PRIMO DARWIN DAY - 2009 - “IL MONDO DEI VIVENTI TRA TEORIA EVOLUZIONISTICA ED ETICA ANIMALE” Per entrare in argomento I relatori del primo Darwin Day: − Domenico Massaro, che ha presieduto la giornata, dirigente dell’Istituto statale di istruzione secondaria superiore di Poppi, docente di logica presso l’università di Siena, sede di Arezzo, autore (apprezzato anche a livello internazionale) di numerose pubblicazioni in ambito filosofico. − Mario Tanga, docente presso l’istituto suddetto, storico della scienza, Accademico dei Fisiocritici, membro della Società britannica per la storia della scienza, autore di numerose pubblicazioni. − Fausto Ghelli, docente di informatica presso il medesimo istituto, ingegnere, esperto di informatica e matematica − Gaspare Polizzi, docente universitario, esperto di darwinismo sociale. − Malcolm Holliday, medico veterinario, esperto di comportamento animale. − Andrea Legnani, segretario e socio fondatore dello “Scudo di Pan”, associazione animalista di Capolona, che accoglie animali randagi e con difficoltà di tutti i tipi. Spunti di discussione. I punti chiave dell’evoluzionismo in 24 domande Per entrare in argomento L’Istituto Statale di Istruzione Secondaria Superiore “Galileo Galilei” di Poppi, in occasione della celebrazione del 200° anniversario della nascita di Charles Darwin e del 150° anniversario della pubblicazione di “On the Origin of Species”, ha ritenuto significativo organizzare una giornata di studio su alcune tematiche di rilievo inerenti al mondo dei viventi per celebrare gli eventi che hanno cambiato la storia della scienza e delle scienze, oltre che la nostra visione del mondo, inclusa la visione di noi stessi e dei nostri rapporti con gli altri viventi. Le tematiche dell’evoluzionismo darwiniano sono state collegate a quelle del razzismo e dell’etica animale, dato che nella teoria del grande scienziato ci sono i presupposti per riconsiderare i rapporti tra noi uomini e le altre specie, per tenere nel dovuto conto la sensibilità e le sofferenze cui spesso sono inutilmente sottoposti molti animali, proprio sulla base del confronto con l’uomo e della continuità del mondo dei viventi che comprende tutti, uomini e no. DARWIN 150 ANNI DOPO DARWIN: A UN SECOLO E MEZZO DALLA PUBBLICAZIONE DI ON THE ORIGIN OF SPECIES DI CHARLES DARWIN Mario Tanga 1. IN GENERALE 2. LA NUOVA SINTESI EVOLUZIONISTICA 3. LA BIOLOGIA EVO-DEVO 4. LA TEORIA DELLA SELEZIONE CLONALE 5. LA TEORIA DELLA SELEZIONE DEI GRUPPI NEURONALI (TSGN) 6. LA MEDICINA DARWINIANA 7. LA TEORIA MEMETICA 8. DARWINISMO SOCIALE 9. PSICHIATRIA DARWINIANA 10. SIMULAZIONE INFORMATICA DELL’EVOLUZIONE DARWINIANA 11. CONCLUDENDO 1. IN GENERALE Il periodo che ci separa dalla pubblicazione di On the Origin of the Species di Charles Darwin è stato di straordinaria importanza per la storia della scienza e della cultura, soprattutto nella prospettiva che più o meno direttamente riguarda le conseguenze e l’eredità di tale opera. Non si tratta di un lascito diretto, che si è conservato integralmente o che ha progressivamente maturato ovvi e prevedibili sviluppi in perfetta continuità con la teoria di partenza. Come immancabilmente accade nella storia della scienza e delle idee, la dinamica è fatta anche di rotture e svolte inaspettate, di paradossi e controtendenze. Quindi già da adesso è bene chiarire che ciò che abbiamo oggi in mano non è la teoria di Darwin così come la enunciò l’autore, traghettata indenne sulle sponde del territorio scientifico attuale, metodologico e di contenuto. Nello stesso Darwin possiamo riconoscere due periodi fondamentali, il “giovane” Darwin e il “vecchio” Darwin, ovviamente non estranei tra loro, ma nemmeno sovrapponibili. A questo dobbiamo aggiungere l’altro fatto: ci sono ben 150 anni che, ad un tempo, ci uniscono al e ci separano dal grande naturalista: Darwin è ormai lontano anni-luce, ma è ancora di straordinaria attualità. Sarebbe infatti miopia storica, epistemica ed epistemologica, negare quanto vasta e profonda sia stata l’influenza di Darwin sulle scienze della vita (intese nell’accezione più ampia possibile) e in altri settori fino ad oggi (e per il futuro, molto verosimilmente…), quanto sia stata coinvolgente e travolgente la visione del mondo che ci ha offerto, ma soprattutto quanto sia stata feconda. Proprio la distanza che la scienza ha percorso a partire da Darwin, proprio l’eterogeneità dei territori conquistati a partire dalle sue teorie e, in modo apparentemente paradossale, le grandi differenze che emergono dal confronto con esse, dimostrano tutta la potenza e la portata dell’opera di questo straordinario scienziato. La storia della teoria darwiniana (se la definizione è lecita) a volte, come un fiume carsico, è scomparsa dall’orizzonte visibile del sapere ufficiale, ma solo per riemergere più oltre, magari con una portata maggiore e con una direzione diversa… Il vasto e complesso apparato delle teorie darwiniane e il quadro della nuova sintesi evoluzionista, possono essere misurati e comparati con metri diversi e possono esser loro riconosciuti ordini di grandezza diversi: dal “paradigma” kuhniano, il più ristretto, attraverso il “programma di ricerca” di Lakatos fino alla “tradizione di ricerca” di Laudan 1. Tutto questo ci permette di capire una comune appartenenza concettuale, di implicazioni e di vedute, al di là di ogni divergenza o eterogeneità o, come i detrattori amano dire, incoerenza e insostenibilità. A chi contesta la mancanza di un apparato matematico che possa fungere da sostegno o modellizzazione della teoria evoluzionista, possiamo rispondere che la “matematica dell’evoluzione” esiste da più di cento anni e che a tutt’oggi sta dando risultati interessanti, specialmente con la gestione informatica. Molte scienze e molto diverse tra loro (come matematica, fisica, chimica, biologia, immunologia, genetica molecolare, teoria dell’evoluzione, antropologia, sociologia, psichiatria, psicoanalisi, teoria dell’informazione, scienze della comunicazione…) sono scienze che hanno visto un momento di sviluppo straordinario proprio in questo secolo e mezzo nel quale non hanno potuto fare a meno di confrontarsi con Darwin o con ciò che ne è seguito. Inoltre dobbiamo osservare che la scienza del XIX-XX secolo ha mostrato una doppia tendenza: da una parte frammentazione e specializzazione e dall’altra necessità di confronto, incrocio e integrazione dei progetti di ricerca e dei risultati. Cioè, a dispetto dell’innegabile moto centrifugo che ha spinto la ricerca scientifica in una miriade di direzioni divergenti, nei 150 anni in questione si osservano anche grandi convergenze e prendono progressivamente corpo complessi quadri pluridisciplinari, di vasta portata e con implicazioni profonde, capaci di estendere la loro influenza oltre i limiti dei contenuti che enunciano. Ciò in questa sede è interessante proprio perché sono esempi significativi di tutto ciò la sintesi evoluzionistica, la medicina darwiniana, la teoria della selezione clonale, il neurodarwinismo, gli studi sui sistemi emergenti, la biologia Evo-Devo, la teoria memetica, il darwinismo sociale. 1 Giulio Barsanti, Una lunga pazienza cieca, Torino, Einaudi, 2005. Sebbene non tutte destinate alla stessa fortuna, sarebbe interessante vedere sia i rapporti tra le diverse scienze che concorrono alla formazione di ognuna di queste teorie, sia la reciproca influenza che le lega alla filosofia, al pensiero comune e ai comportamenti. I temi messi in campo sono di enorme portata e carichi di risonanze emotive ed esistenziali: la temporalità del mondo, e del mondo dei viventi in particolare, il rapporto tra uomo e natura (di fatto una “naturalizzazione” dell’uomo…), l’esclusione di ogni provvidenzialità a vantaggio del caso e della dura lotta per la vita, senza sconti per niente e per nessuno. Tentando una schematizzazione (che necessariamente trascura o nasconde la fitta e complessa trama di correlazioni che legano i temi della scienza, ma che offre la necessaria chiarezza per una prima visione delle questioni), si possono individuare alcuni fondamentali nuclei di ricerca, legati alla tradizione il cui avvio è segnato dall’Origine delle Specie, nuclei che sono giunti ad una ormai riconosciuta formalizzazione e che hanno strutturato un loro specifico statuto epistemologico. 2. LA NUOVA SINTESI EVOLUZIONISTICA In parte portatrice di novità ed elementi originali, in parte erede di Darwin, la “Sintesi evoluzionistica” o “Nuova sintesi evoluzionistica” nella denominazione di Julian Huxley2 (nipote di Thomas) nel 1942, chiama a stringersi intorno ad un unico progetto di ricerca paleontologi, genetisti, studiosi di anatomia comparata, morfologi, ecologi, biogeografi, etologi, sistematici, citologi, embriologi, biologi dello sviluppo. Le due grandi anime della ricerca evoluzionistica, quella naturalistica che lavora sul campo e quella sperimentale che preferisce il laboratorio, trovano finalmente il loro punto di convergenza. Tale convergenza oggi, con il senno del poi, appare più che scontata, ma se si pensa che Darwin formulò la sua teoria al di fuori della genetica mendeliana (il lavoro del Mendel e quello di Darwin resteranno pressoché estranei ancora a lungo…), che la stessa genetica mendeliana sarà quasi ignorata fino all’inizio del XX secolo (nonostante fosse destinata a costituire la base della successiva genetica) e che, in tale periodo, i primi incontri tra una genetica rediviva ed evoluzionismo ancora per certi versi immaturo non furono proprio un idillio, si capisce perché la costruzione della nuova sintesi fu un lavoro paziente e faticoso. Oggi se ne apprezzano i risultati: l’evoluzione dei viventi ha ricevuto un contributo straordinario dal suo inserimento all’interno di un quadro che comprende oggi molte discipline. Da ambiti disciplinari così diversi, in modo autonomo, sostanzialmente emergono conferme dell’originaria teoria dell’evoluzione, conferme che non possono essere semplici coincidenze. Nei geni, così come nei processi di sviluppo è scritta la storia filogenetica dell’organismo, in taluni casi persino la cronologia. A 150 anni di distanza l’apparato teorico di Darwin è profondamente mutato, il suo baricentro si è spostato, e, al tempo stesso, ha acquistato una forza e uno spessore allora forse nemmeno immaginabili. 3. LA BIOLOGIA EVO-DEVO L’unione ufficiale tra biologia dello sviluppo e teoria dell’evoluzione è avvenuta nel 1999, quando la biologia Evo-Devo (“Evolutionary Developmental Biology”) ha avuto la sua propria divisione nella Società per la biologia integrata e comparata (Society for Integrative and Comparative Biology, SICB). Questo è stato in un certo senso lo sbocco ovvio di una lunga deriva della ricerca scientifica: i tempi erano maturi affinché i biologi evoluzionisti e dello sviluppo trovassero un campo comune nei termini posti da questa teoria. Il campo dell’embriologia fino ad un passato non troppo lontano (pochi decenni fa) pareva essere coinvolto da quello dell’evoluzione non più che per ragioni di “ricapitolazione filogenetica” (nel senso che l’ontogenesi avrebbe ricapitolato la filogenesi, eterno ritorno in estrema sintesi degli 2 Julian Sorell Huxley, Evolution: the modern synthesis, Londra, 1942. Trad.: Evoluzione. La sintesi moderna, Roma, 1960. eventi evolutivi che avevano portato a quella certa specie). Adesso la biologia Evo-Devo intreccia sviluppo embrionale ed evoluzione in modo più stretto e complesso, e soprattutto rompe la concezione seriale, sequenziale (di aristotelica memoria…), in cui la ricapitolazione filogenetica pare ancora mettere i viventi 3. 4. LA TEORIA DELLA SELEZIONE CLONALE In immunologia il paradigma “adattamentista” ed “epigenetico” (secondo il quale l’antigene ha il potere di formare gli anticorpi che dovranno combatterlo, “imprimendo” le proprie caratteristiche sulle difese organiche ancora solo potenziali) ha lasciato il posto a quello “innatista” ed “evoluzionista”. In altre parole, siamo nella seconda metà degli anni ’50 del ‘900, le ricerche di Niels, Kay, Jerne e Burnet propongono un modello radicalmente alternativo a quello tradizionale: il sistema immunitario ha un repertorio anticorpale qualitativamente molto vario, all’interno del quale sicuramente c’è anche l’anticorpo che può combattere specificatamente l’antigene, solo che, per ovvie ragioni “logistiche” e “spaziali”, in quantità del tutto insufficiente. Ma il contatto antigeneanticorpo è l’innesco di un processo che ovvia a questa carenza quantitativa. Il “clone” giusto (la teoria di Burnet non per niente è detta della “selezione clonale”) si moltiplica a dismisura fino ad essere (auspicabilmente) in grado di debellare l’infezione. 5. LA TEORIA DELLA SELEZIONE DEI GRUPPI NEURONALI (TSGN) La TSGN, formulata da G. M. Edelman si presenta con una posizione fortemente critica delle teorie funzionalista e connessionista. Detta anche neurodarwinismo, si fonda sull’idea che il sistema nervoso si presenti, all’inizio della vita, con una dotazione di neuroni, e relative connessioni, ridondante, ovvero eccessiva. L’esperienza indurrebbe una selezione dei gruppi neuronali favorendo la sopravvivenza di quelli più idonei all’interazione con l’ambiente e la morte di quelli inutili o che provocherebbero guai nell’interazione stessa. E non è tutto: secondo ricerche recentissime la neuro genesi proseguirebbe per tutta la vita ad un ritmo molto copioso (diverse migliaia di neuroni al giorno). Se i neuroni “neonati” vengono impegnati in compiti impegnativi di apprendimento entro una finestra temporale che si chiude dopo circa due settimane, la loro sopravvivenza viene garantita. In caso contrario muoiono, ma nel frattempo altri ne sono nati per giocarsi la stessa opportunità. E così via per tutto la vita del soggetto. È evidente il carattere “selettivo” ed “evolutivo” di tale processo e il suo valore di continua opportunità di modellamento del S.N. 4 La TSGN, nata da una teoria analoga (Teoria della Selezione Clonale, relativa al sistema immunitario), propone una concezione evoluzionistica in sostituzione di quella “istruttiva” che fino ad allora aveva dominato. Sistema immunitario e neuroni, prima visti in chiave “antropomorfica” (una tabula rasa che apprendeva, ricevendo l’impronta del mondo), vengono iscritti in una prospettiva evolutiva su scala ontogenetica. Quindi non solo è stato dimostrato falso il cosiddetto “dogma centrale della neurobiologia” (enunciato da Bizzozero nel 1895 e che suona così: nella vita extrauterina i neuroni possono solo morire e ciascun neurone che muore è perso per sempre, il che esprime tra le righe una visione catastrofica…) osservando i processi di neurogenesi nell’adulto, ma anche la morte neuronale assume tutto un altro significato. 6. LA MEDICINA DARWINIANA Ospite e agente infettante/infestante sono organismi che si sono evoluti e coevoluti, hanno una loro storia, parte della quale è in comune. Una storia che è fatta di equilibri più o meno stabili e che solo eccezionalmente imbocca strade catastrofiche, in cui l’esistenza di una delle due componenti è 3 4 Sean B. Carrol, Infinite forme bellissime, Codice Edizioni, Torino, 2006. Tracey J. Shors, Sfida ai nuovi neuroni, Le Scienze n.489, Maggio 2009. incompatibile con la vita dell’altra. Più spesso il loro rapporto è silenzioso e senza esiti definitivi. Molti teorici della visione darwiniana della malattia sono propensi a vedere il rapporto ospiteparassita-mondo come una complessa rete di relazioni, una rete sistemica, inoltre, in cui la variazione di un elemento porta tutto il sistema a ristrutturarsi secondo configurazioni nuove e, spesso, imprevedibili. 