L`esodo egiziano. La pasqua Il passaggio del mare

Capitolo 7
L’esodo egiziano. La pasqua
Il passaggio del mare
Esodo 5-15
1. Mosé, il faraone e il popolo (Es 5,1-23)
1.1. L’udienza presso il Faraone (vv. 1-5).
Il cap. 5 si apre con l’euforia di Mosè e Aronne, che si recano in udienza dal Faraone e, in nome
di JHWH, qui per la prima volta chiamato «Dio d’Israele» e «Dio degli Ebrei», chiedono il permesso – secondo quanto indicato da JHWH stesso (cf. Es 3,18) - di partire in pellegrinaggio per prestargli culto nel deserto. Ciò prevede un viaggio di tre giorni nel deserto. La richiesta di questo
«servizio cultico e liturgico» scandisce insistentemente tutto il periodo delle «dieci piaghe»1. Ma
perché per esso bisogna uscira della condizione ordinaria di vita e andare nel deserto? Durante
l’estenuante tira e molla delle dieci piaghe, il faraone obietterà a Mosé e ad Aronne:
«”Andate a sacrificare al vostro Dio nel paese!”. Ma rispose Mosè: “Non è opportuno far così perché
quello che noi sacrifichiamo al Signore, nostro Dio, è abominio per gli egiziani. Se noi facciamo un sacrificio abominevole agli egiziani sotto i loro occhi, forse non ci lapideranno? Andremo nel deserto, a tre
giorni di cammino, e sacrifichermo al Signore, nostro Dio, secondo quanto egli ci ordinerà» (Es 8,21-23).
A prima vista questa risposta di Mosé sembra manifestare rispetto per la cultura e il rituale egiziano2. In realtà, non senza una certa ironia, Mosé tocca un punto cruciale della polemica anti idolatrica. Se JHWH è l’unico Signore a cui sacrificare, il culto a lui e la comunione fraterna suppongono una terra, un modo di rappportarsi all’ambiente ben preciso. Non su qualunque terra si può rendere culto al Signore, ma solamente su quella che sarà donata da JHWH ad Israele e che diventa,
perciò, segno del donatore, e dove la vita del popolo possa trascorrere come una liturgia di riconoscenza e di rin-graziamento! Questa sarà terra si rivelerà come segno e sacramento del Figlio
(cf. Gv 4,19-26; Rm 8,29-30; ecc.). Naaman il Siro lo capirà perfettamente quando, convertendosi
al fiume Giordano, piuttosto che ai fiumi di Damasco (l’Abana e il Parpar), chiederà di caricare tanta terra quanta ne portano due muli, per compiere solo su di essa un olocausto o un sacrificio al Signore (cf. 2Re 5,8-19).
A tale richiesta il faraone risponde: «Chi è JHWH perché io debba ascoltare la sua voce e lasciar
partire Israele? Non conosco il Signore...» (Es 5,2) e non «lascia partire liberi» (shalach) gli Israeliti. Preoccupato per la minaccia che costituiscono per la popolazione locale egiziana (lett. «il popolo
della terra/paese», cf. Nm 14,9; Esd 3,3) decide un giro di vite nei lavori forzati. Per lui il «sogno»
di Mosè e Aronne è soltanto insubordinazione e sabotaggio. Nella sua accusa «Perché Mosè e Aronne distogliete il popolo dai suoi lavori?» (v. 4) c’è un ironico gioco di parole: in ebraico «distogliere» (para’) ha lo stesso suono del nome faraone (par’oh).
1.2. L’ordine del faraone (vv. 6-14)
Con un vendicativo diktat il faraone esige dagli schiavi israeliti la produzione dello stesso quantitativo di mattoni, senza però rifornirli di paglia, che stavolta i «suoi» schiavi devono procurarsi da
soli. Come risulta attestato nell’iconografia egiziana, la paglia veniva tritata e mischiata all’argilla,
modellata a mani nude per dare consistenza ai mattoni crudi, che venivano lasciati seccare al sole.
1 Cf. Es 4,23; 7,16.26; 8.3.16.21.23-25; 9,1.13; 10,3.8.24-26; 21,31.
2 Ricordiamo che montoni, capri e tori erano animali sacri per gli egiziani, e dunque la loro immolazione rituale non
poteva essere sopportata.
La gestione di questa produzione viene affidata a «sorveglianti» egiziani e agli «scribi» israeliti. I
primi sono già noti (noghesim, cf. Es 3,7): il termine in ebraico designa gli «aguzzini», ma anche gli
«esattori» (Dt 15,2; Dn 11,20) e i «tiranni» (Is 9,3; 14,2) con una connotazione di prepotenza; per la
prima volta risultano affiancati dagli «scribi» (soterim) del popolo, cioè da capisquadra israeliti
chiamati a controllare i loro stessi fratelli di sangue; l’utilizzazione di questi «collaborazionisti» è
ben attestata nel mondo antico, come ai nostri tempi (si pensi ai kapò, cioè i detenuti che dovevano
sorvegliare gli altri detenuti nei lager nazisti). Probabilmente sono scelti tra gli «anziani», gli stessi
a cui Mosè aveva comunicato il programma di libertà di Dio. L’aggravamento dei lavori viene motivato dal faraone con l’accusa che gli Israeliti sono «fannulloni/lassisti» (rafah, v. 8) e si lasciano
ipnotizzare dalle menzogne di Mosè e di Aronne.
I sorveglianti egiziani e gli scribi israeliti si recano allora dal popolo e comunicano scrupolosamente le disposizioni del faraone, avviando un controllo serrato. Le nuove modalità di produzione
ovviamente richiedono più tempo e diventano particolarmente dure, specialmente sotto il cocente
sole egiziano: la raccolta di paglia obbliga gli Israeliti a una «diaspora», a disperdersi per tutto il paese d’Egitto, per raccattare stoppie. Ora, sono proprio gli scribi israeliti a pagare per primi la scarsa
efficienza nel mantenere il livello di produzione richiesto: vengono esemplarmente picchiati da chi
li aveva promossi, con l’accusa: «Perché non avete portato a termine anche ieri e oggi, come prima,
il vostro numero di mattoni?» (v. 14).
1.3. Recriminazione degli scribi e del popolo (vv. 15-23
Gli scribi, allora, reclamano (tsa’aq, v. 15) presso il faraone: «Perché tratti cosi i tuoi servi?... i
tuoi servi sono bastonati e la colpa è del tuo popolo» (v. 16). In questa querela è interessante notare
che non contestano la schiavitù in sé, ma solo la mancanza di paglia, si confermano «servi» fedeli
del faraone e non esitano, pur di scagionarsi, ad addossare la colpa sul popolo degli Israeliti. L’esito
del reclamo delude le loro aspettative, perché il faraone ben due volte rilancia l’accusa che sono
«fannulloni» (v. 17); devono tornare al loro lavoro e produrre la quantità di mattoni richiesta senza
rifornimento di paglia.
