Dignità umana e diritto privato

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Giampaolo Azzoni
Dignità umana e diritto privato
Abstracts: The analysis of the relationship between human dignity and private law requires distinguishing self-determination from autonomy. Self-determination manifests itself
in an individual decision, whereas autonomy creates an individual rule which also meets
the transcendental requirements of a law. In this perspective, human dignity is the ground
of autonomy, though a limit to self-determination. According to Kant, human dignity is
connected with the anthropological difference between homo phaenomenon and homo
noumenon. One violates human dignity when one reduces a person to his phenomenic
part. Respect for human dignity implies duties to others as well as to the self. By means
of a legal act, man cannot deprive himself of what originally belongs to him.
Keywords: anthropological difference – autonomy – Immanuel Kant – legal act – selfdetermination.
1. Come un masso erratico
La dignità umana rispetto al diritto privato attuale può apparire come una sorta
di masso erratico: imponente, ma sostanzialmente estranea al paesaggio che la
circonda. L’imponenza della dignità umana deriva dal rilievo assunto nel costituzionalismo europeo a partire dal Grundgesetz del 1949 fino alla Carta di Nizza,
dove la «dignità della persona umana non è soltanto un diritto fondamentale in
sé, ma costituisce la base stessa dei diritti fondamentali»1. L’estraneità dipende,
come nel caso dei massi erratici, da una diversità d’origine: il concetto di dignità
Giampaolo Azzoni è professore di Teoria generale del diritto presso la Facoltà di Giurisprudenza
dell’Università di Pavia. email: [email protected].
Spiegazioni relative alla Carta dei diritti fondamentali (2007/C 303/02). Cfr. M. Zanichelli,
Il discorso sui diritti: un atlante teorico, Padova, Cedam, 2004, pp. 157-162; e B. Malvestiti,
Criteri di non bilanciabilità della dignità umana, relazione al Convegno Diritti fondamentali
e diritti sociali, organizzato dall’Istituto di Storia, Filosofia e Diritto ecclesiastico e dall’Istituto
di Studi storici dell’Università degli Studi di Macerata (22-23 novembre 2011).
1
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Ragion pratica 38/giugno 2012
umana deve al diritto la sua fortuna, ma le sue radici sono teologiche e filosofiche,
prima che giuridiche2.
Un ulteriore elemento di difficoltà risiede nel fatto che «dignità» rappresenti un caso di enantiosemia (Gegensinn), cioè di quel fenomeno semantico
per cui un vocabolo assume un significato opposto a quello originario (esempio:
l’aggettivo «feriale» che, derivato dal latino, significava «festivo» e ora significa
«lavorativo»).
Per molti secoli «dignità» è stato utilizzato prevalentemente per distinguere gli uomini tra loro in gradi diversi secondo una gerarchia3; emblematico è
il titolo con cui viene sinteticamente identificato un importante documento del
tardo Impero romano che riporta le principali cariche civili e militari: Notitia
dignitatum. Questo significato originario permane nel diritto privato contemporaneo soprattutto nella forma negativa di «indegnità» per identificare casi speciali
di persone non meritevoli (revoca dell’adozione per indegnità dell’adottato o
dell’adottante; indegnità a succedere).
Nel senso oggi prevalente, «dignità» non discrimina più gli uomini
tra loro, ma, all’opposto, designa l’umanità che li accomuna e li differenzia da
tutto ciò che non è propriamente umano. La graduale emersione di tale secondo
significato è, come vedremo meglio di seguito, significativamente intrecciata con
la Wirkungsgeschichte di alcune idee della filosofia morale di Immanuel Kant,
cioè ha poco più di due secoli. Ma il concetto di dignità umana è anche lo sviluppo
di un tema centrale nella teologia cristiana e che troviamo esemplarmente sintetizzato da Paolo in un versetto della Lettera ai Galati (3, 28): «Non v’è Giudeo né
Greco; non v’è schiavo né libero; non v’è maschio né femmina, perché voi tutti
siete uno in Cristo Gesù». La creazione e l’incarnazione costituiscono gli uomini
nel loro valore comune indipendente da ogni status: la filosofia e il diritto hanno
esteso questo valore oltre la dimensione trascendente in cui Paolo lo collocava,
ma tale dimensione originaria (seppure secolarizzata) in qualche misura orienta
ancora le concezioni contemporanee della dignità umana.
