la tutela dell`ambiente nell`antica roma

LA TUTELA DELL’AMBIENTE NELL’ANTICA ROMA
1. - Nel descrivere l’atto di fondazione della Città, Cicerone sottolinea come Romolo abbia posto
attenzione alla scelta di un luogo che, per le sue caratteristiche, dovesse assicurare oltre alla protezione dagli
attacchi dei nemici anche la salubritas per la popolazione che l’avrebbe abitata: “E chi mai è così superficiale da
non accorgersi di quanto la città fosse protetta da difese naturali? Per saggezza di Romolo e dei re che vennero
dopo di lui, un tracciato ininterrotto di mura la cingeva tutto intorno, delimitata da monti ardui e scoscesi…..il
luogo da lui prescelto era anche ricco di acque e salubre pur in mezzo ad una regione quanto mai malsana: i colli
sono infatti ventilati e arrecano ombra alle valli”1.
Questa testimonianza di Cicerone mostra come si riporti fino all’epoca più antica (circa alla metà
dell’VIII sec. a.C.) l’attenzione dei Romani per l’ambiente, anche se con l’accrescersi della città le condizioni si
modificarono notevolmente ed emersero problemi, che si tentò di risolvere, come vedremo, con una sinergia di
azioni che coinvolsero a diversi livelli le varie componenti della organizzazione statale2.
Con la dominazione etrusca, nell’arco di tempo che va dal 625 al 575 a.C., cominciò lo sviluppo
urbanistico di Roma, che portò alla trasformazione da un insieme di villaggi alla vera città-Stato3.
Si deve a Tarquinio il Superbo la costruzione di un complesso sistema fognario, sfociante nella Cloaca
Massima che trasportava le acque di spurgo dal Foro verso il Tevere, testimonianza ancora oggi apprezzata di
elevata sapienza ingegneristica4.
Del resto è proprio il testo giuridico più risalente, le XII tavole (451-450 a.C.), a mettere in luce
l’interesse, già nell’epoca arcaica, per un ordinato sviluppo della Città. Le prescrizioni, che sono minuziose,
tendono ad evitare l’insorgere di controversie tra vicini, ma anche a programmare il territorio in modo razionale,
richiamandosi a consuetudini antiche5. Secondo il dettato delle XII tavole, modellato sulle leggi di Solone6, se
qualcuno pianterà una siepe o farà qualche scavo lungo un terreno di un suo vicino, non potrà oltrepassare il
confine; se alzerà un muro, dovrà lasciare un piede di distanza; se edificherà una casa, due piedi; se scaverà un
sepolcro o una fossa, dovrà lasciare uno spazio uguale alla profondità; se un pozzo, lascerà la distanza di un
passo; se pianterà un olivo o un fico, dovrà tenere la distanza di nove piedi e di cinque piedi se pianterà altri
alberi7. Queste disposizioni probabilmente rispondono all’esigenza di un ordinato sviluppo edilizio, anche se delle
stesse sono state date spiegazioni diverse8. Certo è che nella Roma primitiva, quando la città era costituita da una
1
Cic. de re p. 2.6.11 Urbis autem ipsius nativa praesidia quis est tam neclegens qui non habeat animo notata planeque
cognita? Cuius is est tractus ductusque muri cum Romuli tum etiam reliquorum regum sapientia definitus ex omni parte
arduis praeruptisque montibus…..locumque delegit et fontibus abundantem et in regione pestilenti salubrem; colles
enim sunt, qui cum perflantur ipsi tum adferunt umbram vallibus.
2
Per la ricostruzione della morfologia originaria di Roma v. N. Terrenato, La morfologia originaria di Roma, in A.
Carandini, La nascita di Roma, Torino 1997, p. 587.
3
G. Franciosi, Persistenza della “gens” e del “nomen gentilicium”, in Ricerche sull’organizzazione gentilizia romana,
a cura di G. Franciosi, 1, Napoli 1984, pp. 9 e ss.
4
Liv. 1.56.2 Quam postquam et ad alia, ut specie minora, sic laboris aliquanto maioris traducebantur opera, foros in
circo faciendos cloacamque maximam, receptaculum omnium purgamentorum urbis, sub terra agendam; quibus
duobus operibus vix nova haec magnificentia quicquam adaequare potuit. Plin. n. h. 36.104-105 Sed tum senes aggeris
vastum spatium, substructiones Capitolii mirabantur, preterea cloacas, opus omnium dictu maximum, subfossis
montibus atque, ut paullo ante retulimus, urbe pensili subterque navigata M. Agrippae in aedilitate post consulatum.
