universitario, rabbino, scrittore e storico, gli erano cari: educazione, istruzione,
formazione (Bildung )9 –; inoltre, come già detto all’inizio, egli ha
messo a fuoco quella che dopo la fine del comunismo è forse l’unica – dura – polemica del Novecento che ancora sussista: psicologia accademica-psicoanalisi.
Abbiamo visto come dall’amicizia nata tra due coetanei che solo
per motivi ideologici non si conoscevano, Potok ci fa scoprire le
8
Ringrazio Giacomo Contri per i molti momenti di discussione che ha condiviso con
me sul tema e sull’elaborazione delle mie conclusioni.
9
Bildung: nell’accezione filosofico-ideale di “formazione culturale radicata nell’essere
dell’uomo”, o di “idea di formazione che si universalizza decontestualizzandosi spazialmente e temporalmente”, rinvia al clima umanistico-pedagogico soprattutto tedesco, formatosi a partire dalla fine del Settecento (per esempio la riforma dell’università tedesca di Humboldt) e designa quel percorso di auto-formazione fatto di letture,
viaggi, conoscenze e comportamenti che deve avere un cittadino. A questo movimento di riforma hanno in gran parte contribuito ebrei tedeschi, a partire dall’Emancipazione degli Ebrei in Prussia (1811). Il Wilhelm Meisters Lehrjahre di Johann Wolfgang
von Goethe ne è uno dei principali testi di riferimento. «Il Wilhelm Meister di
Goethe aveva sempre in mente “la formazione del mio sé individuale proprio come
sono”.» (AA.VV., La Bildung ebraico-tedesca del Novecento, a cura di A. Kaiser, Bompiani 1999, pp. 429-431).
17
figure di tre padri, venerati e temuti dai figli, e l’odio di cui sono
bersaglio. Le figure dei padri incarnano un ebreo ortodosso intransigente, un ebreo ortodosso liberale, un ebreo ateo in conflitto con l’ortodossia. Le figure dei figli raffigurano “una mente
straordinaria”, “una mente brillante”, “una mente malata”, e appartengono alla prima generazione nata in terra americana (come
Potok stesso, di padre polacco che emigra negli Stati Uniti dopo
aver servito e combattuto nell’esercito austro-ungarico, e analogamente come Freud il quale rispetto all’emancipazione appartiene
alla prima generazione di ebrei europei nati fuori dal ghetto)10.
Tra i padri, la figura più vivida e vivace è quella del padre di
Danny, il rabbino Saunders, resa ancora più sbalzante dal paragone con il padre di Reuven, figura soft sebbene non meno inquietante dell’altra. Il rabbino Saunders ha un mandato salvifico:
«portare il dolore del mondo e difendere l’anima – la scintilla divina – dalle insidie del mondo».
Il tema della scelta individuale viene introdotto come fonte di
conflitto con la comunità, in quanto rompe con la tradizione dei
padri: libera docenza in psicologia in alternativa all’esercizio della
carica religiosa per Danny e metodo di critica grammaticale in
alternativa al patrimonio letterario tradizionale per Reuven.
L’amicizia si realizza non nel comune piacere e arricchimento
della frequentazione, ma nella funzione di mediazione, che nei
romanzi avviene due volte e sempre unilateralmente (dapprima
tra figlio e padre, poi tra terapeuta e malato).
La donna è rappresentata dalla figura della ragazza atea di formazione laica (di famiglia ebrea), cioè da colei che porterebbe “il
ventesimo secolo”, ma che per amore accetterà le rigide condizioni poste da Danny per il matrimonio, centrate soprattutto sul
metodo educativo di tradizione paterna. Dunque, la donna è
10
Il processo di emancipazione degli ebrei, che inizia nel Settecento con il formarsi del
movimento ebraico di emancipazione, si compirà con il conferimento statale della
cittadinanza agli ebrei e sarà raggiunto solo nel corso dell’Ottocento e esclusivamente
nell’Europa occidentale.
18
rappresentata dalla ragazza “occidentale”, spigliata e senza scrupoli religiosi, che sceglierà tra i due protagonisti non il più disinvolto e mondano, ma proprio “il meno terreno” e maggiormente
abbarbicato al rigore della tradizione.
Mentre però i temi della comunità, della tradizione e della cultura sembrano coerenti con il rigore espositivo dell’autore, il tema
della soluzione viene affrontato invece in modo a dir poco sorprendente, mediante l’introduzione della psicoanalisi. Freud viene insignito di un titolo assoluto: il genio. Sembrerebbe un
omaggio dell’autore alla psicoanalisi. Invece non è così.
Freud viene trattato da genio per poi sparire inghiottito dallo
stesso onore sul cui altare è stato innalzato. L’operazione avviene
in tre tempi. 1° tempo: Freud viene osannato; 2° tempo: viene
trattato da genio incompreso; 3° tempo: viene collocato nella
civiltà (“Kultur”). L’operazione viene affidata ai due amici:
Danny, l’eletto, individuo disturbato e difficile ma caparbio e affascinante, che sembrerebbe ottenere tutto senza rinunciare a
nulla, neanche a Freud – ma diventerà non psicoanalista, bensì
psicologo clinico –, e Reuven, lo studente brillante, il figlio fiducioso e collaboratore fidato del padre, l’amico saggio e fedele,
l’allievo che ogni insegnante vorrebbe, colui che capisce tutto e
tutti e è indispensabile al buon esito di vicende importanti, ma
che finisce coinvolto suo malgrado in vicende altrui senza guadagnarci nulla. E perde anche la donna. Dà l’impressione di un
perdente ma non lo è; egli è piuttosto l’uomo lungimirante che
ha saputo conciliare il sapere dei testi sacri e quello scientifico,
per il quale non si tratta di vincere ma di non smettere mai di
interrogarsi per capire.
19
4.1.Quattro tesi e quattro domande
Ho evidenziato quattro tesi nei due libri presentati e ne sono scaturite quattro domande.
I. La scissione dell’Io. Nel romanzo: la distinzione tra anima
(“scintilla divina” o cuore) e mente (intelligenza)
È attraverso la figura religiosa del rabbino Saunders che Potok introduce la distinzione tra anima (“scintilla divina”) e mente (intelligenza). Sembra che l’autore dia voce alla critica di Freud, ma
non è così. La distinzione tra anima e mente permane nel romanzo e, come se non fosse abbastanza chiaro a chi legge, viene ribadita fino alla fine. Eppure, tale distinzione porta con sé
“la scissione dell’Io” tra due opposti principi dell’agire individuale: un presunto comando superiore, l’“ideale”, e un presunto comando fisiologico, la “sessualità”. Potok sa che si tratta di nevrosi.
Che ragione c’è allora nel mantenere tale scissione?
II. Il rigore dell’“ideale”. Nel romanzo: l’origine come fonte
di identità e il conflitto tra soggetto e origine
Quando Potok parla di origini si riferisce esplicitamente alla
comunità religiosa ebraica e in senso lato a ogni ambito significativo di rapporti che definisca l’individuo come appartenente al
gruppo compatto. Egli sostiene che nella sua funzione di custode
della tradizione e della cultura particolare, la comunità tende a
determinare l’orientamento individuale e a controllarne le scelte,
specialmente se si tratta di comunità religiosa. Ciò è tanto vero
che l’educazione (maestro)11 e l’autorità (il Rabbino) potrebbero
addirittura opporsi all’individuo in crescita ostacolandone l’iniziativa, se questi agisse in modo da discostarsi dagli insegnamenti
ricevuti.
11 È notevole la minuziosità usata dall’autore per descrivere la scuola ebraica, che si può
trovare descritta pressoché in tutti i suoi libri. Interessante esempio di insegnamento,
nella scuola descritta da Potok l’insegnante non si occupa di escogitare mezzi pedagogicamente adatti per attirare gli allievi a sé (l’insegnante come ipnotizzatore – fallito –
è proprio della pedagogia corrente), non si preoccupa di essere o meno educatore:
l’insegnante semplicemente fa il suo lavoro e pretende dai suoi allievi il loro.
20
Potok tratta la tradizione (in connessione con la comunità d’origine) e la cultura occidentale secondo il criterio della vita psichica, portando con ciò la discussione sul tema fondamentale dei legami sociali. Sembra cioè che egli sostenga il pensiero individuale
e l’iniziativa. Ma non è così.
Per Potok, il conflitto che sfocia nell’odio sarà inevitabile.12 Al
contrario, i protagonisti del romanzo avrebbero potuto risolvere
il conflitto in modo soddisfacente, cioè legittimo, come peraltro,
e ampiamente, si mostra possibile soprattutto nel primo libro.
Ma l’autore fa sì che la soluzione freudiana venga rifiutata:
Danny diventerà uno psicologo e non uno psicoanalista.
Resta da chiederci la ragione di questo illogico passaggio al buon
psicologo e non al buon freudiano.
12
«La cosa più importante del periodo moderno è una parola di quattro lettere, una
nuova parola: la parola “self ”, che si può tradurre “il sé” in italiano. Nell’era premoderna nessuno era un “sé”. Con l’eccezione forse di due individui: Socrate, e sappiamo cosa gli è successo, e forse S. Agostino. Tutti gli altri che cercarono di essere un
individuo, furono distrutti. Si era certo individui ma il nostro destino era segnato
dalla comunità in cui si viveva. Essere un “sé” voleva dire essere contro la comunità.
