Carlo Marchini – Euclide incatenato
Euclide incatenato
Carlo Marchini
Nei corsi di laurea in Matematica, sotto vario nome, sono presenti
i cosiddetti ‘Spazi Euclidei’.
Una definizione abbastanza diffusa sui testi attuali di Geometria è
la seguente:
Sia V uno spazio vettoriale su
. Si dice che V è uno spazio vettoriale euclideo se su V è assegnata
una moltiplicazione scalare, vale a dire una forma bilineare simmetrica definita positiva. Tale
moltiplicazione scalare è denotata con il simbolo •.
Sia A uno spazio affine reale associato ad uno spazio vettoriale V. Si dice che A è uno spazio
euclideo se V è uno spazio vettoriale euclideo.
Per molti studenti e futuri insegnanti questa è l’unica definizione in cui compare esplicitamente il
termine euclideo. Forse hanno sentito parlare nella scuola pre-universitaria di qualcosa di euclideo e
spesso tale termine non è usato in modo storicamente corretto.
Dell’uomo Euclide è noto assai poco, tanto da fare nascere una cosiddetta ‘questione euclidea’ al
pari della ‘questione omerica’. Di questi grandi, Omero ed Euclide, non è completamente chiaro se
siano
esistiti
come
persone
fisiche
o
se
siano,
rispettivamente, nomi che indicano un movimento culturale
che ha prodotto le opere che si attribuiscono loro. Sui testi
di storia si afferma che Euclide è attivo attorno al 300 a.C.,
probabilmente ad Alessandria d’Egitto, allora una delle città
con la maggiore densità di cultura del bacino del
mediterraneo.
L’immagine a fianco è opera medievale ed in essa un
accenno di prospettiva. La presenza di un’edicola decorata
sontuosamente, sorretta da colonne di marmo colorato dice
che è un personaggio importante. Deve essere caldo, perché
Euclide è seminudo all’ombra. E’ seduto su un sedile
sorretto da Sfingi, animali per antonomasia legati ad enigmi. Il corpo è in posizione di riposo, il
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Carlo Marchini – Euclide incatenato
volume chiuso nella mano sinistra, ma il movimento delle dita della mano destra, mano potrebbe
indicare un solido o un conteggio, coglie il pensiero nel suo farsi. E’ rappresentato, quindi, con i
connotati iconografici del filosofo. Interessante il fatto che non tocchi il suolo.
Anche Raffaello Sanzio, nelle Stanze Vaticane, coglie quest’attimo in cui il movimento delle mani
rivela il pensiero. Nel grande affresco, Raffaello rappresenta Euclide con le fattezze di Donato
Bramante, chino su una lavagna mentre traccia un disegno con un compasso suscitando l’attenzione
di giovani discepoli, variamente identificati dalla critica artistica.
Gli Elementi di Euclide sono sicuramente uno dei testi che hanno influenzato, per almeno due
millenni, la scienza e la cultura occidentali.
Severino Boezio, il segretario di Teodorico, filosofo, autore del progetto di
riforma ‘universitaria’ più longevo della storia (un millennio e più) pone la
Geometria tra le scienze del Quadrivio, gli studi superiori per le arti liberali.
Ma torniamo al testo di Euclide. Chi volesse avere un contatto diretto con l’opera
dell’antico Geometra ha la possibilità di consultare la traduzione di Maccioni e
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Severino Boezio
(480 - 524)
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Frajese, pubblicata dalla UTET. Anche in rete internet sono presenti diversi siti che forniscono il
testo di Euclide. Ad esempio
www.liberliber.it/.../euclides/euclide_megarense_acutissimo_philosopho_solo_introduttor_etc/pdf/euclid_p.pdf
presenta la traduzione di Niccolò Fontana (detto Tartaglia) degli Elementi, la prima in lingua
volgare. La stessa traduzione si trova anche ‘a rate’ al sito
http://it.wikibooks.org/wiki/Categoria:Elementi_di_Euclide
In inglese si trova
http://aleph0.clarku.edu/~djoyce/java/elements/elements.html
Chi avesse voglia di confrontarsi con un testo più ‘originale’ può cercare la versione pubblicata da
Teubner a partire negli anni 1883 - 1886 dal grande storico danese Johann Ludwig Heiberg (18541928). Il testo frutto di controllo incrociato sui vari manoscritti conosciuti dell’opera di Euclide, è
bilingue: greco e latino. In realtà non sono uno la traduzione letterale dell’altro, ed infatti in alcuni
punti essi non concordano. Un esempio di questa ‘dissonanza’ si ha già nella Def. I.1 che afferma:
«Punto è ciò che non ha parti»,
traduzione del latino
«Punctum est, cuius pars nulla est»
che dovrebbe essere traduzione dal greco di
«
,
ϑ »
(diacritici a parte).
E’ sicuramente questa la più celebre e discussa definizione degli Elementi. Essa è interpretata
variamente. Intanto la traduzione latina, da cui quell’italiana, parla di punto, quella greca no, perché
la parola greca per punto è altra. Il termine usato da Euclide è forse traducibile più correttamente
con ‘segno’. In questa accezione il punto coinciderebbe con le sue rappresentazioni grafiche.
Dal punto di vista della moderna analisi delle definizioni, questa non è una definizione, o almeno
non è mai utilizzata nel testo euclideo.
Per alcuni commentatori, la caratteristica di non avere parti potrebbe essere desunta da Aristotele (o
da Eudosso), giacché pensare le figure geometriche composte di punti visti come indivisibili, atomi
(Democrito) o monadi (Pitagora), introdurrebbero nel finito dell’esperienza (meglio il limitato o il
compatto), l’infinito in atto dell’insieme dei punti che li costituiscono.
Un esempio è dato dalla biezione tra due segmenti qualunque, che può
essere realizzata considerando in un triangolo i segmenti che uniscono
un vertice col lato opposto tra i quali sia frapposto un segmento
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parallelo al lato. Se il lato fosse un insieme finito di punti, lo stesso numero di punti sarebbe proprio
del segmento parallelo e dunque l’estensione dei due segmenti dovrebbe essere la stessa (ammesso
che l’estensione del segmento sia rappresentata o connessa col ‘numero’ (in termini più moderni, la
cardinalità dell’insieme) di punti presenti in esso, concezione che ha portato alla crisi degli
incommensurabili). Ciò può essere evitato considerando che i punti presenti nel lato sono infiniti,
ma ciò introdurrebbe l’infinito in atto.
L’idea che un segmento (una retta) sia un insieme infinito di punti è oggi molto diffusa sui libri di
testo (di scuola e di università). Essa però è fortemente criticata già da Aristotele. Vale la pena di
riportare cosa scrive il filosofo a proposito di ciò. In Fisica V, 3 afferma:
«Dopo ciò è necessario dire che cosa significa essere insieme, essere separati, che cosa vuol
dire essere in contatto, intermedio, consecutivo, contiguo, continuo, ed a quali tipi di enti
ciascuna di queste qualità si addice in modo naturale.