Quando incontrano Mosè e Aronne, gli scribi li accusano di averli resi odiosi (letteralmente
«puzzolenti», ba’ash, v. 21, cf. 1Sam 13,4) agli occhi del faraone e dei suoi servi. La loro accusa è
l’istruzione di un vero e proprio processo: «Il Signore proceda contro di voi (ra’ah ‘al) e giudichi
(shafat)» (cf. 1Sam 24,13.16). Mosè sarà crocefisso su questa tensione: da una parte, il Signore che
lo carica del ruolo di «mediatore della liberazione», dall’altra la resistenza del faraone a lasciar partire il popolo e quella dello stesso popolo, che esita a mettersi in cammino verso la terra promessa, e
a proseguirlo fino alla mèta.
E’ questa una parabola molto precisa del ruolo di Gesù- Salvatore («Yehoshu’a» = «JHWH salva»), apparso per liberarci dalla schiavitù di Satana (Gv 12,31-32; 1Gv 2,15-16; 3,5.8.10.12; ecc.).
Anche a proposito di Gesù-Servo (At 3,13.26; 4,27.30) e della sua missione ritorna attuale la parola
di Is 53,1: «Signore, chi ha creduto alla nostra parola? E il braccio del Signore a chi è stato rivelato?» (Gv 12,37-38; Rm 10,16).
1.4. Mosè accusa Jhwh (vv. 22-23).
Il capitolo si chiude con Mosè che «ritorna» (shuv, trad. Cei: «si rivolse») al Signore, sfogando
tutta la sua amarezza e la sua solitudine. Nell’originale ebraico, l’accusa di Mosè suona in tutta la
sua amara disillusione o voglia di smentita: «davvero, non hai per nulla liberato Israele» (con il verbo natsal «strappare», in costruzione enfatica, v. 22). Sfogo giustificato, perché da quando ha accettato la missione, il suo annuncio non ha fatto altro che peggiorare i maltrattamenti degli Israeliti.
Per la prima volta, Mosè, ricorda a Dio che essi sono il suo popolo, come farà in altre occasioni decisive di crisi (cf. Es 32,11-14; Nm 12,11-12). E il Signore riconferma la missione di Mosé (cf. Es
6,1-30). La potenza di Dio si manifesta nella povertà degli uomini (cf. 2Cor 12,7-10).
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2. Le piaghe d’Egitto e l’indurimento del faraone (Es 7-11)
2.1. Le piaghe (Es 7-11)
Per quello che siamo soliti tradurre le “piaghe”, l’ebraico ha ben cinque termini: nifla’ôt (prodigi), ‘ôt (segno naturale), mòfet (segno miracoloso), néga’ (colpo) e négef (afflizione). Quindi le
“piaghe” possono essere dei segni naturali che assumono il valore di “segno” , vale a dire un atto in
cui Dio si rivela e agisce in modo visibile. Le prime nove – a differenza della decima - appartengono all’ambito dei fenomeni naturali e Dio può benissimo essersi servito di essi.
1. L’acqua cambiata in sangue. Questo primo flagello suppone un inquinamento del Nilo che è
la colonna vertebrale dell’economia egiziana. Il fenomeno è ben noto in Egitto e viene detto “del
Nilo rosso”. Esso è causato in luglio-agosto dal fango della grande piena del fiume ormai in riflusso. Alcuni microrganismo rossastri presenti nell’acqua la rendono di un colore simile al sangue. Inoltre essi causano forti morie di pesci in seguito all’ossigeno che sottraggono alle acque.
L’elemento miracoloso sta nel fatto che questo fenomeno viene dominato da Mosè e da Aronne, superando il suo corso ordinario (tanto che la tradizione elohista e sacerdotale estendono la piaga a
tutte le acque dell’Egitto, compresi quindi gli stagni e i depositi d’acqua – cfr. Es 7,19). Come è evidente, si ha un riferimento concreto a un fenomeno reale, ma il pensiero dell’autore biblico corre
al valore di “segno” che quell’evento ha.
2. Le rane. Anche la piaga delle rane è posta in relazione al fenomeno dell’inondazione annuale
del Nilo, le cui acque le diffondono anche nel resto del territorio egiziano. Le rane sono classificate
tra gli animali impuri (Lv 11,10) e nel libro dell’Apocalisse appaiono tra i sette flagelli (16,13). In
Egitto, invece, erano il simbolo dell’abbondanza e della fecondità.
3. Le zanzare. L’invasione delle zanzare è uno dei flagelli caratteristici dell’Egitto. Il profeta Isaia prenderà spunto proprio dalle zanzare per una sua metafora su questo paese (18,1: «Guai al paese dagli insetti ronzanti, situato al di là dei fiumi d’Etiopia»). La loro presenza si fa insopportabile
nei mesi di ottobre-novembre, quando diventano un vero e proprio flagello per gli uomini e per gli
animali. Non si tratta della zanzara portatrice della malaria, ma di altre specie meno pericolose, però
altrettanto moleste.
4. I mosconi. La mosca tropicale – tecnicamente detta stomoxys calcitrans – attacca uomini e bestie e si diffonde sempre in occasione del deflusso del Nilo. L’umidità ne accelera la crescita. Il vocabolo ebraico, però, può essere applicato anche ai mosconi, ai tafani e alle mosche in genere.
5. La morte del bestiame. Si tratta di un’eccezionale moria di bestiame che colpisce, però, solo le
mandrie e i greggi degli Egiziani, preservando gli animali degli Ebrei. Con enfasi il narratore biblico afferma che «tutto il bestiame posseduto dagli Egiziani morì» (9,6). In realtà, poco più avanti nel
racconto, durante la descrizione della piaga della grandine si menziona il bestiame che gli Egiziani
avrebbero dovuto proteggere (9,19-21). Forse la moria del bestiame è stata causata dalla peste. Essa,
tuttavia, non è frequente in Egitto, è più comune nei paesi della Siria e della Palestina.
6. Le ulcere. Probabilmente si tratta della cosiddetta «scabbia del Nilo», causata dal grande caldo, che infierisce soprattutto nel periodo di inondazione del fiume. E’ una malattia della pelle, fastidiosa, non mortale, che colpisce uomini e animali.
7. La grandine. E’ un fenomeno invernale piuttosto raro in Egitto ma dalle conseguenze disastrose per le coltivazioni di lino e di orzo. Il Signore sembra quasi premurarsi che questo flagello
non risulti troppo gravoso per l’Egitto e ne comunica l’arrivo, invitando uomini e bestie (almeno
quelle sopravvissute alla moria appena descritta) a riparare in luoghi protetti. E alcuni egiziani si
mostrano «timorosi» di questo annunzio del Signore e si sono salvati; sugli altri, invece, piomba
una tempesta terrificante. Nella Bibbia la grandine è anche uno dei fenomeni che accompagnano la
teofania, cioè l’apparizione divina (Sal 18,13: «Dallo splendore della sua presenza si sprigionava
grandine con carboni di fuoco»), ed è un’arma di intimidazione usata da Dio contro i nemici del suo
popolo (cfr Gs 10,11).