Come è possibile essere se stessi e nello stesso tempo rimanere all’interno della comunità? È quanto Danny Saunders cerca di fare in Danny l’eletto; quanto cerca di fare
Reuven Malter ne La promessa (La scelta di Reuven [N.d.R] ). È quanto cerca di fare
Asher Lev nell’omonimo romanzo. Tutti questi individui hanno avuto grandi maestri, che rappresentano la comunità; questi giovani scoprono di essere individui, di
essere sé e, in qualche modo, cercano di ritrovare un posto per se stessi, in un dialogo
con la propria comunità e i propri maestri. Questo è qualcosa di pericoloso.» Intervista di Luca Doninelli a Chaïm Potok, 14 settembre 1998.
«La maggior parte degli esseri umani si trova a nascere in una comunità. Tutti noi
cerchiamo il compimento della nostra autentica individualità, del nostro io. Ciò significa che ogni individualità è differente dalle altre all’interno della comunità. Così
ci saranno tensioni. Il padre è invariabilmente visto come la figura rappresentativa dei
valori, e guida della comunità. Il Rabbino, se si tratta di comunità religiosa, è la figura ultima dell’autorità nella comunità stessa. Ti troverai in conflitto con tuo padre,
con il tuo Rabbino, con i tuoi insegnanti mentre cerchi di darti voce, mentre cerchi
di porre il tuo io… Ma se le figure autorevoli ti sono simpatetiche, e sei fortunato, allora potrai farcela. Avere la tua voce e rimanere nella comunità… Altrimenti sono
guai… e può essere che tu debba lasciare la comunità.» Intervista di Maurizio Maniscalco a Chaïm Potok, Tracce, n. 1, gennaio 2000).
21
III. L’odio. Nel romanzo: l’ostilità tra cultura/tradizione
e cultura/mondo
L’odio, ingente presenza in tutti i romanzi dell’autore, è rivolto
principalmente contro i padri, spesso presentati nella loro funzione istituzionale di Maestro, Rabbino o Intellettuale politicamente profilato.
Fin qui pare quasi che Potok mutui da Freud la sua critica alla
“Kultur”. Ma non è così.
L’odio verso il padre non è trattato: è vero che i protagonisti dei
romanzi di Potok ammettono di avere odiato i loro padri (o chi
incarna l’autorità), ma superata la crisi fanno tutti ritorno a casa,
cioè giungono tutti a asserire la loro identità non come eredi di
un bene intellettuale (tradizione), ma in quanto appartenenti alla
comunità d’origine, costi quel che costi.13 Danny permane fino
all’ultimo lucidamente avvinghiato all’identificazione paterna.
Pur avendo avuto modo di riconoscere e esaminare la sconsideratezza del trattamento ricevuto, non giudicherà, ma ripeterà ciò
che ha fatto suo padre.
Dunque, quale è il vero oggetto dell’odio? Odio verso chi? Verso
che cosa?
IV. L’estrema ingiuria. Nel romanzo: il genio
Potok sente il bisogno di inserire Freud nelle vicende narrate. A
prima vista, il riferimento a Freud potrebbe essere spiegato come
un espediente letterario: visto che il dibattito psicoanalisi-psicologia accademica è contemporaneo agli eventi narrati, è comprensibile che nei due romanzi occupi tanto spazio. Eppure c’è
dell’altro. Potok prende chiaramente posizione riguardo a Freud.
13 Danny capisce a tale punto il padre da disporsi a ripetere con i propri figli il tratta-
mento che gli era stato riservato dal padre, a sua volta ugualmente trattato dal proprio padre. Il padre di Reuven sembra esserne preservato (l’odio di Reuven si riversa
sul padre dell’amico, ma come si odia un avversario che ostacola il passo), mentre il
padre di Michael ne è l’oggetto indebito: la patologia del ragazzo non è spiegabile,
come fa il romanzo, dall’odio non detto che il ragazzo coverebbe dentro di sé a causa
dei conflitti socio-culturali del padre.
22
Freud viene riconosciuto come un genio, analogamente al protagonista principale, Danny, “la mente straordinaria”, ma Danny
non farà neppure una psicoanalisi personale e rientrerà in buon
ordine nei ranghi del discorso universitario… però ha letto tutto
Freud, in tedesco. In quanto genio, Freud viene posto aldilà del
bene e del male, viene cioè esentato per principio da ogni giudizio, valutazione, considerazione possibile. Ma astenersi dal giudizio riguardo al lavoro intellettuale di qualcuno è un chiaro giudizio. Come tutti sanno, significa considerare quel lavoro tanto inqualificabile da non meritare neppure il voto di insufficienza. Infatti, troveremo Freud messo in bell’ordine tra gli autori della
“Kultur”.
Perchè Potok elimina Freud?
4.2. Confutazione delle tesi di Potok
Provo a rispondere alle quattro domande partendo dall’ultima,
tenendo presente che Potok propone Freud per delineare la posizione razionale in contrapposizione non con la posizione religiosa, bensì con la posizione irrazionale: si tratta di un atto importante, se si pensa che oggi Freud è praticamente dimenticato anche dagli psicoanalisti. A maggior ragione, la soluzione che Potok
offre ci trova spiacevolmente dissenzienti, vista l’altra soluzione
che l’autore aveva bene intravisto.
Il genio (IV)
È davvero sapiente l’uso che l’autore fa della categoria di genio. È
un uso che se da un lato gli permette di introdurre il tema dell’odio, gli permette dall’altro lato di liquidarlo insieme con il genio
stesso. Per mezzo della categoria del genio, egli si sbarazza di una
presenza scomoda collocandola sul piedistallo dell’esclusività,
rendendo cioè vano ogni eventuale paragone con essa e ogni possibile incidenza della medesima sulla realtà. Ne Il maestro della
guerra (1996),14 pubblicato trent’anni dopo Danny l’eletto, Potok
14
The Trope Teacher, 1996, tradotto e pubblicato in italiano nello stesso anno.
23
menzionerà ancora Freud. Ma definitivamente banalizzato come
un grande tra altri grandi che «ormai sono parte di questo mondo e di questa cultura, sono l’aria che respiriamo», ridotto esattamente a ciò che Freud stesso denunciava come errore/motore
della civiltà.
Comunque, inserire nella civiltà la denuncia freudiana della civiltà è veramente troppo anche se è un modo efficace per eliminarla.
L’odio (III)
Il vero bersaglio dell’odio non è chi o che cosa si oppone alla tradizione o viceversa al mondo; chi o che cosa si oppone all’anima
oppure alla psiche, bensì chi o che cosa annullerebbe l’opposizione tra tradizione e cultura mondana (civiltà) e la distinzione tra
anima e psiche. Ed è proprio Freud a annunciare a chiare lettere
che non è la tradizione (o la Kultur) a produrre odio e psicopatologia, ma ciò che con l’inganno viene trasmesso come se fosse
tradizione, essendo invece un potentissimo fattore di disordine e
discordia: la teoria pura, ossia l’ideale come principio regolatore
di legami sociali tra uomini sregolati per nascita.
Dunque, pronunciandosi su Freud come genio – assoluto –,
Potok non ha neppure bisogno di argomentare la sua scelta contro la psicoanalisi. L’ultima parola è lasciata all’odio: dare del genio a qualcuno15 è una forma elegante di invidia che potremmo
chiamare odio cortese. Comunque, non siamo lontani dal masochismo morale di Freud.
L’ideale (II)
Il fatto che Potok passi al buon psicologo e non al buon freudiano è una domanda decisiva, non un sofisticheria. Non possiamo
15 Segnalo un articolo di Giacomo Contri, apparso nel 2006 in www.studiumcartello.it,
sul “genio musicale” e sull’inopportunità dell’applicazione a Mozart di questo appellativo.
24
attribuire a Potok di trattare argomenti che non conosce: come
dichiara egli stesso, l’argomentazione su Freud e psicologia è inserita in un filone di Bildung.
Bisogna però spiegare quella che sembra essere una caduta di stile
o un’ingenuità dell’autore.
Potok:
1. individua la causa patogena di una psicopatologia nell’odio
suscitato da fattori empirici. Questo è falso;
2. addomestica Freud: lo fa figurare come un grande uomo che
ha senza dubbio contribuito enormemente alla psicologia, ma
niente di più, e sostiene che per fare psicologia occorre investire altrove. Questa posizione è nota tra i detrattori di Freud,
che in lui hanno visto, e bene, la portata universale della sua
scoperta e delle sue soluzioni;
3. si raffigura uno psicologo geniale che di fronte al proprio padre si paralizza come un individuo incapace di intendere e volere. Danny si comporta come se avesse pensato: “se giudicassi
mio padre mi comporterei come un individuo normale.
Invece, salvo trovare di meglio, se mai lo troverò, mi comporterò come lui”. Significa avere compiuto la scelta per la psicopatologia: tolta la programmatica distinzione anima-mente
che Potok presuppone, i due libri del romanzo non sarebbero
che storie di psicopatologia comune. Eppure la distinzione
anima-mente è sostenuta fino in fondo.
Tutto ciò è quantomeno incomprensibile. Salvo che Potok ci imbrogli facendo l’ingenuo. Ma allora la sua sarebbe un’operazione
mistificatoria.
Peccato, ma è l’unica spiegazione plausibile. In altri termini, Potok avrebbe uno scopo, quello di eliminare Freud a ogni costo,
anche a costo di sfigurare. E perché no? A ben guardare, chi sono
mai oggi gli psicoanalisti a cui importi ancora Freud?