Simultaneità. Si dicono insieme in relazione al luogo tutte quelle cose che sono direttamente
contenute in un solo luogo, separate quelle cose che sono in un luogo diverso.
Contatto. Sono in contatto le cose le cui estremità sono insieme.
Intermedio. È ciò verso cui l’oggetto cangiante in modo continuo giunge per natura prima
che giunga all’estremità quale tende il mutamento che si attua secondo natura in modo
Aristotele
continuo. L’intermedio presuppone almeno tre cose: da una parte, in effetti, il contrario è
(384 - 322 a.C.)
un’estremità del mutamento, dall’altra, si muove con continuità ciò che non lascia nessun
intervallo nella cosa, o ne lascia pochissimo: non nel tempo (infatti nulla vieta che vi siano interruzione e che subito
dopo la corda bassa risuoni la corda più alta della lira), ma nella cosa in cui si muove. Questo è evidente sia nei
mutamenti secondo il luogo che negli altri. D’altra parte, contrario secondo un luogo è ciò che dista di più in linea retta;
infatti la linea più breve è determinata, e il determinato è misura.
Consecutività. E’ consecutivo ciò che, essendo dopo l’inizio, determinato così o per posizione o forma o per
qualcos’altro, non ha alcun intermedio del suo stesso genere tra se stesso e quello di cui è consecutivo (intendo, per
esempio, una linea o delle linee consecutive a una linea, oppure un’unità o più unità dopo l’unità, oppure una casa dopo
una casa, ma nulla impedisce che vi sia in mezzo una cosa d’altro genere). In effetti, ciò che è consecutivo è
consecutivo a qualcosa ed è qualcosa che viene dopo; ché non l’uno è consecutivo al due, né il primo giorno del mese è
consecutivo al secondo, ma questo lo è a quello.
Contiguità. Contiguo è ciò che, oltre a essere consecutivo, è anche in contatto. Poiché ogni mutamento ha luogo tra gli
opposti, e gli opposti sono o i contrari o i contraddittori, e nella contraddizione non c’è nulla di intermedio, è chiaro che
fra i contrari ci sarà l’intermedio.
Continuità. Il continuo è una determinazione particolare del contiguo, ed io dico che c’è continuità quando i limiti di
due cose, mediante i quali l’una e l’altra si toccano, diventano uno solo e medesimo, come dice la parola stessa, si
tengono insieme. Questo però, non può verificarsi quando gli estremi sono due. Tenendo conto di questa precisazione,
risulta chiaro che il continuo è in quelle cose da cui per natura vien fuori qualcosa di unico quando esse sono in
contatto. E una volta che si attui l’unione di ciò che anche l’intero sarà allo stesso modo uno, come avviene, ad esempio,
nell’inchiodamento, nell’incollamento, nella giuntura, nella commessura»
In Fisica, VI, 1 Aristotele tratta della linea:
«La linea non è composta d’indivisibili. Se la continuità, il contatto e la consecutività obbediscono alle definizioni
che abbiamo dato precedentemente, e se continue sono le cose le cui estremità sono una cosa sola, e sono in contatto
quelle le cui estremità sono insieme, e consecutive quelle in mezzo a cui non c’è nulla di affine, è impossibile che un
continuo risulti composto da indivisibili, ad esempio che una linea risulti composta da punti, se è vero che la linea è un
continuo e il punto è un’indivisibile. Non si può dire, infatti, che le estremità dei punti facciano una cosa sola, perché
l’indivisibile non ha estremità, che sarebbero distinte da altre parti; né che le estremità siano insieme, poiché non vi è
nulla in una cosa senza parti che sia un’estremità, dal momento che l’estremità è distinta da ciò di cui è l’estremità.
Inoltre, occorrerebbe che i punti di cui sarebbe costituito il continuo fossero o in continuità o in contatto reciproco, e
quanto al contatto, occorre che si realizzi o fra intero e intero, o fra parte e parte, o fra parte e intero; ma essendo
l’indivisibile senza parti, il contatto avverrà fra l’intero con l’intero; ma un intero che è in contatto con un intero non
sarà un continuo, poiché il continuo ha parti estranee le une alle altre e si divide in parti che si distinguono in questo
modo, cioè sono separate in quanto a luogo.
Ma neppure saranno consecutivi il punto al punto o l’istante all’istante, in modo che questi possano produrre la
lunghezza o il tempo: consecutive sono infatti quelle cose in mezzo a cui non c’è nulla; invece in mezzo ai punti c’è
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sempre una linea e in mezzo agli istanti c’è sempre un tempo. Inoltre, il continuo sarebbe divisibile in indivisibili, se è
vero che ciascuna delle due cose si divide in quelle parti di cui essa risulta composta, ma in realtà, nessun continuo è
divisibile in cose prive di parti.
D’altra parte, non è possibile che fra i punti e gli istanti vi sia alcun intermediario di genere diverso: un tale
intermediario infatti sarà evidentemente, se esiste, o indivisibile o divisibile, e se è divisibile, lo sarà o in indivisibili o
in parti sempre divisibili; ora, questo è il continuo. Ma è chiaro che ogni continuo è divisibile in parti che siano sempre
divisibili, giacché, se fosse divisibile in parti indivisibili, si verificherebbe un contatto di un indivisibile con un
indivisibile; infatti nei continui l’estremità è unica, e perciò esiste anche il contatto. »
Euclide ha il problema di definire la linea retta in modo che non ricada nella critica aristotelica, ma
che abbi connotati geometrici che permettano di utilizzare il concetto di linea così come hanno fatto
i geometri che lo hanno preceduto e quelli che lo seguiranno.
La soluzione al problema non è data dalle
Def. I.2: «Linea è lunghezza senza larghezza»;
Def. I.3: «Estremi di una linea sono punti»,
Def. I.4: « La linea retta è quella che giace ugualmente rispetto ai punti su di essa ».
Di queste la Def. I.3 è impiegata negli Elementi, in modo ‘implicito’, in base alla interpretazione del
termine data da Mario Pieri, nel
Post. I.1: «Risulti postulato: che si possa condurre una linea retta da un qualsiasi punto ad ogni altro punto.»
Di qui si scopre che su una retta ci sono almeno due punti.
La costruzione del punto medio di due punti assegnati permette di determinare un terzo punto
distinto dai due assegnati. Osservazione: il punto medio appare esplicitamente nel Corollario alla
Prop. III.1 nel testo greco, ma non altrettanto esplicitamente nel corrispondente testo latino.