L’importanza assunta dalla dignità umana negli ordinamenti giuridici
positivi, insieme ad una sua storia complessa e per lungo tempo estranea al diritto, hanno prodotto analisi ed ancor più usi spesso inadeguati. È difficile non
condividere l’impressione di Winfried Hassemer secondo cui «è scoraggiante
Per un’efficace sintesi sull’evoluzione del concetto di dignità umana, v. P. Becchi, Il principio
dignità umana, Brescia, Morcelliana, 2009. Mentre un’ottima antologia interdisciplinare è
quella curata da E. Furlan, Bioetica e dignità umana: interpretazioni a confronto a partire dalla
Convenzione di Oviedo, Milano, Angeli, 2009 (nonostante il titolo, sono trattati molteplici
aspetti della dignità umana oltre a quelli più strettamente bioetici).
3
Fanno riferimento a questo primo senso di «dignità» gli usi registrati dal Dizionario della
lingua italiana di Niccolò Tommaseo e Bernardo Bellini.
2
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studiare le discussioni sulla dignità umana»4, nelle quali essa è consumata per
arricchire deboli catene argomentative5. Analogamente Ronald Dworkin scrive
che: «The concept of dignity has become debased by flabby overuse in political
rhetoric: every politician pays lip service to the idea, and almost every covenant
of human rights gives it pride of place»6. �����������������������������������
Ma sia Hassemer, sia Dworkin ritengono ormai imprescindibile il riferimento alla dignità umana per la tutela dei
diritti fondamentali.
Vorrei aggiungere che la rilevanza pratica della dignità umana deriva
anche dal fatto di essere il concetto normativo che forse meglio interseca le due
grandi tradizioni dell’Occidente moderno, il cristianesimo e l’illuminismo, rappresentando quindi l’esito più alto di quel «overlapping consensus» che secondo
John Rawls consente forme di accordo anche tra «comprehensive doctrines». Un
continuo approfondimento concettuale insieme ad una riflessività applicativa sono
dunque particolarmente importanti per la dignità umana ed essenziali affinché
essa possa attuare la sua promessa di consentire un maggiore rispetto della
persona nella sua integrità. In questo modo la dignità umana forse continuerà
ad essere per il diritto privato contemporaneo una sorta di masso erratico, ma
potrà fungere altresì da fondamentale Wegmarke, segnavia.
2. Autodeterminazione vs. autonomia
La prospettiva del diritto privato è particolarmente felice per un’analisi della
dignità umana dato il rilievo che in esso assume l’autonomia dei soggetti. Infatti,
alcune situazioni tipiche che generano problemi riguardo al concetto di dignità
umana sono connesse ad atti di disposizione del proprio corpo o, più in generale,
ad obbligazioni volontariamente assunte.
Così è nel diritto privato che si pongono domande filosoficamente
centrali quali le seguenti: l’esercizio dell’autonomia può essere in contrasto con
la dignità umana? il consenso informato del soggetto è sufficiente ad escludere
tale contrasto? la dignità umana si realizza in modo eminente nell’autonomia del
soggetto o, al contrario, l’autonomia incontra un limite nella dignità umana? Le
diverse risposte a tali domande determinano diverse qualificazioni di un medesimo comportamento che può essere connotato o come un’estrinsecazione della
dignità umana dell’autore o, all’opposto, come una offesa a quella dignità.
W. Hassemer, Argomentazione con concetti fondamentali: l’esempio della dignità umana,
in «Ars Interpretandi», 10, 2005, pp. 125-139, p. 125.
5
Ivi, p. 129.