La scissione dell’Io (I)
L’alternativa posta da Potok tra psicoanalisi e psicologia e la scelta
per la psicologia presuppone un Io diviso tra anima e mente, in-
25
teriore e esteriore, alto e basso, che non può pensare soluzioni
soddisfacenti, ma sarà costretto a escogitare solo pseudo-soluzioni per la sua sopravvivenza in una comunità particolare scissa
dall’universo, che è l’unico habitat a misura della psiche. Questo
presupposto, però, è una menzogna millenaria individuale e generale. Nevrosi universale, così si chiama da Freud in poi, da
quando Freud l’ha scoperta e nominata smascherando l’ineffabilità ideale di cui si ammanta l’inganno che ferisce la competenza
individuale.
Perché dunque Potok ci insiste? Forse in funzione della scelta per
la comunità? Di fatto, la comunità religiosa, per la sua coesione e
per il tempo scandito dai riti, assorbe la nevrosi individuale e
rende superflua la psicoanalisi. Si spiegherebbero allora la sorprendente svolta verso la psicologia come studio della mente e
l’elisione di Freud cui assistiamo nel romanzo. Infatti il pensiero
di natura designa la normalità con la competenza individuale nel
trattare con l’intero universo in modo produttivo, senza dolo,
anzi con soddisfazione.
Con Freud si concluderebbe che la normalità è il risultato di un
lavoro personale e che… l’individuo guarito si manterrebbe laico
anche se abbracciasse una vocazione monacale.
5. La questione che resta da risolvere
Rimane l’interrogativo iniziale: come mai Potok avrebbe sentito
il bisogno di inserire Freud nelle vicende narrate, visto ciò che ne
ha fatto?
Ripeto, dopo averlo introdotto e lungamente illustrato,
– ne ha fatto un genio: promoveatur…
– e poi lo ha finito collocandolo tra gli autori della Bildung
adolescenziale: … ut amoveatur.
Forse che abbia voluto farsi carico di liquidare Freud con le sue
stesse armi? Ma perché? Per quale motivo l’ebreo e moderno
Potok prenderebbe posizione contro l’ebreo e moderno Freud?
26
Mi sembra questa, alla fine dei conti, la questione da risolvere,
che chiarisce la portata del dibattito toccato dall’autore, reale
motivo di interesse per parlare dei suoi libri.
6. Conclusione
6.1. Premessa
Arrivati a questo punto, io sono non in difficoltà, ma in imbarazzo, quel genere di imbarazzi che derivano dalla storia. Sono trascorsi ormai sei anni da quando ho iniziato a scrivere su Potok. A
quella epoca l’autore stava bene. Desideravo invitarlo per un dibattito pubblico. Poi è morto e io ho accantonato tutto. Non riuscivo più a concludere. Ora ritengo di avere trovato il chiarimento che cercavo e non mi piace per niente. Non mi piace perché
oramai è evidente che da parte di Potok c’è del dolo.
Fino agli anni Sessanta-Settanta, non oltre, gli psicoanalisti di
tutto il mondo, in maggioranza ebrei, si gloriavano di Freud e lo
seguivano, non solo perché lo riconoscevano per la sua opera, ma
anche in quanto ebreo. Poi, sorpresa, molti psicoanalisti smettono di seguirlo, altri si rivolgono a Jung o alla psicoterapia, ebrei
compresi. Il fatto è che i primi psicoanalisti non potevano disconoscere l’appartenenza ebraica di Freud. Dopo la loro morte ciò
diventa possibile e la questione ebraica di Freud riaffiora e ne fa
16
Riguardo alla discutibile correttezza dell’imputazione di eresia nell’ebraismo – per parlare propriamente di eresia occorre che vi sia riferimento a dogmi o verità di fede –, è
utile menzionare le osservazioni di Erich Fromm sulla legge.
Nella sua tesi di laurea La legge degli ebrei, (1922), Fromm illustra come il popolo
ebraico venga messo in essere dalla forma comune della legge, essendo la legge portatrice del contenuto religioso.
«[…] Nella legge – cosa che sarebbe assolutamente concepibile – non è prescritto
quale debba essere lo stato d’animo dell’Ebreo in giorno di sabato… gli è però comandato fin nei particolari ciò che deve fare o omettere.» (p. 28).
«Che cosa sia la conoscenza di Dio, la legge non lo dice. La legge, che – come già si è
detto – chiede l’azione e non la fede, è creata per la totalità, non per il singolo, per il
popolo e non per una classe.» (p. 27)
«Oltre alla elementarissima fede nell’unità di Dio, la legge non contiene alcuna for-
27
un ebreo incomodo, se non addirittura un eretico,16 come annota
Yosef Yerushalmi,17 ma certamente non un nemico: non scomunicato come Spinoza, ma semplicemente disdegnato come pensatore (genio, fallimentare e presuntuoso, non scienziato).
Quanto ai motivi di piacere/dispiacere di Freud, la discussione
dei critici verte alla fin fine su un presunto conflitto tra due
Freud: un Freud “scienziato ebreo” e un Freud che, ahimé, in
tarda età, ha voluto occuparsi anche di religione, facendo lo storico invece di continuare a mantenersi nell’ambito del suo mestiere. Scindere l’opera di Freud in due parti tra la dottrina psicoanalitica da un lato e le sue applicazioni alla cultura dall’altro e
difenderne eventualmente la prima parte è il mezzo facile con cui
gli oppositori di Freud hanno da sempre gettato acqua sul fuoco
del suo pensiero: passi l’elaborazione di Freud sulla religione come questione personale di un ebreo figlio della generazione dell’emancipazione, passi la critica dell’ebraismo dall’interno di esso
– chi mai altrimenti la potrebbe esercitare? –, ma non un’elaborazione non autorizzata che si prenda l’autorità di giudicare la
religione giudaica stessa e le sue origini.
Ha ragione Yerushalmi a annotare che «Mosè l’egizio», cioè il fatto che l’ebraismo sia stato generato da qualcuno, per di più non
ebreo, e non si sia invece creato da sé, costituisce un’ulteriore
mulazione teoretica vincolante per tutti. “I segreti vengono svelati” soltanto in cerchie riservate e confidenziali.» (p. 36)
«“Ascolta Israele, l’eterno è nostro Dio, l’eterno è uno solo” (Dt 6,4). Queste parole
sono la professione di fede con la quale l’Ebreo chiude la sua vita. Sono l’espressione
più forte e profonda della religiosità biblica, ma sono tutt’altra cosa di un dogma, che
esige la fede in una ben precisa affermazione su Dio.» (p. 19)
«La prima costruzione di un sistema dogmatico risale al filosofo ebraico della religione Maimonide, il quale formulò tredici articoli di fede dalla cui accettazione fece dipendere l’appartenenza al giudaismo. Gli articoli di fede di Maimonide ora trovarono
adesione, ora furono integrati o abbreviati, ora aspramente avversati […] Di fatto i
dogmi non sono stati considerati altrimenti che espressioni di pensiero individuali di
singole guide del popolo ebraico.» (pp. 23-24)
17 Y.H. Yerushalmi, Il Mosè di Freud. Giudaismo terminabile e interminabile, Einaudi,
Torino 1996.
28
umiliazione rispetto alle tre umiliazioni inflitte dalla scienza
«all’amor proprio dell’umanità» già elencate da Freud.18 Nel suo
libro sul Mosè di Freud, Yerushalmi osserva che, effettivamente,
l’indagine di Freud sui motivi ebraici dell’antisemitismo ha tolto
all’ebraismo una prerogativa importante: l’esclusiva di popolo
eletto da Dio. E non tanto per le origini egizie attribuite da
Freud a Mosè, bensì perché in quanto parricidi gli ebrei sono in
buona compagnia dei cristiani. Riguardo alla suddetta quarta
umiliazione, il nostro lavoro di ricerca ci ha portati a concludere
che non si tratta di una umiliazione particolare, cioè che toccherebbe solo l’ebraismo. Essa tocca anche il cristianesimo. Anzi,
colpisce l’intera storia del pensiero: Freud toglie di mezzo non
l’esistenza di Dio, ma la distinzione concettuale tra Dio e Padre.
Riaffermando il primato del Padre e l’ordine giuridico che gli è
connesso, colloca ogni altro sapere su Dio nell’ambito filosofico/teologico della produzione di religione. Proviamo a pensare
che cosa potrebbe mai fare un filosofo (o un teologo) se gli si togliesse Dio. Non saprebbe da che parte girarsi.
Nella sua indagine sulla religione monoteistica, Freud arriva a
una conclusione da far tremare molti per le implicazioni cosmiche che comporta: tramite il grandioso talento spirituale dell’ebreo Paolo, con Gesù Cristo è iniziata una nuova era, quella della
soluzione paterna. Nel frattempo, annota sempre Freud, il cristianesimo, definito come progresso psicologico rispetto all’ebraismo nel ritorno del rimosso, ha dimenticato Gerusalemme, che
lo stesso pensatore Paolo/Gesù Cristo aveva ricapitolato in modo
18
Vedi S. Freud, Una difficoltà della psicoanalisi, 1916, OSF, vol. VIII, pp. 660-661. Dopo le due umiliazioni inferte all’umanità dalla scienza: l’umiliazione cosmologica di
Copernico, centralità della terra nel cosmo e l’umiliazione biologica: le tesi di Darwin,
la psicoanalisi ha inflitto l’umiliazione psicologica: l’Io non è padrone in casa sua.
