L`economia sommersa: dimensioni, cause, possibili rimedi

L’economia sommersa: dimensioni,
cause, possibili rimedi
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Liliana Bàculo
Il fenomeno dell’economia sommersa non è affatto nuovo né nel nostro paese né all’estero. Già agli inizi degli
anni ’80, Bruno Contini aveva condotto degli studi sulle
segmentazioni del mercato del lavoro e sull’economia
parallela in Italia (B. Contini, 1981) ma non era l’unico
studioso italiano a segnalare questo fenomeno (L. Frey,
1978 ed altri anni; C. Lizzeri, 1979). Un fenomeno simile
nello stesso decennio viene evidenziato da V. Tanzi negli
USA (V. Tanzi, 1980). Analogamente avveniva nei paesi
meno sviluppati.
Se quindi le analisi sull’esistenza dell’economia sommersa non sono nuove e riguardano tutti i paesi, da quelli
più industrializzati a quelli meno, ciò che è cambiato è il
suo aumento avvenuto negli ultimi decenni. Infatti, calcolando in alcuni paesi dell’OCDE la quota dell’economia
sommersa in percentuale del PIL, per l’Italia si passa
dal 10,7% nel 1970 al 27,3% nel 1997 (dati da tab. 11 in F.
Schneider and D. Enste, 2000), segue la Spagna, che
passa negli stessi anni dal 10,3 % al 23,1% e dal Belgio,
che passa dal 10, 4 % al 22,4%. Un aumento di tale percentuale in genere si è avuto nella maggior parte dei
paesi OCDE, ad eccezione degli Stati Uniti che hanno
avuto molte variazioni: mentre negli anni 1960 e 1970 la
quota oscillava tra il 2,1 e il 4,6%, nel 1994 era salita al
9,4 per poi attestarsi, negli anni 1996 e 1997, al 8,8%.
Tali cifre di per sé sarebbero un motivo sufficiente per
occuparsi di questo argomento, tuttavia sono state
avanzate altre importanti ragioni che suggerirebbero
un attento esame di questo fenomeno. In particolare, si
è osservato che:
– la caduta delle entrate fiscali derivante dall’aumento
dell’economia sommersa, può mettere in moto un circolo
vizioso del genere: aumento del deficit pubblico, aumento conseguente del livello di tassazione, ulteriore crescita dell’economia sommersa, e così via;
– una crescente quota di economia sommersa può spingere la politica economica in errore poiché risultano falsati indicatori come il tasso di disoccupazione, il livello
del reddito e del consumo;
– se da una parte un forte aumento dell’economia sommersa spinge a tenere lavoratori non dichiarati e dall’altra, una quota consistente dei redditi prodotti nel sommerso sono rivolti ad acquistare prodotti dell’economia
regolare, con grande vantaggio per quest’ultima.
1. Cosa s’intende per economia sommersa? Definizioni
e metodi per valutarne il peso
La rilevanza di questo fenomeno richiede che si chiarisca cosa s’intende per economia sommersa. Benché non
ci sia un pieno accordo tra gli studiosi, la definizione
corrente comprende nell’economia sommersa tutte
quelle attività legali di produzione di beni e servizi che
vengono svolte nell’inosservanza, parziale o totale, di
alcune norme fiscali, contributive o di altro tipo. Mentre
l’economia illegale svolge tutte quelle attività di produzione di beni o servizi la cui vendita, distribuzione e
possesso è proibita per legge (come ad esempio il traffico di stupefacenti); infine con l’economia informale ci si
riferisce a quelle attività di «produzione di beni e servizi con l’obiettivo primario di generare occupazione e
reddito alle persone coinvolte» (P. Busetta 1999).
La distinzione tra queste tre forme di economia nascosta si è resa necessaria perché spesso i concetti venivano confusi, rendendo ancora più difficile elaborare una
politica rivolta alla riduzione di questo fenomeno. La
confusione, in particolare tra economia informale ed
economia sommersa spiega la percentuale molto elevata
che si presenta nei paesi meno sviluppati, dove esistono
forme di economia di sussistenza, specie in agricoltura.
