Con la sua teoria della saggezza pratica

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Con la sua teoria della saggezza pratica (phronesis) Aristotele supera l'intellettualismo socratico: il
sapere pratico in Aristotele è mescolanza di intellezione e desiderio, e determina l'agire. Attraverso
di esso anche il mondo delle emozioni e delle passioni assume una sua razionalità e può essere
indagato dal filosofo morale.
Il ragionamento etico corretto è quello dato dalla phronesis (saggezza), che è la virtù o l'eccellenza
della parte calcolatrice dell'anima che ha a che fare con ciò che dipende da noi: che dirige le scelte,
cui si adegua il desiderio corretto, e che tende come fine all'agire bene. La phronesis è la capacità di
deliberare bene in relazione alla felicità.
La concezione aristotelica della saggezza può lasciare sconcertati: la saggezza non si occupa dei fini
dell'azione umana, ma solo di come raggiungere questi fini, cioè dei mezzi
la virtù fa retto lo scopo, e la saggezza fa retti i mezzi per raggiungerlo...ed è chiaro che la scelta
corretta non sarà possibile senza [5] la saggezza né senza la virtù: l’una180, infatti, determina il
fine, l’altra181 ci fa compiere le azioni atte a raggiungerlo
Etica Nicomachea, VI, 13, 1144 a 6-9; 1145a 4-6
La ragione pratica (la saggezza) equivale alla sensibilità pratica, ed è rivolta al caso singolo. I
princìpi pratici derivano invece dalla virtù, e la virtù stessa deriva da un complesso processo di
addestramento, nel quale il soggetto, dapprima sotto la guida di altri, e poi da solo, si abitua a
compiere azioni belle, fino aprovare piacere nel compierle ed a farle quindi in modo del tutto pieno
e consapevole
le cose che bisogna avere appreso prima di farle, noi le apprendiamo facendole: per esempio, si
diventa costruttori costruendo, e suonatori di cetra suonando la cetra. Ebbene, così
anche [1103b] compiendo azioni giuste diventiamo giusti, azioni temperate temperanti, azioni
coraggiose coraggiosi.
Etica Nicomachea, II, 1, 1103 a 32-b 2
È solo a partire dal compiere azioni coraggiose che si acquista la virtù del coraggio, ed essa, poi, ci
permette di essere coraggiosi al massimo grado. Infatti l'azione è frutto di intelletto e desiderio, e
per avere un'azione virtuosa "il ragionamento deve essere vero e il desiderio corretto, e l'uno deve
affermare, e l'altro perseguire, gli stessi oggetti. Tale è il pensiero pratico, e tale la sua verità".
Il possesso della virtù permette di porre la premessa universale; ciò è possibile in quanto la virtù è
insieme di ragione (phronesis) e di desiderio.
Ma anche la saggezza è collegata alla virtù del carattere, e quest’ultima alla saggezza, se è vero
che i principi della saggezza discendono dalle virtù etiche, e che la rettitudine delle virtù etiche
discende dalla saggezza. Ma essendo queste virtù legate anche [20] alle passioni, saranno
relative al composto;
Etica Nicomachea, X, 8, 1178 a 16-20
L'abitudine, lo sviluppo del carattere è indispensabile per acquisire i princìpi etici, dato che nessuno
agisce bene senza essere virtuoso.
Il principio del ragionamento pratico, nell'analisi di Aristotele, può essere rappresentato con una
posizione universale esprimente un fine, un bene, o qualcosa di opportuno - es. "chi digerisce bene è
sano". Questa è la "premessa maggiore" del ragionamento pratico la quale esprime in modo
universale il fine pratico: essa è data dalla virtù e dall'educazione morale, ed è oggetto, insieme,
della ragione e del desiderio. La saggezza conosce questa premessa maggiore, ma il suo compito
specifico, come sapere pratico indirizzato all'azione concreta, è quello di mediare la premessa
maggiore con la situazione di fatto, in modo da poter sussumere i dati della situazione concreta alla
luce del fine. Il suo campo specifico, quindi è fornire la "premessa minore" del ragionamento
pratico, quella in cui il fine universale viene specificato in un fine più ristretto, che è un mezzo, ed è
tale per essere attuato immediatamente – es. "chi passeggia digerisce bene".