6
R. Dworkin, Justice for Hedgehogs, Cambridge (Mass.), Harvard University Press, 2011, p.
13.
4
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È significativo che l’unica occorrenza del sintagma «dignità umana»
nella Costituzione italiana sia nel 2° comma dell’art. 41, in cui essa è configurata
proprio come un limite all’iniziativa economica privata.
Le risposte alle domande sopra ricordate e, più in generale, la corretta
caratterizzazione della dignità umana richiedono di distinguere nettamente due
concetti che sono spesso presentati come identici o in larga misura sovrapposti: il
concetto di autodeterminazione e il concetto di autonomia. Ritengo che autodeterminazione e autonomia rappresentino i poli di un’opposizione rispetto ai quali
la dignità umana si configura o come elemento neutro (e anche potenzialmente
conflittuale), o come elemento necessariamente correlativo (o, in alcuni ipotesi,
addirittura fondativo). A tale riguardo anticipo qui la mia tesi: la dignità umana
è un modo dell’autonomia, ma è un limite all’autodeterminazione.
Il principio di autodeterminazione ha la sua genesi nel diritto internazionale ed è connesso al concetto di sovranità: attraverso l’autodeterminazione
il soggetto si costituisce come sovrano relativamente alla propria sfera (nel caso
di un popolo relativamente al proprio territorio). L’autodeterminazione riguarda l’apposizione di confini (in latino, termini). Questo è il senso in cui ricorre
all’art. 1 dei Patti internazionali di New York del 1966 (dei quali in Italia è stata
autorizzata la ratifica dalla L. 881/1977): «Tutti i popoli hanno il diritto di autodeterminazione. In virtù di questo diritto, essi decidono liberamente del loro
statuto politico e perseguono liberamente il loro sviluppo economico, sociale e
culturale».
Da un punto di vista giuridico, e facendo riferimento al lessico di Wesley
N. Hohfeld, per il soggetto dell’autodeterminazione si può parlare di «immunity», cioè di situazione in cui sono irrilevanti gli atti dispositivi compiuti da altri
soggetti, come, analogamente, per citare un esempio di Hohfeld, il caso di un
proprietario di un terreno che è immune dagli atti di alienazione della sua proprietà compiuti da altri7. A tale proposito, è da segnalare che, in modo pertinente
ad una riflessione sulla dignità umana, il concetto di immunità è stato ripreso
in filosofia della politica come nucleo di un’antropologia negativa che chiude il
soggetto in sé separandolo dagli altri e dall’ambiente in cui vive8.
Dunque, l’autodeterminazione definisce soggettività, nei loro confini,
sovrane e immuni: soggettività insulari. Da tali considerazioni discende che gli
esiti dell’autodeterminazione non siano sindacabili, né abbiano criteri di valutazione applicabili o necessitino di giustificazione: chi si auto-determina, è sovrano,
è superiorem non recognoscens (incidentalmente, va detto che in tale definizione
sta il superamento del modello aristotelico-tomista della pólis o della societas
W.N. Hohfeld, Some Fundamental Legal Conceptions as Applied in Judicial Reasoning, I,
in «Yale Law Journal», 23, 1913, pp. 16-59, p. 55, trad. it. di M.G. Losano, Alcuni concetti giuridici fondamentali nella loro applicazione al ragionamento giudiziario, I, in W.N. Hohfeld,
Concetti giuridici fondamentali, Torino, Einaudi, 1969, pp. 3-46, p. 42.
8
R. Esposito, Immunitas: protezione e negazione della vita, Torino, Einaudi, 2002.
7
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perfecta la cui legittimazione non era in termini di astratta sovranità, ma nella
concreta capacità di soddisfare l’insieme dei bisogni umani).