Se sulla definizione si è giunti ad un accordo, molto più
controversi sono i metodi per calcolarne la dimensione,
considerando la difficoltà a valutare una realtà che per
sua natura si nasconde e quindi non è di facile rilevazione.
I metodi usati sono diversi tra cui quello che si basa sui
consumi di alcuni input come ad esempio l’elettricità;
oppure quello che tiene conto del divario tra il reddito e
le spese, rilevati statisticamente; oppure quello che si
basa sulla differenza tra la domanda di moneta e i redditi dichiarati al fisco (ipotizzando che le transazioni nell’economia sommersa avvengano in contante); infine
quello (che possiamo chiamare approccio multiplo) che
tiene conto di più indicatori ritenuti rilevanti per l’individuazione dell’economia sommersa1. Utilizzando l’approccio degli input fisici è stata calcolata, per gli anni
1989-90, la percentuale sul PIL dell’economia sommersa
in alcuni paesi meno sviluppati dell’Africa, dell’America
Centrale e meridionale e dell’Asia (F. Schneider and D.
Enste, 2000, tab. 2). La differenza dei valori è notevole
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tanto all’interno di ogni area che tra le diverse aree.
L’oscillazione va da un 20% (per le Mauritius) ad un 68%
(Egitto) e 45% (Tunisia) per l’Africa; dal 61% (Guatemala) ad una media del 30% per paesi come il Brasile, il Cile, il Venezuela, ecc.; infine per l’Asia si passa da una
percentuale del 50% (Filippine) ad una del 38% (Corea
del Sud) e del 13% (Hong Kong). Per gli stessi paesi
dell’America centrale e meridionale è stata calcolata tale quota utilizzando l’approccio multiplo, per gli anni
1990-1993, ottenendo valori pressoché simili, anche se il
periodo considerato è diverso (F. Schneider and D. Enste, 2000, tab. 2). Elaborazioni analoghe sono state fatte
per i paesi dell’Europa centrale e dell’Est e per quelli
dell’ex-Unione Sovietica: anche in questo caso le percentuali oscillano da un minimo del 6,9% (Slovacchia) ad
un massimo del 27,5% (Ungheria), per il periodo 198990; mentre negli anni 1994-1995 tali percentuali sono
per lo più aumentate di molto – ad esempio, per la Russia tale percentuale passa dal 14,7% del periodo 1989-90
al 41% negli anni 1994-95 (F. Schneider and D. Enste,
2000, tab. 3).
Un altro metodo che viene adottato consiste nel fare indagini dirette in alcune zone dove i dati statistici disponibili indicano una presenza di economia sommersa.
Benché da una ricerca del genere si riescano ad ottenere maggiori informazioni, rimane irrisolto il problema
della valutazione quantitativa del fenomeno.
2. Quali le cause del sommerso?
Le cause che danno luogo all’economia sommersa sono
numerose, tra queste: l’aumento del peso delle tasse e
dei contributi sociali; la crescita delle norme che regolano l’economia ufficiale, tra cui, in particolare, il mercato
del lavoro; la riduzione della giornata lavorativa nei
contratti di lavoro ufficiali; una riduzione degli anni per
andare in pensione; la disoccupazione.
Molti studi hanno mostrato la relazione tra il livello di
tassazione diretta (compreso quello dei contributi sociali) e l’aumento dell’economia sommersa. Altri (S. Johnson, D. Kaufmann, P. Zoido-Lobatòn, 1998 a, b) hanno
mostrato che non è tanto l’effetto della tassazione in sé
che incide sull’aumento dell’economia sommersa, quanto
un’applicazione discrezionale e inefficiente del sistema
fiscale e delle regole governative. Altri studi (E. Fried-
man, Johnson, Kaufmann, Zoido-Lobatòn, 1999) sono
giunti alla conclusione che gli imprenditori si immergono
non tanto per evitare le tasse ma per ridurre il peso della burocrazia e della corruzione che si accompagna ad un
sistema fiscale inefficiente (Schneider and Enste, 2000,
p. 85).