7. LA TEORIA MEMETICA Possiamo considerare la teoria memetica come il frutto maturo di un itinerario scientifico e culturale che prende le mosse dal tentativo di definire la natura dell’evoluzione culturale, ed estensivamente dell’uomo che ne è l’autore, rispetto a quella biologica. Occorre perciò fare un passo indietro rispetto alla sua nascita “ufficiale” e iniziare da quando il problema fu posto in questi termini. Come tutte le grandi novità scientifiche la teoria dell’evoluzione travalica i limiti strettamente scientifici e tende a divenire un elemento di rinnovamento concettuale più profondo. Come tale porta inevitabilmente con sé tentazioni di riduzionismo: si cerca cioè di spiegare con essa anche quelle realtà per le quali non era stata pensata, prima fra tutte quella umana. L’uomo e la cultura sono stati commisurati con la teoria evolutiva da quando questa ha fatto la sua comparsa. Il fatto che il mondo culturale sia inscritto nella dimensione temporale e mostri una intrinseca tendenza a manifestare una dialettica tra la persistenza e la trasformazione, ha reso impossibile evitare il confronto tra il mondo culturale stesso e il mondo biologico. Il confrontarli ha come presupposto comunque una loro reciproca eterogeneità o quantomeno distinzione. Ma si tratta di una eterogeneità che pare, da Darwin in poi, essere divenuta permeabile a confronti, parallelismi, analogie… Non è un caso che proprio l’autore che ha formulato la denominazione “Nuova Sintesi Evoluzionista” (Julien Huxley, Evolution: the modern synthesis, 1942) si sia posto in modo esplicito il problema, problema che viene risolto decretando la superiorità dell’uomo. L’evoluzione culturale ha prima mitigato e poi soppiantato quella biologica. La prima ha agito in modo cieco (leggi casuale), ma annovera tra i suoi frutti l’intenzione cosciente, che cieca non è più. L’evoluzione culturale quindi succede in ordine cronologico e supera in termini di controllo gerarchico l’evoluzione biologica. Una visione tutto sommato finalistica e antropocentrica, ma scevra da ogni contaminazione di razzismo. J. Huxley, insieme ad Alfred Hutton, confuta infatti con forza il concetto di razza e si vanta di aver messo un “bastone scientifico” tra le ruote di Hitler. Su questa linea antiriduzionista si colloca un ventennio più tardi Theodosius Dobzhansky (Mankind evolving, 1962). “L’evoluzione umana ha due componenti;l’una biologica, ossia organica, e l’altra culturale, ossia supra-organica. Queste due componenti non sono alternative né interdipendenti, ma complementari e solidali. La nostra evoluzione non può né deve essere spiegata come un processo puramente biologico, né deve essere descritta come una storia della cultura.” (Theodosius Dobzhansky, Mankind evolving, 1962, p. 20) L’evoluzione culturale, sempre secondo Dobzhansky, è più veloce di quella genetica, della quale rappresenta una derivazione molto potente. Ha la capacità di modificare l’ambiente e di adattarlo all’organismo, quasi costituisse per l’ambiente stesso, rileggendo il concetto con gli strumenti concettuali di oggi, una sorta di genoma. Grazie ad essa l’uomo si affranca dalla sua schiavitù alle leggi della genetica. La capacità di manipolare le caratteristiche genetiche gli consente di essere fonte di mutazioni e criterio di selezione. Questo però non significa che l’uomo si sostituisce alla natura, alle leggi biologiche dell’evoluzione. Queste non possono e non devono essere rinnegate, né si deve credere che il sottostare ad esse ci privi della nostra dignità di uomini. La genetica è e rimane la precondizione per la cultura. Come si nota è una visione in cui l’antropocentrismo è notevolmente attenuato rispetto alla posizione di Huxley, pur senza rinunciare alla specificità della condizione umana. Anche se Dobzhansky riconosce all’evoluzione culturale il potere di incidere su quella biologica, egli rifiuta ogni proposito di uso eugenetico di tale potere. Anzi, espressamente dichiara la necessità e il valore di ogni intervento a sostegno dei deboli, degli infermi e dei malati. Se mai qualcosa si deve fare per modificare l’evoluzione biologica, sostiene, deve essere in tale direzione: questa è la vera eugenetica!... Quindi la scelta di una declinazione decisamente etica per l’intervento della evoluzione culturale su quella biologica. La posizione di Dobzhansky fa da contraltare alla linea inaugurata da Galton con la sua “scienza della buona stirpe” e che portò nel 1904 alla fondazione dell’”Archivio per la biologia delle razze…” da parte dello zoologo Ludwig Plate. La scienza memetica è un campo relativamente recente di conoscenza (possiamo dirlo nato con Richard Dawkins che crea il termine “meme” nel 1976 sul calco di “gene”), che tratta con l’analisi quantitativa i transfert culturali. Le unità di transfert culturale sono entità denominate “memi”. Semplificando al massimo i memi sono per i costrutti culturali e mentali ciò che i geni sono per gli organismi biologici. Esempi di memi sono le idee, le espressioni, le mode, e virtualmente qualsiasi unità culturale e comportamentale che può venire (e viene) replicata con un certo grado di fedeltà, quindi mantenendo una certa persistenza a prescindere dal soggetto che ne è o dai soggetti che ne sono i portatori. È intuibile che la comprensione del meme è di analoga importanza e ha conseguenze simili ai processi che coinvolgono il DNA e l’RNA in biologia molecolare. Dei memi si può studiare la genesi, l’interazione (con altri memi e con i soggetti o i contesti) le mutazioni, la crescita, la diffusione/riproduzione, l’evoluzione e la morte/estinzione. Se da una parte questo ambito di studi si aggancia alla questione dell’evoluzione culturale e dei suoi rapporti con quella biologica, dall’altra si colloca all’interno di un altro vasto orizzonte che ha visto, proprio dalla metà dell’Ottocento ad oggi, le teorie dell’informazione acquistare rilievo e stringere forti legami praticamente con tutte le discipline, da quelle propriamente fisiche a quelle “umanistiche”, passando ovviamente attraverso quelle biologiche. Proprio riguardo a queste ultime studiosi come Grmek parlano di “terza rivoluzione biomedica”. Una memetica ricombinante è possibile in completa analogia con quanto studia l’ingegneria genetica. Questo versante propositivo e progettuale aperto dalla concezione memetica dei contenuti e dei processi cognitivi, comportamentali e culturali ha portato gli studiosi a concepire “algoritmi memetici”. 8. DARWINISMO SOCIALE È stata così denominata l’estensione delle teorie darwiniane (o quantomeno di una parte di esse) al contesto umano e sociale. Padre e fondatore di ciò che è chiamato darwinismo sociale è Herbert Spencer, contemporaneo di Darwin ed altrettanto popolare, interpreta questa teoria per la «selezione dei più adatti» (Survival of the fittest). Il “darwinismo sociale” di Spencer non è successivo alla pubblicazione dell’Origine di Darwin, come la sua “etichetta” potrebbe far pensare: Spencer già in Social Statistic (1851), ripropone il Malthusianesimo. Le posizioni di Darwin non possono essere fatte coincidere con il darwinismo sociale, dato che per esempio, egli non condivideva affatto tesi razziste e sessiste, né proponeva, come invece faceva suo cugino, Francis Galton, con Human Faculty and its Development (1883), in cui troviamo per la prima volta il termine eugenetica, cioè ipotizza il praticare la selezione attiva degli individui, intervenendo “artificialmente” sui processi evolutivi. La strumentalizzazione ideologica e politica, che ha intersecato spesso le tesi del darwinismo sociale, ne ha spesso travalicato i limiti, fino a divenire apologia della guerra o delle persecuzioni come strumento di (necessaria!...) selezione, o fino a legittimare in chiave biologica la superiorità della società e della cultura occidentale, viste come più avanzate, in nome di presunti caratteri innati e quindi ereditari. Il darwinismo informatico, ultima propaggine, in ordine di tempo ma non di importanza, del darwinismo sociale, può essere ascritto in questo quadro, sebbene con una declinazione del tutto particolare, relativa all’accesso alle risorse informazionali e delle tecnologie di supporto di tali informazioni. 9. PSICHIATRIA DARWINIANA Anche la psichiatria ha tentato di legarsi ai temi dell’evoluzione nello studio delle malattie mentali e delle relative terapie. Questo approccio alla psicopatologia, relativamente nuovo, ha raccolto un notevole interesse tra i clinici che hanno espresso giudizi di valore contrastanti relativamente ad essa. Il tratto distintivo della psichiatria darwiniana è la distinzione tra sintomi disfunzionali e sintomi adattativi: questi ultimi non necessariamente sono interpretabili come manifestazioni disfunzionali correlate a un danno neurobiologico o a un processo psicopatologico. Quando si attua l’intervento terapeutico, farmacologico o psicoterapeutico, questo deve in ogni caso preservare i sintomi adattativi, eliminando selettivamente quelli disfunzionali. La psichiatria darwiniana richiama l’attenzione sulla valutazione delle capacità funzionali del paziente, in quanto possono essere distinti dai sintomi, in disturbi come la depressione e le psicosi. Tali capacità vanno quindi preservate e ripristinate in sede di terapia, pena la non validità di questa, anche se rimuove la sintomatologia. 10. SIMULAZIONE INFORMATICA DELL’EVOLUZIONE DARWINIANA Quanto accade in natura ha trovato una straordinaria corrispondenza nel mondo virtuale sintetico dell’informatica. Sono stati condotti esperimenti in una duplice direzione: da una parte simulare le dinamiche mutazionali e selettive secondo le regole darwiniane (e la “fedeltà” alla natura si è mostrata in alcuni casi davvero sorprendente e di notevole utilità euristica per i ricercatori), dall’altra parte i programmi non simulano la competizione tra enti simulati, ma competono essi stessi tra di loro, direttamente, per l’accesso a “risorse scarse”, come la memoria del computer o cose di questo genere: mutano, agiscono uno contro l’altro, alcuni si “estinguono”. E questa non può essere chiamata simulazione… 11. CONCLUDENDO La teoria darwiniana, a 150 anni dalla sua enunciazione ufficiale è oggi più viva che mai, ha già prodotto risultati straordinari in molti settori della scienza e della cultura, ha dato modo a studiosi delle discipline scientifiche più disparate di intersecare i loro studi e collaborare, promette ulteriori sviluppi. Le prove a sostegno che a questo momento si possono invocare sono tali e tante che la teoria può dirsi ormai “al là di ogni ragionevole dubbio”, come titola uno dei libri più recenti e qualificati sull’argomento. L’EVOLUZIONE TRA MATEMATICA E INFORMATICA Fausto Ghelli Quanto accade in natura ha trovato una straordinaria corrispondenza nel mondo virtuale sintetico dell’informatica. Sono stati condotti esperimenti in una duplice direzione: da una parte simulare le dinamiche mutazionali e selettive secondo le regole darwiniane (e la “fedeltà” alla natura si è mostrata in alcuni casi davvero sorprendente e di notevole utilità euristica per i ricercatori), dall’altra parte i programmi non simulano la competizione tra enti simulati, ma competono essi stessi tra di loro, direttamente, per l’accesso a “risorse scarse”, come la memoria del computer o cose di questo genere: mutano, agiscono uno contro l’altro, alcuni si “estinguono”. E questa non può essere chiamata simulazione… Gli algoritmi genetici e gli organismi viventi presentano lo stesso scenario evolutivo dal momento che lo schema secondo cui essi evolvono può essere assimilabile a quello di scelta modale (modal choice), definito come un modello comportamentale basato sull’utilità aleatoria che simula il processo evolutivo tra alternative discrete o disaggregate in cui sussiste l’indipendenza dei fattori. Tra l’evoluzione biologica ed il modello di scelta emergono delle analogie e differenze: all’entità matematica che simula l’evoluzione si raffronta la natura con le mutazioni del DNA (la soluzione del problema nella sua espressione completa), le mutazioni del singolo Gene (corrispondente al BIT) e l’espressione del DNA stesso (l’approssimarsi all’intorno della soluzione di ottimo, massimo o minimo assoluto). Alla base del modello matematico ci sono delle ipotesi di lavoro: − Il decisore (in questo caso razionale) Vs l’ambiente “collo di bottiglia” fa passare gli adatti (il decisore in natura non è antropomorfico) − È necessario scegliere (risorse scarse) con una procedura di concatenamento gerarchico di scelte − Si deve massimizzare la funzione di utilità (dell’organo/della funzione, ma decide del destino dell’individuo o popolazione) Il modello matematico-informatico preso in esame simula, ma anche imita l’evoluzione, perché è costituito da entità che evolvono a loro volta. Questo è un modello di tipo Logit Multinomiale Gerarchizzato a più livelli, in cui la natura è posta di fronte a diverse scelte annidate in sottoinsiemi strutturati su più livelli, come illustrano i diversi tipi di grafi di strutture cladistiche. Un modello modale deve essere stimato, cioè sottoposto a procedure di 1. Specificatio, 2. Calibratio, 3. Validatio, affinché la simulazione risulti il più possibile affine alla realtà. Un modello di scelta gerarchizzato molte volte presenta soluzioni in forma chiusa, ottenibili con metodi tradizionali (es.: metodo del gradiente, di Newton, della ricerca iterata, della ricerca casuale), ma la situazione risulta molto diversa quando si hanno funzioni matematiche in 2D oppure 3D non convesse come quelle modello della natura. In queste situazioni si ricorre allo strumento dello Stimatore di massima verosimiglianza: funzione in base logaritmica fondata sulla probabilità condizionale, in cui per la determinazione dei coefficienti del “vettore calibrazione” si usano algoritmi genetici che si comportano a loro volta darwinianamente. Tale affermazione si basa sul fatto che essi competono realmente per ottenere la fitness più alta, ovvero per posizionarsi nell’intorno dell’ottimo. Gli algoritmi genetici (Genetic Algorythmics, GA) sono sia auto che etero-referenziali, inoltre sono algoritmi di tipo stocastico facenti parte della computazione evolutiva, che rappresenta una ristretta area dell’intelligenza artificiale. Le fasi principali dei GA sono: Selezione, Riproduzione, Mutazione e Valutazione (intesa anche come convergenza, illustrata più oltre). Alla base degli algoritmi genetici c’è l’ipotesi di J.Holland (cfr. Adaption in Natural and Artificial Systems, 1975), il quale affermò che una possibile soluzione per un problema possa essere rappresentata come un set di parametri (che, mutuando la terminologia biologica, furono da lui denominati geni) i quali sono uniti insieme per formare una stringa di valori (spesso chiamata secondo il medesimo parallelismo cromosoma) la cui rappresentazione ideale è un albero binario. L’insieme di questi è ovviamente il genoma. Ruolo fondamentale in un algoritmo genetico è quello rivestito dalla funzione di idoneità o di fitness che, dato un particolare cromosoma, restituisce un singolo valore di adattamento o di figura di merito, che si suppone sia proporzionale all’utilità o abilità dell’individuo che il cromosoma rappresenta. Le suddette fasi in breve: Selezione. Vengono allocate opportunità riproduttive a ciascun individuo, gli individui presi dalla popolazione sono inseriti in insiemi di scelta dove gli individui migliori , con una fitness elevata, hanno una probabilità sensibilmente superiore di riprodursi più volte, mentre i peggiori potrebbero non essere mai presi in considerazione. Riproduzione. Gli individui-cromosomi, genitori, selezionati nella popolazione a caso usando uno schema random, che permette agli individui migliori di prevalere, sono ricombinati producendo la discendenza che sarà compresa nella generazione successiva. La riproduzione avviene attraverso l’uso sia del Crossover (le tecniche possono essere: Punto Singolo, Due Punti, Uniforme) sia della Mutazione, applicata ad ogni figlio singolarmente dopo il cross-over stesso e comunque con una probabilità molto bassa. Mutazione. È lo strumento che porta un po’di casualità nella ricerca e garantisce che nel dominio di indagine nessun punto