Permaneant conrivati septem amnes cursuque praecipiti torrentium modo rapere atque auferre omnia coacti, insuper
imbrium mole concitati vada ac latera quantium, aliquando Tiberis retro infusus recipitur, pugnantque diversi aquarum
impetus intus, et tamen obnixia firmitas resistit. Sotto l’Aventino, nel luogo in cui la cloaca confluisce nel Tevere, è
ammirabile un bell’arco a tutto sesto a tre filari concentrici. V. A. Di Porto, La gestione dei rifiuti a Roma fra tarda
repubblica e primo impero. Linee di un “modello”, in Societas-ius, ‘Munuscula’ di allievi a Feliciano Serrao, Napoli
1999, p. 52.
5
A. Palma, Iura vicinitatis, Torino 1988, p. 57.
6
Sui rapporti tra le leggi greche e le XII Tavole, v. M. DUCOS, L’influence grecque sur la loi de Douze Tables, Paris
1978 e da ultimo A. Anna Bottiglieri, La legge delle XII tavole e le codificazioni greche, Sodalitas. Studi in onore di
Antonio Guarino, 4, Napoli 1984, pp. 2001 e ss.
7
D. 10.1.13 (Gai l. 4 ad legem duodecim tabularum) L. 437.
8
Fustel de Coulanges, La città antica (tr. it.), Firenze 19722, pp. 61e ss. ha sostenuto che l’ambitus rappresentava le
vestigia sacrali del focolare domestico, nel senso che avrebbe dovuto difendere il culto delle divinità domestiche,
evitando ogni contaminazione dall’esterno. Cfr. Humbert, s.v. Ambitus, D.S. 1.1, Paris 1877, 223 e ss.; B. Brugi,
L’ambitus e il paries communis nella storia e nel sistema del diritto romano, RISG 3 (1887), pp. 161 e ss. E pp. 363 e
ss., seguito da E. Cuq, Manuel des institutions juridiques des Romaines, Paris 1928, 246 ss. e L. Amirante, Una storia
1
serie di villaggi formati di piccole case o addiruttura capanne, non si evidenziarono, grazie proprio alle
disposizioni delle XII tavole sull’ambitus, all’uso di costruire case ad un solo piano, alla pratica di utilizzare
mediante raccolta le acque piovane9, i problemi ambientali che poi emersero negli ultimi due secoli della
repubblica e nel primo secolo del principato.
Una inversione di tendenza, rispetto all’ordinata espansione della Città, programmata anche
legislativamente, si ebbe nel IV secolo a.C., quando, dopo l’incendio gallico del 387, si avvertì la necessità di
ricostruire in fretta e in maniera speculativa. Livio narra che la ricostruzione della città fu fatta in modo
disordinato, con materiale che ognuno poteva prendere dove voleva, a patto che avesse portato a termine la
costruzione degli edifici entro l’anno. Nella fretta, i Romani non si presero cura di tracciare vie diritte, e senza
distinzione di proprietà si edificava sul terreno lasciato libero10. Col passare del tempo, incrementandosi il
numero di abitanti, la situazione andò peggiorando. Vi era l’esigenza di reperire nuovi spazi abitativi e per questo
motivo si ebbe la trasformazione della antica casa ad un solo piano in case a più piani11, dette insulae, che erano
per lo più destinate alla locazione12. Quindi la necessità di trovare spazio per le abitazioni portò alla desuetudine
delle antiche forme sulla distanza tra gli edifici, che, se pur mai formalmente abrogate, vennero in effetti spesso
disattese13.
2. - Si può datare a partire dalla seconda guerra punica la crescita della città, che portò all’emersione di
gravi problemi ambientali, aggravati dallo sviluppo di talune industrie inquinanti, a cui tentarono di porre rimedio
gli interventi del pretore prima, della giurisprudenza e dell’autorità imperiale poi.