L’aumento delle norme come licenze, regolamentazioni
nel mercato del lavoro, barriere al commercio è un altro
motivo che spinge verso l’economia sommersa. Inoltre è
stato sottolineato (S. Johnson, D. Kaufmann, P. ZoidoLobatòn, 1998 a, b) che conta molto anche l’applicazione
delle leggi oltre che il loro numero. L’eccesso di regolamenti ha un peso notevole specie nell’ambito del mercato
del lavoro così come la riduzione della giornata lavorativa. Molte analisi condotte nei paesi OCDE (in particolare
in Germania e Francia) hanno messo in evidenza la relazione tra l’introduzione di alcune norme nel mercato del
lavoro (riduzione della giornata lavorative, pensionamento precoce, lavoro part-time) e l’aumento dell’economia
sommersa (F. Schneider and D. Enste, 2000, p. 87).
Un altro interessante risultato (S. Johnson, D. Kaufmann, P. Zoido-Lobatòn, 1998, b) riguarda il settore
pubblico ed il grado di corruzione esistente. La conclusione che questi studiosi hanno tratto è che, mentre in
alcuni paesi dell’OCDE si è realizzato un buon equilibrio tra un basso peso di tasse e di regole, un controllo
sulla corruzione e una relativamente ridotta dimensione
di economia sommersa, in altri paesi (specie dell’America Latina o della ex Unione Sovietica) si è realizzato un
cattivo equilibrio, nel senso che il peso e la discrezionalità del sistema fiscale sono alti, il rispetto delle regole è
debole, vi è un’alta incidenza della corruzione e conseguentemente un’ampia fascia di economia sommersa
(Schneider and Enste, 2000, p. 88).
La corruzione nell’ambito del settore pubblico è stata
oggetto di molta attenzione per la sua diffusione in tutti
i paesi pur se in misura diversa. Le attività dove più
frequentemente essa si verifica è: la concessione di licenze (per esercitare un’attività, per costruire un locale); accesso a beni e servizi pubblici; controlli nella concessione di incentivi.
La conclusione è che esiste una relazione molto stretta
tra il livello di corruzione e l’ampiezza dell’economia
sommersa.
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Alla luce di queste analisi risulta chiaramente che gran
parte dell’economia sommersa deriva da disfunzioni del
settore pubblico. Ne deriva che il problema dell’economia sommersa comporta un cambiamento nel modo
d’intervento dello Stato, sotto la spinta della riduzione
del livello di tassazione. Si possono immaginare due alternative.
La prima, che il cambiamento della pubblica amministrazione e dell’intervento dello Stato abbia luogo con un ridimensionamento dell’intervento pubblico in modo da richiedere minori entrate fiscali, migliorando però i minori
servizi offerti e controllando la corruzione, grazie ad una
riduzione delle norme e ad un monitoraggio dell’attività
pubblica, per accrescerne l’efficacia e l’efficienza.
L’altra alternativa (che rischia attualmente di prevalere) è una riduzione del settore pubblico per le minori
entrate derivanti dalla crescente evasione, una caduta
delle retribuzioni dei funzionari pubblici, un peggioramento dei servizi ed una spinta ulteriore all’immersione
sia da parte degli addetti al settore pubblico, alla ricerca di un secondo lavoro non regolare e non tassato, sia
da parte dei cittadini sempre meno disposti a pagare
tasse per servizi pubblici di cattiva qualità.
3. Le relazioni tra economia regolare ed economia som mersa
Una questione interessante è se tra l’economia emersa
e quella sommersa esista un nesso. Secondo alcuni economisti, una riduzione dell’economia sommersa, portando ad un aumento delle entrate fiscali accresce la quantità di beni pubblici e quindi dà un impulso alla crescita
dell’economia nel suo complesso. In questo caso la diminuzione dell’una accresce l’altra.
Altri studiosi, invece, hanno messo in evidenza i vantaggi che l’economia emersa può trarre da quella sommersa sia acquistando semilavorati a prezzi più bassi2
sia perché parte dei suoi prodotti sono acquistati con i
redditi prodotti nel sommerso3. Secondo questa tesi, la
relazione è di uno scambio e di un vantaggio reciproco.