8. Le cavallette. Le invasioni di cavallette, molto frequenti nel Vicino Oriente e più rare in Egitto, sono tuttora uno dei flagelli più temuti. Infatti, al loro passaggio, le colture vengono pressoché
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distrutte. Ricordiamo che il lino, l’orzo, il grano e la spelta sono i prodotti tipici della campagna egiziana.
9. Le tenebre. Si tratta probabilmente di una tempesta di vento e di sabbia, caratteristica
dell’Egitto e favorita da un vento caldo e violento chiamato Khamsin (cioè vento dei «cinquanta»
giorni, a motivo della durata).
2.2. JHWH tra Israele e l’Egitto
L’epopea delle dieci piaghe d’Egitto, che mette duramente a prova la pazienza di Mosé e di Aronne, come pure del farone, contiene una delle lezioni bibliche più solenni e complesse sulla provvidente strategia divina nella storia del mondo, che continua a essere in atto fino ad oggi.
Un’economia che intende raggiungere l’universalità degli uomini mediante il particolare popolofiglio che ha eletto. E’ della massima importanza che che tutti, egiziani e israeliti, vedano e sappiano che il Signore fa distinzione tra Israele e l’Egitto3, fino al punto di combattere in favore di Israele contro gli egiziani (Es 14,13-14.21-27). Israele, infatti, e non l’egitto, è «il figlio primogenito di
JHWH» (Es 4,22-23)4. D’altro canto, però, Dio è il Dio anche degli egiziani e di tutte le altre nazioni (cf. Rm 8,28-32; Ef 1,3-14; Col 1,12-20). Colui che obbedisce al Signore è visitato dalal sua benedizione, che lo raggiunge attraverso Israele, mentre per colui che disobbedisce, Israele diventa
«una trappola» (Es 10,7)5. Che l’eletto del Signore diventi tramite di benedizione per coloro che lo
accolgono o trappola per coloro che lo respingono sta a mostrare, finalmente, che «non vi è... altro
nome dato agli uomini sotto il cielo nelq uale è stabilito che possiamo essere salvati» (At 4,11-12).
La storia dei due fratelli si ripete ora amplificata. Come anche Ismaele è benedetto finalmente in
Isacco, ed Esaù in Giacobbe, e giuda e i suoi fratelli in Giuseppe, così anche l’Egitto viene raggiunto attraverso Israele. La vicenda delle dieci piaghe, lungi dall’essere una «apertura di ostilità» da
parte di Dio contro l’Egitto, è il risultato della resistenza del faraone, che solo alal fine confesserà di
aver peccato contro il Signore. Il faraone e gli egiziani dovranno sapere chi è il vero Dio – che essi
non conoscono – che è pure il loro Signore6. Il faraone stesso dovrà sapere che la terra – persino la
terra d’Egitto – è del Signore (Es 9,29).
La storia delle piaghe d’Egitto, con la rilettura che fa il libro della Sapienza7, è uno degli svolgimenti più interessanti per l’elaborazione di un teologia biblica della salvezza delle nazioni, a cui i
profeti dedicheranno molti dei loro messaggi.
2.3. L’indurimento del faraone8
Già in 4,21 JHWH ha preannunciato l’indurimento del cuore del faraone. Ora in questi cinque
capitoli questo tema ritorna frequentemente, come un ritornello in crescendo (cfr. 7,3.14.22; 8,
11.15.28; ecc.). Il libro dell’Esodo a volte attribuisce a Dio l’indurimento del cuore del faraone (cfr.
7,3). Altre volte, invece, più propriamente, è il faraone che si «ostina», così che il suo cuore «resta
duro» (cfr. 7,13). Quando Dio interviene per operare salvezza, il «mondo» - qui rappresentato dal
faraone e dall’Egitto – oppone una resistenza indicibile perché non vuole essere salvato. Questi testi
mostrano Dio che combatte contro ciò che resiste al suo piano salvifico.
D’altra parte lo stesso Gesù sa che la sua predicazione può chiudere il cuore ai suoi contemporanei anziché aprirlo all’invocazione di salvezza (cfr. Mc 4,11-12). Egli stesso sa di essere pietra di
«scandalo»… Dunque l’indurimento si ha quando l’uomo non si apre alle “novità” di Dio, quando
resiste alla sua Parola.
Nel nostro episodio l’indurimento consiste nel fatto che il faraone riconosce che sarebbe oppor3
Cf. Es 8,18-19; 9,4.6-7; 10,21-23; 11,4-7; 14,19-20.28-31.
Cf. Dt 1,31; 8,5; 14,1; 32,6; Sap 11,10; 18,13; Is 1,2; 63,8.16; Ger 3,19; 31,9; Os 21; 11,1; Ml 2,10-11; ecc.
5 Cf. Is 8,11-18; 51,22-23; Ger 25,15-29; 48,25-26; Ab 16-18; Zc 12,1-3; Lc 2,34-35; Rm 9,32-33; 1Pt 2,6-8; ecc.
6 Cf. Es 5,2; 7,5.17; 9,14-16; 12,12; 14,4.17-18; ecc.
7 Cf. Sap 10,15-12,2.23-27; 15,14-19,22; cf. anche Sal 78,42-51; 105,23-26.
8 Cfr. CARLO M. MARTINI, Vita di Mosé, cit, 57-60.
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tuno cedere, ma non vuole farlo, perché altrimenti cesserebbe di essere il faraone... Il suo indurimento, quindi, rappresenta emblematicamente quel «potere» che cerca qualunque trasformazione
pur di rimanere se stesso.
D’altra parte questo indurimento è favorito anche dal «successo» dei maghi egiziani, che avevano anche il ruolo di avvallare il potere del dio faraone. Il termine usato indica i capi degli scribi sacerdotali, capaci di interpretare le formule magiche dei libri sacri. Nell’Egitto di allora, la magia era
una parte importante della religione degli egiziani. Il faraone, che non vuol perdere il privilegio del
suo potere, cerca di produrre anche lui dei segni analoghi. I maghi con i loro sortilegi riescono a riprodurre i primi due segni (trasformare il bastone in serpente – cfr. 7,12), mentre restano frustrati
per la terza piaga (quella delle zanzare: cfr. Es 8,14-15). Ma il processo dell’indurimento del cuore
del faraone è ormai iniziato e, sebbene gli stessi maghi dicano al faraone «E’ il dito di Dio!»9 (noi
diremmo: la sua firma), il suo cuore si ostinò, e non diede ascolto nemmeno ad essi.