In questo modo il desiderio corretto, che ha per oggetto il fine, viene ad avere per oggetto anche il
mezzo. Infatti il passeggiare non è desiderato per sé, ma come specificazione del fine e come modo
per realizzarlo in concreto. La saggezza fa sì che noi vediamo la situazione alla luce del fine, e così
indica i modi per realizzare il fine. Per questo Aristotele afferma che la saggezza ha per oggetto il
bene dell'uomo e le azioni che l'agente può compiere.
Il saggio sa cosa è bene per l'uomo, e come realizzare questo bene; non solo lo sa, ma lo mette in
pratica; chi non mette in pratica quello che sa, non è saggio.
Nel caso che qualcuno comprenda la premessa minore intellettualmente, ma non riesca a trasmettere
il desiderio in modo corretto, si ha la debolezza del volere. Con questa teroia Aristotele critica
l'intellettualismo socratico, per cui ognuno fa ciò che ritiene bene, e il male non è che il frutto di un
giudizio errato. Aristotele invece sostiene la tesi per cui uno può sapere che cosa è bene, e non agire
di conseguenza. Questo avviene quando la seconda premessa è conosciuta in modo scorretto, non è
oggetto insieme di ragione e di desiderio, ma la ragione si fa schiava del desiderio.
Aristotele fa l’esempio della golosità:
dobbiamo immaginare che un tale venga messo di fronte a un dolce delizioso, dal quale la
temperanza raccomanda di astenersi.
L’incapacità di trattenersi dal mangiarlo può essere dovuta al fatto che la persona, anziché
pianificare la propria condotta all’insegna della temperanza, adotta di regola una linea di condotta
orientata al perseguimento di qualsiasi piacere gli si offra: una persona del genere è detta da
Aristotele “intemperante”, cioè, a questa persona fa difetto la premessa maggiore del ragionamento
pratico, quella che, grazie al ruolo delle virtù etiche, ci indica in cosa consista il benessere umano.
Ma può accadere che la persona sottoscriva un principio generale di temperanza (e dunque sia in
possesso di una premessa generale adeguata circa il benessere umano), eppure non riesca ad
astenersi, facendosi sovrastare dal desiderio. Come si spiega questo secondo caso? Aristotele
definisce questa persona non già intemperante (perché nella premessa generale del suo
comportamento non è ravvisabile nessun vizio), bensì “incontinente”, cioè incapace, nonostante la
bontà del proposito, di contenere i suoi desideri.
Socrate, secondo Aristotele, avevano ragione nel considerare la saggezza come essenziale alla virtù
morale: sbagliava nell’identificare semplicemente la virtù morale con la saggezza stessa. La
saggezza, secondo Aristotele, rende corretto il ragionamento pratico, non le premesse generali del
bene umano.
Socrate aveva negato la possibilità di fare ciò che uno sa essere sbagliato (la conoscenza non si
lascia trascinare qua e là al modo di uno schiavo). Secondo Aristotele la potenza del conoscere
determinata da Socrate era corretta. Il problema è che la “conoscenza etica”, che riguarda le
premesse generali (i fini), non rende impossibile l’”incontinenza”, cioè un difetto nel considerare le
circostanze particolari o i mezzi per raggiungere i fini.
Nel caso in cui il ragionamento pratico funzioni bene, la somma delle premesse dà luogo non a un
giudizio, ma a un'azione:
la premessa universale è un’opinione, mentre l’altra premessa riguarda i fatti particolari, i quali
stanno immediatamente sotto il dominio della sensazione: quando da queste due premesse
scaturisce una sola affermazione, l’anima deve necessariamente affermare la conclusione, e nel
caso di premesse pratiche, deve passare immediatamente all’azione. Per esempio: se "bisogna
gustare ogni cosa dolce" e "questa cosa qui è dolce" (come singolo oggetto particolare), allora,
necessariamente, chi può, [30] cioè chi non ne è impedito, deve anche, simultaneamente,
compiere l’atto di gustare.