La costruzione del punto medio è iterabile a piacere, un’infinità potenziale di volte, ma il processo
di suddivisione a metà, sicuramente non esaurisce la totalità dei punti ‘costruibili’ del segmento
dato. Con altre costruzioni legate alla similitudine è possibile individuare altri punti sul segmento,
per ogni numero naturale in insieme finito avente come cardinalità quella data dal numero naturale.
Come si determinano questi punti?
La risposta ‘classica’ è che si determinano con costruzioni ‘lecite’ nell’ambito della Geometria di
Euclide.
Ciò sposta l’attenzione sul tipo di costruzioni permesse e su quelle non consentite. Gli studiosi
greci, imbevuti di mondo ideale hanno introdotto gli strumenti a loro consoni: la riga non graduata e
il compasso ‘molle’ o richiudibile, un compasso ben diverso dalle realizzazioni meccaniche che
conosciamo: col compasso ‘molle’ non è possibile disegnare una circonferenza, ma solo individuare
gli eventuali punti di intersezione di una retta e di una circonferenza di assegnato centro e raggio
(mediante due punti), oppure di due circonferenze. È ovvio che con tali strumenti si possano
incontrare difficoltà nella determinazione di proprietà geometriche e che Euclide stesso ne fa,
talora, usi impropri: ad esempio nella Proposizione I.1
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Carlo Marchini – Euclide incatenato
«Proposizione I.1. Su una retta terminata data costruire un triangolo equilatero.
Dimostrazione: Sia AB la retta terminata data. Si deve dunque costruire sulla retta AB un triangolo equilatero.
Con centro A e raggio AB risulti descritto il cerchio BCD (Post. 3), di nuovo risulti descritto, con centro B e
raggio BA, il cerchio ACE (id.), e dal punto C, in cui i cerchi si tagliano fra loro, risultino tracciate ai punti A, B
le rette congiungenti CA, CB (Post. 1). Ora, poiché il punto A è centro
del cerchio CDB, si ha che AC è uguale ad AB (Def. 15); di nuovo,
poiché il punto B è centro del cerchio CEB, si ha che BC è uguale a BA
(id.). Ma fu dimostrato che pure CA è uguale ad AB; quindi ciascuna
delle due rette CA, CB è uguale alla retta AB. Ma cose che sono uguali
ad una stessa sono uguali anche fra loro (Noz. com. 1): sono perciò
uguali anche CA, CB; quindi le rette CA, AB, BC sono uguali tra loro. »
Questa semplice proposizione si basa sull’assunto, che non è possibile dimostrare con gli strumenti
che sono fin qui disponibili, che le due circonferenze abbiano (almeno) un punto in comune. La
cosa è visivamente ovvia, anche graficamente appare indubitabile, ma bisogna disegnare le
circonferenze, ciò che il compasso ideale non può fare.
Con due compassi concreti, anche senza disegnare le circonferenze, si potrebbe osservare che
muovendo gli apparati contemporaneamente in modo opportuno, questi verrebbero a collidere, ma
ciò significa considerare il moto e la continuità, che Euclide assume in termini intuitivi, ma che non
introduce esplicitamente.
Avendo a disposizione il moto e la continuità si risolvono i cosiddetti problemi classici, la cui
insolubilità è stata dimostrata algebricamente nel XIX secolo.
Detti, in modo molto sbrigativo, due di questi problemi (trisezione dell’angolo e duplicazione del
cubo) sono relativi alla soluzione di particolari equazioni algebriche di terzo grado. Si può provare
che, di fatto, si tratta di un unico problema perché avendo la soluzione dell’uno si giunge a risolvere
anche l’altro. Il terzo problema concerne la rettificazione della circonferenza (e la quadratura del
cerchio). Lindemann (1852 - 1939) nel 1882 mette la parola fine (in senso negativo) alla possibilità
di rettificare mediante gli strumenti classici una circonferenza di diametro assegnato, o, in modo
analogo, di determinare sempre con gli stessi strumenti, il diametro di una
circonferenza di cui sia assegnata la rettificazione.
Per meglio chiarire queste affermazioni bisogna introdurre nuovi personaggi
storici.
Il primo è Apollonio di Perge, autore Le coniche, nome da lui dato alle sezioni
di un (doppio) cono con un piano in varie posizioni. Prima di lui l’argomento
era stato affrontato da altri matematici, che però consideravano un piano in
Apollonio di Perge
(247 – 170 a.C.)
posizione fissa (perpendicolare ad una generatrice) e facevano variare l’apertura del cono ottenendo
ellisse con un cono acutangolo, parabola con un cono rettangolo (Archimede) – e (un ramo di)
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Carlo Marchini – Euclide incatenato
iperbole con un cono ottusangolo. Fondamentale per lo sviluppo successivo dell’intera Geometria è
la seguente proposizione di Apollonio (dalla traduzione in francese di Ver Eecke).
«Proposizione I.11. Se un cono è tagliato da un piano passante per l’asse e se è tagliato da un
altro piano che taglia la base del cono secondo una retta perpendicolare alla base del triangolo
A
G
passante per l’asse; se, in più, il diametro della sezione è parallelo ad uno dei lati del triangolo
F
passante per l’asse, il quadrato di ciascuna sezione comune del piano secante e della base del
K
M
L
cono, fino al diametro della sezione, equivale al rettangolo delimitato dalla retta che stacca
N
D
B
H
E
C
sul diametro, dalla parte del vertice della sezione, e mediante una certa retta il cui rapporto
alla retta situata tra l’angolo del cono e il vertice della sezione è lo stesso di quello del
quadrato della base del triangolo passante per l’asse rispetto al rettangolo delimitato dai due
lati restanti del triangolo. Noi chiameremo una tale sezione una parabola.
Dimostrazione. Sia dato un cono il cui vertice è il punto A, e la cui base è il cerchio BC. Tagliamolo con un
piano passante per l’asse, che determina come sezione il triangolo ABC. Tagliamolo con un altro piano che
interseca la base del cono secondo una retta DE, perpendicolare alla retta BC e [piano] che determina la linea
DFE come sezione sulla superficie del cono, mentre il diametro FH della sezione è parallelo ad uno dei lati AC
del triangolo passante per l’asse. Si conduca ora dal punto F la retta FG perpendicolare alla retta FH e in modo
che FG stia a FA come il quadrato di BC sta al rettangolo di lati BA e AC. Infine prendiamo un punto qualunque
K sulla sezione e mandiamo da K la retta KL parallela a DE. Dico che il quadrato della retta KL equivale al
rettangolo di lati GF e FL.
Infatti, conduciamo dal punto L la retta MN parallela alla retta BC. Ora, la retta KL è anche parallela alla retta
DE; dunque, il piano passante per le rette KL e MN è parallelo a quello che passa per le rette BC, DE (Eucl. Prop.