L’autodeterminazione si realizza attraverso norme individuali il cui
ambito di validità non può strutturalmente trascendere il soggetto che le pone:
è significativo che nella traduzione italiana dello Statuto (o Carta) dell’Organizzazione delle Nazioni Unite del 1945, curata dalla Società Italiana per l’Organizzazione Internazionale con l’approvazione del Governo italiano, al 2° comma
dell’art. 1 si legga di un principio dell’«auto-decisione», in cui ricorre, dunque, il
termine «decisione» che paradigmaticamente caratterizza la norma individuale
in quanto contrapposta a quella generale9.
Se trova la sua genesi in connessione con le affermazioni di sovranità
statale (e, quindi, con le competenze esclusive di articolazioni dello Stato o di
enti e funzioni pubbliche), il principio di autodeterminazione ha la sua prima
significativa applicazione alle persone fisiche nella questione dell’aborto. In Italia
va segnalata la sentenza 108/1981 della Corte costituzionale che, dichiarando
inammissibili alcune questioni di legittimità costituzionale della L. 194/1978,
si riferisce ad un «principio di autodeterminazione della gestante». Attraverso
il ricorso al principio di autodeterminazione si è voluto affermare la sovranità
della gestante sul proprio corpo analogamente a quella di un popolo sul proprio
territorio acquisendo così l’autodeterminazione forti connotazioni bio-politiche.
La Corte costituzionale s’è poi occupata del «diritto di autodeterminazione» dei
tossicodipendenti, presente nell’art. 1 bis del D.L. 144/1985 e che condiziona
l’effettuazione di interventi di recupero e reinserimento sociale (sent. 243/1987);
quindi, la Corte, nell’esaminare la legittimità di alcuni trattamenti sanitari
obbligatori, ha affermato che l’«autodeterminazione dell’uomo» «inerisce al
diritto di ciascuno alla salute in quanto diritto fondamentale» (sent. 307/1990);
successivamente è stata asserita la «libertà di autodeterminazione sessuale» (sent.
295/2000), la «libertà di autodeterminazione nella vita privata e familiare» (sent.
445/2002) e la «piena autodeterminazione della sfera sessuale» (sent. 325/2005).
Questa giurisprudenza ha avuto il suo compimento con la sentenza 438/2008,
in tema di consenso informato, ove il diritto all’autodeterminazione è stato
considerato come diritto fondamentale della persona sulla base del 1° comma
dell’art. 13 e del 2° comma dell’art. 32 della Costituzione10.
Se riferita al singolo individuo, la dignità umana è irrilevante per l’autodeterminazione a meno che non sia l’esito dell’autodeterminazione stessa: si
Nella versione ufficiale francese si ha «droits des peuples [...] à disposer d’eux-mêmes»; nella
traduzione inglese si ha «principle of [...] self-determination of peoples» e in quella tedesca
«Grundsatz der [...] Selbstbestimmung der Völker».
10
La qualificazione del diritto all’autodeterminazione come diritto fondamentale della persona
è stata ripresa dalla Corte costituzionale nella sentenza 253/2009. Il diritto all’autodeterminazione è frequentemente connesso anche all’art. 8 («Diritto al rispetto della vita privata e
familiare») della CEDU.
9
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riproduce così la stessa situazione della sovranità statale riguardo ai diritti umani
che, nella concezione giuspositivista della modernità, si riteneva avessero validità giuridica solo nella misura in cui erano recepiti dallo Stato. In questo senso
il principio dell’autodeterminazione realizza in modo perfetto ciò che Nicolai
Hartmann ha chiamato «die Tyrannei der Werte», «la tirannia dei valori» (e a
cui Carl Schmitt ha dedicato un fondamentale articolo).
Credo che autodeterminazione ed autonomia vadano distinte e credo,
altresì, che sia un errore teorico, che pregiudica un’adeguata analisi del concetto
di dignità umana, ritenere che l’autonomia si identifichi con l’autodeterminazione. In particolare, come ho anticipato sopra, la mia tesi è la seguente: la dignità
umana è un modo dell’autonomia, ma è un limite all’autodeterminazione.
In alcune importanti sentenze su questioni bioetiche si è affermata,
invece, la diversa tesi della correlatività di dignità umana ed autodeterminazione11.