3. La celebrazione della Pasqua e gli Azzimi (Es 12,1-28.43-49)
Se il capitoli il passaggio del mar Rosso costituisce il cuore della memoria e della speranza della
fede ebraica e di quella cristiana, nel cap. 12 ne viene descritto e celebrato il sacramento, e a esso fa
seguito la realtà significata nella storia (Es 14-15). Così farà anche Gesù: nel ciclo della cena pasquale si è significato anticipatamente quello che doveva compirsi nel ciclo della passione storica.
3.1. Il sacrificio dell’agnello pasquale (12,1-14)
Questo rito, descritto minuziosamente da JHWH a Mosè e ad Aronne, rivela la sua matrice nomadica e pastorale, per altro nota ad altre popolazioni. In origine si trattava di un sacrificio offerto
dai pastori a primavera, in occasione della transumanza, per proteggere il bestiame nel momento
critico del parto. Il rito veniva celebrato di notte, nell’accampamento, senza la presenza di sacerdoti,
altari o santuari; si sgozzava un giovane animale maschio, normalmente un agnello, senza difetti,
nato nell’anno e, pertanto, commestibile per la sua carne tenera: le sue ossa non venivano spezzate
perché si riteneva che la sua vita ritornasse nei parti futuri del gregge. L’agnello veniva poi arrostito
sulla brace e con il suo sangue si spruzzavano i pioli e gli ingressi delle tende dell’accampamento
per allontanare ogni pericolo di sterminio.
Il pane veniva mangiato «azzimo» (= senza lievito), cioè come una focaccia non fermentata cotta
direttamente sulla brace: questo permetteva, come ancor oggi, rapidità e conservazione; le erbe amare del deserto sostituivano le spezie o gli aromi. Il momento della festa coincideva con la prima
luna piena e con la notte più luminosa di marzo/aprile. L’abbigliamento dei pastori era quello più
comodo per una pronta partenza: sandali ai piedi, fianchi cinti, bastone in mano. Il pasto sacrificale
esprimeva la comunione della divinità con il clan e doveva essere consumato interamente, senza
sprechi e avanzi, per evitare ogni profanazione.
Da festa naturale, così, la Pasqua si trasforma in festa storica. I simboli non sono più solo pastorali, ma rievocano la schiavitù d’Egitto e la migrazione diventa l’itinerario luminoso verso la libertà. Diventa la «Pasqua del Signore» (v. 11).
L’etimologia del termine «pasqua» (pesach) è discussa; normalmente la si deriva dal raro verbo
pasach che significa «zoppicare» (2Sam 4,4) o «saltare, passare oltre», forse con connotazione di
danza cultuale (1Re 18,21). Per Es 12 il significato è assai chiaro: è il «passaggio» di JHWH in
mezzo all’Egitto, che comporta vita e morte; JHWH passa e colpisce i primogeniti Egiziani, mentre
«passa oltre», nel senso di «risparmia» (come in Is 31,5), le case degli Israeliti, contrassegnate dal
sangue della pasqua.
Nel v. 14, dal chiaro sapore liturgico, JHWH stesso sigilla la notte e il mattino della Prima Pa9
E’ da notare che l’espressione «dito di Dio» è usata in Lc 11,20 (cfr. anche Sal 8,4), che nel parallelo di Matteo
(12,28) si formula invece come un cacciare i demoni «nello Spirito Santo». Con questa espressione impersonale, quindi,
già si vede l’azione dello Spirito che non può essere contrastata da alcun mago né potenza nemica. Tra l’altro è interessante notare che secondo Is 63,11-14 Mosè compiva i prodigi per mezzo dello Spirito.
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squa come memoriale della sua festa e lo consegna come «ordine» al futuro di ogni generazione,
perché attualizzato nel culto, diventi rivivibile per sempre.
3.2. Il rito degli Azzimi (12,15-20).
Al rito dell’agnello segue immediatamente quello della festa degli Azzimi. L’inizio della festa, il
«quattordici del mese», coincide con l’immolazione dell’agnello pasquale (Es 12,6.18). Anche questo rito ha origini antiche; diversamente dalla Pasqua, festa di pastori seminomadi, che si celebrava
in famiglia e non richiedeva santuari, quella degli Azzimi era una festa tipica di agricoltori sedentari, che si celebrava in un pellegrinaggio di maschi adulti a un santuario. Era collegata al primo raccolto stagionale, quello dell’orzo, e consisteva nell’offerta del primo covone e nella cottura del primo pane che se ne ricavava, impastato senza lievito. La festa durava sette giorni, perché tale era il
tempo necessario per la trasformazione della farina in lievito. Anche questa festa celebrava un passaggio e una «purificazione» nel ciclo naturale. Il giorno avanti la pasqua, la donna ebraica rovistava tutta la casa, perlustrandone ogni angolo al lume di candela, per ricercare e far sparire ogni più
piccolo frammento di pane fermentato, così che si potesse, poi, celebrare la festa con il solo pane
azzimo. Il pane vecchio e fermentato, infatti, era considerato pericoloso e destinato a pregiudicare i
risultati del nuovo raccolto, simboleggiato appunto dalle primizie di orzo con cui si preparava il pane azzimo.
La settimana della festa è aperta e chiusa da due «convocazioni sacre», che corrispondono a due
«sabati» (il primo e il settimo) di astensione dal lavoro, segnali che riconsegnano il tempo alla Signoria di Dio (Cf. Lv 23,2.6-8; Gen 2,3; Es 20,10). Anche questa festa è stata storicizzata e diventa
«osservanza» (v. 17), valida per ogni generazione, dell’uscita di Israele dall’Egitto: se il rito dell’agnello pasquale insiste più sul passaggio di JHWH, che fa distinzione tra gli Israeliti e gli Egiziani,
il rito degli Azzimi insiste più sull’uscita dall’Egitto. L’eliminazione del lievito acquista un senso
più profondo: gli Israeliti liberati devono eliminare, lasciare in Egitto o nel profondo del Mare dei
Giunchi, ogni residuo di un passato egiziano.
3.3. Prescrizioni per la pasqua (12,21-28; 43-49).
Le direttive dei vv. 21-28 sono un supplemento a quelle precedentemente elencate. Si ribadisce
l’importanza del rito del «sangue», ma si aggiunge che nessun partecipante alla pasqua dovrà uscire
di casa fino al mattino: sono elementi che servono da distinzione ed evidenziano il «passaggio» ancipato di JHWH, che passerà per colpire l’Egitto, ma salterà le case degli Israeliti. Con enfasi si ribadisce che questo avvenimento coinvolge e coinvolgerà tutte le generazioni d’Israele («per te e per
i tuoi figli per sempre», v. 21). La domanda «cosa significa questo atto di culto (`avodah) per voi?»
(v. 26) si sposta dalla contingenza storica per diventare contemporaneità metastorica: celebrare la
Pasqua significa riconoscersi e immedesimarsi con i «padri» («quando colpì l’Egitto e salvò le nostre case», v. 27), rivivere la stessa esperienza di libertà dalla schiavitù per una libertà al servizio di
Dio.