XI.15.), vale a dire è parallelo alla base del cono. Di qui, il piano passante per le rette KL, MN è un cerchio di cui
un diametro è la retta MN (Prop. I.4.). Di più, la retta KL è perpendicolare alla retta MN, poiché la retta DE è
anche perpendicolare alla retta BC (Eucl. Prop. XI.10.); di conseguenza, il rettangolo delimitato dalla rette ML e
LN equivale al quadrato della retta KL. E poiché GF sta a FA come il quadrato di BC sta al rettangolo di lati BA e
AC e che il rapporto del quadrato di BC rispetto al rettangolo di lati AB e AC è lo stesso che il rapporto composto
di quello di BC a CA e quello di BC a BA (Eucl. Prop. VI.23.), ne segue che il rapporto GF rispetto a FA si
compone del rapporto di BC rispetto a CA e di quello di CB rispetto a BA. Ora, MN sta a NA, o che è lo stesso,
che ML sta a LF, come BC sta a CA (Eucl. Prop. VI.4.), mentre MN sta a MA, come LM sta a MF, ed infine
[permutando e scomponendo] come NL sta a FA (Eucl. Prop. VI.2.); ne discende che il rapporto di GF rispetto a
FA si compone del rapporto di ML rispetto a LF e di quello di NL rispetto a FA. Ora, il rapporto composto dei
rapporti ML:LF e di LN:FA costituisce il rapporto del rettangolo di lati ML, LN rispetto al rettangolo di lati
LF,FA; dunque, il rettangolo delimitato da ML, LN sta al rettangolo di lati LF, FA come GF sta a FA. Ora,
essendo presa come altezza comune la retta FL, il rettangolo delimitato da GF,FL sta al rettangolo di lati LF, FA
come GF sta a FA, e di conseguenza, il rettangolo delimitato dai lati GF e FL sta al rettangolo delimitato da LF,
FA come quello che ha per lati ML, LN sta al rettangolo di lati LF, FA. Da ciò, il rettangolo di lati ML, LN
equivale al rettangolo delimitato da GF, FL (Eucl. Prop. VI.9.). Ora, il rettangolo di lati ML, LN equivale al
quadrato della retta KL; dunque il quadrato della retta KL equivale al rettangolo di lati GF,FL.
Quanto al resto, chiamiamo una tale sezione una parabola; mentre che noi chiamiamo la retta GF la retta secondo
la quale si rapporta le potenza delle rette condotte in modo ordinato sul diametro FH; retta che noi chiameremo
ancora lato diritto.»
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Carlo Marchini – Euclide incatenato
La dimostrazione è faticosa, anche perché manca il simbolismo algebrico che renderebbe assai più
semplice il calcolo (e la dimostrazione stessa). Si tratta, comunque, di un passo ricco di importanza,
non tanto per la dimostrazione in sé ma per le anticipazioni che reca, foriere di uno sviluppo assai
ampio, che ha però dovuto attendere il XVII secolo.
Il matematico bolognese Rafael Bombelli, (1530 – 1573), oltre ad aver il merito dell’introduzione
dei numeri complessi, propone le cosiddette dimostrazioni in linea. È possibile che in questo fosse
forse ispirato dai testi di Apollonio, ricomparsi dopo un lungo periodo di oblio, a Venezia nel 1427
ad opera di Francesco Filadelfo e poi ripubblicati da Giorgio Valla a Pavia.
Una dimostrazione in linea la vediamo esemplificata nella soluzione, per via geometrica
dell’equazione di primo grado 2x = 12. Questa semplice equazione viene risolta con l’ausilio del
cosiddetto teorema di Talete. In un certo
senso questa è una novità: è facile pensare in
B
termini geometrici 2x come il doppio di un
segmento, ma l’equazione non è omogenea.
12
Bombelli salva l’omogeneità introducendo il
segmento unitario, sicché per determinare
A
2
O
1
U
x
UX,
X
soluzione
dell’equazione,
basta
considerare i multipli di OU, segmento
unitario ed interpretare l’equazione come una proporzione tra segmenti
2OU : 12OU = OU : x,
Dimenticandosi poi di OU, cioè assumendolo come 1, si riesce a determinare la soluzione
dell’equazione in forma di segmento.
Bombelli sapeva risolvere algebricamente queste equazioni di primo grado, quelle di secondo
grado, quelle di terzo ed anche quelle di quarto. Ha introdotto i numeri complessi e per primo ha
proposto che il quadrato di un numero potesse essere negativo.
Il ricorso ai segmenti era, al tempo di Bombelli, ‘obbligatorio’. Le soluzioni aritmetiche ed
algebriche non erano accettate dal punto di vista ‘accademico’ perché basate su procedimenti
ancora in discussione.
Di fatto è quanto propone Apollonio se si vuole associare alla parabola l’equazione ‘canonica’
y = x2,
o quella parametrica
2py = x2.
Il termine in linea, come appellativo di dimostrazione, sta a significare che attraverso l’introduzione
del segmento unitario anche costruzioni che prevedano costruzione di prodotti o quozienti di
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Carlo Marchini – Euclide incatenato
segmenti possono essere ricondotti a segmenti. Si consideri ad esempio l’equazione x = ab, che
viola il criterio di omogeneità. Essa può essere interpretata come la richiesta di costruire un
segmento ‘lungo’ quanto l’area di un rettangolo di lati a e b. Ma basta leggere l’equazione come 1x
= ab, per avere la proporzione 1:a = b:x e quindi il problema à quello di costruire il quarto
proporzionale di tre segmenti dati. Ma anche x2 = a, può essere resa omogenea come x2 = 1 a,
quindi la costruzione del medio proporzionale tra due segmenti dati, problema risolto con
l’applicazione di uno dei cosiddetti teoremi di Euclide. Così la quarta potenza di x ha
un’interpretazione ‘lineare’, dato che si può associare ad un quadrato un segmento, quindi ad una
quarta potenza un’area e riducendo ancora, un segmento.
In tempi a noi ancora più vicini, René Descartes, riprende, con altri scopi, la dimostrazione di
Apollonio sul suo testo, La Géométrie 1, appendice del suo testo filosofico più
famoso: il Discours sur la méthode. Egli mostra come, grazie al lato diritto, si possa
risolvere
mediante
figure
geometriche
piane
(circonferenze
e
parabole)
un’equazione di quarto grado, oggetto algebrico che ‘sfuggiva’ alla considerazione
delle geometria classica. Essa infatti si ferma, solitamente, ai solidi (ed alla terza
potenza delle incognite).
Cartesio
(1596 - 1650)
Lo scopo di Cartesio, nel Libro III de La Géométrie, è mostrare come sia possibile risolvere
geometricamente l’equazione algebrica
z4 = pz2 – qz + r.
Si noti che per ‘ripristinare’ l’omogeneità, p
S'
H
A
C
dovrebbe essere un’area, q un volume e r
S
una grandezza tipo ‘ipervolume’.