Così, in tema di rispetto del biotestamento di una persona non più capace e con
una decorso mortale della malattia, la decisione del 17 marzo 2003 (XII ZB 2/03)
del Bundesgerichtshof afferma che «la dignità umana [die Würde des Menschen]
impone il rispetto del diritto all’autodeterminazione [Selbstbestimmungsrecht]»
anche quando riguardi il rifiuto di misure volte a conservare o prolungare la vita.
A tale pronuncia si riferisce la sentenza della Cassazione civile, sez. I, 21748/2007,
che addirittura risolve il contenuto normativo della dignità umana nel «modo
di intendere la dignità della persona», nel «modo di concepire [...] l’idea stessa
di dignità della persona», proprio di ciascun individuo. In questa prospettiva, la
dignità umana assolve solo un ruolo di rinforzo retorico dell’autodeterminazione
quale valore dominante (incidentalmente non considerando un argomento ermeneutico quale quello economico o «ipotesi del legislatore non ridondante»12,
rilevante a livello di principî costituzionali, che imporrebbe di dare al concetto di
dignità umana un significato proprio e distinto da altri concetti). Ma ciò che più
rileva in tale impostazione, che rimette il senso di «dignità umana» ai «canoni
[...] propri dell’interessato» è che esso assume le caratteristiche paradossali della
semantica di Humpty Dumpty, il personaggio di Through the Looking-Glass, and
What Alice Found There, secondo cui il significato di ogni parola che egli usava
dipendeva dal significato che egli stesso le attribuiva: «When I use a word, [...]
it means just what I choose it to mean – neither more nor less».
L’autodeterminazione si estrinseca in una decisione, cioè in una regola
individuale il cui ambito di validità non trascende l’individuo, invece l’autonomia
si ha quando il soggetto si dà una regola individuale tale che, insieme, soddisfi i
requisiti trascendentali della legge, cioè una regola individuale che possa valere
Onora O’Neill (Autonomy and Trust in Bioethics, Cambridge, Cambridge University Press,
2002) è stata la studiosa che forse in maniera più significativa ha evidenziato l’importanza del
concetto kantiano di autonomia anche in bioetica dove prevale (non solo nelle sentenze che
si ricordano nel testo) una sua riduzione a autodeterminazione.
12
G. Tarello, L’interpretazione della legge, Milano, Giuffrè, 1980, pp. 371-372.
11
80
come legge universale: autonomia è autolegislazione, Selbstgesetzgebung13, «la
proprietà del volere di essere legge a se stesso»14.
Questo non significa trascurare i principî di «self-respect» e «authenticity» che renderebbero conto di cosa dignità umana sia15. La straordinaria
mossa kantiana (ma con cui, come vedremo, il diritto privato è da sempre e
strutturalmente coerente) è di avere opposto l’autonomia sia all’eteronomia di
un elemento esterno alla volontà, sia all’arbitrio di cui l’autodeterminazione può
essere esito: l’autonomia si attua nella libertà del soggetto in modo coerente con
le condizioni di quella libertà, cioè in modo coerente con la trascendentalità del
soggetto stesso16. Come scrive Kant, «principio dell’autonomia è [...] non scegliere,
se non in modo che le massime a cui si ispira la scelta siano, nel medesimo tempo, comprese nella volontà come una legge universale»17. In questa prospettiva,
autonomia e dignità umana sono correlative: l’autonomia è «il fondamento della
dignità della natura umana e di ogni natura razionale»18.
Come ho detto, nel diritto privato è da sempre e strutturalmente presente un concetto di autonomia che incorpora le istanze (che ritroviamo in Kant)
di universalizzazione e che, come tale, non è riducibile ad autodeterminazione.