abbia probabilità nulla di essere preso in considerazione. Si attua cambiando un singolo bit nella stringa binaria del cromosoma. La mutazione consente una reintroduzione inaspettata di valori di geni perduti(es.: alleli recessivi), prevenendo la deriva genetica assimilabile ad un modello puramente deterministico; la probabilità di mutazione deve comunque essere tenuta bassa per evitare l’eccessiva aleatorietà del modello, altrettanto dannosa. Si parla di evoluzione naive quando la riproduzione è composta solo da selezione e mutazione senza cross-over, fermo restando che la vera efficacia nel processo riproduttivo si ha con l’impiego contemporaneo di mutazione e cross-over, in quanto facenti parte di un operatore di esplorazione più generale. Convergenza. La popolazione evolverà in molte generazioni in modo che la funzione di idoneità del migliore individuo e la media in ogni generazione cresca verso l’ottimo globale. La convergenza è la progressione verso la crescente uniformità. Si considera che un gene converge quando il 95% della popolazione condivide lo stesso valore. Le due situazioni limite sono da una parte convergenza prematura (pochi individui giungono a dominare in poco tempo la popolazione, convergendo verso un max locale) e dall’altra convergenza lenta (che impiega molte generazioni, ma non garantisce la convergenza verso il max assoluto; infatti l’andamento medio risulta alto, ma è ridotta la differenza tra la media e il miglior individuo). Applicando le precedenti fasi possiamo vedere come gli strumenti di un GA consentono di trovare il min assoluto di una funzione non convessa in 2D (e analogamente in 3D). Per capire il funzionamento dell’applicazione di un GA è sufficiente esaminare cosa accade ad un generico passo: all’i-esima iterazione tra le candele di esplorazione, si individua la soluzione migliore del passo in questione e, utilizzando il fattore della mutazione, viene esaminato tutto il dominio di indagine garantendo che tutti i punti vengano presi in considerazione. L’obiettivo del processo iterativo è l’individuazione dell’intorno del max o min assoluto, per poi poter procedere per una maggior precisione con i metodi convenzionali. La simulazione con i GA presenta un’affinità al caso reale molto buona, dell’ordine del 20%, molto elevata se confrontata con i metodi usati in passato, che non andavano oltre il 4%. LA CULTURA DELLA RAZZA FRA FILOSOFIA E SCIENZA Gaspare Polizzi 1. INTRODUZIONE 2. DEFINIZIONI DI RAZZA E RAZZISMO 3. LE TEORIE ANTROPOLOGICHE MODERNE DELLE RAZZE 4. GENETICA DI POPOLAZIONI E ‘RAZZE’ 5. SERRES E L’OLTREPASSAMENTO DEL RAZZISMO 6. Bibliografia ragionata 1. INTRODUZIONE È ben noto come nella tradizione culturale e politica del Novecento la definizione del concetto di «razza» e di «razzismo» abbia subito modifiche radicali e politicamente cruciali fino alla negazione, diffusa nell’immediato dopoguerra, di ogni differenza «razziale», recepita con forza nell’articolo 3 della Costituzione Italiana, che tuttavia mantiene il termine e il concetto. Seguire il percorso che dal Settecento a oggi ha condotto alla cancellazione del significato scientifico del concetto di «razza» consente di intrecciare nella cultura europea visioni filosofiche e teorie scientifiche. Il presente lavoro intende seguire tale itinerario in quattro passaggi, soffermandosi su alcune definizioni filosofiche e scientifiche di razza e razzismo in importanti repertori del Novecento, illustrando il valore culturale di alcune teorie antropologiche moderne, specie settecentesche, discutendo il rilievo delle più attuale ricerche di antropologia e genetica di popolazioni e concludendo con un auspicato oltrepassamento del concetto di razza. 2. DEFINIZIONI DI RAZZA E RAZZISMO Se si seguono in ordine cronologico alcune rilevanti definizioni di razza e razzismo fornite da dizionari ed enciclopedie filosofico-scientifici del Novecento si riconosce uno slittamento semantico significativo nel suo lento e costante progredire. Nel Dictionnaire Philosophique curato da André Lalande nel 1902-23 alla voce Race viene proposta una doppia definizione, con la quale si pongono in contrasto l’affermazione e la negazione dell’esistenza della razza. Mentre nella definizione B si utilizza un’asserzione di Hyppolite Taine e si enuncia: «Gruppo di individui, di estensione minore di quella della varietà, presso i quali si perpetua, per eredità e indipendentemente dall’azione abituale dell’ambiente, un insieme di caratteri biologici, psicologici o sociali che li distingue dagli individui appartenenti ad altri gruppi vicini»; nella definizione A si afferma, poggiando sull’autorità scientifica di Vito Volterra che «L’esistenza di una realtà biologica, rispondente a questo concetto, nel senso B, è contestata». Di conseguenza proprio la definizione B viene utilizzata per descrivere – con l’apporto della prima grande dottrina razzista, peraltro di origine francese, quella di Gobineau – la voce Racisme, inteso come: «Razzismo, dottrina che ammette nella specie umana l’esistenza di razze, nel senso B, più speciali delle razze bianca, nera, gialla o rossa, e soprattutto 1 che considera queste differenze come i fattori essenziali della storia, 2 che fonda su di esse un diritto per le razze (o per la razza) superiori di subordinarsi le altre e anche di eliminarle» (Gobineau). Di tenore simile la definizione offerta dalla prima edizione della Enciclopedia Filosofica (1958), che –alla voce ‘razza’– richiama anch’essa gli studi di genetica e nega con decisione qualsivoglia assimilazione tra la ‘nazione’ e la presunta ‘razza’ ebraica. La razza: «È una variazione della specie che si forma gradualmente per il modificarsi dei “geni”. Non è un’entità statica, ma un complesso dinamico in equilibrio con l’ambiente». Di conseguenza: «La razza dunque è un'entità biologica, e si deve tener ben distinta dai concetti di nazione e di popolo», e se più razze possono unirsi in una nazione, entità di natura etnico-sociologica, per altro verso un popolo, entità di natura politica, può comprendere più razze o nazioni. Viene inoltre ribadita l’irriducibilità della ‘nazione’ ebraica al concetto biologico di razza («Gli Ebrei attuali non costituiscono né una razza, né un popolo, ma una nazione»). Permane tuttavia in tale grande realizzazione della cultura cattolica italiana il riconoscimento di una valenza biologica del concetto di razza, non ancora intaccato dagli studi, pur diffusi, della biologia molecolare. Peraltro, alla voce ‘Razzismo’ l'Enciclopedia filosofica rende conto, se pure in forma sommaria, delle quattro principali teorie razziste moderne, attribuite a Gobineau, Chamberlain, Hitler e Rosenberg. Meglio definita appare la definizione fornita da Nicola Abbagnano, che scrive, nel suo Dizionario di Filosofia (1961), alla voce “Razzismo”: «La parola deve essere riservata solo per quei gruppi umani contrassegnati da differenti caratteristiche fisiche che possono essere trasmesse per eredità. Tali caratteristiche sono principalmente: il colore della pelle, la statura, la forma della testa e della faccia, il colore e la qualità dei capelli, il colore e la forma degli occhi, la forma del naso e la struttura del corpo. Si distinguono tradizionalmente (e convenzionalmente) tre grandi razze che sono la bianca, la gialla e la nera, cioè la caucasica, la mongolica e la negroide. Pertanto i gruppi nazionali, religiosi, geografici, linguistici e culturali non possono essere chiamati, a nessun titolo, “razze”». Da un lato si procede a una distinzione morfologica delle tre grandi razze umane, dall'altro si aggiunge che non vi sono differenze razziali persistenti nei gruppi delle popolazioni umane e che: «Gli studi storici e sociologici tendono a rafforzare la veduta che le differenze genetiche sono fattori insignificanti nella determinazione delle differenze sociali e culturali fra gruppi diversi di uomini». Abbagnano va anche oltre, fino a negare la possibilità stessa di 'razze pure': «È molto probabile che non ci siano mai state, per quanto si può rimontare nel tempo, razze “pure”». È evidente che gli studi scientifici – vengono ora nominate “le differenze genetiche” – e l'apporto di una riflessione storiografica non indifferente rispetto ai tragici epiloghi del razzismo europeo si uniscono qui in una maggiore accentuazione della variabilità intraspecifica. Di maggiore interesse scientifico le voci, ampie e articolate dedicate alla “Razza” da Paolo Menozzi, ecologo evoluzionista formatosi a Stanford in genetica di popolazioni umane con Luigi Luca Cavalli Sforza, e alla “Discriminazione” da Léon Poliakov, uno tra i maggiori studiosi dell'antisemitismo moderno, nella Enciclopedia Einaudi. Nella voce curata da Menozzi troviamo un primo, inequivoco, riferimento alla biologia di popolazioni: «In biologia di popolazione il concetto di razza, intermedio tra quello di popolazione e quello di specie, è usato a fini pratici per indicare una rete di popolazioni sufficientemente isolata dalle altre reti di popolazione della specie, in modo importante ma non abbastanza da generare barriere riproduttive in caso di contatto geografico». Da tale asserzione ne consegue che «In biologia di popolazioni non esiste una definizione oggettiva dei limiti tra una razza e un'altra e le differenze tra le razze sono quantitativamente piccole». Menozzi ha però ben chiaro che la labilità scientifica del concetto di razza cozza contro i pregiudizi, diffusi anche tra gli uomini di cultura: «Difficile l'obiettività scientifica perché radicati sono i pregiudizi anche tra gli scienziati, pregiudizi xenofobi o razzisti presenti in tutte le culture». Dopo un’esauriente classificazione delle differenze di tipo esterno, tutte ambigue e superficiali, come il colore della pelle, l’odore del corpo, le caratteristiche morfologiche del viso, del corpo e del cranio, e le impronte digitali, viene assunta la casistica relativa ai gruppi sanguigni e alle caratteristiche del sangue, senz’altro più attendibili per valutare le differenze globali del patrimonio genetico, ma non direttamente corrispondenti alle differenze esterne, per arrivare a fornire una spiegazione evoluzionista delle diversità razziali legata all’adattamento all'ambiente e alla selezione sessuale. Emerge qui già l'ipotesi, che sarà sempre più suffragata da prove sperimentali, che le razze discendano da un'unica popolazione, differenziatasi per migrazione e successiva selezione e deriva genetica. Non mi soffermo sulla voce “Discriminazione”, trattata da Poliakov, in quanto essa si presenta come una ricostruzione efficace della tradizione antisemita europea e tedesca, che sintetizza alcune tra le più rilevanti ricerche condotte dell'autore sull'antisemitismo e sul razzismo delle quali darò conto più avanti. 3. LE TEORIE ANTROPOLOGICHE MODERNE DELLE RAZZE È noto che le radici filosofiche, scientifiche e linguistiche dell’antropologia moderna vanno rintracciate nel tardo Seicento e nel Settecento e confluiscono nel più ampio orizzonte dell'illuminismo europeo. Vedremo come in questo stesso torno di tempo si radicano alcuni elementi di una 'cultura' del razzismo, già presenti nella tradizione antropologica e filosofica del tardo Seicento inglese, che ha costituito – come è noto – il riferimento privilegiato per lo sviluppo dell'illuminismo. Il rinvenimento, tramite un raffinato scavo genealogico, di archetipi concettuali a carattere razzistico nel cuore stesso del razionalismo e dell’empirismo moderni va letto nella forma della comprensione di modi di pensare di un passato ormai lontano e non dell'asserzione di giudizi di valore, che condurrebbero a ritrovare improbabili precursori del razzismo contemporaneo. Con tale spirito non deve dunque stupire se in John Locke, uno dei ‘padri’ dell'empirismo moderno, ritenuto dagli illuministi un maestro indiscusso insieme a Newton, si trovino inequivocabili attestazioni del primato della razza bianca europea. Nonostante sia un sostenitore del principio di uguaglianza universale, Locke asserisce che l'idea complessa di 'uomo' implica quella semplice del colore bianco della pelle: «Un bambino che si è formata l'idea di un uomo [...] una tale complessità d'idee unite nel suo intelletto compone questa particolare idea complessa che si chiama uomo; e come il bianco o il colore carne fa parte di questa idea, il bambino può dimostrarvi che un negro non è un uomo perché il colore bianco è una delle idee semplici che entrano costantemente nell’idea complessa che egli chiama uomo. Egli può, dico, dimostrare in virtù di questo principio, che è impossibile che una cosa sia e non sia e che un negro non è un uomo» (Saggio sull'intelletto umano, IV, VII, 16). Appare sintomatica la scelta di un esempio che coinvolge la differenza tra uomo bianco e nero; nel presentare l’idea complessa di ‘uomo’ Locke non si perita di rintracciarvi l’idea semplice del colore bianco della pelle. L’esemplificazione, visualizzata con gli occhi di un bambino inglese del suo tempo, è indicativa di un radicato pregiudizio razziale, che viene confermato da un altro passaggio nel quale Locke assicura che il bambino, fin da quando comincia a pensare, sa distinguere fra la nutrice che gli dà da mangiare e il negro di cui ha paura. Ma si tratta anche di un pregiudizio fatto proprio da Locke nella logica dei «rapporti fra le idee», quando il filosofo inglese scrive: «...quando io considero [Caio] come un uomo, non ho in mente altro che un'idea complessa della specie Uomo; allo stesso modo quando dico che Caio è un uomo bianco non mi rappresento nient'altro che un uomo che possiede questo colore bianco. Ma quando do a Caio il nome di marito, designo al contempo qualche altra persona; cioè, sua moglie...» (Saggio sull‘intelletto umano, II, XXV, 1). L'idea complessa di ”uomo bianco” non si distingue da quella di “uomo” tout court, mentre il colore nero della pelle costituisce un’attribuzione aggiunta non qualificativa dell’idea di ‘uomo’. Se a ciò si aggiunge il valore empirico della razionalità in Locke ci si rende conto di quanto il pregiudizio antropologico, divenuto criterio logico e filosofico abbia inciso nella definizione dei nuovi sperimentali delle nascenti scienze umane. Gli studiosi di scienze naturali propongono quindi, con gradazioni diverse teorie che presuppongono le diseguaglianze razziali, a scapito delle razze inferiori, e prevalentemente, in questo periodo di sviluppo straordinario dello schiavismo, di neri. Accanto ai filosofi si presentano ora i naturalisti, gli antropologi e i primi teorici dell'anatomia comparata. Da un lato il maggiore ‘classificatore’ del Settecento, Carl Linneo, protestante ortodosso nella sua fede (con Bonnet, Haller e Meier), nel suo Sistema della natura inserisce ‘homo’ nel regno animale e lo avvicina alle scimmie antropomorfe, avviando un processo di comparazione che sfocerà nella biologia evoluzionistica, dall'altro produce una classificazione interna a ‘homo sapiens’ che distingue nettamente e 'ideologicamente' nell'ordine degli Antropomorpha, che diventò più tardi quello dei Primati, gli uomini bianchi dalle razze inferiori come rossi, neri, gialli («Europaeus albus: ... ingegnoso, inventivo... bianco, sanguigno... È governato dalle leggi. Americanus rubecens: soddisfatto del proprio destino, amante della libertà... abbronzato, irascibile... Si governa per mezzo delle usanze. Asiaticus 1uridus: ... orgoglioso, avaro... giallastro, melanconico... È governato dall'opinione pubblica. Afer niger: ... astuto, pigro, negligente... nero, flemmatico... È governato. dal volere arbitrario dei suoi padroni.»). Linneo e il suo allievo J. Fabricius introducevano così anche la teoria che i negri fossero il risultato di un incrocio tra scimmie e uomini bianchi. Anche Edward Tyson, il fondatore dell'anatomia comparata opera, in Orang Outang, sive Homo Sylvestris: or the Anatomy of the Pygme compared with that of a Monkey, an Ape and a Man, una comparazione