Nei vv. 43-49 troviamo prescrizioni sui partecipanti alla pasqua. Tali disposizioni presuppongono già un insediamento nel «paese» (di Canaan, v. 48) e si preoccupano di stabilire a quali condizioni coloro che non appartengono a Israele potranno partecipare alla celebrazione pasquale. Il rito
dovrà essere celebrato in una precisa cornice domestica e da tutta la comunità d’Israele (vv. 46-47).
Vengono esclusi gli «avventizi» (toshav), cioè gli stranieri di passaggio, e i «mercenari» (sakir),
cioè i servi salariati, perché non radicati saldamente nel paese; gli schiavi permanenti e gli stranieri
con residenza fissa (gher), possono partecipare alla celebrazione, a condizione di farsi circoncidere
(cf. Gn 17,13). Anche se non ne viene espressa la motivazione come altrove (Dt 10,19), gli Israeliti,
un tempo «stranieri» (gher) in Egitto, «incorporano» come cittadini del paese altri stranieri;
quest’ultimi, al pari dei nativi (‘ezrach) dovranno però adeguarsi alle stesse leggi d’Israele (Lv
17,15; 24,16-22); il requisito della circoncisione rientra in questi obblighi inderogabili (Nm 9,14).
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4. La morte dei primogeniti e la partenza degli Israeliti (Es 12,29-42)
4.1. La decima piaga (12,29-30)
A mezzanotte il Signore stesso, giudice terribile, passa seminando morte in tutte le case d’Egitto.
La morte si estende a ogni primogenito di uomini e bestie egiziani, dal gradino più alto a quello più
infimo della scala sociale: il faraone è impotente quanto il suo ultimo carcerato (Sap 18,11). La reazione è il «grande grido» dell’Egitto. La «punizione», un tempo preannunciata come monito pedagogico, evidenzia che non ci si può prendere gioco di Dio (Gb 13,9; Gal 6,7). La morte dei primogeniti non era altro che l’ultima occasione di «conversione» per il faraone; egli, infatti, è «punito»
con il mezzo con cui aveva peccato, l’uccisione dei neonati da lui decretata (Es 1,22).
4.2. La partenza degli Israeliti (12,31-42)
Il faraone finora ostinato, o sporadicamente disposto a parziali concessioni, getta la spugna e acconsente ora a tutte le richieste, senza limiti. Non solo ordina: «Partite», ma aggiunge: «Benedite
anche me» (v. 32). Non è più il faraone che si considerava divinamente onnipotente; sente la sua vita in pericolo, come quella di qualsiasi altro servo.
La partenza viene descritta militarmente e con un tocco d’ironia: il numero degli Israeliti partenti
(«seicentomila», cfr. Nm 1,46) è un’iperbole che serve a evidenziare la benedizione di un popolo
cresciuto. La promessa di Dio si avvera: partono come «schiere/squadroni di JHWH» (Es 6,26; 7,4).
Ttra loro c’è gente eterogenea, raccogliticcia (cf. Nm 11, 4; Lv 24,10; Gs 8,35; Is 14,1).
5. Il passaggio del Mar Rosso: avvenimento centrale della nostra fede
Nella attuale liturgia pasquale il testo di, che narra il passaggio del mar Rosso, costituisce un elemento centrale; ad esso segue il cantico di Es 15,1-7.17-18. I Padri hanno commentato ampiamente
il passaggio del Mar Rosso, intendendolo come la Pasqua cristiana: il battesimo che è segno della
nostra dedizione a Cristo, partecipando alla sua morte e risurrezione.
E’ poi interessante notare che San Paolo, meditando su questo testo, scrive ai Corinti: «Non voglio infatti che ignoriate, o fratelli, che i nostri padri furono tutti sotto la nuvola, tutti attraversarono
il mare, tutti furono battezzati in rapporto a Mosè nella nuvola e nel mare» (1Cor 10,1-2). Scrive
questo a dei cristiani, non a degli ebrei; è come se dicesse: il battesimo che abbiamo ricevuto in Cristo si ricollega con quella che è stata l’esperienza del mar Rosso. Quest’ultimo evento, infatti, è il
“tipo” della nostra esperienza battesimale. E’ il “percorso” voluto da Dio (cfr. Es 13,17-18; 14,1-2,
ecc.) non solo per il popolo ebreo, ma anche per Gesù (il “dei” che emerge nei Vangeli) e per il cristiano che lo segue (Gesù Cristo è il nuovo Mosè).
Ma come possiamo purificarci dagli azzimi che ancora in noi sono presenti? Come vivere fino in
fondo il battesimo che abbiamo ricevuto? Credo che la risposta sia chiara: non basta l’ascesi (buona
volontà): occorre in tutto accettare la sfida della fede. Nel Nuovo Testamento c’è un testo molto
importante, in cui il cammino sotto la guida di Mosè viene interpretato come un cammino di fede:
«Per la fede (Mosè) lasciò l’Egitto senza temere l’ira del re. Rimase, infatti, saldo come se vedesse
l’invisibile. Per la fede celebrò la Pasqua. Per la fede attraversarono il Mar Rosso come fosse terra
asciutta. Questo tentarono di fare anche gli Egiziani, ma furono inghiottiti» (Eb 11,29). L’autore
della lettera agli Ebrei intende affermare qui che la fede dei cristiani è oggi in continuità con quella
che fu la fede dei padri. E’ per questa fede nell’azione di Gesù, il Risorto, che ci apriamo alla sua
azione purificatrice. Mosè, in questo, ci è di esempio (vedi punto seguente).
5.1. La notte del terrore
Es 14,9 ci presenta gli israeliti accampati presso il mare. Il faraone li aveva inseguiti mentre essi
uscivano a mano alzata (v. 8). Questo gesto è significativo: sembra segnalare un proposito deliberato, spavalderia, sicurezza, certezza di vittoria e senso di trionfo; non sembra esclusa una connotazione di arroganza, di chi pretenda di prendere in mano l’iniziativa degli eventi, sicuro di potercela
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fare e di trionfare con le proprie forze10. JHWH non aveva annunciato a Israele tutto il dramma per
cui sarebbe dovuto passare, e questi era uscito dall’Egitto sicuro di sé e della vittoria. Arrivato al
Mar Rosso, invece, la mano alzata si abbassa e comincia il grande terrore.
«Quando il faraone fu vicino, gli Israeliti alzarono gli occhi ed ecco gli Egiziani muovevano il
campo dietro di loro. Allora gli Israeliti ebbero grande paura» (vv. 10-14). Israele è senza vie di uniscta. Siamo perduti! Ad accentuare tale terrore il testo insiste sul fatto che il faraone dispiega tutta
la sua otenza minacciosa e distruttiva contro Israele: tutti i suoi carri, cavalli e cavalieri, tutto il suo
esercito (cf. Es 14.6-7.9.17-18)!