Tra la fine del II secolo e la prima metà del I secolo a.C. il pretore pose i fondamenti normativi, sui quali
si innesterà il lavoro della giurisprudenza e in particolare di quei giuristi, come Labeone, che si mostrano attenti
alla tutela della salubritas14. L’attività del giureconsulto augusteo sembra volta ad incidere su molti aspetti del
fenomeno inquinamento e si presenta come espressione di un disegno volto alla tutela della salubritas, attraverso
giuridica di Roma, Napoli 1992, 68, che ha invece sostenuto che l’ambitus fosse una vera limitazione della proprietà al
fine di facilitare la circolazione e il passaggio dei vicini, evitare gli incendi a catena, consentire lo scolo delle acque.
9
G. Franciosi, Roma e Capua nell’antichità. Due diversi ambienti urbani, in Diritto e gestione dell’ambiente, I, Napoli
2003, p. 5.
10
Liv. 5.55.2-5 Promiscue urbs aedificari coepta. Tegula publice praebita est; saxi materiaeque caedendae unde
quisque vellet ius factum, praedibus acceptis eo anno aedificia perfecturos. Festinatio curam exemit vicos derigendi,
dum omisso sui alienique discrimine in vacuo aedificant. Ea est causa ut veteres cloacae, primo per publicum ductae,
nunc privata passim subeant tecta, formaque urbis sit occupatae magis quam divisae similis. Cfr. Tac. Ann. 15.43.1
Ceterum urbis quae domui supererant non, ut post Gallica incendia, nulla distinctione nec passim erecta. Analizza le
vicende della ricostruzione di Roma dopo l’incendio gallico F. Castagnoli, Topografia e urbanistica di Roma, Bologna
1958, pp. 8 e ss.
11
Vitruv. 2.8.17 In ea autem necessitate urbis et civium infinita frequentia innumerabiles habitationes opus est
explicare. Ergo cum recipere non posset area plana tantam multitudinem ad habitandum in urbe, ad auxilium
altitudinis aedificiorum res ipsa cepit devenire.
12
R. Calza, La preminenza dell’insula nell’edilizia romana, in Mal 23(1996) pp. 541 e ss., il quale sostiene che in età
repubblicana le case a più piani derivavano per lo più da sopraelevazioni di fabbricati preesistenti, a differenza delle
insulae di età imperiale, progettate proprio al fine di utilizzare la costruzione per l’alloggio di più famiglie, quasi
sempre a scopo speculativo. V. J. Carcopino, La vita quotidiana a Roma (tr. it.), Bari 1993, pp. 46 e ss., il quale
sottolinea che “l’insula non era provvista di acqua, dato che la conduzione dell’acqua a spese dello Stato era stata
concepita dai Romani come un servizio puramente pubblico, da cui l’interesse privato fu escluso fin dall’origine, e che
esso continuò a funzionare sotto l’impero ad usum populi, come dice Frontino, cioè a vantaggio della collettività e
senza riguardo all’interesse dei privati”.
13
Le disposizioni sull’ambitus furono ribadite in età imperiale. Tac. Ann. 15.43 ricorda il provvedimento di Nerone, il
quale per contenere il pericolo di incendi stabilì l’obbligo di lasciare libero un certo spazio tra gli edifici.
Successivamente gli imperatori Marco Aurelio e Lucio Vero sancirono nuovamente tale obbligo, come è attestato da D.
8.2.14 (Papir. Iust. l. 1 de constitutionibus) L. 1 Imperatores Antoninus et Verus Augusti rescripserunt in area, quae
nulli servitutem debet, posse dominum vel alium voluntate eius aedificare intermisso legitimo spatio a vicina insula.
14
Labeone nacque intorno al 45 a.C.. Figlio di un Pacuvio Labeone, anch’egli giurista, fu allievo di Trebazio Testa. Cfr.