V
Per ottenere ciò si considera la parabola (si
noti, la,
non una) di vertice A, assieme al suo asse. Fissati
questi dati si costruiscono alcuni punti: sull’asse
R
della parabola S in modo che AS sia il lato diritto, C
E
in modo che AC = ½AS e D in modo che CD = ½p;
D
sulla perpendicolare all’asse per D, il punto E tale
che DE = ½q. Infine si congiunge A con E e si
prolunga oltre A in modo da determinare il punto S’
cosicché AS = AS’. Sia R un punto di AE tale che AR
F
N
K
M
L
= r.
G
Queste scritture sono scorrette, si
dovrebbe indicare tali valori numerico con
le misure dei segmenti, ma i problemi
1 Consultabile, in francese al sito http://gallica.bnf.fr/ark:/12148/bpt6k29040s
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grafici per fare soprassegni, me lo impediscono. Inoltre le dimensione di p, q e r, con queste scelte
sono numeriche, o al più come segmenti.
Sia V il punto medio di RS’; si prende la semicirconferenza di raggio VR e sia H l’intersezione di
tale circonferenza con la retta per A perpendicolare a ES. Considerata ora la circonferenza di centro
E e raggio EH, siano F e G le intersezioni con la parabola. Si mandano da tali punti le
perpendicolari all’asse e siano, rispettivamente K e L le intersezioni con l’asse di tali perpendicolari.
Sia z = KG. Per la proprietà fondamentale della parabola provata da Apollonio nella Prop.I.11, si ha
q(KG) = r(AK,AS’), quindi AK =z2·1 = z2. . Si costruisce ora il punto N che appartiene alla retta per
E parallela all’asse ed alla perpendicolare per G all’asse. Si ha quindi che il quadrilatero EDKN è un
rettangolo, per cui DK = EF = AK – AC – CD, cioè DK = EN = z2 - ½ - ½p. Calcolando il quadrato
si ha q(DK) = z4 + ¼+¼p2 – pz2 - z2 + ½p.
D’altra parte si ha DE = KN = ½q, GN = z + ½q e quindi q(GN) = z2 + ¼q2 + qz; q(EG) = q(GN) +
q(EN) = z4 – pz2 +qz + ¼q2 + ¼p2 + ½p + ¼.
Ma EG è il raggio della circonferenza di centro E e quindi EG = EH. Inoltre q(EA) = q(ED) + q(AD)
ed essendo ED = ½q e AD = ½ + ½p, quindi q(EA) = ¼q2 + ¼p2 + ½p + ¼. Per il cosiddetto 2°
teorema di Euclide, l’altezza del triangolo rettangolo è media proporzionale tra le proiezioni dei
cateti sull’ipotenusa, quindi q(HA) = r·1. Ed ancora q(EH) = q(HA) + q(AE). Così q(EH) = ¼q2 +
¼p2 + ½p + ¼ + r. Ma, come detto q(EH) = q(EG) e pertanto z4 – pz2 +qz + ¼q2 + ¼p2 + ½p + ¼. =
¼q2 + ¼p2 + ½p + ¼ + r. In base a semplici calcoli si ottiene
z4 = pz2 – qz + r.
Questa proposizione è stata, di fatto, il passo moderno verso l’introduzione delle coordinate, l’idea
che ogni punto del piano avesse la possibilità di essere identificato mediante una coppia ordinata di
numeri.
Come si vede le ‘coordinate’ cartesiane sono attribuite considerando un sistema di riferimento
opportuno ‘solidale’ con la figura.
Oggi un sistema di riferimento è fissato indipendentemente dalle figure da studiare e le coordinate
permettono di descrivere i punti e le figure. Etichettare la nostra geometria analitica con il termine
di ‘cartesiana’ è parzialmente scorretto dal punto di vista storico.
Nel caso degli spazi euclidei le coordinate sono numeri reali. Ciò può essere considerato
conseguenza del Postulato di Continuità inserito nella assiomatizzazione di Hilbert. È infatti ‘utile’
e ‘semplice’ identificare la retta con la retta reale, vale a dire richiedere una biezione tra i punti
‘geometrici’ e i numeri reali.
Per istituire una tale biezione ci sono più modi, dato che ci sono più biezioni. Ma se si vuole che le
cose ‘funzionino’ tutte le biezioni ‘buone’, quelle che permettono di fare bene la geometria analitica
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Carlo Marchini – Euclide incatenato
e l’analisi matematica, dipendono dalla scelta arbitraria di due punti e dell’ordine con cui
considerarli, quindi di una coppia ordinata di punti: il primo che viene detto (punto di) origine e il
secondo che viene detto punto unitario. Con questa scelta si può associare un numero reale ad ogni
punto della retta, ‘misurando’ la distanza di esso dall’origine rispetto alla distanza unitaria. Ecco
qual è il ruolo delle dimostrazioni in linea di Bombelli e del lato diritto di Apollonio-Cartesio. Il
cambio della coppia ordinata iniziale dà origine ad uno di quei noiosi cambiamenti di base che
affollano dimostrazioni di algebra lineare e di geometria, senza cambiare la ‘sostanza geometrica’ e
analitica.
In questo modo la retta geometrica diviene un insieme di punti, grazie alla biezione coi numeri reali,
incurante della critica di Aristotele.
Questa ricerca di sempre maggiore astrazione ha portato Dieudonné a proporre uno slogan famoso,
Abbasso Euclide! per dire che è possibile fare, anzi rifare la Geometria senza bisogno della
Geometria, ma con algebra lineare e numeri reali (o anche meno).
Ma le cose stanno proprio così? O meglio questo non è che un approccio revisionista e limitativo ad
Euclide, che ci presenta la geometria euclidea avvolta nelle ‘catene’ dello strutturalismo?
Cosa nasconde Euclide?
I problemi che il matematico greco ha affrontato e risolto sono assai complessi: rifiuto dell’infinito
in atto; riconduzione ad uno spazio non indipendente, generato dalle figure in termini interfigurali e
intrafigurali; assunzione di uno spazio isotropo, negando completamente l’esperienza quotidiana.
Questo in generale, ma con sforzi ed artifici che hanno lasciato il segno. Il più evidente è stato il
problema posto dal Postulato delle parallele,
«Postulato V: E che, se una retta venendo a cadere su due rette forma gli angoli interni e dalla stessa parte minori di due
retti (= tali che la loro somma sia minore di due retti), le due rette prolungate illimitatamente verranno ad incontrarsi da
quella parte in cui sono gli angoli minori di due retti (=la cui somma è minore di due retti).»,
una sorta di indovinello geometrico che ha appassionato in vario modo gli studiosi di due millenni e
conclusosi con l’irruzione delle geometrie non-euclidee e la dimostrazione della coerenza relativa e
loro indipendenza. Ed anche l’interpretazione geometrica dell’algebra, una teoria dei numeri con
dimostrazioni che forniscono un supporto visivo mediante segmenti.