Innanzitutto, l’autonomia privata si svolge attraverso una forma che l’atto deve
assumere per acquisire validità giuridica: nel diritto positivo (posto) la validità
sintattica (Geltung) degli stati di cose normativi (status deontici) è condizionata
I. Kant, Grundlegung zur Metaphysik der Sitten (1785), in Kant’s gesammelte Schriften,
hrsg. v. der Königlich Preußischen Akademie der Wissenschaften, vol. IV, Berlin, Reimer,
1903, pp. 385-463, p. 431; trad. it. di V. Mathieu, Fondazione della metafisica dei costumi,
Milano, Rusconi, 1994, p. 149.
14
Ivi, p. 445; tr. it. cit., p. 185.
15
Secondo Dworkin, Justice for Hedgehogs, cit., pp. 203-204, «self-respect» ed «authenticity» offrirebbero congiuntamente un’adeguata concezione della dignità umana. Il principio
di «self-respect» è così sintetizzato: «Each person must take his own life seriously: he must
accept that it is a matter of importance that his life be a successful performance rather than
a wasted opportunity»; e così quello di «authenticity»: «Each person has a special personal
responsibility for identifying what counts as a success in his own life; he has a personal responsibility to create that life through a coherent narrative or style that he himself endorses».
È da segnalare che Dworkin sviluppa il concetto di «self-respect» in modo da comprendervi
«a parallel respect for the lives of all human beings» (ivi, p. 255) con esiti, quindi, simili a
quelli kantiani.
16
Come è noto, tale mossa teoretica può apparire anche come intermedia (nella storia dell’etica)
tra il razionalismo wolffiano e il romanticismo storicista o soggettivista. Cfr. L.W. Beck, A
Commentary on Kant’s Critique of Practical Reason, Chicago & London, The University of
Chicago Press, 1960, p. 125.
17
I. Kant, Grundlegung, cit., p. 440; tr. it. cit., p. 171.
18
Ivi, p. 436; tr. it. cit., p. 161. Parafrasando M. Heidegger, Brief über den «Humanismus»
(1947), trad. it. di F. Volpi, Lettera sull’«Umamismo», Milano, Adelphi, 1995, p. 73, si può
dire che il «più» dell’uomo (l’autonomia) è meno rispetto all’uomo che si concepisce a partire
dalla autodeterminazione, ma «in questo “meno” l’uomo non perde nulla, anzi ci guadagna in
quanto perviene alla verità dell’essere». Cfr. U. Regina, Heidegger: dal nichilismo alla dignità
dell’uomo, Milano, Vita e Pensiero, 1970, p. 18.
13
81
dalla validità pragmatica (Gültigkeit) dei relativi atti di posizione19. La forma, nella
misura in cui eccede la funzione dell’atto20, consente alla volontà di manifestarsi
riducendo gli spazi del possibile arbitrio: emblematiche sono le caratteristiche di
tipicità (previsione di un numero chiuso di tipi negoziali), ritualità (per es., parole
e gesti), riflessività (per es., termini dilatori), intersoggettività (per es., testimoni)
e pubblicità (per es., trascrizione) assunte dagli atti giuridici. Quando la forma è
simbolicamente giustificata (e, quindi, non si converte nel formalismo che della
forma è l’opposto21), possiamo affermare la correlatività di forma dell’atto ed
universalizzabilità dello status deontico posto: tanta forma, tanta autonomia.
Questa è la ragione per cui in diritti caratterizzati da solennità delle forme la
questione della liceità dell’obbligazione è normalmente assorbita in quella della
validità dell’atto.
Nei diritti moderni e contemporanei, ove le forme anche se non sono
scomparse (e non potranno mai scomparire) si sono fortemente ridotte perdendo molti connotati di simbolicità, l’autonomia per realizzarsi (e non perdersi
nell’arbitrarismo in cui «le ragioni della scelta» coincidono «con il contenuto che
di volta in volta si sceglie»22) rinvia anche ad altri elementi. In questa direzione,
l’art. 1322 del Codice civile, la cui rubrica è specificamente dedicata alla «Autonomia contrattuale», menziona la legge come limite alla libertà di determinare
il contenuto del contratto e, soprattutto, subordina la possibilità di concludere
contratti atipici alla condizione che essi «siano diretti a realizzare interessi
meritevoli di tutela secondo l’ordinamento giuridico» (va poi ricordato che per
importanti ambiti del diritto privato, come il matrimonio o la costituzione di
società commerciali, non sono comunque ammessi contratti atipici). Ma, sempre
in relazione all’autonomia contrattuale, vanno ricordati anche i limiti relativi
alla liceità della causa, del motivo e dell’oggetto. In particolare, come recita l’art.