F. Schulz, Storia della giurisprudenza romana (tr. it.), Firenze 1968, pp. 186 e ss. Sull’opera di Labeone è emblematico
il giudizio che ne dà Pomponio nell’Enchiridion, D.1.2.2.47, per il quale il giurista augusteo “per la natura dell’ingegno,
e la fiducia nel sapere, cominciò a innovare molte cose”. Su questo argomento, v. M. Bretone, Tecniche e ideologie dei
giuristi romani, Napoli 19822, pp. 127 e ss., pp. 236 e ss. e A. SchiavonE, Giuristi e nobili nella Roma repubblicana,
Roma-Bari 1987, XI. A. Di Porto, La tutela della “salubritas” fra editto e giurisprudenza. Il ruolo di Labeone, Milano
1990, pp. 3 e ss. Scettico, A. Guarino, Diritto privato romano, Napoli 1997, p. 750 nt. 65.6, il quale ritiene che “la
tutela della salubritas in generale fu certo implicata dagli interdetti in materia di acque e di fogne (e fu forse anche in
qualche modo intravvista da giuristi come Labeone ed altri), ma sembrano alquanto esili gli indizi, da taluno sostenuti,
di questo ecologismo avanti lettera degli antichi Romani”.
2
un continuo confronto con l’editto del pretore, come dimostra la circostanza che i frammenti sono tutti tratti dal
commentario labeoniano ad edictum15. Dalla lettura di questi frammenti, la dottrina ha enucleato due categorie di
creazioni pretorie16. Nella prima categoria rientrano gli interventi diretti specificamente alla tutela della salubritas:
l’interdetto pretorio de rivis purgandis (e reficiendis), l’interdetto proibitorio de fonte purgando (e reficiendo), gli interdetti
de cloacis e la clausola de cloacis hoc interdictum non dabo. Appartengono alla seconda categoria importanti creazioni
pretorie che non sono nate allo scopo di tutelare la salubritas, ma costituiscono la base normativa su cui si innesta
l’opera di Labeone, traendone le soluzioni ai diversi problemi di tutela della salubritas: l’interdetto quod vi aut clam,
gli interdetti de aqua cottidiana e de aqua aestiva, gli interdetti de fluminibus publicis, gli interdetti de locis et itineribus
publicis, in particolare quello ne quid in loco publico facias inve eum locum immittas…, e quello in via publica itinereve publico
facere immittere quid, quo ea via idve iter deterior sit fiat, veto, con il suo corrispondente restitutorio.
L’interdetto de rivis purgandis (e reficiendis) tutela l’attività volta a ripulire o a riattare canali, condotte
d’acqua e cateratte, vietando di impedire questa attività a chi abbia derivato, anche a prescindere dall’esistenza
della servitù, purché nec vi nec clam nec precario rispetto all’altro, l’acqua nella precedente estate o nell’anno
precedente17. L’altro interdetto, de fonte purgando, presenta uno schema formulare analogo e vieta che si impedisca
la medesima attività per i fontes18.
Gli interdetti de cloacis sono volti ad assicurare il buon funzionamento delle cloache e Ulpiano, giurista del
III sec. d.C., ne tramanda il testo. Uno è un interdetto proibitorio, diretto a tutelare la pulizia e la riparazione
delle cloache private19; l’altro è un interdetto restitutorio per la riduzione in pristino di ciò che sia stato fatto o
immesso nella cloaca pubblica sì da deteriorarne l’uso20. Il pretore tutela l’attività di riparazione e di pulizia delle
fogne, essenziale per la salubrità della città e la buona conservazione degli edifici, preservando l’iniziativa del
vicinus che entra nella proprietà del finitimo e apporta delle modifiche, purché non provochi danni permanenti21.
Va considerata anche la clausola de cloacis hoc interdictum non dabo dell’interdetto uti possidetis22, che nega l’uti possidetis
contro il soggetto che svolga attività di pulizia e di ripristino della cloaca, in alieno.
15
O. Lenel, Palingenesia iuris civilis I, Lipsia 1889-Roma 2000; Labeo 151, 153, 163, 166, 167, 171. Sul commentario
ad edictum di Labeone e sulle sue fonti, v. F. Schulz, Storia della giurisprudenza romana, cit., pp. 337 e ss. e A.
Schiavone, Giuristi e nobili, cit., pp. 155 e ss.
16
A. Di Porto, La tutela della “salubritas”, cit., p. 144.
17
D. 43.21.1 pr. (Ulp. l. 70 ad ed.) L. 1578 Praetor ait: “Rivos specus saepta reficere purgare aquae ducendae causa
quo minus liceat illi, dum ne aliter aquam ducat, quam uti priore aestate non vi non clam non praecario a te duxit, vim
fieri veto”.