E soprattutto il rifiuto dell’infinito in atto che ha portato all’eliminazione dei numeri reali come
oggetti matematici numerici, cioè come quantità.
Nel XIX secolo sono stati affrontati e risolti in modo definitivo i problemi classici, mediante la
‘traduzione’ algebrica delle costruzioni in termini di estensioni. Una volta fissata una coppia
ordinata di punti su una retta, sono costruibili con riga e compasso tutti e soli i punti della retta che
hanno come coordinata un elemento di un’estensione di
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mediante l’aggiunta (iterata) di elementi
Carlo Marchini – Euclide incatenato
algebrici di grado due. Si tratta di un campo, sottocampo del campo dei numeri algebrici, vale a dire
dell’estensione di
mediante le radici dei polinomi a coefficienti razionali. Il (minimo) campo
euclideo condivide col campo dei numeri algebrici la cardinalità: si tratta di insiemi di cardinalità
numerabile, che quindi sono ben ‘lontani’ dal campo reale
. È evidente, in queste considerazioni,
l’uso di concetti algebrici ed insiemistici che sono ben lontani dalla ‘sensibilità’ greca.
Cosa succederebbe se si facesse la geometria euclidea avendo a disposizione tutti i numeri reali? La
risposta è fornita da Adrien-Marie Legendre (1752 – 1833) nel suo Eléments de géométrie. Il testo
ebbe grande diffusione, anche scolastica. Lo scritto del francese risente del clima matematico
dell’epoca in cui l’opera è stata redatta. Presenta una serie di assiomi (qui tratti dalla traduzione
italiana di Gaetano Cellai, apparsa nel 1834 come V edizione presso la Tipografia della Speranza di
Firenze e condotta sulla XII edizione dell’originale francese)
«Assioma I.1.
Due quantità uguali a una terza sono uguali tra loro.
Assioma I.2.
Il tutto è maggiore della sua parte.
Assioma I.3.
Il tutto è uguale alla somma delle parti, in cui è stato diviso.
Assioma I.4.
Da un punto a un altro non si può condurre che una sola linea retta.
Assioma I.5.
Due grandezze, linee, superficie, o solidi, sono uguali allorché, essendo situate l’una
sull’altra, coincidono in tutta la loro estensione.»
Tali affermazioni, con poche differenze, sono proprietà presenti in Euclide, le prime tre come
‘nozioni comuni’, applicabili ad ampi contesti, le altre due con contenuti maggiormente geometrici.
La parte più geometrica (del Libro I) è racchiusa dalle definizioni. Se ne riportano qui alcune
«
L
Definizione I.1. a Geometria è una scienza, che ha per oggetto la misura dell’estensione.
L’estensione ha tre dimensioni, lunghezza, larghezza ed altezza.
Definizione I.2. La Linea è una lunghezza senza larghezza.
Le estremità d’una linea si chiamano punti: il punto non ha dunque alcuna estensione.
Definizione I.3. La Linea retta è il più corto cammino da un punto ad un altro.
Definizione I.4. Ogni linea, che non è retta, né composta di linee rette, è una linea
curva.
Così AB è una linea retta, ACDB una linea spezzata (fig. 1), o composta di linee
rette, e AEB è una linea curva.
Definizione I.5. Superficie è ciò che ha lunghezza, e larghezza, senza altezza, o
grossezza
[…]
Definizione I.9. Allorché due linee rette AB, AC (fig. 2) s’incontrano, la quantità più o meno grande, per cui esse
sono distanti l’una dall’altra rispetto alla lor posizione, si chiama angolo; il punto d’incontro, o d’intersezione A
è il vertice dell’angolo, le linee AB, AC, ne sono i lati.
L’angolo s’indica talora colla sola lettera del vertice A, talora con tre lettere BAC, o CAB, avendo cura di
porre in mezzo la lettera del detto vertice.
Gli angoli sono, come tutte le quantità, suscettibili d’addizione, di sottrazione, di moltiplicazione, e di
divisione; così l’angolo DCE (fig. 20) è la somma dei due angoli DCB, BCE, e l’angolo DCB è la differenza dei
due angoli DCE, BCE.
Definizione I.12. Due linee si dicono parallele (fig. 5) allorché essendo situate nel medesimo piano non
possono incontrarsi, benché si prolunghino ambedue sino a qualunque distanza.
Come si vede la misura è qui sovrana, anche se non ben precisata. Gli aspetti geometrici sono
ricondotti a quelli numerici e fa una certa impressione vedere la dichiarazione che gli angoli si
possono moltiplicare e dividere. Di fatto molte delle richieste inserite nelle definizioni sono
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Carlo Marchini – Euclide incatenato
postulati, perché non si vede come poter diversamente garantire che gli enti prescelti da Legendre
possano comportarsi come lui richiede.
Tra le richieste sotto forma di assiomi o di definizioni non c’è l’assioma delle parallele, perché
Legendre riesce a dimostrarlo a partire dalle assunzioni esplicitate.
Legendre mostra prima che la somma degli angoli interni di un triangolo è pari a due angoli retti.
Questa è una formulazione che nell’impianto della geometria euclidea è equivalente al postulato
delle parallele, poi prova il postulato delle parallele nella versione originale di Euclide.
Vediamo come
La Proposizione I.19. La tradizione geometrica post-euclidea, di cui Legendre è a conoscenza, ha
dimostrato che riuscire a provare che la somma degli angoli interni di un triangolo è due angoli retti
implica il postulato delle parallele. D’altra parte su questa forma che riguarda il triangolo hanno
posato i loro occhi ‘filosofici’ Aristotele e Kant, ritenendole verità di fatto. Si comprende quindi
perché su di essa ponga la sua attenzione anche Legendre.
«Proposizione I. 19. In un qualunque triangolo, la somma dei tre angoli è uguale a due angoli retti.
Sia ABC il triangolo proposto (fig. 35) nel quale supporremo 2 che AB è il maggior lato e BC il minore, e che
così ACB è il maggior angolo, e BAC il minore (Prop. I.14).
Per il punto A e per il punto I mezzo del lato opposto BC, conducete la retta AI, che prolungherete in C’ sino
che AC’ = AB; prolungate parimente AB in B’ fino che AB’ sia doppia di AI.
Se si denotino per A, B, C i tre angoli del triangolo ABC, e similmente per A’, B’, C’, i tre angoli del triangolo
AB’C’, io dico che avremo l’angolo C’ = B + C e l’angolo A = A’ + B’; d’onde resulta A + B + C = A’ + B’ + C’,
vale a dire la somma dei tre angoli è la medesima nei due triangoli.
Per dimostrarlo, fate AK = AI ed unite C’K, avrete il triangolo C’AK uguale al triangolo BAI. Perché in questi
due triangoli, l’angolo comune A [A’] è compreso tra lati rispettivamente uguali, cioè AC’ = AB, e AK = AI.