funzionale tra uomo e scimpanzé, orientata a un doppio scopo: il confronto tra le struttura fisiologica della specie umana e dell'orang outang consente di vedervi delle chiare affinità funzionali, che avvicinano gli uomini alle scimmie antropomorfe, e di marcare le differenze che allontanando alcune razze umane da quella bianca le avvicinano alle scimmie antropomorfe. Il dibattito che ne deriva apre la strada a un ragionamento evolutivo che può essere svolto ancora una volta in duplice direzione: la razza bianca, al vertice della catena animale, lascia dietro di se le altre razze umane che appaiono come cristallizzazioni di precedenti fasi evolutive e in ciò più vicine alla natura delle scimmie. Se il nero è visto come più simile alla scimmia che al bianco prevale una interpretazione degenerativa e negativa, se invece viene visto come una tappa della costituzione della razza superiore bianca, se ne valorizza la vicinanza all'uomo superiore e si avvicinano le specie animali e quella umana. Da un lato ad esempio il “rousseauiano scozzese” lord Monboddo (1714-1799) vede nell'uomo europeo una scimmia o un negro che hanno saputo perfezionarsi e riconosce nella scimmia un ‘fratello’ dell'uomo: «Perché è certo, non appena l'osservate, scriveva ad un amico, che il babbuino prova desiderio per la nostra femmina, e [...] che essi si accoppiano insieme». Dall'altro, più comunemente, studiosi come il chirurgo puritano Charles White (1728-1809) vedono nella scimmia e nel negro gli uomini irrimediabilmente arretrati: «Risalendo la gerarchia, arriviamo finalmente all'europeo bianco, che, essendo il più lontano dalla creazione animale, può essere considerato in virtù di ciò come il più bel risultato della razza umana. Nessuno potrà mettere in dubbio la superiorità della sua potenza intellettuale. Dove troveremo, se non nell'europeo, questa bella forma della testa, e questo cervello cosi vasto? Dove questa statura eretta ed il nobile portamento? In quale altra regione della terra troveremo lo squisito rossore che si spande sui lineamenti delicati delle belle donne europee, come simbolo di modestia e di elevati sentimenti? Dove questa capacità di esprimere passioni amabili e dolci, e questa eleganza delle forme e della costituzione? Dove potremo trovare, tranne che sul seno della donna europea, questi due emisferi bianchi di neve coperti di una punta di color vermiglio?» Le questioni si complicano con lo sviluppo dell’antropologia fisica e culturale, anche se rimane prevalente la visione dell’ineguaglianza razziale. Tra gli antropologi del Settecento sappiamo che emergono le due linee dei monogenisti, sostenitori dell’origine unica dei gruppi umani da un progenitore comune e aderenti al dettato biblico, e i poligenisti che accentuano le differenze ‘razziali’ ipotizzando una diversa origine dei gruppi umani e una conseguente distanza razziale. Soffermandoci sui primi, che risultano più moderati mi pare opportuno focalizzare l’attenzione su un dibattito di un certo successo nell’Europa dei lumi. A partire dalla scoperta di casi di negri albiniPierre-Louis Moreau de Maupertuis 16981759 si esercitò nella Dissertation physique à l'occasion du Nègre blanc (1777), a proporre una nuova teoria razziale: «in seguito a queste improvvise nascite di bambini bianchi fra i popoli neri, si potrebbe forse concludere che il bianco è il colore primitivo degli uomini; e che il nero è solo una varietà diventata ereditaria da parecchi secoli, ma che non ha completamente cancellato il colore bianco, che tende sempre a ricomparire. E questo perché‚ non si vede mai succedere il fenomeno opposto, cioè non si vedono nascere da antenati bianchi bambini neri [...] Ciò potrebbe bastare forse a far pensare che il bianco è il colore dei primi uomini, e che solo in seguito ad avvenimenti imprevedibili il nero è diventato il colore ereditario delle grandi popolazioni che abitano la zona torrida; e fra le quali tuttavia il colore primitivo non è così perfettamente cancellato da non ricomparire qualche volta. Dunque questa difficoltà sull'origine dei Negri, più volte oggetto di discussione, e che taluni vorrebbero far valere contro la storia della Genesi che ci insegna che tutti i popoli della terra sono nati da un solo padre e da una sola madre; questa difficoltà è tolta di mezzo se si ammette un sistema per 1o meno altrettanto verosimile di tutto ciò che si è ideato fino ad ora per spiegare la generazione». Maupertuis introduce quindi una teoria del “carattere recessivo” del colore nero, che, pur essendo erronea in molte sue parti, anticipa in effetti la genetica mendeliana e la teoria delle variazioni. Essa, ripresa da Buffon, diviene famosa con il nome di “teoria delle degenerazioni”. La teoria delle ‘degenerazioni’ permetteva a Buffon di salvare il dogma ‘monogenista’; nella sua Histoire naturelle, fonte importante per le informazioni sugli uomini e gli animali esotici, scrive al proposito: «Da quando l'uomo ha cominciato a cambiare dimora, e si è dislocato di regione in regione, la sua natura ha subito delle alterazioni [...] I cambiamenti sono divenuti così forti e sensibili che si potrebbe credere che il negro, il lappone e il bianco formino delle specie diverse, se da una parte non fosse certo che c'è stato un solo uomo nell'atto originario della creazione, e dall'altro che il bianco, il lappone e il negro, così diversi fra loro, possono tuttavia unirsi e propagarsi [...] è cosa certa che tutti non sono che lo stesso uomo [...] se accadesse che l'uomo fosse costretto ad abbandonare le regioni che ha invaso in altri tempi per ritirarsi nel suo paese natale, riprenderebbe col tempo i tratti originari, la statura primitiva e il colore naturale [...] ma sarebbe forse necessario un numero di secoli abbastanza grande per produrre questo effetto...». In tal modo Buffon spiega la ‘degenerazione’ dei negri tramite una “differenza di sangue” ammettendo anche che questa degenerazione non sia irrimediabile. Accanto a tali teorici della inferiorità razziale dei neri, vanno però menzionate, nel medesimo ambiente illuministico sostenitori di vedute egualitarie e universaliste, come Montesquieu ed Helvetius, che vedono come determinante per la definizione dei caratteri antropologici l'educazione e ambiente o nurture. Ma anche uno storico come Condorcet esprime nella sua Epitre aux nègres esclaves una decisa professione antrirazzista: «Benché io non sia della vostra stessa razza, vi ho sempre considerato come fratelli. La natura vi ha dato vita perché abbiate lo stesso ingegno, la stessa ragione, le stesse virtù dei bianchi...». Le idee di uguaglianza e di giustizia sono ben presenti in Jean-Jacques Rousseau, insieme al riconoscimento dei limiti della conoscenza umana. «... Tutto il mondo è abitato da popoli di cui non conosciamo altro che il nome: e pretendiamo di giudicare il genere umano!», scrive nel Discours sur l'origine de l’inégalité parmi les hommes (1755), proponendo anche un programma di studi antropologici “sull'ambiente”, programma che egli sembra aver preconizzato per primo, «in un secolo in cui ci si intestardisce di giungere a belle cognizioni». Infine, va segnalato nel passaggio del secolo, il rilevante contributo egualitario e antieurocentrico svolto dai fratelli Wilhelm 1767-1835 e Alexander 1769-1859 von Humboldt. Alexander scrive, in Kosmos: «Sostenendo l'unità del genere umano, noi rifiutiamo, per una conseguenza imprescindibile, la desolante distinzione fra razze superiori e razze inferiori». Secondo lui quella gerarchizzazione, così spesso invocata per giustificare lo schiavismo, risaliva ad Aristotele. «Tutte le razze sono state create per essere libere», continuava; e, citando in seguito suo fratello Wilhelm, voleva «considerare l'umanità nel suo insieme, senza distinzione di religione, di nazione, di razza, come una grande famiglia di fratelli, come un corpo unico, che cammina verso lo stesso unico fine, il libero sviluppo delle sue forze morali». I fratelli Humboldt non si staccheranno mai da questa concezione, che ne faceva sempre più degli isolati nell'ambito del generale movimento ideologico del XIX secolo; ringraziando cortesemente Gobineau dell'invio del suo celebre trattato sull'Inégalité des races humaines, A. von Humboldt gli scriveva nel 1856, a 88 anni di età, che codesto libro «si oppone, in virtù stessa del suo titolo, alle mie antiquate credenze, in quanto tocca la desolante distinzione fra razze superiori e inferiori». Per completare il quadro del dibattito antropologico nel Settecento nei suoi aspetti salienti non si può trascurare la posizione di Immanuel Kant, ritenuto ancora di recente «fondatore del moderno concetto di razza». Nella seconda parte «La caratteristica antropologica della maniera di conoscere dall'esterno l'interno dell'uomo» dell'Antropologia pragmatica (1798) non manca la riproposizione dei più diffusi e triti luoghi comuni. Presentando in forme ‘scientifiche’ il “carattere del popolo" e quello delle razze, fondato in ultima analisi sulla “composizione del sangue”, Kant descrive i rispettivi caratteri dell'inglese, del francese, del tedesco, dell'italiano e dello spagnolo, a proposito del quale afferma: «Lo spagnolo [è] derivato dall'unione di sangue europeo con sangue arabo (moresco)...» e conclude: «...come provano le sue lotte dei tori, [è] crudele, come provano i suoi auto da fé d'una volta, [e] dimostra che la sua origine è in parte extraeuropea». Tale mescolanza di sangue viene nettamente giudicata come ‘negativa’: «Si può con verosimiglianza ritenere che la mescolanza delle stirpi (nelle grandi conquiste), la quale scioglie a poco a poco i caratteri, non sia utile al genere umano, nonostante ogni preteso filantropismo». Il sostegno a una teoria della diseguaglianza razziale è unito ad espressioni dalla evidente colorazione antisemita: «I Palestinesi che vivono fra noi hanno la reputazione fortemente giustificata di essere dei truffatori, a causa del senso dell’usura che regna nella maggior parte di loro. È vero che è strano figurarsi una nazione di truffatori; ma è altrettanto strano figurarsi una nazione di commercianti, di cui la parte di gran lunga più importante, legata ad una antica superstizione, riconosciuta dallo Stato in cui vive, non cerca l’onore borghese, e vuole compensare questo disinteresse con una particolare abilità nell’ingannare il popolo che le accorda protezione. Ma un popolo composto solo di commercianti, cioè di membri non produttivi della società, non può essere altro che questo...». I “Palestinesi”, ovvero gli ebrei sono descritti in forme decisamente dispregiative. Non è qui il caso di soffermarsi sulla diffusione della cultura razzista nell’Ottocento, secolo in cui nasce il mito ariano, si sviluppa nelle sue forme moderne l’antisemitismo, prende corpo la teoria della superiorità germanica e si diffonde l’evoluzionismo sociale. L'“antropologia razziale”, trasponendo su un piano ideologico le nuove teorie linguistiche sull'indoeuropeo e avvalorando il legame tra lingua e razza, forniva utili materiali per attizzare passioni politiche nazionalistiche e antisemite, che in Germania si profilavano esplosive. A pensatori come Fichte, teorico dell'esistenza di un "popolo originale" (Urvolk), i Tedeschi, corrispondente a quella "lingua originale" (Ursprache) individuata nell'indeoeuropeo, o – più modestamente – come Friedrich Ludwig Jahn, che assimilava i Tedeschi ai Greci come "popoli santi" e asseriva che: «Gli animali ibridi non si riproducono: allo stesso modo incrociati perdono la loro forza di riproduzione nazionale». Si pongono così tutte le premesse per le teorie razzistiche moderne, espresse e dal francese Joseph-Arthur de Gobineau, che, con il Saggio sull’ineguaglianza delle razze umane (1853-1855), introduce una teoria razzista della storia e propone di combattere la degenerazione della razza bianca, inquinata da altre razze, che presto saranno identificate con quella ebraica sangue puro della razza ariana, dall' Houston Stewart Chamberlain, genero di Richard Wagner, che, nei Fondamenti del diciannovesimo secolo (1899), vide nella razza germanica. L'ulteriore svolta teorica si consumerà agli inizi del Novecento, con Alfred Rosenberg, che nel Mito del XX secolo (1930) pone nel razzismo la nuova “Chiesa del popolo”, e infine con Adolf Hitler, che nella Mia Battaglia (1934) ritiene che solo la razza ariana sia la «depositaria dello sviluppo della civiltà» e che debba conquistare e sottomettere le razze inferiori. Se, come ricorda Poliakov, «[Ci preme sottolineare preliminarmente che] la ricerca delle origini e la propria identificazione attraverso gli antenati, è una preoccupazione costante dei gruppi umani, nel corso delle età e delle culture», essa diviene agli inizi dell'Ottocento, soprattutto a partire da Friedrich Schlegel una genealogia del mito ariano che acquista «rapidamente diritto di cittadinanza su scala internazionale» e «si diffonde allora nelle masse, soprattutto col favore delle campagne antisemite», «passa allora dalle mani dei dotti a quelle dei demagoghi, per divenire finalmente la dottrina ufficiale del III Reich, quando gli uomini decretati non ariani furono offerti in olocausto agli dei della razza». Ma abbandoniamo questa linea di lettura per passare, con il terzo punto alla riflessione scientifica contemporanea. 4. GENETICA DI POPOLAZIONI E ‘RAZZE’ In un libro agile e di alta e nobile divulgazione, Chi siamo? La storia della diversità umana (1993), Luca e Francesco Cavalli-Sforza, uno tra i maggiori genetisti viventi, fondatore della genetica di popolazione e suo figlio impostano il tema della riflessione sulle razze in termini rigorosamente razionali e scientifici. Si possono sintetizzare quattro punti principali nella loro argomentazione: − è impossibile una definizione scientifica del concetto di razza, in quanto sono presenti differenze estremamente graduali e relativamente modeste tra gruppi diversi e viceversa differenze abbastanza grandi tra gli individui all'interno di un gruppo; − non è ragionevolmente ipotizzabile una produzione artificiale di razze 'pure', che porterebbe tra l'altro alla diffusione di malattie e della sterilità; − le cause principali della differenziazione etnica sono dovute a forme di adattamento genetico ereditario di caratteri umani superficiali, come il colore della pelle, modificatisi in funzione di condizioni ambientali diverse, specie climatiche; − una larga parte dei caratteri etnici differenziali risulta legata a variabilità di tipo culturale; − i pregiudizi culturali di tipo razzistico non hanno nessun fondamento scientifico e possono essere dissolti dalle nuove conoscenze genetiche. Seguiamo nelle sue linee principali le argomentazioni afferenti ai quattro punti indicati. Per arrivare a indicare l’impossibilità di una definizione scientifica congruente di ‘razza’ gli Sforza partono da una ulteriore definizione del termine, ricavata dal dizionario etimologico di Cortelazzo e Zolli: «insieme degli individui di una specie animale o vegetale che si differenziano da altri gruppi della stessa specie per uno o più caratteri costanti e trasmissibili ai discendenti». L'origine della parola daterebbe al secolo XV o prima, ma non è chiarissima: si discute se provenga dal latino «generatio», oppure «ratio» nel significato di natura, qualità.” Tali qualità dovranno quindi essere «costanti e trasmissibili», ovvero determinate geneticamente. E proprio sulla costanza di tali caratteri si appunta la critica del genetista: «Non esiste insomma una costanza adeguata a soddisfare la definizione corrente di “razza”. Distinguere le razze è complicato: dobbiamo sempre basarci su statistiche della frequenza di molti caratteri in molti individui, mai su un carattere solo. E c'è di peggio: per esempio, non sappiamo rispondere al problema: “Quante razze esistono sulla Terra?”». Già Darwin aveva dubitato sulla possibilità di fornire una esatta quantificazione del numero delle