18
D. 43.22.1.6 (Ulp. l. 70 ad ed.) L. 1587 Deinde ait praetor: “Quo minus fontem, quo de agitur, purges reficias, ut
aquam coercere utique ea possis, dum ne aliter utaris, atque uti hoc anno non vi non clam non precario ab illo usus es,
vim fieri veto”. Cfr. A. Biscardi, s.v. Interdictum de rivis, in NNDI 8, Torino 1962, pp. 803 e ss.
19
D. 43.23.1 pr. (Ulp. l. 71 ad ed.) L. 1588 Praetor ait: “Quo minus illi cloacam quae ex aedibus eius in tuas pertinet,
qua de agitur, purgare reficere liceat, vim fieri veto. damni infecti, quod operis vitio factum sit, caveri iubebo”. Nei
paragrafi 4 e 5 Ulpiano tratta diffusamente dell’ambito di applicazione dell’interdetto proibitorio: viene fatto divieto al
vicino di vim facere per impedire la refectio della cloaca, definita locus cavus (collettore) nel quale confluiscono le
acque luride della casa: D. 43.23.1.4-5 (Ulp. l. 71 ad ed.) L. 1588-1589 Cloaca autem est locus cavus, per quem
colluvies quaedam fluat. Hoc interdictum, quod primum proponitur, prohibitorium est, quo prohibetur vicinus vim
facere, quo minus cloaca purgetur et reficiatur.
20
D. 43.23.1.15 (Ulp. l. 71 ad ed.) L. 1590 Deinde ait praetor: “Quod in cloaca publica factum sive ea immissum
habes, quo usus eius deterior sit fiat, restituas. item ne quid fiat immittaturve, interdicam”. Hoc interdictum ad publicas
cloacas pertinet, ne quid ad cloacam immittas neve facias, quo usus deterior sit neve fiat. A. Di Porto, La tutela della
“salubritas”, cit., p. 119, ritiene “verosimile l’esistenza di altri due interdetti, uno restitutorio, in materia di cloache
private, con formula forse simile al restitutorio de cloacis publicis; e uno proibitorio de cloacis publicis di contenuto
corrispondente (mutatis mutandis) al restitutorio previsto in D. 43.23.1.15”.
21
D. 43.23.1.10-14 (Ulp. l. 71 ad ed.) L. 1589 Quod ait praetor ‘pertinet’ hoc significat, quod ex aedibus eius in tuas
pertinet, hoc ‘derigitur, extenditur, pervenit’. Et tam ad proximum vicinum hoc interdictum pertinet quam adversus
ulteriores, per quorum aedes cloaca currit. Unde Fabius Mela scibit competere hoc interdictum, ut in vicini aedes
veniat et rescindat pavimenta purgandae cloacae gratia. verendum tamen esse Pomponius scribit, ne eo casu damni
infecti stipulatio committatur. sed haec stipulatio non committitur, si paratus sit restaurare id, quod ex necessitate
reficiendae cloacae causa resciderat. Si quis purganti mihi cloacam vel reficienti opus novum nuntiaverit, rectissime
dicetur contempta nuntiatione me posse reficere id quod institueram. Sed et damni infecti cautionem pollicetur, si quid
operis vitio factum est: nam sicuti reficere cloacas et purgare permittendum fuit, ita dicendum, ne damnum aedibus
alienis detur. Da questo emerge anche che il restauratore della cloaca non può essere fermato nella sua azione
dall’eventuale nuntiatio che altri gli abbia rivolto. La pubblica autorità prevaleva sull’interesse del singolo. A tal
proposito, v. A. Palma, Iura vicinitatis, cit., pp. 144 e ss., F. Fasolino, Interessi della collettività e dei vicini nell’“operis
novi nuntiatio”, Labeo 45 (1999), pp. 44 e ss.
22
D. 43.17.1 pr. (Ulp. l. 69 ad ed.) L. 1536.
3
L’interdictum quod vi aut clam era dato contro chi avesse già compiuto opere illecite di nascosto o
restistendo a un precedente invito a desistere23. L’ interdetto de aqua cottidiana proibiva di impedire con la violenza
la deduzione di acqua dal fondo servente a chi da almeno un anno la deducesse di fatto. L’interdetto de aqua
aestiva poneva la stessa proibizione e allo stesso modo a favore di chi deducesse di fatto acqua per la stagione
estiva dal fondo servente e lo avesse già fatto almeno nell’estate precedente. Gli intedetti de fluminibus publicis
erano per lo più tesi alla tutela della navigazione fluviale, ma non mancavano accenni alla proibizione di quelle
opere che, in un modo o nell’altro, producevano in senso lato l’inquinamento del fiume24. Gli interdetti de locis et
itineribus publicis erano utilizzati nel caso che taluno facesse sboccare in una via pubblica una cloaca25.