19
Il ritorno al paganesimo non è una prerogativa del Cristianesimo. In questa regressione ellenizzante era già caduto anche l’ebraismo in era pre-cristiana e se ne era poi discostato. Questo dato storico rende ancora più oneroso l’abbandono cristiano di Gerusalemmme a favore di Atene. Rinvio all’articolo di Giacomo Contri Mosè, Gesù,
Freud e l’antisemitismo in questo stesso testo a pag.15 dove è esposta la tesi dell’antisemitismo come ostilità alla legge giuridica. Quanto al cristianesimo, che tale passaggio
29
nuovo, e ha abbracciato il paganesimo.19 Ad ogni buon conto, sostiene sempre Freud, l’ebraismo detiene nei secoli il primato intellettuale su ogni altro popolo, e non per motivi religiosi ma per
quei motivi di ordine storico e filogenetico (la legge ebraica è una
legge che fonda legami sociali) che hanno contribuito alla distinalla teoria greca sia avvenuto precocemente è alluso per esempio in un passo de Le
Confessioni. Agostino ritiene che il fatto di avere conosciuto il cristianesimo solo dopo essere passato per la filosofia e non viceversa sarebbe stato decisivo per il suo pensiero. Bisogna dire che la tentazione della teoria è davvero invincibile: «Però allora,
dopo la lettura delle opere dei filosofi platonici, da cui imparai a cercare una verità
incorporea; dopo aver scorto quanto in te è invisibile, comprendendolo attraverso il
creato, e aver compreso a prezzo di sconfitte quale fosse la verità che le tenebre della
mia anima mi impedivano di contemplare, fui certo che esisti, che sei infinito senza
estenderti tuttavia attraverso spazi finiti o infiniti, e che sei veramente, perché sei
sempre il medesimo, anziché divenire un altro o cambiare in qualche parte o per
qualche moto; mentre tutte le altre cose sono derivate da te, come dimostra questa
sola saldissima prova, che sono. […] Credo che la ragione, per cui volesti che m’imbattessi in quelli prima di meditare le tue Scritture, fosse d’incidere nella mia memoria le impressioni che mi diedero, così che, quando poi i tuoi libri mi avessero ammansito e sotto la cura delle tue dita avessi rimarginato le mie ferite, sapessi discernere e rilevare la differenza che intercorre fra la presunzione e la confessione […] Plasmato all’inizio dalle tue sante Scritture, assaporata la tua dolcezza nel praticarle e imbattutomi dopo in quei volumi, forse mi avrebbero sradicato dal fondamento della
pietà; oppure, quand’anche avessi persistito nei sentimenti salutari che avevo assorbito, mi sarei immaginato che si poteva pure derivarli dal solo studio di quei libri.»
Agostino di Ippona, Le Confessioni, Libro settimo, 20.26.
20
Commentando l’intervento di Freud al XV Congresso psicoanalitico internazionale
(il paragrafo Il progresso della spiritualità della Parte III del suo Mosè, letto dalla figlia
Anna a Parigi il 10 agosto 1938), in particolare il passaggio conclusivo in cui egli ravvisa nella letteratura l’unica proprietà rimasta agli ebrei dopo la distruzione del Tempio di Gerusalemme e nell’impegno intellettuale dedicato alla Sacra Scrittura l’elemento unificatore del popolo ebraico, Yerushalmi annota che Freud non stava affatto
salvando la religione (che permaneva un’illusione). «[Secondo Freud,] Dopo avere
formato il carattere degli ebrei, il giudaismo in quanto religione aveva esaurito il suo
compito vitale e poteva essere messo da parte. Infatti, per quanto suoni incredibile e
irragionevole, Freud era del tutto convinto che il carattere ebraico, dopo essere stato
creato nell’antichità, fosse rimasto costante e immutabile, e che le sue qualità fondamentali fossero indelebili. “Secondo fonti valide [gli ebrei] si comportavano come oggi già nel periodo ellenistico, l’ebreo era già allora fatto e finito.” Sebbene Freud non
la esprima apertamente, la conclusione è inevitabile. I caratteri tipici della psiche
ebraica si trasmettono filogeneticamente; per conservarsi non hanno più bisogno della religione. Secondo questa conclusione lamarckiana, nemmeno gli ebrei atei come
Freud possono fare a meno di ereditarli e di esserne imbevuti.
In questo senso, il giudaismo in quanto religione è ormai doppiamente fossile, mentre
il popolo ebraico mantiene la propria vitalità.» Y.H. Yerushalmi, op. cit., pp. 77-78.
30
zione degli ebrei sempre e dovunque.20
A noi risulta che proprio l’ingente dichiarazione freudiana del
primato del Padre sul monoteismo sia stata tanto sconvolgente
da indurre molti a fare carte false, a costo di cadere nell’impostura o nel ridicolo. Infatti, tra la scoperta della religione come
nevrosi universale e la scoperta della psicopatologia come scelta
individuale (con l’invenzione della sua cura) non c’è soluzione di
continuità. Diversamente da così non avrebbe consistenza il termine metapsicologia che Freud introduce per dare un nome alla
psicologia che sta redigendo. Non si sosterrebbe neanche l’affermazione freudiana che la psicoanalisi è una scienza tanto nuova
da non avere presupposto alcuno, cioè diversa dalle scienze
proprie della Storia della scienza che sono definite invece in subordine alla metafisica (vedi Popper). La psicoanalisi non è definita da nessuna dipendenza.
È grazie al lungo lavoro di indagine di Giacomo Contri sul Diritto che oggi possiamo dire che la psicoanalisi – in quanto applicazione del pensiero (di natura) alla psicopatologia –, è essa stessa
una metafisica. Una metafisica corporale che giudica l’altra, quella di fonte greca, come una vera e propria truffa quando fosse applicata all’indagine sull’uomo. Per due motivi: 1. fino a Freud
mancava addirittura il concetto di uomo; 2. trattare scientificamente l’uomo è un reato: significa ammalarlo.
Dire “una scienza ebraica” è assurdo. O non si tratta di scienza o
non si tratta di ebraismo. Il fatto che proprio un autore come Yerushalmi ne faccia una questione, anzi la questione cruciale del
suo libro sul Mosè di Freud, è davvero un attacco frontale alla
psicoanalisi: era esattamente l’obiezione di Jung a Freud.
Rivolgendosi a Freud in un colloquio immaginario in cui gli
espone questioni di intere generazioni di suoi lettori, Yerushalmi
comunica al “Professor Freud”: «Sono qui solo per informarla
che tutto fu inutile. Le sue precauzioni non servirono a nulla. La
storia fece della psicoanalisi una “scienza ebraica”. La psicoanalisi
continuò a essere attaccata per questo motivo. In Germania, in
Italia, e in Austria fu distrutta, dispersa e mandata in esilio. Con-
31
tinua a essere considerata una scienza ebraica ancora oggi, sia dai
suoi nemici sia dai suoi amici» (op. cit., p. 145). La disputa si fa
sarcasmo nell’ultima pagina del libro, con la domanda diretta rivolta a Freud: «In questo momento, lasciando da parte le questioni semantiche e epistemologiche, voglio solo sapere se lei abbia finito con il considerare la psicoanalisi una scienza ebraica.
Anzi, limiterò ancor più le mie pretese e mi riterrò soddisfatto se
risponderà a un’unica domanda: sua figlia, quando mandò quelle
parole al congresso di Gerusalemme.21 stava parlando a suo nome?
Per piacere, professore, me lo dica. Prometto di non rivelare a
nessuno la sua risposta» (op. cit., p. 148). Ripeto, a meno che
non si tratti di sarcasmo, sarebbe l’insulto peggiore che condanna
al pubblico disprezzo Freud e la sua opera. Freud sarebbe un demente.
David Meghnagi, ne Il Padre e la legge. Freud e l’ebraismo,22 non
manca di riprendere questo aspetto nel capitolo sull’antisemitismo, mostrando e documentando la chiarezza e l’attenzione di
Freud alla cosa. Freud non temeva accuse che senza bisogno di
muovere un dito si ritorcono contro l’accusatore. Freud temeva
che la psicoanalisi fosse considerata un negozio, una faccenda
ebraica, il che è tutt’altra cosa. Bisogna dire però che riguardo al
Mosè di Freud, anche per Meghnagi rilevante non è la novità del
pensiero di Freud, quanto la difesa di Freud da false dichiarazioni
21
Il riferimento è al congresso dell’IPA del 1977, avvenuto a Gerusalemme in occasione dell’istituzione della cattedra Sigmund Freud presso l’Università ebraica. Anna
Freud, invitata a partecipare ma impossibilitata ad andarvi di persona, inviò una comunicazione dal finale «brusco e inatteso», che «lasciò a bocca aperta l’eminente pubblico» (Y.H. Yerushalmi, op. cit., p. 147). Le parole di A. Freud cui si riferisce l’autore
sono: «Nel suo periodo di esistenza, la psicoanalisi ha stretto rapporti con diverse istituzioni accademiche, non sempre con risultati soddisfacenti […] spesso ne è stata anche respinta e criticata, perché i suoi metodi sono imprecisi, perché le sue scoperte
non sono dimostrabili sperimentalmente, perché le manca scientificità, persino perché è una “scienza ebraica”. Indipendentemente dalla valutazione che viene data agli
altri commenti denigratori, credo che nelle odierne circostanze l’ultima di queste critiche possa considerarsi un titolo d’onore».
22
D. Meghnagi, Il padre e la legge. Freud e l’ebraismo, Marsilio, Venezia, terza edizione 2004.
32
e testimonianze.