razze umane, che variavano da tre a sessanta; se poi si estende ancora il numero per soddisfare all’individuazione rigorosa dei caratteri trasmissibili, la classificazione si estende a tal punto da apparire tanto arbitraria quanto inutile. Coloro che hanno tentato, anche di recente di individuare i «confini genetici» tra le popolazioni si sono fermati alle catene montuose, come le Alpi o i Pirenei, a vasti tratti di mare, come quelli che separano l’Islanda e la Sardegna dalla terraferma, a grandi fiumi, ma essi risultano in Europa incompleti e non consentono di individuare regioni chiuse. Anche la geografia genetica d'Italia, realizzata da Alberto Piazza, mostra una varietà di fratture e mescolanze, che indicano la massima variazione genetica fra nord e sud, con il parziale riconoscimento a sud dell’area della Magna Grecia, e a nord di un importante influsso dei Celti. Ma si ritrovano anche tracce di popolazioni antiche, come gli antichi liguri o gli etruschi o la civiltà tosco-umbro-sabellica. Queste informazioni consentono di osservare la varietà delle origini delle popolazioni italiche e la loro parziale mescolanza. Ma corroborano anche la conclusione di Cavalli Sforza sull’impossibilità di una definizione scientifica del concetto di razza. Tale conferma viene anche da una accurata riflessione legata alle ricerche sperimentali sul polimorfismo genetico, consistente nella presenza nelle popolazioni umane di diverse varietà di geni, gli alleli. È stato dimostrato che le proporzioni di geni A, B e O variano in forma, in modo tale che da villaggio a villaggio, come da nazione a nazione, si ritrova una composizione genetica diversa per poche varietà di un solo gene. Perché ci sia un'evidenza 'razziale' si dovrà riconoscere una diversità tra popolazioni che sia statisticamente provata, che sia dimostrata statisticamente significativa. La significatività statistica dipende ovviamente dal numero degli individui e dei geni presi in considerazione. Se un alto numero di geni possiamo misurare in modo statisticamente significativo anche la distanza genetica tra Firenze e Prato, ma gli abitanti di entrambe le città sarebbero scontenti di scoprire che appartengono a due 'razze' differenti, se pure a piccolissima distanza genetica; e una classificazione della popolazione mondiale in migliaia o milioni di razze diverse sarebbe del tutto inutile. Dato che la differenza genetica aumenta in modo continuo, vi sono differenze, piccole, anche fra villaggi vicini, che crescono con la distanza geografica, ma che rimangono insignificante rispetto alle distanze che si trovano fra gli individui di una popolazione. Facendo una media statistica della differenza genetica fra coppie di individui presi a caso in Europa e paragonandola alla differenza media fra un africano e un europeo, l'aumento è talmente modesto da non essere significativo. In altri termini non c'è poi così tanta differenza genetica tra un Fiorentino e un Pratese, rispetto a quella che si trova tra un Fiorentino e un Marocchino. Passiamo ora al secondo punto, che risulta ancor più facilmente dimostrabile. Non soltanto non esiste, come si è detto alcuna purezza genetica nelle popolazioni umane, ma una sperimentazione biologica a carattere ‘eugenetico’ potrebbe avere un parziale successo soltanto se si attuasse un programma che prevedesse l’incrocio tra parenti molto stretti, come fratello e sorella o padre e figlia, per un arco di venti, trenta generazioni. Viceversa, per assicurare fertilità e salute, è noto che vanno evitati i matrimoni tra parenti stretti, come è provato sperimentalmente che i discendenti di incroci fra persone e popolazioni profondamente differenti comporta una maggiore robustezza fisica. Passando ora al terzo punto domandiamoci come rispondono i più recenti studi di genetica di popolazioni al legittimo interrogativo sulla natura delle differenze etniche. Lasciando da parte la gran quantità di cause di origine culturale, dovute all'apprendimento e alla trasmissione di costumi e tradizioni, limitiamoci alle cause di origine biologica, o genetiche. Sappiamo che tra di esse vi sono mutazioni visibili e invisibili. Le prime hanno sempre colpito, per la loro immediata percezione: il colore della pelle, degli occhi e dei capelli, la forma del corpo e del viso si percepiscono al primo sguardo. Molti tra questi caratteri visibili sono abbastanza omogenei in ogni continente e ci danno perciò l'impressione che esistano razze 'pure'. Tuttavia sia il colore della pelle che le dimensioni del corpo sono variazioni genetiche riconducibili all'esposizione al sole e all'alimentazione: esse, per la maggior parte, sono dovute alle differenze climatiche incontrate da Homo sapiens durante la sua migrazione a partire dall'Africa. Gli studi sul DNA mitocondriale (per linea femminile) da circa 20 anni dimostrano (1991) che ci sono 14 separazioni originarie a partire da gruppi di africani (Eva africana). Studi molti diversi con metodi diversi hanno portato a risultati simili (ad esempio sugli alleli si riconosce una grande varietà negli africani, mentre negli altri ci sono pochi alleli, tutti rintracciabili anche in Africa) (ricerca condotta sui geni del nucleo e non su quelli mitocondriali). L'adattamento, sia culturale che biologico, sviluppatosi nel corso di 50-60 mila anni, ha prodotto una vera e propria differenziazione genetica. La selezione naturale dovuta al clima ha fatto sì, ad esempio, che il colore nero della pelle, protettivo per le popolazioni che vivono vicino all'equatore, si sia schiarito fino al bianco nei popoli che, tramite un'alimentazione ricca di cereali, proteggono la loro pelle povera di melanina con la trasformazione di precursori di cereali in vitamina D. così pure i capelli crespi permettono al sudore di restare più a lungo, prolungando l'effetto raffreddante della traspirazione, mentre la faccia mongolica protegge contro il freddo, molto intenso nell'Asia centrale e siberiana. Si tratta di caratteri somatici molto omogenei, che comportano scarse variazioni individuali in una popolazione inserita nello stesso habitat. Una evidente dimostrazione a contrario della validità di tale ipotesi è data dalla notevole differenza somatica che distingue gli ebrei aschenaziti, dalla pelle più chiara e dai tratti slavi, dagli ebrei sefarditi, più scuri e simili agli africani del nord; una differenza che si è consumata in poco più di duemila anni tra popoli acclimatati nell'Europa orientale e centrale (gli aschenaziti) e nella regione mediterranea (i sefarditi). Si tratta di caratteri somatici propri della superficie del corpo e per questo motivo immediatamente visibili; soltanto ipotizzando che i caratteri visibili siano gli unici indicatori di differenza razziale e riconducendoli a una forte unità somatica si è potuto credere che esistessero razze pure e forti differenze razziali. Se si guarda invece alla ‘purezza’ nel senso dell’omogeneità genetica la distanza fra i tratti corporei superficiali e gli indicatori genetici è profonda. Abbiamo visto come sia grande l’eterogeneità genetica fra individui, in qualsivoglia popolazione, e quanto questa variazione invisibile sia sempre notevole, al di là dei confini geografici ed etnici. Passiamo ora al quarto e ultimo punto delle asserzioni ricavabili dalle ricerche di Luca Cavalli Sforza. L’interrogativo sull’esistenza di una base scientifica del razzismo non può che trovare una risposta negativa, anche se inutile ricordare quanto siano diffusi i pregiudizi razziali, spesso connessi a fasi di forte ostilità e di conflitto tra popoli, Stati, religioni, classi sociali, gruppi politici, e oggi rafforzati dalla più potente e diffusa migrazione di popoli nella storia dell’umanità. Le scienze biologiche e antropologiche hanno ormai smentito definitivamente l’ipotesi di una superiorità razziale, che non può certo essere riconosciuta nel colore della pelle, nei capelli o nella forma degli occhi, del viso e del corpo. Il pregiudizio razziale va quindi combattuto anche con l’apporto di una corretta informazione scientifica, anche se in realtà dove prevalgono l’ignoranza, il fanatismo religioso e l’odio per il diverso non basta l’appello alla conoscenza. lo dimostra anche la scarsa efficacia che ebbe una ricerca pubblicata nel 1935 da due biologi, J. S. Huxley e A. C. Haddon, che costituisce la prima confutazione sistematica, svolta su basi biologiche e antropologiche, alla luce della genetica moderna. Gli autori ritenevano - purtroppo sbagliandosi che smascherare nel 1935 la pericolosa ambiguità del concetto di razza avrebbe contribuito a ostacolare l'avanzata della Germania nazista, che ostentava l'uso spregiudicato di dottrine razziste. 5. SERRES E L’OLTREPASSAMENTO DEL RAZZISMO Per arrivare al punto conclusivo di questa nota vorrei indicare una via possibile per l’auspicabile oltrepassamento del concetto di razza, che sia legato a un’argomentazione ,maggiormente utilizzabile nel contrastare il pregiudizio. Mi lego alle riflessioni filosofiche di Michel Serres, storico e filosofo della scienza e accademico di Francia, che ha variamente sottolineato la peculiarità del concetto di ‘meticciato’: «È per questo che faccio l'elogio del meticcio, perché ritengo che i movimenti anti-razzisti in Francia siano due volte negativi: sono antirazzisti, e il razzismo equivale già a un no, e anti-razzismo è due volte no. Io dico il meticcio, io dico sì al métissage, il che significa due volte qualcosa di positivo, e trovo che il pensiero positivo possa essere compreso meglio dell'anti-razzismo, che significa che si esclude qualcuno, si esclude colui che esclude, e questa è appunto ancora dialettica della violenza. La mescolanza a cui mi riferisco significa due sì e non due no». Serres sottolinea come i pregiudizi razziali siano legato a un pernicioso errore logico, che conduce a confondere l’identità con l’appartenenza. Errore che si riconosce fin dalla definizione di una carta di identità: la nostra carta di identità porta con sé alcuni dati di riconoscimento, ma nessuno vorrebbe descrivere la propria identità soltanto con quegli indicatori, troppo generali e collettivi. Essere francese o italiano, maschio o femmina, avere i capelli neri o biondi, non comporta il pieno riconoscimento della prima identità che è il frutto di numerose appartenenze sovrapposte nel tempo. la serie delle appartenenze raccolte in carta di identità è sempre troppo ristretta rispetto alla varietà e alla miscela delle costruzioni di identità che si sviluppano nel corso della nostra vita. In definitiva l’identità nella sua complessità irriducibile è singolare e unica, e distingue un individuo da un altro, mentre le appartenenze sono collettive e uniscono masse più o meno omogenee, da quella dei tifosi di una squadra di calcio a quella dei cittadini di uno Stato. Il razzismo consiste proprio nel trattare la personalità individuale cose se essa scaturisse dall’appartenenza a un gruppo (neri, cattolici): «Le racisme. par exemple, consiste à traiter quelqu’un comme si sa personnalité s’épuisait en l’une de ses appartenances, choisie et persécutée: vous etes noir ou male ou catholique ou roux. Ainsi, parler de l'identité masculine ou nationale revient à réduire la personne à une catégorie ou le collectif à l’individuel: faute de logique, dangereuse humainement. Non, vous ne faites que partie de tel pays ou de votre sexe. De là fondent sur le monde tant de malheurs qu'il faut redresser cette commune erreur». Ecco quindi che l’immagine del ‘meticcio’ rende conto – per Serres – di un’apertura all’alterità e alla costruzione complessa della propria identità che oltrepassa il razzismo, senza porsi dialetticamente in contrasto con esso. 6. Bibliografia ragionata − Materiali per un lessico politico europeo: ghenos/razza, “Filosofia politica”, n. 3, dicembre 2003 (con saggi di Gianfranco Zanetti, Enrico Berti, Marina Lalatta Costerbosa). Si affrontano i temi − − − − − − − − − − − − della variabilità nella definizione ottocentesca di razza, della concezione greca del “barbaro”, delle concezioni razziali presenti nella filosofia moderna (D. Hume e I. Kant) N. Matteucci, «Razzismo», in N.Bobbio, N. Matteucci, G. Pasquino, Dizionario di politica, UTET, Torino, 1983, pp. 959-962 C. Lévi-Strauss, Razza e storia (1952), Einaudi, Torino, 1967 G. L. Mosse, Il razzismo in Europa (1978), Laterza, Bari, 1980 L. Poliakov, Storia dell'antisemitismo, 4 voll., La Nuova Italia, Firenze, 1966-96. L'opera di più ampio respiro sulla storia dell'antisemitismo, con impostazione storica ma anche psicoantropologica dalle origini cristiane all'epoca contemporanea. In particolare il quarto volume L'Europa suicida 1870-1933 – affronta la svolta fra Ottocento e Novecento. Un quinto ed ultimo volume curato dall'A. con molti collaboratori riguarda il periodo dell'ultimo dopoguerra 19451993 ed. italiana sempre presso La Nuova Italia, 1996 -, ma dalle situazioni nazionali omette curiosamente l'Italia L. Poliakov, Il mito ariano. Storia di un'antropologia negativa, Rizzoli, Milano, 1976 (ristampato presso gli Editori Riuniti, Roma, 1999, con intr. di E. Collotti). Il libro descrive le più rilevanti concezioni della cultura e dell'antropologia razziste, a partire dal Cinquecento, inserendole nel più ampio contesto culturale dell'Europa tra Ottocento e Novecento L. Cavalli Sforza, Chi siamo? La storia della diversità umana, Mondadori, Milano 1994. Il libro espone nella forma dell'alta divulgazione scientifica le più recenti acquisizioni della biologia molecolare applicate alla genetica di popolazioni, fornendo in tal modo un quadro convincente e rigoroso della storia delle popolazioni umane in chiave genetica e della diversità degli esseri umani, e smontando con argomenti scientifici ogni pregiudizio razzistico o razziale M. Serres, Appartenance et identité, Préface a M.Authier e P.Lévy, Les arbres de connaissances, La Découverte, Paris, 1992 G. Polizzi e M. Porro, Chiarimenti. Un incontro con Michel Serres, in “aut-aut”, luglio-agosto 1992, pp.76-85 L. L. Cavalli-Sforza, Geni, popoli e lingue, tr. it. di E. Stubel, Adelphi, Milano, 1996. Il libro descrive le mappe genetiche delle popolazioni, confrontandole con dati demografici, archeologici e linguistici e ritrova un parallelismo nella propagazione dei geni, dei popoli e delle lingue a partire da un origine unitaria, databile circa 100.000 anni fa in Africa. Ne consegue la denuncia degli errori presenti nella controversa nozione di razza J. S. Huxley e A. C. Haddon, Noi europei. Un'indagine sul problema "razziale" [1935], Torino, Edizioni di Comunità, 2002 C. Pogliano, Scienza e stirpe eugenica in Italia (1912-1939), in "Passato e Presente", 1984, n. 4, pp. 61-97 de Tocqueville e A. de Gobineau, Del razzismo, Carteggio 1843-1859, Donzelli, Roma 1995. [Rispettivamente padre della democrazia e vate del razzismo, il primo ignorato il secondo famoso in quel tempo] PARLIAMO DI BENESSERE ANIMALE Malcolm Holliday Scrive Albero Pontillo nell’introduzione al libro “Liberazione Animale” di Peter Singer –“ Il mondo animale è, infatti, fra i gruppi sfruttati, l’unico che non può organizzarsi da solo la propria protesta contro il trattamento subito. Da lì vengono solo dei segnali che NON tutti, fra noi, hanno voglia di capire: − Cosa dire del dolore della mucca e dei vitelli che vengono separati? − Cosa dire degli esperimenti crudeli su topi, cavie, beagles, scimmie e tanti altri animali? − Cosa direi dei vitelli tenuti in box stretti e con pavimenti a sbarre di legno con impossibilità di girarsi intorno e quando si sdraiano a terra devono stare rannicchiati? − Cosa dire della trasformazione di scrofe in macchine di riproduzione dove l’animale chiuso in una gabbia stretta viene costretta a rimanere gravida, partorire, essere privata dei piccoli precocemente per poi rimanere gravida di nuovo, e così via finché il ciclo si ripete. Durante la gravidanza (approx. 