Si deve sottolineare che Labeone, attraverso una interpretazione della formula edittale dell’interdetto quod
vi aut clam, perviene ad applicarla ad ogni forma di inquinamento del patrimonio idrico del fondo ed estende gli
interdetti de aqua cottidiana e de aqua aestiva, utilizzando i mezzi pretori per proibire a chiunque di compiere opere
dannose per l’acquedotto: scavare, piantare, abbattere o potare alberi, costruire vicino ad un corso d’acqua e
compiere qualsiasi attività che porti ad inquinare, alterare, guastare, deteriorare l’acqua26.
3. - Per i Romani, uno dei problemi più pressanti fu quello dell’asetticità dell’approvvigionamento idrico,
che si tentò di risolvere già in età risalente, attraverso la costruzione di grandiosi acquedotti27, i quali,
trasportando l’acqua in posizione sopraelevata, la preservassero da possibili inquinamenti. Nonostante la alta (per
quei tempi) tecnica ingegneristica, era sempre possibile che si verificasse qualche problema, dovuto sia a cause
naturali, che a opera dell’uomo, per la soluzione del quale sono documentati diversi interventi pretorii e
interpretazioni della giurisprudenza28. Che la questione fosse annosa è attestato anche dall’emanazione nel 9 a.C.
della lex Quinctia de aquaeductibus, che riassumeva le norme relative alla tutela degli acquedotti e stabiliva pene
pecuniarie per chi li danneggiasse29.
La giurisprudenza intervenne a disciplinare anche i casi di inquinamento derivante da sostanze di risulta
prodotte da industrie particolarmente dannose per la salubrità dell’ambiente. Secondo Ulpiano, la maggior parte
dei giureconsulti precedenti (e tra essi sicuramente oltre Trebazio Testa, anche Labeone) riteneva che potesse
essere impedita l’immissione di acque sporche, defluenti dagli impianti di fullonicae, attraverso interdetti30: con
l’interdetto quod vi aut clam o mediante l’actio negatoria nel caso che l’acqua sporca fosse acqua di fonte, o con l’actio
aquae pluviae arcendae e l’interdetto quod vi aut clam nel caso che l’acqua sporca fosse acqua pluviale, da sola o mista
ad altra acqua31.
Da tutte queste testimonianze, si desume che la questione della salubritas fosse presente all’autorità statale
e ai giuristi, tra i quali alcuni, in particolare Labeone, si mostrano particolarmente attenti a questo problema. Ciò
23
A. Guarino, Diritto privato romano, cit., p. 691.
D. 43.13.1 pr. (Ulp. l. 68 ad ed.) L. 1516 Ait praetor: “In flumine publico inve ripa eius facere aut in id flumen
ripamve eius immittere, quo aliter aqua fluat, quam priore aestate fluxit, veto”. V. anche D. 43.13.1.1-13 (Ulp. l. 68 ad
ed.), nel quale vengono precisati in maniera analitica i termini della questione.
25
D. 43.8.2.26 (Ulp. l. 68 ad ed. ) L. 1499 Si quis cloacam in viam publicam immitteret exque ea re minus habilis via
per cloacam fiat, teneri eum Labeo scribit: immisisse enim eum videri.
26
D.43.20.1.27 (Ulp. l. 70 ad ed.) L. 1572 Labeo putat per hoc interdictum prohiberi quem, ne quid in illo fundo faciat
fodiat serat succidat putet aedificet, quare ex re ea aqua, quam ille hoc anno per fundum tuum sine vitio duxit,
inquinetur vitietur corrumpatur deteriorve fiat: et similiter de aestiva aqua debere interdici ait. Cfr. D. 43.24.11 pr.