Etica Nicomachea, VII, 3, 1147a 25-30
Quando la ragione ci dice che questa azione è immediatamente praticabile, ed il desiderio si è
convinto che essa è buona, l'individuo agisce subito. La verità della saggezza è l'azione corretta:
Il pensiero di per sé non mette in moto nulla, bensì ciò che muove è il pensiero che determina i
mezzi per raggiungere uno scopo, cioè il pensiero pratico.
Etica Nicomachea, VI 2, 1139a 35 - 4b
Ragione e desiderio sono indissolubilemnte legate nell'azione. Non è possibile, nell'ambito
dell'azione etica, isolare la ragione dal desiderio come momento astratto.
La funzione del saggio, l'agire bene, comporta anche la capacità di trovare i modi di agire bene nelle
situazioni dubbie, cioè il ben deliberare. La deliberazione ha per oggetto ciò che dipende da noi, e i
casi in cui vi è incertezza su come procedere: essa tiene fermi il fine e i dati della situazione, e si
sforza di trovare una mediazione tra di essi.
Il caso della deliberazione (che, si badi, è sempre un'azione) è il caso in cui sono più evidenti la
libertà e la responsabilità umana.
In questo modo Aristotele apre il suo pensiero al problema della responsabilità. La scelta dei mezzi
per ottenere il fine contenuto nelle nostre premesse fa di noi delle persone responsabili. Ma, se è
vero che la scelta è ciò che ci rende autori delle nostre azioni, ossia responsabili, non è tuttavia ciò
che ci rende veramente buoni, giacché tali possono essere solamente i fini che ci proponiamo,
mentre la scelta (il ragionamento pratico) riguarda solo i mezzi. Allora il principio primo da cui
dipende la nostra moralità sta piuttosto nel fine che vogliamo perseguire, nella volizione del fine.
Ma che cos’è questa volizione del fine?
a) o è la tendenza infallibile al bene, a ciò che veramente è bene; e in questo caso ha ragione
Socrate: la scelta non retta non sarà volontaria , ma sarà una forma di ignoranza, un errore o
uno sbaglio
b) oppure è tendenza a ciò che ci appare bene; in questo caso, nessuno potrebbe più essere
chiamato buono o cattivo, o, che fa lo stesso, sarebbero tutti buoni, appunto perché tutti
farebbero ciò che loro appare bene.
Sembra che ci muoviamo in un circolo: per diventare e essere buono debbo volere i fini buoni,
ma questi li conosco solo se sono buono.
È evidente che Aristotele ha capito benissimo:
- che noi siamo responsabili delle nostre azioni;
- che noi siamo causa dei nostri abiti morali (a questo proposito Aristotele afferma chiaramente
che, una volta diventati viziosi, non si può più non essere tali, anche se era possibile, in un
primo tempo, non diventarlo);
- che siamo causa del modo stesso in cui moralmente ci appaiono le cose;
ma non ha saputo dire:
- né perché sia così;
- né che cosa stia in noi alla radice di tutto questo
Non ha saputo cioè determinare correttamente la vera natura della volontà e del libero arbitrio,
cioè in che misura ci dobbiamo considerare responsabili delle nostre azioni.
Tuttavia è giusto riconoscere che Aristotele, meglio dei suoi predecessori, ha intravisto che c’è
qualcosa in noi da cui dipende l’essere buoni o cattivi, che non è mero desiderio irrazionale, ma
non è neppure ragione pura. Ma questo qualcosa non è riuscito a determinarlo. Del resto nessun
Greco riuscirà a determinare le condizioni della responsabilità (la volontà e il libero arbitrio):
l’uomo occidentale ci riuscirà solo attraverso il Cristianesimo.
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