Per cercare di capire meglio che cosa sia avvenuto quando gli Israeliti furono presi dalla «grande
paura», il Martini ci propone un piccolo ma interessante midrash, al modo dei rabbini.
La notte cala molto presto nel deserto; ora siamo all’inizio della notte. A qualche centinaio di metri si
sente il va e vieni delle onde del mare, a sinistra si vede l’accampamento degli Ebrei. Si accendono i
primi fuochi; tutti sono affaccendati, gesticolano, raccolti in piccoli capannelli gli uomini discutono; c’è
qualcosa di grave nell’aria: un momento di tragedia si sta avvicinando; qualcuno corre nel campo lontano, ritorna, porta notizie. L’eccitazione cresce.
Noi ci avviciniamo all’accampamento e chiediamo spiegazioni con segni delle mani (allora gli Ebrei non
parlavano ancora l’ebraico, che impararono dopo). Ci viene indicata una grande tenda al centro del campo: ci avviciniamo alla tenda e cerchiamo di vedere cosa sta avvenendo là dentro. C’è un uomo pallido,
ansimante, senza parola; intorno a lui altri uomini con lunghe barbe e con i pugni tesi. Capiamo che
quell’uomo deve essere Mosè e gli altri gli anziani d’Israele. Cosa fa Mosè? E lì, sta zitto, sembra quasi
paralizzato. E gli anziani d’Israele che fanno? Parlano, gridano, inveiscono, come fanno gli orientali
quando si adirano.
Cerchiamo di capire cosa dicono. Uno dice: «Ecco, Mosè, dove ci hai portato! Ti abbiamo creduto, pensavamo che Dio ti avesse parlato; e invece siamo qui a morire come topi: o ci gettiamo in mare e moriamo annegati, o ci lasciamo uccidere dal faraone. Ecco dove siamo: è la fine per Israele!». Un altro si alza
e dice: «Credevamo che tu, Mosè, fossi cambiato; ti conoscevamo imprudente e cocciuto, ma credevamo
che il deserto ti avesse giovato. Invece sei rimasto proprio uguale a quello che eri e ci hai fatto di nuovo
precipitare nel disastro». Un terzo: «Fratelli, ascoltatemi: noi abbiamo delle armi (infatti dice il v. 16 del
cap. 13: «Gli Israeliti bene armati uscirono dal paese d’Egitto»); è vero che gli Egiziani sono potentissimi, ma se andremo contro di loro, almeno chiuderemo la nostra storia gloriosamente. Moriamo da eroi e
diamo lode a Jahvé cadendo con le armi in pugno!». Un quarto, più venerabile degli altri, dice: «Fratelli,
ascoltatemi: ho molta esperienza della vita. Conosco bene Mosè e non ho avuto molta fiducia in lui
nemmeno quando è tornato; capivo che era un visionario. Tuttavia ascoltatemi: il faraone, lo conosco,
non è cattivo; inoltre ha bisogno di noi, quindi non ha nessuna intenzione di sterminare il nostro popolo,
ma anzi ha tutto l’interesse di reintegrarci nella nostra situazione. Siamo umili e non tentiamo Dio: la nostra posizione è insostenibile. Mandiamo quindi un’ambasceria al faraone; Mosè non si faccia proprio
vedere; vadano invece alcuni dei nostri uomini saggi a dirgli: “Abbiamo peccato, riaccoglici, siamo pronti a tornare indietro: ci siamo fidati di quest’uomo che ci ha ingannati”». Poi il tono di questo vecchio si
fa più suadente, più forte: «Fratelli, ascoltatemi: il faraone significa la sicurezza, la pace, il pane per i nostri figli; non rigettate questa offerta, non siate pazzi!». Un altro si alza a dire: «E se veramente Dio avesse parlato a Mosè? Cosa faremo: andremo contro Dio?». Ma un altro lo contraddice: «No, non è possibile, Dio non può abbandonare il suo popolo. La nostra situazione è disperata: come può Dio volere la
nostra disperazione?»11.
Ecco cosa succede in quella tenda. Da una parte c’è Mosè; dall’altra c’è il faraone con le sue minacce, ma anche con le sue promesse e con ciò che egli significa di ragionevole e giusto accomodamento alle complesse situazioni dell’esistenza. In mezzo ci sono gli anziani, divisi tra Mosè e il
faraone. In questo momento sembra davvero che le azioni del faraone salgano, mentre solo pochi
osino difendere quelle di Mosè!
5.2. La sfida della nostra fede
Mosè rappresenta quell’insicurezza della sequela di Gesù che riguarda coloro i quali accettano la
10
11
Cf. anche Nm 15,30-31; 33,3; Dt 32,26-27; Is 26,11.
CARLO M. MARTINI, Vita di Mosé, cit., 65-66.
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sfida della fede. Gesù esige una certa radicalità, cioè una fiducia incondizionata. Il cristiano sa che
l’autorealizzazione è una illusione; egli, piuttosto, perde la vita perché sa che c’è chi gliela ridona in
pienezza, al di là delle proprie aspettative. Quindi è una sfida che “costa”. Ce ne accorgiamo, per
esempio, quando siamo punti fortemente tutte le volte che ci troviamo in ambienti nei quali siamo
in pochi, o quasi soli, a credere, e ci sorge la domanda: «Ma come? tutti gli altri si fanno la loro vita
comoda, cercando di godersela quanto possono, ed io devo sacrificarmi così? ma perché?».
Il fatto è che la gente cerca istintivamente di star bene, di godere e di riuscire a sistemarsi, procurandosi la maggior quantità di beni di ogni genere, a proprio uso e consumo. La sfida della fede
si fa più chiara proprio quando ci si trova tra persone per le quali conta solo questa vita, e noi soli
continuiamo a credere che non c’è solo questa vita; allora ci sentiamo soli, quasi abbandonati, strani. E’ la sfida della fede, che ci punge di fronte agli increduli, quando questi fanno massa, fanno
opinione, fanno ambiente, fanno potenza. Questa è la sfida di Mosè! E’ davvero attuale!
Per capire meglio l’impatto di questa sfida, vi ricordo la scena evangelica descritta in Mt 27,3944, che può essere meditata anche alla luce di questo episodio di Mosè. Gesù è in croce, deriso e oltraggiato:
«E quelli che passavano di là lo insultavano scuotendo il capo e dicendo: “Tu che distruggi il tempio e
io ricostruisci in tre giorni, salva te stesso. Se tu sei Figlio di Dio, scendi dalla croce”. Anche i sommi
sacerdoti con gli scribi e gli anziani lo schernivano: “Ha salvato gli altri e non può salvare se stesso. E’ il
re d’Israele? Scenda ora dalla croce e gli crederemo. Ha confidato in Dio, lo liberi lui ora, se gli vuol bene. Ha detto infatti: Sono Figlio di Dio”».
Con tali accuse Mosè, come Gesù, viene esposto alla massima contraddizione: Dio non è con lui,
ma è con noi! Quale è la reazione di Mosé?