Dunque il terzo lato C’K è uguale al terzo BI, dunque anche l’angolo AC’K = ABC, e l’angolo AKC’ = AIB.
Io dico adesso che il triangolo B’C’K è uguale al triangolo ACI, perché la somma de’ due angoli adiacenti
AKC’ + C’KB’ è uguale a due retti (Prop. I.2) come pure la somma de’ due angoli AIC + AIB; togliendo da
ambedue le parti gli angoli uguali AKC’, AIB, resterà l’angolo C’KB’ = AIC. Questi angoli uguali nei due
2 Il testo presenta la seguente nota a piede di pagina: «Questa supposizione non esclude il caso in cui il lato medio AC fosse uguale ad uno
degli estremi AB o BC» ma sembra invece escludere che il triangolo possa essere equilatero.
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triangoli sono compresi tra lati rispettivamente uguali, cioè C’K = IB = IC, e KB’ = AK = AI, poiché abbiamo
supposto AB’ = 2AI = 2AK. Dunque i due triangoli B’C’K e ACI, sono uguali (Prop. I.6); dunque il lato C’B’ =
AC, l’angolo B’C’K = ACB, e l’angolo KB’C’ = CAI.
Segue da ciò: 1.° che l’angolo AC’B’, denotato per C’, è composto di due angoli uguali agli angoli B e C del
triangolo ABC, e che si ha perciò C’ = B + C; 2.° che l’angolo A del triangolo ABC è composto dell’angolo A’
ovvero C’AB’, che appartiene al triangolo AB’C’, e dell’angolo CAI uguale all’angolo B’ del medesimo
triangolo, il che somministra A = A + B’ [sic! invece di A = A’ + B’]: dunque A + B + C = A + B’ + C’ [sic!
invece di A’ + B’ + C’]. D’altronde poiché si ha per ipotesi AC < AB, ed in conseguenza C’B’ < AC’, si vede che
nel triangolo AC’B’ l’angolo A, denotato per A’, è minore di B’; e siccome la somma di questi due è uguale
all’angolo A del triangolo proposto, ne segue che si ha A’ < ½A.
Se si applica la medesima costruzione al triangolo AB’C’, per formare un terzo triangolo AC”B”, i cui angoli
saranno designati per A”, B”, C”, avremo similmente le due uguaglianze C” = C’ + B’, A’ = A” + B”, d’onde
resulta A’ + B’ + C’ = A” + B” + C”. Così la somma de’ tre angoli è la medesima in questi tre triangoli: avremo
nel tempo istesso l’angolo A” < ½A’, ed in conseguenza A” < ¼A. Continuando indefinitamente la serie dei
triangoli AC’B’, AC”B”, ec., perverremo ad un triangolo abc, nel quale la somma dei tre angoli sarà sempre la
medesima che nel triangolo proposto ABC, e che avrà l’angolo a minore di qualunque termine si voglia nella
progressione decrescente ½A, ¼A,
1
8
A, ec.
Possiamo dunque supporre questa serie di triangoli tanto prolungata fino a che l’angolo a sia minore di
qualunque angolo dato.
E se col mezzo del triangolo abc si costruisce il triangolo seguente a’b’c’, la somma degli angoli a’ + b’ di
quest’ultimo sarà uguale all’angolo a; e sarà in conseguenza minore di qualunque angolo dato: dal che si vede
che la somma dei tre angoli del triangolo a’b’c’ si riduce quasi al solo angolo c’.
Affine d’avere la misura precisa di questa somma, prolunghiamo il lato a’c’ verso d’, e chiamiamo x’ l’angolo
esterno b’c’d’; quest’angolo x’ unito all’angolo c’ del triangolo a’b’c’ fa una somma uguale a due retti (Prop.
I.2); così denotando l’angolo retto per D, avremo c’ = 2D – x’; dunque la somma degli angoli del triangolo a’b’c’
sarà
2D + a’ + b’ – x’.
Ma si può concepire che il triangolo a’c’b’ cangi ne’ suoi angoli e ne’ suoi lati, in modo da rappresentare i
triangoli successivi, che si producono ulteriormente dalla medesima costruzione, e si approssimano di più in più
al limite, ove gli angoli a’ e b’ fossero nulli. In questo limite la retta a’c’d’ confondendosi con a’b’, i tre punti a’,
c’, b’ finiscono per essere esattamente in linea retta, allora gli angoli b’ e x’ divengono nulli nel medesimo tempo
che a’, e la quantità 2D + a’ + b’ – x’, la quale misura la somma de’ tre angoli del triangolo a’b’c’, si riduce a
2D, dunque in qualunque triangolo la somma de’ tre angoli è uguale a due angoli retti.
Corollario I. Due angoli di un triangolo qualunque essendo dati , o solamente la loro somma, si conoscerà il
terzo togliendo la somma di quei due angoli da due angoli retti.
II. Se due angoli di un triangolo sono uguali rispettivamente a due angoli d’un altro triangolo, il terzo angolo
dell’uno sarà uguale al terzo angolo dell’altro, e i due triangoli saranno equiangoli tra loro.
III. In un triangolo non può esservi che un solo angolo retto; poiché, se ve ne fossero due, il terzo diverrebbe
nullo: a più forte ragione un triangolo non può avere che un solo angolo ottuso.
IV. In un triangolo rettangolo la somma dei due angoli acuti è uguale ad un retto.
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Carlo Marchini – Euclide incatenato
V. In un triangolo equilatero ciascuno dei suoi angoli è il terzo di due angoli retti, o i due terzi d’un retto.
Dunque se l’angolo retto è espresso da 1, l’angolo del triangolo equilatero sarà espresso da
2
3
.
VI. In un qualunque triangolo ABC se si prolunga il lato AB verso D, l’angolo esterno CBD sarà uguale alla
somma dei due interni opposti A e C; poiché aggiungendo da ambe le parti ABC, le due somme sono uguali a due
angoli retti. »
Qui Legendre applica le Eucl. Nozz. comm. 3 e 2,
Nozione comune 2. E se le cose uguali sono addizionate a cose uguali, le totalità sono uguali.
Nozione comune 3. E se da cose uguali sono sottratte cose uguali, i resti sono uguali.
che non sono esplicitate tra gli Assiomi di Legendre.
Per poter utilizzare la disuguaglianza A’ < ½ A, ci vuole la diversità dei lati. Se si avesse un
triangolo equilatero, essendo equiangolo, si avrebbe banalmente che i tre angoli sono uguali e che
l’altezza relativa ad un lato è bisettrice dell’angolo opposto. Considerando ora un triangolo
rettangolo ottenuto da un vertice conducendo l’altezza (bisettrice), in tale triangolo la somma dei
due angoli non retti per il Corollario V è un angolo retto, quindi, considerando i due triangoli
rettangoli, si ottiene il risultato del Corollario VI relativo ai triangoli equilateri. Anche per essi la
somma degli angoli interni è uguale a due retti e quindi ciascuno è i due terzi dell’angolo retto.
