Storia – 7 Verso la guerra civile: Cesare e la Gallia e la situazione a Roma. Terminato il suo consolato Cesare partì per le sue provincie del nord. Data la frammentazione dei popoli barbari che occupavano la Gallia, egli riteneva che non fosse impossibile riuscire a sottometterli e a compiere un'azione che gli procurasse la stessa (se non maggiore) gloria militare che aveva Pompeo. Per intraprendere una guerra di conquista però Cesare aveva bisogno di un pretesto. Così, nel 58 a. C., approfittando della richiesta di aiuto avanzata dagli Edui (una tribù gallica alleata con Roma) che si sentivano minacciati dagli Elvezi (che occupavano la regione dell'odierna svizzera e che a loro volta erano minacciati da altre popolazioni) iniziò la sua campagna militare espansionistica. Intanto la situazione a Roma era in subbuglio. Pompeo, sempre più allarmato dal crescente potere e prestigio che andava acquistando Cesare aveva ripreso i contatti con l'oligarchia senatoria, incoraggiandola a richiamare Cicerone dall'esilio. Per cercare di arginare queste manovre Cesare nel 56 a.C. tornò in Italia e a Lucca strinse un nuovo patto triumvirale con Pompeo e Crasso: Cesare avrebbe riottenuto il proconsolato in Gallia per altri cinque anni, Pompeo e Crasso nel 55 a.C. sarebbero stati nuovamente eletti consoli e l'anno successivo avrebbero ottenuto anch'essi un proconsolato (Pompeo in Spagna, Crasso in Oriente). Questo equilibrio subì una prima battuta d'arresto quando Crasso morì nel 53 a.C. Egli, pur non essendo militarmente dotato, intraprese una campagna militare per occupare e conquistare il regno dei Parti (che consisteva in una immensa regione orientale tra la Mesopotamia e la Persia). Naturalmente non solo non riuscì nell'impresa, ma il suo esercito nella battaglia di Carre fu sterminato e lui stesso vi trovò la morte. La situazione precipitò dopo l'assassinio di Clodio, il tribuno della plebe che aveva esiliato Cicerone. La città fu preda di molti disordini e il Senato adottò una misura senza precedenti: nominò Pompeo console sine collega, cioè unico console. Pompeo fu incaricato di creare un esercito per riprendere il controllo della città. Così Pompeo, del tutto al di fuori delle regole istituzionali che diceva di voler difendere, si rtirovò a disporre di un potere assoluto e di una forza militare notevole con cui affrontare Cesare. Nel frattempo Cesare dopo aver conquistato la Gallia ed aver esplorato la Britannia (cioè l'odierna Inghilterra), nel 53 a. C. fu di nuovo impegnato in Gallia per contrastare il giovane e Valoroso Vervingetorige, capo del popolo degli Arveni. Egli si era messo a capo di molte tribù ed era determinato a riconquistare la libertà perduta. Per due anni Vercingetorige tenne eroicamente fronte alle legioni romane, ma nel 52 a.C. dopo un assedio alla città di Alesia (città al centro della Gallia) fu costretto ad arrendersi ai Romani. Ridotta a provincia la Galla venne definitivamente incorporata a Roma: la sua resistenza era costata un milione di morti e un altro milione di uomini ridotto in schiavitù. Dopo questo bagno di sangue il mondo celtico fu inglobato in quello romano, tanto che i vinti finirono per adottare progressivamente la civiltà dei vincitori. La guerra civile tra Cesare e Pompeo Terminato il suo proconsolato in Gallia, Cesare intendeva candidarsi al consolato. Tuttavia il Senato, su consiglio di Pompeo, aveva varato una legge che prevedeva che i candidati dovessero essere presenti in città per venire eletti. Questo imponeva a Cesare di congedare le proprie legioni e di recarsi