5.3. Le scelte possibili12
- La prima possibilità era quella di svignarsela, dicendo: «Fratelli, ciò che avete detto è molto
importante e degno di attenta considerazione. Tornate alle vostre tende, datemi un’ora di tempo e
poi ci ritroveremo». Nel frattempo poteva partire e ritornarsene nel deserto. Questo è ciò che fanno
alcuni uomini politici, quando hanno portato il popolo sull’orlo del disastro: escono dalla scena,
ammazzandosi. Questa del suicidio, d’altra parte, è una tentazione non così rara come si penserebbe.
- La seconda possibilità era quella di armare il popolo conformemente al consiglio di alcuni:
«Armiamoci e moriamo da eroi!». E’ la scelta del Vangelo interpretato falsamente come eroismo: il
Vangelo ci chiama a batterci in maniera spasmodica, a resistere con le nostre forze fino in fondo,
lasciando così un nome di gloria, ma di gloria mondana e faraonica.
- La terza possibilità, anch’essa faraonica, era quella di organizzare il ritorno, dicendo: «Fratelli,
avete ragione. Io sono l’unico che posso proporre questo agli Israeliti ed essi mi ascolteranno: mandiamo un’ambasceria e trattiamo».
- La quarta possibilità infine consisteva nel fidarsi di Dio, dicendo: «Signore, tu mi hai portato
qui; tu agirai». Una possibilità quasi pazzesca, perché consiste nel non far niente. «E se Dio avesse
deciso - poteva pensare Mosè - di non aiutarmi? Tutto mi crollerebbe addosso!». Proprio qui sta la
scelta di fede che viene chiesta a Mosè: si tratta di affrontare l’incognita di Dio. Notate la drammaticità di quest’ultima possibilità, penosa soprattutto quando sono coinvolti altri, che reclamano decisioni di tipo faraonico, concrete e immediate. D’altronde la fede richiede altre decisioni, ma si ha
paura di prenderle. In realtà, se Mosè avesse deciso di armare tutti, è vero che sarebbe stato un disastro, ma almeno si sarebbe fatto qualcosa e l’angoscia sarebbe stata vinta. Quanto più terribile, invece, in quella situazione di angoscia insopportabile, il dire: «Il Signore ha parlato, il Signore si mostrerà». Lo stesso darsi da fare per organizzare il ritorno al faraone, per quanto umiliante potesse essere, sarebbe stato sempre meno angoscioso di una situazione di abbandono nella fede. E qui ricorderei, con tutte le dovute analogie e differenze, l’angoscia di Gesù nell’orto. Anche Gesù avrebbe
12 Cf. Ibid., 70-71.
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potuto dire: «Me ne vado; lascio questa situazione; non ce la faccio; non la voglio». Oppure poteva
seguire il consiglio di Pietro: armarsi e morire con i discepoli. Invece Gesù sceglie l’agonia, lasciando che l’opera di Dio si manifesti.
5.4. Mosè diviso13
Che cosa sceglie dunque Mosè? Sceglie quello che può, barcamenandosi... Mosè ha due facce in
questa scelta, come ogni altro uomo. La prima è quella del coraggio, la seconda quella della paura.
Egli le interpreta tutte e due.
La prima, la faccia del coraggio, è quella che egli, con la grazia di Dio, interpreta di fronte al popolo, perché il Signore gli mette in cuore delle parole coraggiose. Quando la gente grida: «Forse
non c’erano sepolcri in Egitto e ci hai portato a morire nel deserto. Non ti dicevamo: “Lasciaci stare, serviremo gli Egiziani; è meglio per noi servire l’Egitto che morire nel deserto?”», Mosè risponde: «Non abbiate paura! Non lasciatevi travolgere dall’angoscia; siate forti e vedrete la salvezza che
il Signore oggi opera per voi. Perché gli Egiziani che voi vedete oggi non li rivedrete mai più». E
poi la bellissima conclusione: «Il Signore combatterà per voi e voi state tranquilli» (Es 14,11-14).
D’altra parte, è innegabile che anche Mosè avesse la sua paura; infatti, subito dopo queste parole coraggiose, il racconto biblico prosegue dicendo: «Il Signore disse a Mosè: “Perché gridi versò di
me?”» (Es 14,15). Ciò significa che mentre Mosè diceva alla gente di starsene tranquilla, dal canto
suo egli stesso gridava al Signore. E la sua paura non doveva essere piccola, come leggiamo in un
altro passo dell’Esodo, dove Mosè invoca l’aiuto del Signore dicendo: «Che farò io per questo popolo? Ancora un poco e mi lapideranno» (Es 17,4). Da una parte dunque Mosè segue l’istinto dello
Spirito, che lo spinge verso il coraggio della fede, ma dall’altra anche lui è preso dall’angoscia, che
lo trascina verso la disperazione. Mosè è dunque diviso. Eppure è proprio da questa paura che il Signore Risorto ci libera. Insistentemente ci dice: «Non temere!»
5.5. Il passaggio del Mar Rosso
In questa situazione interiore di Mosé il Signore interviene: «Ordina agli Israeliti di riprendere il
cammino. Tu intanto alza il bastone e stendi la mano sul mare e dividilo, perché gli Israeliti entrino
nel mare all’asciutto» (Es 14,15s.).
Il passaggio avviene di notte. Essa è qui stranamente illuminata da un’oscurità, cioè dalla nube
(Es 14,20). Simbolo di sofferenza, terrore e morte, la notte è illuminata da «un’altra notte» che cela
la presenza del Signore. Quindi la notte, pur tenebrosa, piena di forze oscure e mortali, può diventare il luogo della salvifica presenza di Dio per chi ha occhi per vedere.
A un certo punto la nube passa alla retroguardia, sì da illuminare gli isrerliti e da oscurare gli egiziani. Per gli israeliti è luce, per gli egiziani è notte. La nube è la stessa tra gli uni e gli altri, ma i
primi ora sanno percepire che nella nube Dio è presente e agisce in loro favoro, e per questo per essi
è luce; i nemici, invece, che non sanno penetrare oltre le apparenze, percepiscono solo la notte.
Viene poi descritta la scena del passaggio del Mar Rosso14: tutto si svolge in modo dignitoso e
solenne, come se si trattasse di una processione regale. La notte del terrore per gli israeliti divenne
la notte della pace e della tranquillità.
Dice san Paolo che gli Israeliti «sono stati battezzati in Mosè». Che cosa vuol dire questo? Vuol
dire che hanno avuto fiducia in lui, fino ad entrare nell’acqua del mare, fiduciosi in Mosè: Dio gli
ha parlato, e quindi avanti! «Essere battezzati in Mosè» significa per gli Israeliti prendere su di sé il
rischio di Mosè, accettare l’insicurezza di Mosè. Allo stesso modo, per noi «essere battezzati in Gesù» significa prendere su di noi il rischio di Gesù, e dirgli: «Signore, ti seguirò dove tu andrai; voglio vivere come tu vivi, mangiare come tu mangi, dormire come tu dormi, affrontare le tue stesse
contrarietà ». Ciò vuol dire decidersi a vivere una vita pasquale, una vita secondo lo Spirito: decidere di lasciarsi salvare dallo Spirito di Gesù.