In questo filone si colloca la tesi che sostiene che l’economia sommersa dà flessibilità all’intero sistema, permettendo di competere più facilmente a livello internazionale. Ciò avverrebbe particolarmente per quelle produzioni scomponibili in più fasi e per le quali si procede
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ad un decentramento specie per quelle a maggiore intensità di lavoro semplice. L’aumento del cosiddetto
commercio di transito tra alcune imprese dei distretti
industriali italiani e dei laboratori localizzati all’estero è
una chiara testimonianza di questo fenomeno.
Negli anni ‘70 ed ’80, il decentramento è avvenuto in
gran parte verso il Mezzogiorno, dove esenzioni fiscali e
riduzioni degli oneri sociali abbattevano il costo del lavoro. Un’ulteriore riduzione si poteva ottenere ricorrendo al lavoro irregolare. I frequenti legami tra le imprese settentrionali e quelle meridionali hanno contribuito a rafforzare l’intera economia italiana, specie
quella del Made in Italy. In parte ciò è all’origine dei sistemi locali meridionali.
Infine, una fetta di imprenditori vede l’economia sommersa come una forma di concorrenza sleale, in quanto
chi ricorre al lavoro irregolare ottiene una riduzione (illegale) del costo del lavoro e non rispetta le regole della
società, in questo avvicinandosi e confondendosi con l’economia illegale.
4. I risultati di una ricerca diretta sull’economia som mersa del Mezzogiorno
Da alcuni anni, sono state scoperte (L. Bàculo, 1997; L.
Meldolesi e V. Aniello, a cura di, 1998) realtà di piccole
imprese, in parte terziste ed in parte con propri marchi,
che rappresentavano più di un semplice ispessimento di
aziende localizzate in determinate aree. Spesso si tratta
di un insieme di aziende specializzate in determinate fasi o che producono semilavorati o servizi per le imprese
dell’industria principale. Le attività più frequentemente praticate sono quelle che rientrano nei prodotti del
Made in Italy, e cioè beni per la persona e per la casa4.
Tuttavia, nonostante una notevole vivacità che si può
percepire in queste zone, colpisce la ridotta visibilità di
questi sistemi locali. Indagini ulteriori hanno messo in
luce, in primo luogo, che la disattenzione da parte dell’opinione pubblica e dei politici era legata all’ideologia
sviluppista dell’intervento straordinario e al concetto di
modernizzazione5. In secondo luogo, che la scarsa visibilità di questi sistemi dipendeva dall’esistenza, accanto
ad imprese emerse, di una miriade di piccole imprese
semisommerse6. Quindi da una parte la scarsa visibilità
era subìta, dall’altra era cercata (Tagle, 1994).
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Nelle successive analisi ci si è posti l’obiettivo di raccogliere informazioni più precise relativamente alle cause
dell’immersione. L’elevata tassazione, l’incertezza nella
gestione fiscale, la numerosità delle leggi e la scarsa attenzione alla loro esecuzione, la rigidità delle norme del
mercato del lavoro, l’anticipata uscita dal lavoro regolare, sono tutte cause che puntualmente sono state riscontrate nelle indagini sul campo, trovando una conferma alle analisi svolte altrove ed esposte nei paragrafi
precedenti.
Il quadro che è emerso in diverse realtà della Campania, della Puglia e della Basilicata, regioni nelle quali sono state prevalentemente condotte le ricerche del gruppo7 di lavoro dell’Università di Napoli Federico II (Rivista di Politica Economica, 1998) è quello di piccoli imprenditori, spesso nati come terzisti per conto di committenti settentrionali e successivamente cresciuti sia
nella capacità produttiva che in quella commerciale.
I motivi dell’essere semisommersi sono legati oltre che
alla difficoltà di gestire le complesse norme sul lavoro e
quelle più generali che attengono alle attività produttive, anche ad un ambiente locale non ospitale, sia per la
difficoltà ad avere una licenza edilizia per i propri locali
o a potersi collocare in un’area industriale 8 (e quindi per
l’inefficienza o per la corruzione della pubblica amministrazione) sia per la difficoltà di reperire servizi adeguati sia infine per la presenza della criminalità organizzata. Non ultima è la disattenzione dei politici, per
molto tempo attratti più verso la promozione di grandi
opere che verso il potenziamento di queste realtà.