6.2. Il pensiero: il vero bersaglio dell’odio
Dopo questa premessa, torniamo a Potok. Egli vorrebbe ribaltare
la storia. Inizia citando Freud, come per dire: “Psicoanalisti ebrei
vi siete sbagliati, piuttosto eliminate Jung.” E finisce dicendo no
alla psicoanalisi e non all’ebraismo di Freud. Non è casuale che
l’intera parte dell’opera di Freud dedicata alla filogenesi non venga neppure menzionata nel romanzo.
Potok sa che Freud ha mantenuto l’ebraismo in ciò in cui l’ebraismo era logico ma d’altra parte ha individuato il fattore comune
– comune a tutte le religioni – che caratterizza la religione come
nevrosi universale. Sa dunque che Freud ha tolto l’ebraismo dal
particolare per collocarlo nell’universale… come nevrosi. E ritengo che proprio questo Potok non sopporti: in quanto nevrotico,
non in quanto ebreo. Infatti, parlando di psicopatologia, Chaïm
Potok passa per forza di cose all’universo. Da pensatore quale è
stato, io ritengo che ciò sia stato comunque il suo guadagno.23
23
Quanto a me, ho molto di cui ringraziare Potok. Non sto dicendo che la ricerca storica sulle fonti aggiunga qualcosa al pensiero: la certezza è concettuale o non è. Il pensiero di natura si attiene ai concetti e procede logicamente. Non interpreta i fatti storici secondo punti di vista, ma constata e giudica. L’Autore mi ha dato l’occasione di
realizzare la portata di una scoperta già fatta ma della quale avevo sottovalutato l’importanza: il gusto per la storia come conforto di conclusioni raggiunte logicamente.
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Appendice
I
«Ascolta, Reuven. Dice il Talmud che dovremmo fare due cose a
favor nostro. La prima è trovarci un maestro. Ricordi qual è la seconda?»
«Scegliere un amico,» risposi.
«Già. Lo sai cos’è un amico, Reuven? Un filosofo greco disse che
due veri amici sono come due corpi con un’anima sola.»
Accennai di sì con la testa.
«Reuven, fa di Danny Saunders il tuo amico, se puoi.»
«Mi piace enormemente, abba.»
«No. Non fraintendermi. Non basta semplicemente che ti
piaccia. Sto dicendoti di far di lui il tuo amico e di assecondarlo
nel fare di te il suo amico.»
(C. Potok, Danny l’eletto, Garzanti, Milano 1997.4, pp. 98-99)
II
«Mio padre crede nel silenzio. Quando avevo dieci o undici anni,
mi lamentai con lui di non so cosa, e mi disse di chiudere la
bocca e di guardarmi nell’anima. Disse anche che dovevo smettere di correre da lui ogni volta che avevo un problema da risolvere.
Bisognava che mi guardassi nell’anima per cercarvi la risposta.
Non ci parliamo, Reuven, ecco tutto.»
(Danny l’eletto, p. 213)
III
«Vuoi sapere come lo giudico? Lo ammiro. Ignoro cosa stia cercando di farmi con questo arcano silenzio che ha imposto tra
noi, ma lo ammiro. Lo trovo un grand’uomo. Lo rispetto e mi fido pienamente di lui, ecco perché credo di poter vivere col suo
silenzio. Non so perché m’ispiri tanta fiducia, ma gliela do comunque. E lo compiango, anche. Intellettualmente, ha le ali tarpate. È nato in gabbia, anzi. E io non voglio ritrovarmi in una
gabbia come la sua. Voglio poter respirare, pensare a modo mio,
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dire le cose che mi saltano in testa. Anch’io sono in gabbia,
adesso. Te l’immagini che cosa si prova a stare in gabbia?»
Scossi lentamente la testa.
«Appunto, come potresti immaginarlo? È la sensazione più diabolica, più soffocante, più opprimente che esista al mondo. Tutto
il sangue che ho in corpo mi grida di uscirne. Ma non posso.
Non ora. Lo farò un giorno, però. E quel giorno, voglio averti
accanto, amico mio. Quel giorno avrò bisogno di te.»
(Danny l’eletto, pp. 252-253)
IV
«Hai una buona testa sulle spalle,» disse sottovoce. L’espressione
che usò in yiddish, tradotta alla lettera, è «una testa di ferro». Fece un cenno di assenso, parve un momento in ascolto del silenzio
che regnava nello studio, poi incrociò le braccia sul petto. Emise
un sospiro sonoro, con gli occhi improvvisamente tristi. «Ora vedremo com’è la tua anima» soggiunse, sempre sottovoce. «Reuven, mio figlio tornerà presto. Abbiamo poco tempo per parlare.
Desidero che tu mi ascolti. So che quasi ogni giorno il mio Daniel passa ore e ore in biblioteca.»
[…]
«Come l’ho scoperto non ha importanza.»
[…]
«Voglio che tu mi dica che cosa legge. Potrei domandarlo a lui,
ma mi è difficile parlargli. So che non comprendi ma è vero: non
posso domandarlo a mio figlio. Un giorno, forse, te ne dirò il
motivo.»
[…]
«Questo figlio è il mio bene più raro. Non ho nient’altro al mondo, a paragone di mio figlio. Debbo sapere cosa legge. E non
posso domandarlo a lui».
(Danny l’eletto, pp. 208-210).
V
Danny e io parlavamo spesso delle sue letture di Freud.
35
[…]
Era chiaro che Freud lo aveva sconvolto radicalmente: lo aveva
sbilanciato, com’ebbe a dire un giorno. Ma non poteva smettere
di leggerlo, spiegò, perché si era reso conto con evidenza sempre
crescente che Freud aveva posseduto un intuito quasi sovrumano
nei confronti della natura dell’uomo. Ecco in che consisteva l’esperienza sconvolgente di Danny. Il quadro della natura dell’uomo fatto da Freud era tutt’altro che lusinghiero, era tutt’altro che
religioso. Strappava l’uomo a Dio, secondo l’espressione di
Danny, e lo sposava a Satana.
[…]
Danny era paziente, paziente quanto mio padre, e a poco a poco
cominciai a comprendere il sistema di pensiero psicologico costruito da Freud. E ne fui perturbato a mia volta: Freud contraddiceva qualunque nozione avessi mai appreso. Soprattutto mi
sconcertava il fatto che Danny non mostrasse di ripudiare l’insegnamento di Freud. Cominciai a domandarmi come fosse possibile che i concetti del Talmud e le teorie di Freud coesistessero
nella stessa persona. Mi pareva che gli uni o le altre dovessero cedere il campo. Quando lo dissi a Danny, lui si strinse nelle spalle
senza rispondere, e si rimise a leggere.
(Danny l’eletto, pp. 244-245).
VI
«Un bel giorno mi appiopperanno anche un comportamentista»
si lamentava. «Che cosa diavolo c’entrano i ratti e i labirinti con
la mente umana?»
(Danny l’eletto, p. 257).
VII
Danny mi fece pena. Aveva passato due anni a studiare la mente
dal punto di vista dell’analisi freudiana: ora studiava la mente dal
punto di vista della fisiologia. Compresi quel che intendeva dire
quando affermava che la psicologia sperimentale non aveva niente a che vedere con la mente umana. In termini di teoria psicana-
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litica, essa aveva davvero pochissimo a che vedere con la mente
umana. Ma, a prescindere dalla psicanalisi, giudicai preziosissimi
quei libri. Com’era possibile costruire una scienza della psicologia altrimenti che con i ritrovati di laboratorio? E cos’altro si può
fare in un laboratorio, se non sperimentare la fisiologia di uomini
e animali? Come sperimentare le loro menti? Chi mai sarebbe
stato in grado di sottoporre il concetto freudiano dell’inconscio
all’indagine di laboratorio?
Povero Danny, pensai. Il professor Appleman, con la sua psicologia sperimentale, ti va torturando la mente. E tuo padre, col suo
stravagante silenzio – che non riesco a capire neanche adesso, per
quanto ci rifletta sopra – ti va torturando l’anima.
(Danny l’eletto, p. 276)
VIII
«Aveva ragione?»
«Chi?»
«Il professar Appleman.»
«Ragione in che cosa?»
«Nel definire dogmatici i freudiani.»
«Quali epigoni di un genio non sono dogmatici, per l’amor del
cielo? I freudiani hanno un sacco di motivi di esserlo. Freud era
un genio.»
«E che cosa ne fanno di lui, uno tzaddik?»
«Quanto sei spiritoso» disse amaramente Danny.
«Stasera ti trovo straordinariamente pieno di comprensione.»
«Secondo me, dovresti avere un colloquio a cuore aperto con Appleman.»
«Bravo, e che gli racconto? Che Freud era un genio? Che io detesto la psicologia sperimentale? Lo sai cosa disse lui una volta, in
classe?» Danny riprese il tono professorale. «“La psicologia, figlioli, può ritenersi una scienza unicamente nella misura in cui le
sue ipotesi vengono assoggettate a esperienze di laboratorio e a
matematicizzazione successiva.” Matematicizzazione, senti questa! Che gli racconto? Che aborro la matematica? Ho sbagliato
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corso, ecco tutto; sei tu che dovresti farlo, non io.»
«Ha ragione, bada» osservai tranquillamente.
«Chi?»
«Appleman. Se i freudiani non se la sentono di cercar la conferma delle loro teorie mediante gli esperimenti di laboratorio, sono
senz’altro dogmatici.»
Danny mi guardò, rigido in volto. «Cos’è che ti rende tutt’a un
tratto così competente a proposito dei freudiani?» chiese con voce irosa.