13 Cf. Ibid., 72-73.
14 In ebraico il Mar Rosso è chiamato sûf ed indica il “canneto”, la “giuncaia” (Es 2,3.5). Con questo nome si indica la
zona paludosa presso i Laghi Amari, nelle vicinanze di Silo, città egiziana di confine e fortificata.
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Gli Israeliti, seguendo Mosè, non fanno niente se non decidere di lasciar fare a Dio: si lasciano
portare come «su ali di aquila». Aprendosi alla fiducia Israele può vedere la salvezza che il Signore
opera per lui. E noi, seguendo Gesù, decidiamo di lasciarci salvare da lui: facciamo fiducia alla sua
potenza infinita, alla sua sapienza, alla sua capacità di guidarci; ci lasciamo immergere in lui, prendendo volentieri i suoi rischi e le sue sicurezze, giorno per giorno. Accettiamo quel rischio che ci
espone all’eventualità di realizzarci come uomini, affettivamente e culturalmente, oppure a quella di
essere schiacciati in situazioni piccole e meschine. Corriamo il rischio di Gesù, senza cercare la nostra realizzazione, che sarebbe di nuovo un’opera faraonica. Comprendiamo allora l’importanza
della frase «Il Signore combatterà per voi e voi starete tranquilli»: la decisione fondamentale è presa
dal Signore; l’opera è sua; essere battezzati in lui vuol dire lasciarsi invadere dalla potenza dello
Spirito.
«Il Signore disse a Mosé: “Stendi la mano sul mare: le acque si riversino sugli egiziani, sui loro carri e i
loro cavalieri”. Mosé stesa la mano sul mare e il mare, sul far del mattino, tornò al suo livello consueto,
mentre gli egiziani, fuggendo, gli si dirigevano contro. Il Signore li travolse così in mezzo al mare» (Es
15,26-27).
Fuggendo, gli egiziani si sono buttati tra le braccia delle acque. Per capire questo modo di proporre l’evento, bisogna ricordare che nella Bibbia i «nemici» sono gli empi e i peccatori, cioè coloro che si fanno principio di sé, vivono nell’autosufficienza e non si lasciano salvare da Dio. Il Signore, allora, fa verità e rivela la situazione di menzogna in cui essi vivono. Una volta, poi, che il
male è manifestato come tale, esso non può reggersi, perché non ha nessuna consistenza in se stesso; è vanità delle vanità che davanti alla consistenza di Dio svanisce in meno di un istante. Il potenziale di negatività che contiene, rivelato dalla sguardo del Signore, alla fine è potente solo per distruggere se stesso. I nemici di Dio si autodistruggono o si distruggono tra loro a motivo
dell’inevitabile autoannientamento a cui il male è destinato (cf. 1Pt 2,7-8). Così nel nostro testo il
mare – nemico di Israele e di Dio, perché arrogante e simbolo di morte15 – annienta l’altro nemico
del Signore e d’Israele, cioè l’Egitto16. Mentre il nemico sparisce nell’abisso, Israele è salvo. Non
solo le acque non gli hanno fatto alcun male, ma le due muraglie lo hanno persino aiutato nel cammino, sia proteggendolo sia indicandogli la direzione.
5.6. Il canto pasquale dei battezzati (Es 15)
«Il popolo temette il Signore e credette nel Signore e nel suo servo mosé» (Es 14,31). Il cantico
che segue è il traboccare nella lode del timore e della fede nel Signore, che esplode nel cuore di Israele salvato. Tutto il popolo canta (aspetto comunitario della salvezza).
Nell’evento del passaggio del mare, Israele è divenuto una comunità credente, salvata e nuova.
E’ il cantico di tutti coloro che, avendo accettato di prendere su di sé il rischio di Gesù e scommettendo la propria vita sul Vangelo contro l’evidenza mondana, dicono: «Ma come è stato tutto così
semplice! Abbiamo visto cadere gli Egiziani; avevamo una grande paura di loro, che erano il popolo più potente del mondo, avevano cavalli numerosi e veloci che trainavano sui carri cavalieri armati di lancia... e invece sono là che galleggiano sul mare».
«Voglio cantare in onore del Signore perché mirabilmente ha trionfato, gettando in mare cavallo e cavaliere. Mia forza e mio canto è il Signore. Egli mi ha salvato. E’ il mio Dio, il Dio dei nostri padri, lo voglio esaltare» (v. 1).
E’ questo il primo dei Cantici, il modello di ogni azione di grazie che, celebrando la sovranità
15 In Gen 1,2 prima della creazione il testo dice che esisteva il «tehom», l’abisso tenebroso delle acque, simbolo del
caos primordiale, di ciò che è informe e della morte. Cf. anche Gn 2,3-4.6-7: Giona inghiottito dal pesce, dal ventre acquoso, nelle profondità tenebrose del mare, prega il Signore: «Nella mia angoscia ho invocato il Signore ed egli mi ha
esaudito; dal profondo degli inferi ho gridato e tu hai ascoltato la mia voce. Mi hai gettato nell’abisso, nel cuore del mare e le correnti mi hanno circondato; tutti tuoi flutti e le tue onde sono passati sopra di me... Le acque mi hanno sommerso fino alla gola, l’abisso mi ha avvolto... Ma tu hai fatto risalire dalla fossa la mia vita».
16 Un tipico racconto biblico che mostra come il male distrugga se stesso è quello di Gs 6.
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del Signore (v. 18)17, ne esalta la dimensione salvifica.
Questo canto deve essere anche il mio canto. Anch’io devo poter dire: tutti i condizionamenti per
i quali avevo tanta paura, tutti quegli ostacoli che sorgevano davanti, tutte quelle inquietudini che
mi bloccavano, una volta che ho preso la decisione totale di lasciarmi invadere dallo Spirito del Signore, sono stati sommersi nel Mar Rosso: «Gli abissi li coprirono e sprofondarono come pietra. La
tua destra, Signore, terribile per potenza; la tua destra, Signore, annienta il nemico». E’ questo il
canto del battezzato, che si riconosce salvato e dice: «Dio veramente ha combattuto per me; io ho
detto di sì allo Spirito e il Signore ha fatto tutto». E’ il cantico, insieme a quello «dell’Agnello» intonato dai salvati nell’Apocalisse che hanno vinto la bestia (cf. Ap 15,3).
17
Cfr. Sal 10,16; 29,10; 146,10. E’ da notare che nel secondo versetto, già così come è scritto il ebraico, è contenuto in
certo modo il nome di Gesù. Questo versetto letteralmente si traduce: «Egli è divenuto salvezza (yeshu’ah) per me».
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