114 gg) sono spesso recluse in box poco più grandi di loro. La scrofa viene praticamente confinata in uno spazio ristretto per tutta la sua vita. − E cosa dire dei 40 milioni di ovoide in Italia che producono 13 miliardi di uovo all’anno in spazi appena sufficienti per muoversi. Tutto questo e tanto altro dovrebbe sconvolgere la coscienza umana. Albert Schweitzer scrisse nel suo libro, The Teaching of Reverence for Life (New York, Holt, Rinehant and Winston, 1965): “Ogniqualvolta gli animali siano costretti al servizio dell’uomo, ciascuno di noi dovrebbe pensare al tributo che esigiamo da loro. Non possiamo restarcene lì con le mani in mano a guardare gli animali che subiscono crudeltà inutili o deliberati maltrattamenti. Non possiamo dire che non sono fatti nostri e che quindi non dobbiamo interferire. Anzi, è nostro dovere intervenire in loro favore.” Un recente lavoro sul benessere animale del SERVIZIO VETERINARIA e SICUREZZA ALIMENTARE della REGIONE MARCHE riassume la problematica del “ Benessere animale” così. Nel corso dell’evoluzione ogni specie si è equipaggiata con caratteristiche fisiche, fisiologiche e comportamentali adatte ad affrontare le varie difficoltà che potrebbe incontrare nel proprio ambiente di vita. Il benessere è una condizione intrinseca dell’animale: il soggetto che riesce ad adattarsi all’ambiente si trova in uno stato di benessere, viceversa il soggetto che non ci riesce perché non ne è in grado per caratteristiche psicofisiche proprie, o perché ne è impedito da fattori esterni si trova in una condizione di stress. HUGHES ha definito il benessere come “uno stato di salute completo, sia fisico che mentale, in cui l’animale è in armonia con il suo ambiente.” Poiché tutti gli animali hanno avuto questo percorso evolutivo e ogni specie si è adattata ad un particolare habitat, ogni definizione del benessere deve tener conto dell’ambiente, della psicologia e del comportamento specifico dell’animale. Gli animali da allevamento hanno un insieme di bisogni simili a quelli dei loro antenati selvatici, sebbene alcune necessità si siano modificate nel corso della domesticazione. È ovvio che esigenze fondamentali, come quelle di cibo, acqua e rifugio non sono cambiate nel passaggio dell’animale selvatico a quello domestico. Nel 1964 Ruth Harrison pubblicò il libro Animal Machine che sollevò la questione del benessere degli animali allevati intensivamente. In seguito allo scalpore casato da questo libro il governo inglese commissionò un rapporto ad un gruppo di ricercatori, tra i cui membri vi era un veterinario; ne scaturì il Brambell Report. Questo rapporto, oltre ad essere uno dei primi documenti ufficiali relativi al benessere animale, annunciò il principio delle cinque libertà per la tutela del benessere animale: 1. Libertà dai disagi ambientali; 2. Libertà dalle malattie e dalle ferite; 3. Libertà di poter manifestare le caratteristiche comportamentali specie-specifiche; 4. Libertà dalla fame, dalla sete e dalla cattiva nutrizione; 5. Libertà dalla paura e dallo stress. Alcune tra queste “libertà” sono universalmente riconosciute e applicate naturalmente dagli allevatori, altre rientrano nelle competenze “storiche” del medico veterinario, mentre la libertà di poter manifestare le caratteristiche comportamentali specie-specifiche e la libertà dalla paura e dallo stress rappresentano qualcosa di non sempre immediata comprensione e applicazione,rientrando in quel bagaglio scientifico che deve essere fatto proprio da tutti gli operatori del settore ed in particolare dal medico veterinario. Inoltre, rappresentano queste due libertà, i punti salienti della normativa europea relativa al benessere degli animali da allevamento. Gli autori di questo articolo continuano sull’argomento con la valutazione del benessere. Questo coinvolge una serie di risposte che l’animale mette in atto per adattarsi all’ambiente in cui si trova. Infatti l’organismo risponde alle varie situazioni ambientali non solo con cambiamenti comportamentali m anche con meccanismi psicologici ed immunitari, che possono avere ripercussioni sullo stato di salute e sull’accrescimento. Per questo motivo gli studi effettuati in merito prendono in considerazione una serie di reazioni, che vengono comunemente chiamate “indicatori di adattamento”. Quindi anche se il benessere animale no è misurabile nello stesso modo utilizzato per variabili semplici, quali altezza o lunghezza, tuttavia può essere valutato considerando i vari aspetti e problemi correlati. Tutti i sistemi fin qui studiati sono basati su una gamma di parametri di valutazione, che possono essere distinti in due categorie: 1. parametri relativi agli animali, i quali misurano la reattività e la capacità di adattamento a specifici ambienti. Ad esempio parametri psicologici comportamentali e sanitari. 2. parametri relativi all’ ambiente d’ allevamento e alla sua gestione. Ad esempio le dimensioni e le caratteristiche delle strutture, la qualità della lettiera, la numerosità dei gruppi di animali. La questione del benessere animale, in definitiva, concludono gli autori di questo articolo, è e dovrà sempre di più essere considerata quale componente essenziale di un “SISTEMA INTEGRATO di QUALITÀ di produzione degli alimenti di origine animale”, che garantisca al consumatore prodotti provenienti da allevamenti non inquinanti per l’ ambiente e dove gli animali vengono allevati secondo criteri che ne rispettino le esigenze fondamentali. La società moderna richiede prodotti di origine animale ottenuti da allevamenti in cui viene rispettato il benessere degli animali allevati. Per contro si registra che la quasi totalità (80%) di ciò che mangiano proviene da allevamenti intensivi situazione che apparentemente contrasta con una visione ottimale del benessere animale. È giusto quindi porci una domanda: è corretto allevare animali in queste condizioni? La commissione europea è impegnata a sviluppare legislazione riguardante il benessere animale da oltre 30 anni. Oggi il benessere animale è riconosciuta come una scienza multidisciplinare, con sviluppi di tipo economico e sociale, che necessita di un approccio integrato, con obiettivi e strategie ben definiti. L’ allevamento di animali non è più visto dai cittadini europei come un semplice processo di produzione alimentare benché soggetto a considerazioni di carattere etico, di qualità e sicurezza degli alimenti e di rispetto per l’ ambiente. Il legame fra benessere e salute degli animali e la sicurezza alimentare è ormai riconosciuto da tutti. L’ attività formativa mira a crearne un sistema nazionale di tutela del benessere degli animali allevati attraverso la conoscenza approfondita della normativa vigente e la sensibilizzazione di tutti gli attori della filiera. Attraverso il miglioramento della gestione e delle tecniche di allevamento sarà possibile ottenere anche il miglioramento delle qualità dei prodotti, pertanto tutta questa attività formativa ed informativa persegue non solo l’ obiettivo di tutelare il benessere animale per motivazioni etiche, ma è finalizzata anche alla produzione e valorizzazione della produzione nazionale. Anche i nostri animali domestici al pari di quelli d’ allevamento, dipendono dall’ uomo per soddisfare qualsiasi bisogno. Conigli, criceti e pappagallini confidano ciecamente nel loro proprietario. Il diritto di essere liberi va rispettato per quanto possibile, ma esistono molte restrizioni che lo limitano. Gli uccelli in gabbia necessitano di libertà e di esercizio. Ma un uccellino da gabbia che svolazza per la casa deve essere protetto da ogni genere di pericolo: porte, finestre aperte, caminetti, gatti etc. Neanche per altri animali normalmente tenuti in gabbia, come criceti, si può parlare di libertà assoluta; il modo migliore per soddisfare il loro diritto a essere liberi è fornirgli una gabbia più spaziosa possibile con tanti oggetti interessanti con cui giocare e fare esercizio. I padroni responsabili devono poi rispettare le leggi locali, come per esempio, ripulire gli escrementi quando il cane defeca sul marciapiede, fare iscrivere il proprio cane all’ anagrafe canina. Un cane ha diritto di ricevere un certo grado di educazione; molto spesso invece viene solo nutrito e il padrone si limita a giocare un po’ con lui. Essere un padrone responsabile, significa anche comprendere la sua natura. Al 55° congresso nazionale di Medicina Felina tenutasi a Milano nel 2007 la Dottoressa Sabrina Guissani, medico veterinario comportamentista, ha descritto una patologia comportamentale del gatto che lei chiama “ANSIA da LUOGO CHIUSO”, che illustra molto bene come un animale domestico può soffrire per, uno, il disagio ambientale e due, per l’ impossibilità di manifestare le sue caratteristiche comportamentali specie-specifiche. Riporto in parte il suo lavoro. Nel mondo occidentale in particolare non è insolito trovare gatti che vivono in appartamento senza avere accesso all’ ambiente esterno. Il gatto è un animale territoriale e quando libero struttura lo spazio in cui vive suddividendolo in aree chiamate CAMPI TERRITORIALI. Ogni campo corrisponde ad una precisa attività svolta come il gioco, l’ alimentazione, l’ eliminazione ed il sonno. La dimensione del territorio di ogni gatto aggira intorno a 0,25-0,45 ettari. Gli stimoli visivi, uditivi, tattili presenti all’ interno dei campi territoriali sono molto numerosi e differenti giorno dopo giorno. Il processo di domesticazione non ha modificato sostanzialmente il comportamento del gatto e l’ attività di caccia continua a essere una delle sue principali occupazioni. Soprattutto all’ alba e al tramonto l’ attività di caccia raggiunge l’ apice. Le dimensioni del territorio per un gatto che vive in un appartamento sono molto ridotte e la possibilità di mettere in atto il comportamento di predazione è limitata alla spondaica presenza di insetti durante i mesi estivi. Inoltre gli stimoli visivi,uditivi, tattili cosi numerosi e differenti giorno dopo giorno in condizioni di libertà o semi- libertà, sono limitati e sempre uguali all’interno di un ambiente spesso silenzioso per molte ore al giorno. L’assenza prolungata del proprietario peggiora la situazione in quanto permette la messa in atto della relazione sociale solo per brevi periodi durante la giornata. L’ansia da luogo chiuso consiste nella comparsa di aggressioni predatorie e per irritazione a carico dei proprietari. Inoltre più volte al giorno, soprattutto all’alba ed al tramonto, il gatto presenta “crisi di iperattività”: i proprietari descrivono corse in ogni direzione all’interno dell’appartamento, salti che culminano con “ rimbalzi” sui immobili più alti o sui muri. È possibile mettere in evidenza fattori scatenanti. L’ adozione di un gattino che ha avuto la possibilità di “giocare” con prede vive portate nel nido dalla madre, e il successivo trasferimento in un appartamento privo di accesso all’ambiente esterno, costituisce il principale fattore predisponete. L’affezione nasce dalla profonda differenza esistente tra l’ambiente di sviluppo e l’ambiente di vita successivo: il primo è ricco di stimoli mentre il secondo ne è estremamente impoverito. Un altro importante fattore predisponente è il mancato rispetto da parte del proprietario dei fabbisogni etologico del gatto. Spesso la scelta di un felino come animale da compagnia è strettamente dipendente dalle credenze popolari che gravitano attorno a questa specie: il gatto è definito un “ animale solitario ed indipendente” e che “non necessita di molte cure” rispetto ad un cucciolo. Il gattino,quindi, rimaneva solo la maggior parte della giornata, immerso in un ambiente silenzioso in cui tutto è immobile. Alla sera il proprietario rientra a casa, dopo poche ore va a dormire…. La luce si spegne e l’appartamento torna ad essere silenzioso. L’ambiente trascorre la propria giornata spostandosi tra il campo di alimentazione ed il campo di eliminazione. L’ambiente domestico è arredato, infatti,secondo le esigenze degli esseri umani e non dei gatti: lo spazio verticale non è espansibile ed utilizzabile in quanto occupato dai libri o dalle suppellettili poste sulle librerie, “ arrampicarsi” sulle tende è severamente punito e la vista dalle finestre non offre alcuna attrattiva. Inoltre la maggior parte dei proprietari pone al centro della relazione con il proprio animale la relazione con il proprio animale la distribuzione del cibo e spesso quest’ultima costituisce l’unica relazione famigliare presente nella coppia uomo-gatto : il proprietario risponde alla ricerca di contatto o di gioco con il cibo. Ogni vocalizzo, ogni sfregamento sono ricompensati con la somministrazione cibo. La comparsa dei sintomi può avvenire fin dal momento dell’adozione, in conseguenza di un trasloco in un appartamento privo di accesso all’ambiente esterno, della morte o dell’allontanamento di un altro animale con cui il gatto aveva istaurato una relazione preferenziale o della ripresa del lavoro di congedo. Il gatto mette in alto un comportamento di aggressione predatoria a carico dei soli “ oggetti” in movimento all’interno di un ambiente ipostimolante: le prede sono costituite dalle caviglie , dai polpacci, dalle mani e a volte anche dal viso dei proprietari il gatto individua la preda ed effettua un agguato dietro ad un a porta o sulle scale. Quindi il felino grazie ad un veloce balzo, afferra la preda trattenendola con le mani e le unghie, infliggendo uno o più morsi. Alcune volte il gatto “si apposta” su di un mobile ed “atterra” direttamente sulla schiena del proprietario. Le punizioni inflitte all’aggressore portano ad una progressiva degradazione delle relazioni sociali tra il gatto ed i proprietari. La sequenza descritta tende a strumentalizzarsi rapidamente, riducendosi alla sola fase consumatoria, grazie alla vela ed alla fuga della vittima che costituiscono un inconsapevole rinforzo. Le aggressioni avvengono soprattutto nei periodi di semi-oscurità, all’alba ed al tramonto e i bambini e gli anziani sono maggiormente interessati: i primi a causa delle corse effettuate nell’appartamento mentre i secondi grazie all’andatura esitante ed incerta. Nel primo libro della Bibbia (Genesi 1, 26) è scritto che l uomo ha il dominio su tutte le creature. Molti uomini si comportano come se il termine dominio equivalente al diritto di sottintendere gli animali ed usarli per qualsiasi scopo. Credo invece che la parola dominio vada interpretata come un’amministrazione intelligente e compassionevole della natura. Ci sono vari modi per aiutare gli animali. Il primo passo consiste nell’educazione: è meno probabile che i bambini, a cui vengono insegnati il rispetto per gli animali, segnano le orme dei genitori o di altri adulti insensibili. Un altro modo di cambiare i valori della gente e il loro atteggiamento nei confronti degli animali è attraverso la legislazione. A Londra nel 1977 la lega internazionale per i diritti degli animali e le leghe nazionali affiliate, in occasione del terzo meeting internazionale sui diritti degli animali ha depositato all’UNESCO e poi all’ ONU dichiarazione universale dei diritti degli animali accompagnata da una petizione firmata da oltre due milioni di persone. Una versione preparata dai bambini invece dichiara quanto segue: 1. tutti gli animali hanno il diritto di vivere e di essere felici, come me. 2. Non abbandonerò nessun animale che vive con me, perché non mi piacerebbe che i miei genitori abbandonassero me. 3. non ucciderò gli animali, uccidere per divertimento o per denaro è un crimine. 4. non farò del male agli animali ; essi soffrono come gli esseri umani. 5. gli animali hanno il diritto di essere liberi, proprio come me ; i circhi e gli zoo sono prigioni per gli animali. 