«Non so nulla a proposito dei freudiani» risposi con calma. «Sulla logica induttiva ne so invece parecchio. Uno dei prossimi giorni ricordami di tenerti una conferenza sull’argomento. Se i freudiani…»
«Accidenti!» proruppe Danny. «Non ho nemmeno accennato ai
continuatori di Freud, in classe! Parlavo di Freud, io! Freud era
uno scienziato: e la psicoanalisi è uno strumento scientifico per
esplorare la mente. Cosa c’entrano i ratti con la mente umana?»
«Perché non lo domandi a Appleman?»
«Credo che glielo domanderò… ma sì, credo proprio che glielo
domanderò. Che ci sarebbe di male? Cosa mi costa? Un passo del
genere non potrà certo rendermi più infelice di quanto già sia.»
[…]
«Che razza di scalogna… due anni di letture di Freud, per poi
trovarmi ridotto a fare psicologia sperimentale.»
(Danny l’eletto, pp. 262-263)
IX
Stavamo dirigendoci verso la fermata del tram. La mattina era
fredda, inclemente. I riccioli di Danny sbattevano negli aspri
sbuffi del vento che spazzava le strade.
«Com’è andata?» gli chiesi.
«È una storia lunga» cominciò Danny, guardandomi in tralice e
sogghignando. «Abbiamo avuto un colloquio interminabile su
Freud, sui freudiani, sulla psicologia, sulla psicanalisi e su Dio.»
«Allora?…»
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«È davvero un brav’uomo. Ha detto che aspettava che gli parlassi
fin dal principio del trimestre.»
Non risposi, ma adesso ero io che sogghignavo.
«Comunque, Appleman conosce Freud dall’a alla zeta. Mi ha
spiegato che non è tanto contrario alle conclusioni di Freud
quanto alla sua metodologia. Ha detto che il procedimento di
Freud si fonda sulle sue limitate esperienze personali, che lui generalizza in base a alcuni esempi, a alcuni pazienti privati.»
«È il problema dell’induzione, in poche parole» osservai.
«Come giustifichi il fatto di saltare da alcuni esempi alla generalizzazione?»
«Non ne so nulla, io, del problema dell’induzione. Quello è il
tuo ramo. Appleman ha detto qualcos’altro, però, che mi è sembrato pieno di buon senso. Ha ammesso che Freud era un genio
e uno scienziato prudente, ma ha soggiunto che sviluppò una
teoria del comportamento ricavandola esclusivamente dallo studio di casi anormali. Ha detto che la psicologia sperimentale si
propone di applicare la metodologia delle scienze naturali al fine
di scoprire come si comportano tutti gli esseri umani, non
generalizza sul comportamento della personalità unicamente in
base a un dato settore d’individui. Lo trovo un discorso pieno di
buon senso.»
«Benone» interruppi, sogghignando più che mai.
«Ha anche detto che lui ce l’ha soprattutto coi freudiani, non
con Freud di per se stesso. Ha detto che quelli si accontentano
d’intascare i loro lauti guadagni di psicanalisti e che non permettono a nessuno di mettere in dubbio le loro ipotesi.»
«Ecco il nostro tram. Corri!»
Il tram attendeva davanti a un semaforo, e ci saltammo sopra appena in tempo. Alcuni passeggeri lanciarono a Danny un’occhiata curiosa mentre risalivamo il corridoio in cerca d’un posto.
Io avevo finito con l’abituarmi agli sguardi indiscreti del prossimo che prendevano di mira Danny, la sua barba e i riccioli spioventi sugli orecchi. Ma Danny era andato diventando sempre più
impacciato a causa dell’effetto che faceva dopo il periodo delle
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sue letture di Graetz sul chassidismo, e fissava il vuoto davanti a
sé, cercando d’ignorare gli sguardi indiscreti. Trovammo posto in
fondo alla vettura e ci sedemmo.
«Dunque Appleman ha detto che gli psicanalisti non permettono
a nessuno di porre in dubbio le loro ipotesi» ricominciai. «E poi,
che è successo?»
«Be’, abbiamo parlato lungamente della psicologia sperimentale.
Lui ha affermato che è quasi impossibile studiare i soggetti umani perché è troppo difficile controllare gli esperimenti. Ha detto
che adopriamo i ratti perché possiamo variare le condizioni. Ha
ripetuto un sacco di cose che aveva già spiegato in classe, ma
questa volta le ha rese infinitamente più plausibili. Forse, dopo
che aveva riconosciuto che Freud era un genio, io sono stato più
propenso a dargli ascolto. Ha detto che ammira la mia conoscenza di Freud, ma che nel campo scientifico nessuno è Dio, neppure Einstein. Ha detto che perfino in religione i pareri contrastano
sulla natura di Dio, e allora perché gli scienziati non dovrebbero
dissentire da altri scienziati e discuterci insieme?»
(Danny l’eletto, pp. 278-279)
X
Così dunque diventai il ripetitore di Danny.
[…]
Io mi divertivo un mondo a dargli ripetizione, e imparai una
quantità di psicologia sperimentale. La trovavo affascinante, infinitamente più sostanziosa e scientifica di quanto mi fosse apparso Freud, e infinitamente più proficua in termini di ampliamento
e verifica della conoscenza dei modi in cui gli esseri umani pensano e apprendono.
(Danny l’eletto, pp. 280-281)
XI
Me l’aspettavo, ma ora ch’era successo non potevo crederci. Il
rabbino Saunders non aveva posto il veto alla letteratura profana,
e neppure a Freud – nell’ipotesi che fosse stato informato in un
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modo o nell’altro che Danny aveva letto Freud – bensì al sionismo. Trovavo impossibile crederci. Mio padre e io eravamo colpiti da scomunica, messi al bando non solo dalla famiglia Saunders, a quanto pareva, ma anche dall’elemento antisionistico della massa studentesca chassidica.
(Danny l’eletto, p. 288)
XII
«Benone» sogghignai. «Addio Freud.»
Danny scosse il capo. «Addio Freud, nemmeno per sogno. Freud
era un genio, ma troppo cauto nei suoi ritrovati. Io invece voglio
spaziare su un materiale infinitamente più copioso di quello di
cui Freud s’interessò. Freud non approfondì mai sul serio la percezione, e neanche l’apprendimento: come la gente vede, ode,
tocca, odora, gusta… e l’apprendimento è un processo meraviglioso. Freud non approfondì mai nulla di tutto questo, ma fu
un genio, e autentico per giunta, nell’ambito delle sue indagini.»
«Intendi fare lo sperimentalista?»
«Non credo. Voglio occuparmi degli individui, non dei ratti e dei
labirinti. Ne ho parlato con Appleman: mi ha suggerito di dedicarmi alla psicologia clinica.»
[…]
«Farai lo psicanalista?»
«Può darsi. Ma la psicanalisi è soltanto una forma di terapia.
Ce ne sono molte altre specie.»
«Quali specie?»
«Be’… molte,» ripetè Danny vagamente. «Per il momento siamo
più che altro in fase sperimentale.»
«Conti di sperimentare sugli individui?»
«Non so… forse. In fondo il mio bagaglio di cognizioni è ancora
piuttosto scarso.»
«Farai la carriera accademica?»
«Si capisce. Non è possibile procedere in questo campo senza una
cattedra.»
[…]
41
«Tuo padre lo sa già?»
Danny mi scoccò un’occhiata intensa, carica di apprensione.
«No» rispose sommessamente.
«Quando glielo dirai?»
«Il giorno in cui riceverò la smichà. (Smichà è un termine ebraico che significa ordinazione rabbinica.)»
«Cioè l’anno prossimo.»
(Danny l’eletto, pp. 324-325)
XIII
Il rabbino non lo guardò. Non lo aveva guardato neanche una
volta. Stava parlando a Danny per mio tramite.
«Reuven, vorrei che tu ascoltassi attentamente il discorso che sto
per farti.» Aveva detto: Reuven; i suoi occhi avevano detto:
Danny. «Non lo comprenderai. Può darsi che tu non lo comprenda mai. E può darsi che tu non cessi di odiarmi per la mia
condotta. So quel che pensi. Non te lo vedo forse nello sguardo?
Ma desidero ugualmente che mi ascolti.
L’uomo viene al mondo con un’unica minuscola scintilla di bene
dentro a sé. La scintilla è Dio, è l’anima; il resto è male, è
bruttura, una scorza. La scintilla dev’essere custodita come un tesoro, dev’essere alimentata, deve essere fatta divampare in fiamma. Deve apprendere a scoprire altre scintille, deve dominare la
scorza. Qualunque cosa può comporre una scorza, Reuven. Qualunque cosa… l’indifferenza, la pigrizia, la brutalità, e il genio.
Sì, anche una grande mente può essere una scorza e soffocare la
scintilla.
Reuven, il Signore dell’universo mi benedisse col dono di un figlio brillante. E mi maledisse con tutti i problemi della sua educazione. Ah, cos’è mai avere un figlio brillante! Non un ragazzo sveglio, Reuven, ma un figlio brillante, un Daniel, con una mente simile a un gioiello. Ah, che maledizione, che angoscia, avere un
Daniel, la cui mente sembra una perla, un sole. Un giorno, Reuven, quando il mio Daniel aveva quattro anni, lo guardavo leggere
uno dei racconti d’un libro. E ne fui spaventato. Non leggeva il
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racconto, lo divorava come si divora il cibo o si tracanna l’acqua.
Non c’era un’anima nel mio piccolo Daniel, c’era solo la mente.