L’accentuata stagionalità di gran parte di queste attività, inoltre, mal si concilia con le norme contrattuali
vigenti sul lavoro, per questo vi è una diffusa presenza di lavoro irregolare che tuttavia ha anche altre cause. Una piuttosto frequente è quella di un lavoratore
titolare di un sussidio oppure con una posizione lavorativa dichiarata. In questo caso è lo stesso lavoratore
a non voler essere regolarizzato, non essendo conveniente, a fini fiscali, dichiarare un secondo lavoro,
mentre, nel caso del sussidio c’è invece la probabilità
di perderlo9. Più in generale, molti lavoratori, finché
c’era il collocamento, preferivano dichiararsi «disoccupati» per lasciarsi la possibilità di accedere ad un lavoro migliore.
Oltre a queste posizioni esiste un’ampia gamma di lavoro irregolare che va dai principianti, alla prima esperienza lavorativa, a coloro che hanno una competenza
riconosciuta e che accettano di non essere dichiarati per
diversi motivi, non ultimo quello di preferire un salario
più alto oggi rispetto ad una (incerta) pensione domani.
Nel caso di lavoratori specializzati, il salario è molto vicino a quello contrattuale e, nei momenti di punta, riesce anche a superarlo. Il motivo, in questo caso, a non
dichiarare il lavoratore risiede nella numerosità delle
norme e nella difficoltà a conciliare l’orario di lavoro con
quello richiesto dall’andamento della domanda.
Rispetto invece ai lavoratori alle prime armi, il salario è
spesso molto più basso di quello contrattuale. L’accettazione di questo contratto si spiega con la possibilità di apprendere un mestiere e di potersi successivamente emancipare, mettendosi in proprio. Questa mobilità sociale, che
è stata ampiamente segnalata nei distretti industriali del
Centro-Nord d’Italia, è presente in molti sistemi locali
meridionali e spiega il saldo positivo di formazione di nuove imprese che si registra da alcuni anni nel Mezzogiorno.
Naturalmente esistono anche situazioni di sfruttamento
di lavoratori meridionali e d’immigrati. Si tratta spesso
di laboratori sorti dall’oggi al domani, basati su bassi costi di produzione, bassissima qualità e scarsa competenza dello stesso imprenditore, nati sull’onda di un aumento imprevisto della domanda. Questi laboratori, i
cui titolari sono spesso in possesso di una partita IVA,
sono esposti alla concorrenza delle imprese dei paesi
meno sviluppati, dove i costi del lavoro sono ancora più
bassi. In questo caso la probabilità di sopravvivenza di
questi laboratori risiede nella capacità di apprendimento del mestiere e del modo di organizzare la produzione
da parte dell’imprenditore. All’interno quindi di questi
sistemi si genera un continuo movimento di nascita e di
morte di imprese: la concorrenza proviene dall’interno e
dall’esterno. I tentativi di puntare solo sul basso costo
del lavoro entrano così continuamente in crisi, indicando la via di un innalzamento della qualità.
In conclusione, la presenza di economia sommersa in
una società è un segno di malessere e non solo una manifestazione di scarsa percezione del bene collettivo.
Nel caso del Mezzogiorno, le vicende di questi ultimi
quaranta anni hanno creato una struttura economica
Liliana Bàculo
molto segmentata: da una parte ci sono imprese che sono riuscite, grazie a proprie capacità ma anche agli incentivi dell’intervento straordinario, a collocarsi nell’economia regolare, avendo appreso a competere anche
nei mercati esteri; vi sono poi delle imprese, nate prevalentemente su finanziamenti pubblici, le quali stanno
scomparendo, quando non lo sono già, sia perché il loro
settore di appartenenza è obsoleto (come ad esempio la
siderurgia di base) sia per loro debolezze intrinseche;
infine c’è una fascia di imprese che si collocano a metà
tra l’economia regolare e quella sommersa. In questa
zona i motivi dell’essere semisommersi sono molto vari,
come si è detto. Quel che conta è che si tratta di realtà
nelle quali esistono risorse già consolidate ed altre potenziali che, se valorizzate, potrebbero mutare l’immagine dell’economia meridionale. In molti casi questa situazione è legata a carenze del settore pubblico nel fornire servizi come aree industriali gestite in maniera efficiente o servizi immateriali, come la formazione. A
questo proposito, un ruolo importante svolto da queste
realtà è proprio quello di formare tanto nuovi imprenditori quanto lavoratori specializzati.