6. imparerò a osservare, comprendere e amare gli animali; essi mi insegneranno a rispettare la natura e ogni forma di vita. E per concludere poniamoci il quesito: è giusto considerare il benessere degli animali? Se la risposta è si dobbiamo conoscere a fondo i misfatti dell’uomo, camuffati dal facile guadagno e l’ignoranza spesso sostenuta da tradizioni religiose, per poter insegnare alle nuove generazioni a non perpetuare i nostri sbagli, e di rispettare tutte le creature grandi e piccole. L’IMPEGNO ANIMALISTA Andrea Legnani Lo “Scudo di Pan” è una delle tante, tantissime associazioni di volontariato, ONLUS, esistenti in Italia; associazioni la cui importanza sociale è nota a tutti per l’impegno che prodigano in favore dei più poveri, dei più anziani, dei più sfortunati. Ma lo Scudo di Pan non si occupa di Esseri Umani, si occupa di “Esseri Animali”, ovvero dei poveri più poveri, dei più bisognosi di tutti. Noi animalisti infatti crediamo che la Vita sia un valore universale, e non un valore limitato ad una singola specie, quella dell’Uomo. La nostra sede si trova a Capolona, a pochi Km da Arezzo. Noi soci la chiamiamo affettuosamente “casa-rifugio”, ed è composta da un esiguo fazzoletto di terra e da una costruzione a due piani, dove accogliamo attualmente 68 gatti adulti e 13 cani. So benissimo che ci sono tanti cacciatori che “posseggono” un numero superiore di cani. La differenza però, tra loro (cacciatori) e noi (animalisti) è sostanziale: noi non siamo i padroni di quei cani, non disponiamo di loro, non li sfruttiamo. Noi siamo i loro amici! I cani e i gatti accolti presso la “casa-rifugio” sono animali che hanno alle spalle storie di sofferenze, di maltrattamenti, di malattie, di abbandoni. Quel poco che noi “Scudieri” riusciamo a fare è una goccia d’amore, dispersa in un oceano di sofferenze. Lo facciamo con le nostre sole forze, con il nostro volontariato atto a raccogliere offerte dai privati, con le ore strappate al riposo, dopo il nostro lavoro quotidiano; ore strappate agli hobby, agli affetti familiari. In tre anni di vita, Lo Scudo di Pan è riuscito a raccogliere con il suo attivismo circa 50.000 euro, cifra per noi molto importante, se pensate che non riceviamo alcun tipo di sovvenzione dallo Stato o dalla Regione. Questi 50.000 euro sono stati spesi in medicinali, cure veterinarie, cibo “normale” o cibi particolari quali: Hepatic, Urinary, Forza 10, Intestinal, Diet... Sono stati spesi anche per le sterilizzazioni di colonie feline, per impedire a migliaia di creature di nascere in un mondo che non è più fatto per loro, snaturato com’è dalla mano sempre più pesante e devastatrice dell’Uomo. Lo Scudo di Pan accetta nella propria sede quegli animale che i canili e i gattili comunali non possono tenere, perché ammalati terminale o disabili. Se c’è qui in sala qualche responsabile di tali strutture ve lo potrà confermare: per legge nei canili e gattili non si possono sopprimere gli animali ospitati, a patto che siano autosufficienti e non ammalati. Contiamo così, tra i nostri ospiti, gatti con l’AIDS felina o la leucemia, rimasti paralizzati perché investiti dalle automobili, o con arti amputati per varie cause (tra cui le torture, con le quali qualche ignobile individuo si diverte a infierire su chi non può difendersi!). abbiamo cani che vengono da noi curati dalla terribile Leishmaniosi; con allergie alimentari; paraplegici che possono camminare solo con appostiti carrellini; o quasi impazziti per i maltrattamenti subiti... e via di questo passo. Abbiano sin qui raccolto dalla strada, o dai cassettoni, circa 350 cuccioli di gatto, molti dei quali da noi allattati perché avevano meno di un mese di vita, strappati da “brave” persone alle loro madri. A 250 di loro abbiamo trovato una famiglia, dopo averli curati e vaccinati. Molti di loro ahimè, sono morti nonostante le cure perché troppo avevano sofferto in giorni e giorni di patimenti. Infine, i cuccioli di cane farri da noi adottare superano il centinaio. Ma queste sono solo cifre. È vero che i numeri sono la sostanza, il risultato dei sacrifici dell’ ”amore attivo” dei 31 soci che, via via, si sono uniti a noi Soci Fondatori, per fare lo Scudo di Pan sempre più forte e presente, sul campo delle emergenze. Io però vorrei aggiungere dell’altro, se avrete la pazienza di continuare ad ascoltarmi. Per scioccarvi un momento, per togliervi dal torpore che può essersi impossessato di voi dopo questa chiacchierata, e di conseguenza per farvi sobbalzare sui sedili risvegliando la vostra attenzione, citerò una battuta di spirito del regista spagnolo Luis Bunuel Calanda (1900-1983), il quale soleva dire: “Grazie a Dio, sono ateo!”. Un’affermazione blasfema, per i più, ma che ha un suo valore, una sua valenza. E mi spiego: l’ateismo può essere definito come una “finestra” che guarda verso il reale, aperta la quale ci fa apparire la Natura quale essa è, ovvero la generatrice, la Grande Madre di tutti gli esseri viventi. Essere “credente”, invece, implica dover accettare dogmi che demoliscono l’affermazione precedente. Le tre grandi religioni monoteiste, Ebraismo, Cristianesimo, Islamismo, ci hanno per secoli condizionato, o, se preferite educato, a una visione diversa del mondo: “…come noi Uomini ci dobbiamo sottomettere ala volontà di Dio, così la Natura e le sue innumerevoli creature debbono sottomettersi all’uomo”. Nel “Libro della Genesi” si legge che Dio conferisce agli Uomini “il dominio su ogni cosa animata”. Alla lunga, l’effetto devastante di questa affermazione la siamo vedendo tutti, purtroppo. A mio avviso, sono state le religioni più antiche di quelle monoteiste a dimostrare un maggior rispetto verso la Natura, e sinceramente, da animalista e ambientalista, io le rimpiango un poco. Quelle religioni vedevano in ogni fenomeno naturale, in ogni espressione della Vita, la presenza di molte Divinità che rendevano di conseguenza sacre le sorgenti, da dove scaturisce pura e incontaminata l’acqua, i boschi e le foreste, le cime innevate dei monti, la profondità dei mari… a gli Animalisti stessi, nel cui corpo spesso queste Divinità si incarnavano! Anche l’uomo di allora sfruttava Madre Natura per la propria sopravvivenza, ma non la distruggeva come avviene oggi: l’aria, i mari, i fiumi e i cibi stessi vengono contaminati da noi Uomini Moderni per le nostre speculazioni, che ci stanno portando verso un futuro alquanto incerto. Fino al XIX secolo, quella innocente e allo stessa tempo saggia visione della Natura, che la riteneva la Madre di tutti noi, ha resistiti presso le cosiddette “500 Nazioni”, ovvero le numerose tribù degli Indiani del Nord America; ma poi è arrivato il “civilissimo” Uomo Bianco, e com’è andata a finire lo sappiamo tutti. È anche vero che 2000 anni fa, quando Giove e Minerva sedevano sull’Olimpo, la popolazione umana sulla Terra ammontava forse a 250 milioni di individui, e che ora, nel XXI secolo appena iniziato, abbiamo raggiunto i 6 miliardi e mezzo di individui (me compreso), e che quindi lo sfruttamento delle risorse della Terra è enormemente più incisivo. Ma proprio per questo motivo, non dovremmo forse usare la massima cautela e il massimo rispetto verso la nostra Grande Madre? Io dico decisamente di sì. Ci siamo permessi, da un paio di secoli a questa parte, di alterare equilibri che persistevano da milioni di anni. Abbiamo fatto sparire foreste vastissime, e continuiamo a farlo, a ritmi sempre più sostenuti, pur sapendo che gli alberi ci permettono di respirare l’ossigeno necessario alla nostra sopravvivenza,. Abbiamo cacciato, ucciso e fatto estinguere migliaia di specie animali, favorendo così il sovraffollamento di altre specie. Sentiamo allora affermare dalle autorità: “Ci sono troppi cinghiali in Casentino, ci sono troppi daini in Valtellina, ci sono troppi cani randagi in Sicilia…” La soluzione? Abbatterli! Come se la Terra fosse una nostra proprietà… Da animalista e ambientalista, io vedo il mondo sotto una luce diversa, e non pretendo che sia quella giusta. Ma vorrei portarvi dalla mia parte, rivelandovi cifre molto significative, con l’intenzione di farvi riflettere, di farvi dire almeno un “No, non è possibile!...” Il brutto e recente fatto di Sicilia, dove numerosi cani abbandonati (abbandonati dall’uomo, s’intende) si sono organizzati in branchi per istinto di sopravvivenza, attaccando e uccidendo una ragazza e ferendo gravemente un bambino, ha scatenato le ire di tutte quelle persone che gli animali li temono, o non li sopportano, appunto perché ritenuti esseri inferiori e indegni di vivere la loro vita. Non importa la causa scatenante, ovvero che questi cani hanno perso la famiglia presso cui erano stati cresciuti, per poi essere stati buttati in strada, non importa se questi animali hanno fame, una fame di giorni e settimane. No! Quello che importa è che hanno OSATO attaccare l’Uomo. Hanno ucciso uno di noi! E questo non deve essere. Ogni volta che un cane aggredisce una persona o peggio un bambino, vengo regolarmente fermato per strada da qualcuno che mi apostrofa: “Visto, lei che ama tanto gli animali? Visto quello che hanno fatto i cani a quel bambino?” È vero, accade. I cani, come tutti gli animali, (tra cui anche noi esseri umani) hanno un sistema nervoso comandato da un cervello che improvvisamente, per le cause più disparate, può “impazzire”. Io ascolto compunto le rimostranze del signore o della signora di turno, poi quando questi mi guardano con aria interrogativa aspettando una mia risposta, chiedo a mia volta: “Che ne dice di quello studente universitario che è entrato in facoltà e ha cominciato a sparare sui suoi compagni, facendo una strage? Che ne dice di quel padre di famiglia che ha ucciso a martellate la moglie nel sonno e poi è andato nella camera dei bambini e li ha sgozzati uno dopo l’altro?” In genere, i miei interlocutori aprono la bocca per una risposta…che non trovano, quindi se ne vanno, sempre indignati verso gli animali, e ancora di più verso di me! Ma ecco le altre cifre che vi ho promesso; prima di svelarle però vi chiedo:”Quanti uomini pensate che vengono uccisi giornalmente dagli animali nel mondo? Vogliamo ipotizzare cento persone? Facciamo mille? I mass-media ci informano solo quando uno squalo ha ucciso un “surfista” in California, o un coccodrillo si è divorato un pescatore caduto nel Nilo, una mucca ha ucciso con un calcio un contadino del Caucaso mentre la mungeva, o un toro ha incornato in Spagna un torero nell’arena (povero torero!), una tigre è balzata addosso a un portatore in India. Serpenti e scorpioni velenosi fanno poi la loro parte per aumentare il numero delle vittime umane: sono fatti che ci sconvolgono, quando li apprendiamo! Parliamo ora degli animali uccisi dall’Uomo, enumerando i vari modi in cui vengono uccisi: − uccidiamo gli animali negli appositi macelli; − uccidiamo animali pescandoli dal mare e dai fiumi; − uccidiamo animali con la caccia; − uccidiamo animali con crudeli esperimenti di vivisezione; − uccidiamo animali da pelliccia nel loro habitat o negli allevamenti; − uccidiamo animali facendoli lottare tra loro, per le scommesse; − uccidiamo animali trasportandoli in allucinanti camion o vagoni tra una nazione e l’altra, stipati oltre l’immaginabile, sotto un sole battente o al gelo, senz’acqua per giorni e giorni, e molti giungono cadaveri; − uccidiamo animali nelle feste popolari per festeggiare questo o quel santo patrono; − uccidiamo animali arrotandoli con i veicoli; − uccidiamo animali strappati appena nati alle madri, per poi annegarli o sbatterli al suolo… …Tiriamo le somme? Bene, tiriamole! Nella sola nostra Italia uccidiamo ogni anno a scopo alimentare più di 796 milioni di animali di terra, più di 151 milioni di animali d’aria, oltre 10 MILIARDI di animali d’acqua. A questi vanno aggiunti gli animali morti perché arrotati dai veicoli, o morti torturati nei laboratori di vivisezione, o morti nei combattimenti, o mortidi fame perché abbandonati dai loro amatissimi padroni. TOTALE? Solo in Italia, uccidiamo ogni anno oltre 11 MILIARDI di animali, ovvero più di 30 milioni al giorno, ogni giorno! Ma sono stime per difetto, noi italiani ci mangiamo ogni anno 68.000 quintali di lumache! Quante lumache ci sono in 68.000 quintali? Lumache che fanno la stessa orrenda fine delle aragoste, ovvero gettate vive nell’acqua bollente. E in tutto il mondo? Quanti Esseri Animali uccide l’Uomo ogni anno? Una stima precisa ovviamente non è possibile. Vi sono tante nazioni che ancora hanno una approssimativa anagrafe umana, figuriamoci se sono in grado di sapere quanti animali vi vengono uccisi annualmente. Si parla comunque, grosso modo, di UN MILIARDO di animali al giorno: 365 MILIARDI di animali uccisi all’anno dalla mano dell’Uomo. Se volete, per quello che riguarda le cifre della nostra Nazione, potete chiedere gratuitamente al nostro Socio Lucia il fascicolo con le statistiche della LAV, del WWF, del Ministero dell’Ambiente e di quelli dell’Agricoltura e della Sanità, della Istat-Ismea, dei Carabinieri NOE & NAS, dell’Eurispes… da cui abbiamo estrapolato questi dati, grazie al lavoro del nostro socio Erica. Sono quasi giunto al termine del mio lungo discorso. Visto che pocanzi ho voluto attirare la vostra attenzione con la provocatorie battuta del regista Buñuel (Grazie a Dio, sono ateo!) voglio concludere questa mia chiacchierata con tre frasi molto significative. La prima è dell’etologo austriaco, cattolico, Daniel Argann, che dice: “…e quando Dio chiederà all’Uomo: che ne hai fatto dei miei animali? L’uomo sprofonderà dalla vergogna!” La seconda è del filosofo tedesco Theodor Adorno, che ammonisce: “Auschwitz ritorna ogni volta che qualcuno, guardando verso un mattatoio, pensa: sono solo animali…” La terza infine, che io condivido appieno, è di Will Rogers: “Se non ci sono cani in Paradiso, quando muoio voglio andare dove sono andati loro!” SPUNTI DI DISCUSSIONE: I PUNTI CHIAVE DELL’EVOLUZIONISMO IN 24 DOMANDE Mario Tanga 1. 2. 3. 4. 5. 6. Quando si parla di Darwin e di evoluzionismo, qual è il nodo centrale della questione? L’evoluzione è un processo che riguarda soltanto il lontano passato della storia della vita? Che significa che la vita evolve? Che significa “altra specie?” Che cos’è che fa cambiare la popolazione, per intero o in parte, di una specie? Perché il caso è il primo ingrediente di questa ricetta? Può succedere di tutto e di più? L’evoluzione è una lotteria? La natura gioca a dadi? 7. Un cambiamento a caso, qua e là, ogni tanto, come può produrre quel processo ben direzionato che chiamiamo evoluzione? Insomma come può una rondine far primavera? 8. Ma cambiamenti casuali, pochi o tanti, sono solo bizzarrie, come possono dare un’evoluzione su un arco di tempo di centinaia di milioni di anni? 9. Questo andamento non è sollecitato direttamente dall’ambiente? Se l’ambiente richiede per es. l’esercizio della forza, l’animale la eserciterà rinforzandosi… 10. La selezione agisce su ogni singolo soggetto, ogni singolo individuo deve fare i conti con la possibilità di sopravvivere e riprodursi. Ma alla fine chi evolve è la specie. Che rapporto c’è tra dimensione individuale e di specie? 11. Cosa fa di Darwin il più celebrato teorico dell’evoluzione? 12. La sua teoria ha resistito così a lungo, per centocinquanta anni? 13. Una delle grandi rivoluzioni nelle scienze della vita, dice, ne può citare un’altra? 14. Quello insomma in cui crede la scienza oggi è o no il darwinismo? 15. Cosa è successo di così importante nella scienza dopo Darwin? 16. Tra tutti questi eventi scientifici quale ha pesato di più sulla scienza dell’evoluzione? 17. Com’è possibile, con tutte le cose che nel mondo scientifico sono cambiate da metà Ottocento ad oggi, la teoria di Darwin regga ancora? 18. Il modo darwiniano di vedere il progresso della vita insomma è ancora valido? 19. Quella evolutiva, allo stato attuale, è un’ipotesi, una legge, una teoria, un fatto o cos’altro? 20. Ma ogni teoria scientifica che si rispetti deve comunque avere un qualche supporto matematico, una sperimentalità e delle capacità previsionali? Da più parti si dice che per la teoria evolutiva non è così… 21. Chi era Sir Charles Darwin? 