Legendre riesce quindi, mediante l’Analisi matematica, vale a dire la nozione di limite, a supplire al
postulato delle parallele. La sua dimostrazione è
un’effettiva costruzione di limite in quanto
C
riesce a provare che con l’iterazione l’angolo a’
C'
C"
I
diviene più piccolo di ogni angolo, vale a dire
I'
A
K B
B'
B"
tende a 0 e così pure la somma a’ + b’ ed anche
D
l’angolo esterno x’.
La parte puramente geometrica, vale a dire la dimostrazione che i triangoli ABC e AB’C’ hanno
uguali la somma degli angoli interni è pura Geometria in senso euclideo, e non utilizza il postulato
delle parallele. La visione della (semi)retta come triangolo limite, fa giungere al risultato, attraverso
procedimenti analitici la considerazione del limite (di una successione strettamente decrescente) in
contesto geometrico. Non viene però messo in luce se i punti corrispondenti a C e a B sono al finito
oppure no.
Allo stesso risultato si poteva giungere anche nel caso del triangolo equilatero, visto che comunque
si otteneva una successione strettamente monotona, pertanto la sua esclusione dalla dimostrazione
sembra del tutto ingiustificata.
Si osservi inoltre che il concetto di limite, introdotto da D’Alembert, aveva ricoperto grande
importanza perché messo al centro di tutta l’Analisi da Cauchy nel suo Cours d’Analyse del 1821,
dunque pochissimi anni prima della dodicesima edizione degli Eléments de Géométrie.
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La Proposizione I.23. Legendre prova il postulato delle parallele nella versione originale euclidea
che nel suo testo diviene la seguente
«Proposizione I.23. Se due linee rette AB, CD, fanno con una terza EF due angoli interni da una medesima
parte, la cui somma sia minore o maggiore di due angoli retti, le linee AB, CD, prolungate sufficientemente,
dovranno incontrarsi. (fig. 37)
Sia 1.° la somma BEF + EFD minore di due angoli retti; conducete FG in modo che sia l’angolo EFG =
AEF, avrete la somma BEF + EFG uguale alla somma BEF + AEF, e per conseguenza uguale a due angoli retti;
e poiché BEF + EFD è minore di due angoli retti, la retta DF sarà compresa nell’angolo EFG.
Per il punto F tirate un’obliqua FM, la quale incontri AB in M; l’angolo AMF sarà uguale a GFM, poiché
aggiungendo da una parte e dall’altra una medesima quantità EMF + FEM, le due somme sono uguali ciascuna a
due angoli retti. Prendete in seguito MN = FM ed unite FN; l’angolo AMF, esterno al triangolo FMN è uguale
alla somma dei due interni opposti MFN, MNF (Cor. 6 della Prop. I.19); questi ultimi sono uguali tra loro,
poiché dessi sono opposti a de’ lati uguali MN, FM: dunque l’angolo AMF, o il suo eguale MFG, è doppio di
MFN; dunque la retta FN divide in due parti uguali l’angolo GFM ed incontra la linea AB in un punto N situato
alla distanza MN = FM.
Segue dalla medesima dimostrazione che se si prende NP = FN, determineremo sulla linea AB il punto P
ove termina la retta FP, la quale fa l’angolo GFP uguale alla metà dell’angolo GFN, ovvero al quarto
dell’angolo GFM.
Si può dunque prendere così successivamente la metà, il quarto, l’ottavo, ec. Dell’angolo GFM e le linee
che operano queste divisioni, incontreranno AB in dei punti di più in più lontani, ma facili da determinare poiché
MN = FM, NP = FN, PQ = PF, ec. Possiamo ancora osservare che ciascuna distanza di questi punti
d’intersezione dal punto fisso F, non è affatto doppia della distanza dal punto d’intersezione precedente, poiché
FN, per esempio, è minore di FM + MN ovvero 2FM; si ha parimenti FP < 2FN, FQ < 2FP, ecc.
Ma continuando a suddividere l’angolo GFM in ragion dupla, arriveremo ben presto ad un angolo GFZ
minore dell’angolo dato GFD, e sarà vero ancora che FZ prolungato incontra AB in un punto determinato:
dunque a più forte ragione la retta FD compresa nell’angolo EFZ, incontrerà AB.
Supponiamo 2.° che la somma due angoli interni AEF + CFE sia maggiore di due angoli retti; se si
prolunga AE verso B e CF verso D, la somma de’ quattro angoli AEF, BEF, CFE, EFD sarà uguale a quattro
angoli retti: dunque se da questa somma si toglie AEF + CFE maggiore di due angoli retti, resterà la somma BEF
+ EFD minore di due angoli retti. Dunque, dietro al primo caso, le linee EB, FD, prolungate sufficientemente,
debbono incontrarsi.
Corollario. Per un punto dato F non si può condurre che una sola parallela alla linea data AB; poiché
avendo tirata FE a piacere, non vi è che la linea FG, che faccia la somma dei due angoli BEF + EFG uguale a
due angoli retti; qualunque altra linea FD farebbe la somma dei due angoli BEF + EFD minore o maggiore di
due retti; ed incontrerebbe per conseguenza la linea AB. »
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Carlo Marchini – Euclide incatenato
La scelta di Legendre è quindi di utilizzare il concetto di limite, invece che la dimostrazione per
assurdo. In questo caso si producono due successioni di punti, quella dei doppi: 2FM, 2FN, 2FP,
…, che serve da confronto per l’altra FM, FN, FP,… e il limite, il punto di intersezione delle due
rette date, lo si ottiene (evidentemente non in modo costruttivo).
Il Corollario mostra poi come riottenere il postulato delle parallele nella forma dell’unicità della
parallela ad una retta per un punto esterno.
Si può quindi affermare che nell’opera di Legendre vengono ‘incorporati’ i risultati a lui
contemporanei per trattare problemi ed argomenti classici di Geometria.
In conclusione l’odierno abito della geometria che prevede insiemi, infinito in atto e numeri reali
tradisce profondamente l’approccio Euclideo perché si allontana dalla visione così complessa e
dubbiosa di Euclide a proposito del postulato delle parallele, che diviene ora, coi metodi dell’analisi
solo un teorema.
Sarebbe bene che il laureato ed ancor più il ricercatore in Matematica avesse ben chiaro che col
termine ‘Geometria’, oggi, si intende una cosa assai diversa da quanto intendevano gli antichi. Così
facendo si libererebbe Euclide da queste catene ‘strutturalistiche’ che lo offuscano e ne risalterebbe
in modo completo l’originalità e la profondità.
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