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Un cambiamento nel settore pubblico, nel senso di maggiore attenzione all’efficienza e all’efficacia e di contenimento della corruzione, potrebbe quindi avere una ricaduta importante nel rafforzamento di queste attività.
L’emersione di gran parte di queste imprese, oltre ad
avere un effetto sulle entrate dello Stato e quindi a
creare le condizioni per un generale alleggerimento del
peso fiscale, avrebbe anche il risultato di dare visibilità
alle capacità imprenditoriali e lavorative che si sono venute a creare e che in questo modo vedrebbero aumentare il senso d’identità.
L’emersione comporta anche che lo Stato riprenda il
controllo del territorio sconfiggendo la criminalità organizzata, la quale ha una presenza costante sulle imprese, taglieggiando gli imprenditori con il pizzo oppure
tramite l’usura.
Una politica che si ponga l’obiettivo dell’emersione si
trova quindi a dover affrontare alcuni nodi più generali
del nostro paese. Un tale compito rappresenta una sfida
allettante per dei politici che fossero interessati ad un
simile cambiamento. La speranza è che una sfida del genere venga raccolta.
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Un’analisi più dettagliata dei
vari metodi è contenuta in F. Schneider and D. Enste, IMF, 2000.
2 In questo caso i rapporti di
scambio sono con imprese semisommerse che possono vendere
parte della produzione per
quella parte del fatturato che
risulta denunciato. La parte restante viene venduta nel circuito dell’economia sommersa.
3 Alcuni studiosi hanno calcolato
che circa il 66% dei guadagni dell’economia sommersa sono spesi
nella parte emersa (cit. p. 27).
4 Come è noto il successo del
Made in Italy risiede anche nella particolare forma organizzativa, quella dei distretti industriali dove oltre alla produzione di beni finali c’è anche la produzione dei macchinari necessari per i prodotti finali. La vicinanza di questi diversi attori
della filiera permette di introdurre continue innovazioni di
processo e di prodotto e rendere competitivi queste realtà.
5 L’intervento straordinario messo in atto nel Mezzogiorno con la
costituzione della Cassa per il
1
Mezzogiorno, si ispirava all’idea
che fosse possibile promuovere
lo sviluppo economico immettendo, nelle zone meno sviluppate,
risorse finanziarie e imprenditorialità. In questo modo però non
si stimolavano le risorse locali a
crescere e si trasmetteva un
sentimento di dipendenza dalle
risorse esterne. Per di più si riteneva che solo l’impresa di
grandi dimensioni potesse promuovere lo sviluppo, perché in
grado di fare innovazione. I settori come l’abbigliamento ed il
calzaturiero venivano visti come
settori tradizionali, a basso contenuto d’innovazione. Il successo
del Made in Italy ha smentito
questa convinzione, mostrando
come sia possibile incorporare
innovazione anche in settori cosiddetti tradizionali.
6 Per avere un’idea di questo lavoro di ricerca, si vedano i due
fascicoli della «Rivista di Politica Economica», nn. VIII-IX e
X-XI, 1998.
7 Questo gruppo è coordinato
dal prof. L. Meldolesi e dalla
sottoscritta.
8 Le aree industriali o sono insufficienti oppure inesistenti oppure mal gestite. Per questo si veda L. Bàculo (a cura di), 1994.
9 A differenza di quanto si creda, ad esempio, la legge che ha
introdotto i Lavori socialmente
utili prevede che un lavoratore
che ha il sussidio possa svolgere
un altro lavoro purché non superi una determinata somma.
Da un’indagine presso alcuni lavoratori in tale condizione è
emerso che molti non conoscevano questa norma o la ritenevano non conveniente.
Bibliografia
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negli Stati Uniti: Stime e Im plicazioni, in «Banca Nazionale
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