(Ulp. 71 ad ed.) L. 1586 Is qui in puteum vicini aliquid effuderit, ut hoc facto aquam corrumperet, ait Labeo interdicto
quod vi aut clam eum teneri: portio enim agri videtur aqua viva, quemadmodum si quid operis in aqua fecisset . Il
frammento è stato molto studiato dalla dottrina romanistica soprattutto in relazione al tema dei requisiti delle servitù
consistenti in un uso dell’acqua. V. L. Capogrossi Colognesi, Ricerche sulla struttura delle servitù d’acqua in diritto
romano, Milano 1966, p. 12 con ampia bibliografia. Cfr. anche A. Di Porto, La tutela della salubritas, cit., pp. 53 e ss.
27
Tracce archeologiche notevoli ancora oggi mostrano la grandiosità di queste opere. Basti ricordare l’acquedotto
voluto da Appio Claudio il Cieco nel 312 a.C. V. Cic. pro Cael. 14.34, Liv. 9.29.6-9, Diod. 20.36.1, Eutr. 2.9.3, D.
1.2.2.36 (Pomp. sing. ench.) L. 178. Cfr. A. Bottiglieri, I giuristi arcaici: Appius Claudius c.f. Caecus, in Ius Antiquum
2 (2000), 64.
28
Solo a partire dall’età augustea è attestata la figura del curator aquarum: Front. de aquae d. 98, 99.41, 102.2. V. A.
Palma, Le ‘curae’ pubbliche. Studi sulle strutture amministrative romane, Napoli 19912, pp. 196 e ss.; G. Franciosi,
Regime delle acque e paesaggio in età repubblicana, in “Uomo acqua e paesaggio”. (Atti del Convegno, Napoli 1997),
16.
29
La legge è ricordata da Front. de aquae d. 129. Cfr. Fira 1 (1941), pp.152 e ss., G. Rotondi, Leges publicae populi
Romani, Milano 1962, 453, A. Di Porto, La tutela della salubritas, cit., p. 55 nt. 171 con ampia bibliografia.
30
D. 39.3.3 pr. (Ulp. l. 53 ad ed.) Apud Trebatium relatum est eum, in cuius fundo aqua oritur, fullonicas circa fontem
instituisse et ex his aquam in fundum vicini immittere coepisse: ait ergo non teneri eum aquae pluviae arcendae
actione. si tamen aquam conrivat vel si spurcam quis immittat, posse eum impediri plerisque placuit.
31
A. Di Porto, La tutela della salubritas, cit., p. 146.
24
4
nonostante si è ben lontani dall’affermare che vi fosse in quell’epoca una coscienza fortemente tesa verso la
problematica della tutela ambientale. Certamente per l’epoca imperiale sono documentati numerosi interventi
diretti a migliorare la situazione. Augusto, grazie all’impegno di Agrippa, portò a termine l’opera di bonifica della
regione paludosa del Campo di Marte. Fu prosciugata la Palus Capreae, fu risistemato lo stagno di Agrippa, venne
effettuato lo scavo dell’Euripus, che smaltiva le piene del Tevere, vennero costruite nuove terme, vennero
incanalate le acque di scolo e furono bonificate quelle zone in cui si accumlulavano rifiuti che rendevano
irrespirabile l’aria. Nonostante queste migliorie, la situazione a Roma non doveva essere idilliaca, se Seneca
motiva la sua partenza dalla Città con la necessità di respirare aria pulita, giacché le sue condizioni di salute erano
rese precarie dall’atmosfera malsana e “dall’odore di cucine fumanti, che messe in moto diffondono con la
polvere tutte le esalazioni pestilenziali che hanno assorbito”32. L’opera di bonifica e risanamento ambientale fu
ripresa e migliorata durante il principato di Nerva. Nel trattato sugli acquedotti, Frontino scrive: “questa Città
eterna, cui nulla si avvicina e che a nulla può essere paragonata, fu ancora più bella dopo quanto Nerva fece per
garantirne la salubrità, aumentando il numero dei castelli d’acqua, delle fontane, delle acque destinate ad uso
pubblico, a fontane ornamentali e anche ai cittadini che traggono vantaggi da tali opere, sparse ovunque. Già tutti
godiamo per la maggiore pulizia, per l’aria pura e sono scomparsi gli odori malsani, che al tempo dei nostri padri,
rendevano irrespirabile l’aria della Città”33.