22. Uno dei punti caldi della teoria evolutiva è la parentela o discendenza che lega scimmia e uomo… 23. Si può parlare oggi di una “cultura darwiniana”? E, se sì, che significa promuoverla? 24. Perché la dimensione temporale, della storicità, è così importante? 1. Quando si parla di Darwin e di evoluzionismo, qual è il nodo centrale della questione? Il nodo centrale è ovviamente il cambiamento della vita nella successione delle generazioni. Comunque Darwin non è l’unico a infrangere gli schemi fissisti: l’importanza della sua teoria è l’individuazione dei fattori che portano alla comparsa di nuove specie. Non a caso il titolo della sua opera più importante allude proprio a questo e non alla trasformazione. 2. L’evoluzione è un processo che riguarda soltanto il lontano passato della storia della vita? No, la biologia ci mostra molti esempi di “dinamiche darwiniane” in atto, che si svolgono sotto l’occhio degli scienziati. Possono essere citate la selezione artificiale, che gli allevatori operano per scopi commerciali o simili, e l’evoluzione umana in cui il fattore culturale, incidendo sulle condizioni di sopravvivenza e di riproduzione, si è stimato moltiplichi la velocità di evoluzione biologica. 3. Che significa che la vita evolve? Significa che la vita ha una storia, che è legata alle contingenze ambientali e proprie, tutti fattori che a loro volta sono in perenne trasformazione. Quello che ci deve sorprendere non è tanto il cambiamento, connaturale alla vita, a prescindere dalla scala temporale, breve o lunga che sia, quanto piuttosto i casi di persistenza e mantenimento di alcune forme di vita. I cosiddetti “fossili viventi”, come il Limulo, la Libellula o lo Squalo, sono riusciti a eludere per centinaia di milioni di anni in modo eccezionale la tendenza al cambiamento , le molteplici spinte evolutive in più direzioni, e questo è un evento quanto meno fortemente improbabile. 4. Che significa “altra specie?” Significa che la trasformazione ha superato una soglia decisiva, un punto di non ritorno: è venuta meno la interfecondabilità e con essa la possibilità di ibridare i caratteri. Dopo la “speciazione” si hanno due popolazioni distinte che avranno due distinti destini evolutivi, anche se non necessariamente indipendenti. Infatti la fecondazione reciproca non è l’unico modo di influenzarsi: essere competitori per accaparrarsi le medesime risorse, essere preda più o meno “facile” per il medesimo predatore, stabilire un rapporto simbiotico e via dicendo sono tutti possibili modi in cui una delle due specie può influenzare l’altra. 5. Che cos’è che fa cambiare la popolazione, per intero o in parte, di una specie? La mutazione, che oggi sappiamo di origine genetica, combinata con la selezione (la quale agisce sull’organismo portatore di quel certo genoma) e il successo riproduttivo (anche questo legato alle vicissitudini dell’organismo, non del semplice genoma). 6. Perché il caso è il primo ingrediente di questa ricetta? Può succedere di tutto e di più? L’evoluzione è una lotteria? La natura gioca a dadi? Il caso è il primo ingrediente perché le mutazioni genetiche avvengono in maniera casuale, sono legate a una tendenza intrinseca, statistica, di produrre mutazioni. Più che giocare a dadi, la vita si dà nuove e diverse opportunità tentando sempre nuove e continue variazioni. È il grande numero che consente a tutto questo di essere un’apertura verso nuove opportunità. Sono talmente tante le variazioni possibili (per quanto piccole) che non avrebbe senso giocarle su uno o pochi individui. 7. Un cambiamento a caso, qua e là, ogni tanto, come può produrre quel processo ben direzionato che chiamiamo evoluzione? Insomma come può una rondine far primavera? Non sono cambiamenti sporadici o isolati, occasionali. Le mutazioni sono frutto di un lavorio continuo, sono un lavorio continuo. Il pool genetico di una popolazione è come in agitazione termica (ci sia consentita la metafora…): la struttura di insieme non viene stravolta, ma ogni singolo elemento non ha una posizione assolutamente fissa. Alla lunga le oscillazioni possono non essere “algebricamente nulle” (anzi, il fatto che lo siano, come talvolta accade, è la cosa più improbabile) e disegnare una linea di cambiamento significativa. 8. Ma cambiamenti casuali, pochi o tanti, sono solo bizzarrie, come possono dare un’evoluzione su un arco di tempo di centinaia di milioni di anni? Se si pensa che in lunghi periodi di tempo (parlando tranquillamente di milioni di anni) la pressione selettiva non cambia direzione ecco che vediamo i cambiamenti procedere nella stessa direzione. Mutazioni orientate in una certa direzione, via via più marcate, continuano ad essere favorite e vediamo il cambiamento procedere in tale direzione. Per es. il cavallo che negli ultimi 50 milioni di anni ha sempre continuato ad aumentare di mole e a ridurre le dita distanti da quella centrale. Questo può dare l’idea di un processo continuo o addirittura finalizzato, ma in realtà appena cambia la pressione selettiva dell’ambiente vedremo il processo cambiare direzione. Questo perché non c’è un legame tra ogni fase della cosiddetta evoluzione (ogni fase è puntiforme) e la precedente o la successiva. Non dimentichiamo poi che la pressione selettiva può favorire la forma originaria, così che vengono eliminate tutte le mutazioni (e si vedono allora alcuni animali che non mutano per lunghissimo tempo, come i limuli, gli squali o i celacanti), oppure nessuna delle mutazioni che pure si producono né la forma originaria riescono a sopportare la pressione selettiva e allora la specie (con tutti i suoi possibili discendenti) si estingue senza lasciare eredi. In ogni caso il DNA non ha capacità revisionali, produce le sue mutazioni alla cieca, a caso. Tra le tante (compresa quella che non muta) qualche opzione “buona” è probabile che ci sia… 9. Questo andamento non è sollecitato direttamente dall’ambiente? Se l’ambiente richiede per es. l’esercizio della forza, l’animale la eserciterà rinforzandosi… Non bisogna confondere l’effetto di certe condizioni di vita sull’organismo che, plasticamente si adatta, per esempio rinforzandosi, con la pressione selettiva che l’ambiente può esercitare favorendo la sopravvivenza di individui più forti in partenza perché più dotati geneticamente in tal senso. 10. La selezione agisce su ogni singolo soggetto, ogni singolo individuo deve fare i conti con la possibilità di sopravvivere e riprodursi. Ma alla fine chi evolve è la specie. Che rapporto c’è tra dimensione individuale e di specie? Il singolo individuo, preso isolatamente, non ha significato evolutivo: è l’aggregazione statistica delle vicende di tutti gli individui che compongono una popolazione che ci dice come la specie sta evolvendo. 11. Cosa fa di Darwin il più celebrato teorico dell’evoluzione? La chiarezza e la solidità della struttura concettuale con cui rende ragione della comparsa delle nuove specie non ha precedenti nella storia della scienza. Suo il merito di aver eliminato un finalismo di sapore aristotelico (e romantico…) dalle vicende naturali. 12. La sua teoria ha resistito così a lungo, per centocinquanta anni? L’evoluzionismo di oggi non è, pari pari, quello che ha detto Darwin. Ma la cosa straordinaria è proprio questa: dopo centocinquant’anni di ricerche e scoperte, di nuove concezioni e nuove metodologie, la teoria darwiniana mantiene intatto il suo valore fondativo, seppure i suoi contenuti, nel dettaglio, siano da intendere in chiave storica. 13. Una delle grandi rivoluzioni nelle scienze della vita, dice, ne può citare un’altra? Possiamo citare quella della generazione parentale, ovvero non spontanea, degli esseri viventi, concetto che oggi fa sorridere, ma che allora (nel XVII secolo ad opera del nostro grande Francesco Redi) segnò un passaggio epocale. E a ben guardare la rivoluzione darwiniana non potrebbe essere concepita senza quest’altra, in un certo senso c’è una continuità tra le due… 14. Quello insomma in cui crede la scienza oggi è o no il darwinismo? Sì e no nello stesso tempo. Sì perché siamo, senza soluzione di continuità, nella “scia” di Darwin. No perché molto di più e molto di diverso rientra oggi nella teoria dell’evoluzione. Ma i passi avanti dimostrano, se possibile, che le ragioni del buon vecchio Darwin erano quelle giuste… 15. Cosa è successo di così importante nella scienza dopo Darwin? Scienze vicine e lontane (ma alla fine tutte connesse) rispetto all’evoluzionismo hanno prodotto risultati straordinari. Possiamo citare il caso della biologia cellulare, dell’immunologia pasteuriana (fine ‘800), la riscoperta della genetica mendeliana (che Darwin tra l’altro non conosceva e che avvenne intorno al passaggio ‘800-‘900), lo strutturarsi della genetica delle popolazioni, della biologia molecolare e della genetica molecolare (negli anni ’50 con Watson e Crick), della biologia dello sviluppo fino alla nascita, a fine ‘900, della biologia Evo-Devo e, nella seconda metà del XX secolo, le scienze della complessità, dell’emergenza e dell’autorganizzazione. E ancora, paleontologia, ecologia, geologia, tettonica hanno visto sviluppi straordinari. Ma in tutto ciò che riguarda la vita, nelle scienze della vita, ciò che ha fatto da cornice, da sfondo e da collante è sempre stata la scienza dell’evoluzione. Questa scienza si è sempre di più legata alle altre, già negli anni Trenta e Quaranta del ‘900 si parlava, non a caso, di Sintesi Evoluzionistica. 16. Tra tutti questi eventi scientifici quale ha pesato di più sulla scienza dell’evoluzione? Se dobbiamo sceglierne uno sicuramente la genetica molecolare. Nel DNA c’è scritto tutto, l’identità, la paternità, la storia della discendenza da cui proviene… Parafrasando, se il gran libro del mondo è scritto in caratteri matematici, il gran libro della storia della vita è scritto con le basi del DNA. Lì può esser letto tutto e senza equivoci. La cosiddetta prova del DNA ha permesso di accusare e di scagionare senza il minimo margine di equivoco o di dubbio migliaia di imputati. È una prova riconosciuta dalla legge in molti paesi. Con la stessa chiarezza e certezza ci può raccontare la storia della vita andando indietro nel tempo. 17. Com’è possibile, con tutte le cose che nel mondo scientifico sono cambiate da metà Ottocento ad oggi, la teoria di Darwin regga ancora? Le nuove scoperte scientifiche hanno esteso e cambiato molto sulle teorie evolutive, ma tali cambiamenti non contraddicono l’idea di fondo di Darwin, anzi le integrazioni sopraggiunte le danno ancora più forza. 18. Il modo darwiniano di vedere il progresso della vita insomma è ancora valido? Sì, se lo “ripuliamo” da tutte le strumentalizzazioni ideologiche che gli si sono sovrapposte. Darwin ha saputo guardare i fatti, l’evidenza della realtà, non ha cercato nella natura nessun puntello per una qualche ideologia. Se qualcuno ci ha visto la giustificazione della competizione della società borghese o il riduzionismo materialista più brutale, questo era non solo al di là, ma anche del tutto al di fuori della visione di Darwin. Darwin bisogna insomma andare a rileggerselo e reinterpretarselo in modo diretto e autentico, senza accontentarsi di qualche riciclaggio fatto magari non proprio in buona fede… 19. Quella evolutiva, allo stato attuale, è un’ipotesi, una legge, una teoria, un fatto o cos’altro? È da un po’ che dell’evoluzione si sente dire che è un’ipotesi, se non una congettura, una supposizione, o addirittura una fantasia. Alcuni la definiscono teoria, nel senso di “carente di consistenza, di veridicità scientifica, fattuale”. Beh!... Una teoria lo è, ma in una accezione diversa: è una teoria in quanto spiegazione dei meccanismi causali delle trasformazioni dei viventi. Come hanno detto studiosi autorevoli il suo status è ormai “oltre ogni ragionevole dubbio”. Prove crociate provenienti dalla paleontologia, dalla biologia, dalla genetica classica, dalla genetica molecolare, dalla geologia e dalle simulazioni informatiche, tanto per fermarsi ad alcuni ambiti disciplinari essenziali, convergono sulla conferma della validità del modello evoluzionista. Modello che si riferisce ad eventi che possiamo ritenere veri e consolidati. Allo stato attuale delle conoscenze non si intravede nulla che possa prenderne il posto. Ma se un dubbio verrà, ben venga, a patto, si intende, che sia adeguatamente motivato, che non si appoggi ad argomentazioni pseudoscientifiche e mistificanti, come si è avuto modo di vedere negli ultimi anni… In quanto alla sua natura di legge, occorre dire che, mentre le teorie spiegano il perché, queste spiegano il come, in termini matematici e rigorosi. L’aspetto “legale” è l’aspetto dove c’è forse da lavorare di più, anche se gli strumenti digitali del calcolo lasciano ben sperare. 20. Ma ogni teoria scientifica che si rispetti deve comunque avere un qualche supporto matematico, una sperimentalità e delle capacità previsionali? Da più parti si dice che per la teoria evolutiva non è così… Beh! Forse si vuol far finta di ignorare l’evidenza. Ci sono già fior di modelli matematici e statistici che sostengono i modelli evolutivi, a cominciare, nella genetica delle popolazioni, dalla legge di Hardy-Weinberg, che dice che p2 + 2pq + q2 = 1; o equivalentemente: (p + q)2 = 1, in cui p e q sono frequenze alleliche dei due alleli presenti in una popolazione di organismi per un certo gene. 21. Chi era Sir Charles Darwin? Un naturalista, innanzitutto, nel senso alto e puro del termine. Figlio di un medico, i suoi interessi spaziarono in molteplici direzioni: fu zoologo, biologo, botanico, geologo. Coltivò questi interessi fin da piccolo. Intraprese gli studi medici, ma senza completarli, non sopportando la rozzezza della chirurgia di allora. Fu indirizzato quindi dal padre alla carriera ecclesiastica (sic!...). Giunse al diploma in Teologia, ma senza mai abbandonare gli studi naturalistici. Il giro del mondo sul Beagle gli dette modo di portare avanti i suoi studi sul campo e di maturare la sua teoria. 22. Uno dei punti caldi della teoria evolutiva è la parentela o discendenza che lega scimmia e uomo… L’abbattimento del discrimine tra l’uomo e tutti gli altri viventi, l’istituzione (solidamente motivata) di una continuità tra noi e le scimmie, abbatte ogni residuo di privilegio e di gerarchia nel mondo vivente, ci ferisce mortalmente, ci impedisce di vedere la natura con gli occhi di chi su di essa si arroga ogni diritto. O si rinuncia alla pretesa di “parentela” con Dio o si accetta che di questa parentela possano far parte anche i nostri cugini primati. Qualcuno dice che le prove son poche. Se il 98% di DNA in comune con gli scimpanzé vi sembran poco… qualcun altro dice che solo noi abbiamo la “mente”, ma, è ormai dimostrato, anche gli scimpanzé pensano e astraggono, la differenza è solo di quantità… Con buona pace di chi non si dà pace, dobbiamo rassegnarci a prendere questa lezione di umiltà. E, aggiungerei, ne abbiamo davvero bisogno. 23. Si può parlare oggi di una “cultura darwiniana”? E, se sì, che significa promuoverla? Sì, parlare di “cultura darwiniana” ha un senso, equivale a porsi nella prospettiva di chi guarda con occhio scevro di pregiudizi alla natura e alla realtà in genere, a essere disposti ad accettare e a promuovere cambiamenti, anche quando sono scomodi, pericolosi o faticosi, a credere nella scienza come abito mentale e come modo di fare cultura. Promuoverla poi significa farsi portavoce di tale posizione, favorire lo studio e il dialogo senza pregiudizi, aiutare le nuove generazioni ad aprirsi agli orizzonti della conoscenza motivata ed onesta. 24. Perché la dimensione temporale, della storicità, è così importante? È importante nello studio della natura e della cultura. Se si prescinde dalla dimensione temporale e dalla plasticità dei sistemi che sopravvivono cambiando e cambiano persistendo, in una dialettica mai risolta, non si può capire in profondità la realtà, sfuggono i suoi aspetti essenziali e si rischia di fraintenderla e mistificarla.