Era una mente, lui, in un corpo senz’anima. Quel racconto si trovava in un libro yiddish che descriveva un povero ebreo e le traversie cui dovette soggiacere per arrivare a Eretz Israel prima della
sua morte. Ah, quanto soffrì quell’uomo! E il mio Daniel se la
godé a leggere il racconto, se la godé a leggerne l’ultima, terribile
pagina, perché quand’ebbe finito la lettura, si rese conto per la
prima volta di quale memoria fosse dotato. Mi guardò fieramente
e ripeté a memoria il racconto da cima a fondo e io piansi in cuor
mio. Mi appartai e invocai il Signore dell’universo e gli dissi:
«Che cosa mi hai fatto? Ho forse bisogno di una simile mente invece di un figlio? Di un cuore ho bisogno per figlio, di un’anima
ho bisogno per figlio, compassione io voglio in mio figlio, rettitudine, misericordia, la forza di soffrire e di sopportare il dolore, ecco quello che voglio in mio figlio, non una mente senz’anima!»
Il rabbino Saunders s’interruppe, emise un respiro profondo, affannoso. Cercai d’inghiottire, avevo la bocca riarsa. Danny si copriva gli occhi con la mano destra, aveva respinto gli occhiali sulla fronte. Piangeva in silenzio, le spalle scosse da un tremito. Il
rabbino non lo guardò.
[…]
«Quand’ero in tenerissima età, mio padre, possa riposare in pace,
cominciò a svegliarmi nel cuore della notte al semplice scopo di
farmi piangere. Ero un bambino, ma lui mi svegliava e mi narrava delle storie sulla distruzione di Gerusalemme e sulle sofferenze
del popolo d’Istraele, e io piangevo. Così fece per anni e anni.
Un giorno mi condusse a visitare un ospedale – ah, che esperienza fu quella! – e spesso mi portava dai poveri, dai mendicanti,
perché udissi i loro discorsi. Quanto a lui, non mi parlava mai
salvo quando studiavamo insieme. Mi ammaestrò col silenzio.
Mi insegnò a guardare in me stesso, a scoprire la forza che possedevo, a muovermi dentro di me in compagnia della mia anima.»
[…]
«Per anni il suo silenzio mi disorientò e m’impaurì, sebbene aves-
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si sempre fiducia in lui e non lo odiassi mai. E quando fui sufficientemente maturo per comprendere, mi spiegò che lo tzaddik,
a preferenza di ogni altra persona, deve avere la conoscenza del
dolore. Lo tzaddik deve saper soffrire per la sua gente, disse. Deve toglierle il dolore e reggerlo sulle proprie spalle. Deve reggerlo
sempre. Deve invecchiare innanzitempo. Deve piangere, in cuor
suo deve piangere perennemente. Anche quando balla e quando
canta, deve piangere per le sofferenze della sua gente.
Questo non lo capisci, Reuven, te lo leggo negli occhi, che non
lo capisci. Ma il mio Daniel lo capisce, adesso. Lo capisce bene»
[…]
«Guardavo il mio Daniel quando aveva quattro anni, e mi chiedevo: Come insegnerò a questa mente a capire il dolore? Come le insegnerò a voler prendere su di sé la sofferenza di un’altra persona?»
[…]
«Come potevo ammaestrare mio figlio nella stessa maniera in cui fui
ammaestrato da mio padre senza distoglierlo dalla Torah? Dacché
siamo in America, Reuven, non in Europa. È un mondo aperto a
noi, questo qui. Ci sono biblioteche e libri e scuole. Ci sono grandi
università cui non importa conoscere il numero degli studenti ebrei
che le frequentano. Non volevo allontanare mio figlio da Dio, ma
non volevo che lui coltivasse una mente senz’anima. Fin da quando
era bambino sapevo già che non sarei stato in grado di impedire alla
sua mente d’indirizzarsi verso il mondo in cerca di conoscenza. Sapevo in cuor mio che questo lo avrebbe dissuaso dal prendere il mio
posto. Ma dovevo impedire che lo alienasse del tutto dal Signore dell’universo. E dovevo ottenere la certezza che la sua anima sarebbe
stata l’anima di uno tzaddik indipendentemente da ciò che lui
avrebbe fatto della sua vita.»
Il rabbino Saunders chiuse gli occhi e sembrò che si rannicchiasse in se stesso. Gli tremavano le mani. Tacque per molto tempo.
Le lacrime rotolavano lentamente lungo il naso e scomparivano
dentro la barba. Un sospiro fremente pervase la stanza. Poi egli
riaprì gli occhi e fissò il Talmud sul piano della scrivania. «Ah,
che prezzo pagai per tutto questo… Gli anni della sua infanzia,
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quando lo amavo e parlavo con lui e me lo tenevo sotto il talled
mentre pregavo… “Perché piangi, padre?” mi domandò una volta di sotto il talled mentre pregavo. “Perché la gente soffre” gli
risposi. Non potè comprendere. Ah, che vuol dire essere una
mente senz’anima, che cosa brutta… Furono quelli gli anni in
cui imparò a nutrire fiducia e affetto per me… E quand’era più
grande, gli anni in cui io mi distaccai da lui… “Perché hai smesso di rispondere alle mie domande, padre?” mi chiese un giorno.
“Sei abbastanza maturo per cercarti le risposte nell’anima” gli dissi. Un altro giorno rise e osservò divertito: “Padre, che razza di
somaro è quell’uomo”. Mi adirai. “Scruta la sua anima” ribattei.
“Fermati nella sua anima e guarda il mondo con gli occhi di lui.
Conoscerai il dolore che gli cagiona la propria ignoranza, e smetterai di ridere.” Rimase ferito e sconcertato. Che incubi cominciò
ad avere… Ma imparò a trovare le risposte da solo. Soffrì, e imparò a dar ascolto all’altrui sofferenza. Nel silenzio ch’era sorto
fra noi, cominciò a sentir piangere il mondo.»
Il rabbino Saunders s’interruppe. Un sospiro gli uscì ancora dalle
labbra, un sospiro lungo, tremante, che parve un gemito. Poi mi
guardò con gli occhi lacrimosi della sua sofferenza. «Reuven, tu e
tuo padre foste una benedizione per me» disse. «Il Signore dell’universo ti mandò a mio figlio. Ti mandò quando mio figlio era
pronto a ribellarsi. Ti mandò ad ascoltare le parole di mio figlio.
Ti mandò perché tu fossi i miei occhi chiusi e i miei orecchi suggellati. Io guardai la tua anima, Reuven, non la tua mente»
[…]
«La conobbi quando il mio Daniel tornò a casa e mi disse che
voleva essere tuo amico. Ah, avresti dovuto vedere i suoi occhi,
quel giorno, avresti dovuto sentir la sua voce. Che fatica gli costò
parlarmi… Ma parlò. Conobbi la tua anima, Reuven, prima della tua mente o del tuo viso. Mille volte ho ringraziato il Signore
dell’universo per avervi mandati, tuo padre e te, a mio figlio.
Pensi ch’io sia stato crudele? Sì, ti leggo negli occhi che pensi
ch’io sia stato crudele verso il mio Daniel. Forse è vero. Ma lui ha
imparato. Il mio Daniel faccia pure lo psicologo. So che vuol fare
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lo psicologo. Non vedo, forse, i suoi libri? Non vidi le lettere delle università? Non vedo i suoi occhi? Non sento piangere la sua
anima? Naturale che lo so, lo sapevo da un pezzo. Faccia pure lo
psicologo, il mio Daniel, adesso non ho più paura. Sarà uno
tzaddik per tutta la vita. Sarà uno tzaddik per il mondo. E il
mondo ha bisogno di uno tzaddik.»
[…]
«Oggi è la Festa della Libertà.» Ebbe un’ombra di amarezza nella
voce. «Oggi il mio Daniel è libero… Debbo andare… sono stanchissimo… debbo andare a sdraiarmi.»
[…]
Mio padre era in cucina, e aveva il viso soffuso di una strana assorta tristezza. Mi misi a sedere, e lui mi guardò con gli occhi foschi dietro le lenti cerchiate di acciaio. Gli raccontai ogni cosa.
Quand’ebbi finito, tacque per un tempo che mi parve interminabile. Poi disse piano: «Un padre ha diritto di educare suo figlio
come più gli piace, Reuven.»
«Con quel sistema, abba?»
«Sì. Benché io non ne sia affatto entusiasta.»
«Bel sistema di educare un figlio!»
«Forse è l’unico adatto a educare uno tzaddik.»
«Sono contento che non sia stato usato con me.»
«Reuven» disse placidamente mio padre «non ho avuto bisogno
di usarlo con te. Non sono uno tzaddik, io.»
(Danny l’eletto, pp. 347-355)
XIV
«Danny» mormorò «quando avrai un figlio anche tu, lo educherai nel silenzio?»
Danny tacque per molto tempo. Poi la sua mano destra si sollevò
adagio verso l’orecchio, e il pollice e l’indice accarezzarono fugacemente un ricciolo immaginario.
«Sì» disse «se non saprò scoprire un altro modo.»
Mio padre assentì con calma.
(Danny l’eletto, p. 357)
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XV
«Parlami di Michael» dissi pacatamente. «Avrò modo di andarlo
a trovare?»
«Sì. Questo posso combinarlo, ora.»
«Mi ha detto che sta facendo impazzire il dottor Altman. Se ne è
millantato.»
«Non lo sta facendo impazzire. Il professor Altman non impazzisce su comando dei suoi pazienti. È un gran terapista. Ma Michael non collabora.»
«Che fa?»
«Non fa nulla. Si presenta a una seduta e non gli cavi una parola
di bocca. Altre volte blatera su sogni e fantasie che sono pure
invenzioni. Non c’è verso che collabori minimamente.»