4. – Nel corso dell’età imperiale a Roma l’acqua era abbondante e ciò è testimoniato dalla presenza di
numerose fontane, castelli d’acqua e ninfei che rendevano tutta la città “risuonante di acque dolcemente
mormoranti34. Ma nonostante questa abbondanza, non era prevista per i privati cittadini una regolare
distribuzione a domicilio. Le case romane, tranne poche eccezioni, non ricevevano acqua corrente, malgrado i
numerosi acquedotti che portavano in città l’acqua dagli Appennini. Solo con l’inagurazione nel 109 d. C.
dell’acquedotto Traiano l’acqua corrente fu portata nei quartieri sulla riva destra del Tevere, che fino ad allora
avevavo usufruito solo di quella dei pozzi. Ma anche sulla riva sinistra l’acqua corrente non era data a tutti.
L’imperatore concedeva, dietro il pagamento di un canone, a titolo strettamente personale, che alcuni privati
derivassero l’acqua dai castella dei suoi acquedotti, ma tali concessioni onerose erano revocabili e strettamente
personali, tanto che venivano soppresse dall’amministrazione la sera stessa della morte del concessionario35. La
maggior parte delle abitazioni, tranne quelle del pianterreno, non era servita dall’acqua degli acquedotti36 e non
possedeva un sistema di scarico delle acque luride nelle fogne. La cloaca massima serviva solo a raccogliere e a
trasportare nel Tevere i rifiuti della città, lo scolo dei pianterreni e quello delle latrine pubbliche direttamente
inserite nel suo percorso37.
Dal quadro tracciato, emerge da un lato una condizione di vita dei Romani abbastanza primitiva,
dall’altro si intravedono alcuni tentativi di soluzione delle questioni connesse alla tutela ambientale. Se il pretore
prima, e i giuristi poi, si sono preoccupati di allestire un sistema di tutela della salubrità dell’ambiente, vuol dire
che questo problema era avvertito, anche se i rimedi adottati non sempre riuscirono a risolverlo.
Anna Bottiglieri
Docente della facoltà di Giurisprudenza
dell’Università degli studi di Salerno
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Sen. ad Lucil. 17-18.104.6 Quaeris ergo quomodo mihi consilium profectionis cesserit? Ut primum gravitatem urbis
excessi et illum odorem culinarum fumantium quae motae quidquid pestiferi vaporis sorbuerunt cum pulvere effundunt,
protinus mutatam valetudinem sensi. V. anche la testimonianza di Orazio, Carm. 3. 29.9.12, che invita Mecenate ad
abbandonare la sua ricchezza opprimente e il suo palazzo, che tocca le alte nubi, e a cessare di ammirare il fumo e le
ricchezze e il fracasso di Roma: Fastidiosam deserere copiam et / molem propinquam nubibus arduis; / omitte mirari
beatae / fumum et opes strepitumque Romae.
33
Front. de aquae d. 88. Su questi temi, v. L. HOMO, Roma imperiale e l’urbanesimo nell’antichità (tr. it.), Milano
1976, p. 374.
34
Prop. Eleg. 2.32.15. Nel IV secolo d.C. ne sono catalogate 1352: L. Homo, Roma imperiale e l’urbanesimo
nell’antichità, cit., p. 401, che ricorda alcune fontane particolarmente decorative, come quella di Giugurta nel Foro e
quella monumentale che adornava il Comitium.
35
J. Carcopino, La vita quotidiana a Roma, cit., pp. 48 e ss.
36
Questo è dimostrato, oltre che dagli esiti degli scavi archeologici, dal fatto che Paolo raccomandava al prefetto dei
vigili di ricordare ai locatari l’obbligo di tenere sempre pronta nei loro appartamenti l’acqua sufficiente a spegnere un
eventuale incendio. D. 1.15.3.3-4 (Paul. l. sing. de officio praefecti vigilum) L. 1056 Sciendum est autem praefectum
vigilumper totam noctem vigilare debere et coerrare calciatum cum hamis et dolabris, ut curam adhibeant omnes
inquilinos admonere, ne negligentia aliqua incendii casus oriatur. Per un’attenta analisi delle risultanze archeologiche
su questo tema, V. J. Carcopino, La vita quotidiana a Roma, cit., pp. 51 e ss.
37
J. Carcopino, La vita quotidiana a Roma, cit., pp. 50 e ss.
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