a Roma da privato cittadino (naturalmente disarmato). Egli temeva ritorsioni e, soprattutto, che Pompeo (a capo ancora delle legioni in Spagna) potesse attaccarlo. Chiese perciò, come condizione per presentarsi a Roma, che anche Pompeo sciogliesse il suo esercito. Tuttavia il Senato rifiutò tale proposta. Cesare allora non esitò a ricorrere alla forza. La notte del 10 gennaio del 49 a.C. Cesare attraversò con le sue legioni il fiume Rubicone (presso Rimini) che segnava il limite settentrionale del pomerium. Questa atto era una vera e propria dichiarazione di guerra a Roma e prefigurava una nuova marcia (come quella di Silla). Si narra che nell'attraversare il fiume avesse pronunciato la seguente frase: alia iacta est cioè “il dato è tratto”. Sostenuto dai suoi numerosi simpatizzanti Cesare avanzò verso la capitale senza incontrare resistenza. Pompeo, impreparato a difendere Roma (città non progettata per resistere a un assedio), fuggì in Macedonia con parte dell'aristocrazia: qui pensava di poter reclutare un esercito che gli consentisse di passare al contrattacco. Cesare, dal canto suo, dopo aver comquistato agevolmente tutta la penisola italica si recò in Spagna per eliminare le legioni di Pompeo là stanziate. Raggiunta la sicurezza in quel frangente egli raggiunse Pompeo e nel 48 a.C. lo sconfisse definitivamente nella battaglia di Farsalo. Pompeo fuggì in Egitto dove sperava di trovare asilo e di riorganizzare il suo esercito. Ma il re egiziano Tolomeo XIII lo fece uccidere, decapitare e ne fece consegnare la testa a Cesare nella speranza di ottenerne la benevolenza. Cesare non apprezzò affatto: era inconcepibile che un cittadino romano, anche se suo nemico, fosse così barbaramente ucciso e vilipeso e lo fece uccidere. Secondo alcuni però questa punizione fu “suggerita” a Cesare da Cleopatra, la famosissima regina d'Egitto. Sebbene ella fosse moglie e sorella di Tolomeo (perché era usanza in Egitto che si sposassero tra fratelli) i rapporti tra i due non erano idilliaci. Cleopatra mirava a conquistare il potere assoluto. Cesare, ormai cinquantenne, si innamorò di lei, ventenne, al punto di restare per ben venti mesi alla sua corte. Dopo aver fatto uccidere Tolomeo XIII egli la fece sposare con Tolomeo XIV, un bambino appena undicenne. Ma Cesare sapeva bene che non poteva indugiare in Egitto. Partì per l'Oriente per sedare alcune rivolte. La più famosa fu quella del nuovo re del Ponto (Farnace). Passò alla storia per via della rapidità con cui Cesare, nel 47 a.C. riuscì a sconfiggere il nemico. Fu proprio in questa occasione che, scrivendo al Senato per informarlo sull'andamento della guerra, furono pronunciate le seguenti parole: veni, vidi, vici cioè “venni, vidi, vinsi”. Gli ultimi rimasugli dell'esercito pompeiano erano riuniti in Numidia (nord africa) sotto la guida di Marco Porcio Catone. Catone era un nobile, integro nei costumi e fedele alla Repubblica che vedeva sempre più minacciata da Cesare. Quando il suo esercito fu sconfitto egli, assediato nella città di Utica, non esitò a togliersi la vita piuttosto che accettare il perdono che Cesare gli offriva. Da questo suo estremo gesto Catone prese il nome di Catone Uticense. Egli sarà visto da Dante come simbolo dell'integrità e di coloro che lottano per la libertà a costo della propria vita “libertà va cercando, ch'è sì cara, / come sa chi per lei vita rifiuta” (Purgatorio vv. 71-72). Gli ultimi superstiti furono definitivamente sconfitti nel 45 a.C. a Munda, in Spagna. Con quest'ultima vittoria Cesare diveniva l'indiscusso padrone di Roma.