«Subentri tu nella terapia?»
«Sotto strettissima supervisione.»
«Non è una cosa insolita?»
«Sì»
«Hanno riconosciuto il tuo genio.»
«A questo punto sono disposti a tentare il tutto per tutto. Il caso
di Michael è gravissimo.»
[…]
«È un malato assai grave, il tuo Michael. E non abbiamo la più
pallida idea di cosa sia che lo turba.»
«Non gli piacciono gli ebrei molto ortodossi. So che questo lo
turba.»
«Non è questo che lo turba essenzialmente.»
«Il sintomo, non la malattia.»
«Bravissimo» disse Danny. «Meriti il posto di primo della classe.»
«Perlomeno conservo qualche ricordo dei tuoi giorni con Freud.»
«Erano giorni diversi, quelli» disse Danny.
«Perché diversi?»
«È sempre più facile imparare qualcosa che mettere in pratica
una nozione acquisita.»
Rimasi zitto.
«Mentre la stai imparando sei solo. Ma la metti sempre in pratica
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sugli altri. È diverso, quando ci vanno di mezzo gli altri».
Tacqui.
«Non puoi permetterti di fare degli errori sulla pelle degli altri.
A volte, quando fai un errore, perdi un’anima umana.» Mutuò
dall’ebraico la parola “neshamah”, per “anima”, e la rese con la
sua pronuncia ashkenazita “neshomeh”, accentando la sillaba
“sho”.
[…]
«E che succede se non riesci a penetrare in lui?» domandai.
Danny si strinse nelle spalle e non disse nulla.
«Di quanto tempo disponi?»
«Di un mese. Di due mesi. Dipende dal verificarsi o meno di
qualche progresso.»
«E se non ci saranno progressi, Danny?»
Danny chinò gli occhi sulla scrivania e non disse nulla.
«Dovrà venir internato in un manicomio pubblico?»
Danny non disse nulla.
«Dio mio» dissi. «Dio mio.»
[…]
«Tutto per via di uno stupido lunapark.»
Danny mi guardò. «Michael era malato molto tempo prima dell’episodio del lunapark. Gli impostori dei lunapark non fanno
ammalare nessuno. Bisogna essere già malati per restare sconvolti
a quel modo.»
(C. Potok, La scelta di Reuven, Garzanti, Milano 1998.3, pp.
144-147)
XVI
«Un figlio può odiare il padre senza saperlo?» chiesi.
Alla domanda trasalì con tanta veemenza da farmi temere che gli
sfuggisse un urlo. S’irrigidì e mi guardò a bocca aperta. Passò un
minuto prima che lo sentissi cominciare a rilassarsi.
«Sì» disse con voce forzata.
«Come reagirebbe?»
«Dipende» disse Danny sommessamente.
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«Posto che sia confuso da un mucchio di altre cose: come reagirebbe?»
«Anche questo dipende» rispose, molto calmo, guardandomi, gli
occhi sfavillanti dietro le lenti montate in tartaruga.
«Posto ancora che sia appena diventato un adolescente con tutto
quanto ne consegue e che non abbia assolutamente nessuno della
sua età del quale senta di potersi fidare e col quale possa parlare,
e che abbia paura di parlare con gli adulti. Come reagirebbe?»
«Nell’esatta maniera in cui reagisce Michael» disse Danny.
(La scelta di Reuven, pp. 260-261)
XVII
«Vuoi un bicchier d’acqua? Hai l’aria di…»
«No» dissi.
Assentì con un cenno. Poi disse: «Hai la stoffa dello psicologo.»
«Grazie.»
«Ce l’hai fatta in vece mia.»
«Non ho fatto nulla. Non sapevo neppure quello che dicevo.»
«No» ribattè Danny. «Sapevi quel che dicevi.»
Lo guardai. Cadde un breve silenzio.
«Sono stanco sul serio» dissi. «Vorrei andare a casa.»
«Capisci cos’è accaduto in quella stanza?»
«Credo… credo di sì». Poi osservai: «Hai corso un grosso rischio.
Michael sarebbe potuto rimanere catatonico. Che avresti fatto,
allora?»
«Altman avrebbe interrotto l’esperimento. Si sarebbe tirato indietro.»
«Perché Michael non aveva detto ai suoi genitori come lo stavano
condizionando?»
«Non lo so» disse Danny. «È una questione che dovremo risolvere in terapia. Secondo me in certo senso lui prendeva gusto alla
sua rabbia. Talvolta chi si sente inerme ricerca il potere manipolando il datore di sofferenza in modo che ne dia ancora di più.
Oppure agisce eccentricamente e arreca sofferenza al datore di
sofferenza come un mezzo per vendicarsi. Potrebbe addirittura ri-
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cavare una qualche forma di piacere sessuale dalle sue rabbie.
Sì… perfino questo. Non so. Michael ha una lunga strada davanti a sé. Ma credo che adesso sia pronto a seguirla.»
«Tu lo sapevi fin dal principio» dissi. «Hai sempre saputo di che
si trattava».
«Lo immaginavo.»
«Non lo avevi immaginato. Lo sapevi.»
«Sì» ammise Danny con calma. «Tempo fa ebbi anch’io un’esperienza analoga.» Chiuse gli occhi e dopo un momento vidi che
cominciava a ondeggiare avanti e indietro nella sedia. Poi alzò la
mano e col pollice e l’indice prese a carezzare un ricciolo immaginario sull’orecchio.
Così lo lasciai e chiusi adagio la porta alle mie spalle e andai a
casa.
Per moltissimo tempo mio padre, seduto alla scrivania, mi fissò
incredulo. Poi tentò di dire qualcosa ma non gli vennero le parole e si raschiò la gola e tossì.
«Io non ti avrei odiato a quel modo, abba» dissi. «Avremmo parlato a cuore aperto fra noi.»
«Ne sei sicuro, Reuven?»
Accennai di sì.
«Mi avresti rivelato il tuo stato d’animo verso di me, se le cose
che mi erano più care ti avessero rovinato la vita?»
«Sì.»
«Non mi hai odiato mai durante questi ultimi mesi?» domandò
sottovoce.
Esitai. «Non era veramente…».
«Perché non me l’hai detto, Reuven?»
Lo guardai e tacqui.
«Che rischio corriamo nell’allevare i figli» mormorò mio padre.
«Che rischio terribile.»
(La scelta di Reuven, pp. 356-357)
XVIII
Ero stufo di Rav Kalman, stufo delle sue intemerate, stufo di sen-
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tirgliene fare agli altri, stufo dell’opprimente atmosfera da ghetto
dell’Europa Orientale che improntava le sue lezioni, stufo del suo
zelo fanatico per la Torah. Mancavano quattro mesi agli esami
della smichà.1 Era un bel po’ di tempo. Mi ripromisi di controllarmi e di usare una grande cautela. Avrei dato gli esami, l’avrei
fatta finita con lui. Occorreva però che usassi una grande cautela,
a lezione.
(La scelta di Reuven, pp. 161-162)
IX
Faceva buio e freddo e un vento gelido spazzava la strada e mandava un turbinio di polvere nera della città lungo i marciapiedi e
c’erano in giro molti chassidim e ascoltai il loro yiddish ungherese e mi parvero estranei, a così immensa distanza da me, benché
fossero il mio popolo e ci accomunassero le stesse origini in tempi remoti e studiassimo la stessa Torah. Mi lasciai alle spalle la sinagoga dove pregavamo mio padre e io e l’isolato dove abitava il
padre di Danny e pensai come quei relitti dei campi di concentramento avessero cambiato la faccia delle cose. Erano i relitti, i
custodi zelanti della scintilla. E ora tutto quanto esisteva di tradizionale veniva attratto verso quello zelo. Avevano cambiato ogni
cosa mediante la mera sopravvivenza e la traversata di un oceano.
Avevano recato quella scintilla nelle strade scassate di Williamsburg, e uomini come Rav Kalman che non erano chassidim si
sentivano soggiogati dalla loro presenza e si credevano custodi
della scintilla animati da pari zelo, e nessuno alla Hirsch li avrebbe combattuti perché la scintilla era preziosa, era l’unico vestigio
rimasto dopo il sangue e lo sterminio e la offuscava chiunque ne
combattesse i difensori.
(La scelta di Reuven, pp. 188-189)
1
Ordinazione rabbinica
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XX
«… Tu non sarai il mio testimone.»
«Sponsali chassidici», dissi con finta disperazione. «Dovrò spolverare il mio vecchio caffettano e il berretto orlato di pelliccia.»
Danny e Rachel risero.
«Dovrò spolverare il mio caffettano e esercitarmi in certi balli e
canti. È passato un bel po’ di tempo.»
«Sì» disse Danny, serio all’improvviso. «Per te. Ma è il mio mondo, amico. E non ho visto niente al di fuori che valga di più.»
«Proprio niente?» dissi.
«Niente ch’io non possa adoprare pur restando nel mio.»
«A patto che tu tolga dall’altro alcune delle sue cose buone.»
«A questo provvederò io» disse dolcemente Rachel.
[…]
Mi sorpresi invidioso della solidità con cui Danny era abbarbicato nel suo mondo… e scoprii in quell’istante, al colmo dello sbigottimento, quanto fossi arrabbiato con mio padre per il suo libro e per il suo metodo di studio e per la vita minuscola, crepuscolare, né di qua né di là, che lui aveva plasmato per noi.
(La scelta di Reuven, pp. 259-260)
© Studium Cartello – 2007
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