1343, «la causa è illecita quando è contraria a norme imperative, all’ordine pubblico e al buon costume»23: la triade rappresentata da norme imperative, ordine
pubblico e buon costume costituisce, nel sistema del codice, una sorta di riserva
di universalizzazione che può essere senz’altro connessa al dovere di rispetto
della dignità umana. Soprattutto è la clausola generale dell’ordine pubblico che,
Cfr. A.G. Conte, Minima deontica, in «Rivista internazionale di Filosofia del diritto», 65, 3,
1988, pp. 425-475, pp. 455-456.
20
Cfr. G. Azzoni, Solennità della forma e sostanzialità giuridica, in L. Avitabile (a cura di), Il
diritto tra forma e formalismo, Napoli, Editoriale Scientifica, 2011, pp. 97-117.
21
Cfr. S Satta, Il formalismo nel processo, in «Rivista trimestrale di diritto e procedura civile»,
12, 1958, pp. 1141-1158.
22
P. Pagani, Autonomia, autodeterminazione, libertà: una questione di senso, in C. Navarini
(a cura di), Autonomia e autodeterminazione: profili etici, bioetici e giuridici, Roma, Editori
Riuniti, 2011, pp. 31-46, p. 35.
23
L’art. 1343 del Codice civile italiano ripete l’art. 1133 del Code civil del 1814: «La cause est
illicite, quand elle est prohibée par la loi, quand elle est contraire aux bonnes moeurs ou à
l’ordre public». Cfr. artt. 25, 634, 1354 e 2031 del Codice civile.
19
82
introdotta dall’art. 1133 del Code civil del 181424, dopo una evoluzione interpretativa25, oggi si riferisce essenzialmente ai principî fondamentali dell’ordinamento
e quindi può ricomprendere il rispetto della dignità umana. Sempre nell’ampio
tema dei limiti all’autonomia privata, va poi ricordata, per la sua rilevanza teorica,
la presenza di diritti indisponibili nell’esclusivo interesse del titolare (art. 36, c. 3
Cost. 3: «Il lavoratore ha diritto al riposo settimanale e a ferie annuali retribuite,
e non può rinunziarvi»)26.
Dunque, nel diritto privato l’autonomia non è riducibile all’autodeterminazione: la volontà dei privati per avere rilievo giuridico non può basarsi
sulla loro decisione, ma deve essere universalizzabile o, almeno, in vario modo,
generalizzabile.
3. Il contenuto essenziale della dignità umana
Il concetto di dignità umana è frequentemente associato alla determinazione
materiale della massima morale offerta da Kant secondo cui si deve agire in modo
da considerare l’umanità, sia nella propria persona, sia nella persona di ogni altro
«sempre anche al tempo stesso come scopo e mai come semplice mezzo»27; infatti,
la persona, essendo essere razionale, è un fine in sé e «non può venire adoperata
esclusivamente quale mezzo»28.
Riguardo a tali celebri formulazioni, in primo luogo vorrei sottolineare che Kant richiede un rispetto non solo della persona altrui, ma anche della
propria; come riprenderò successivamente, la dignità umana è, nella prospettiva
Nel BGB non è presente la clausola generale dell’ordine pubblico, ma solo quella dei buoni
costumi (die guten Sitten, § 138) che viene dilatata fino a comprendere i contenuti della prima.
La clausola generale dell’ordine pubblico è stata introdotta nelle «Disposizioni preliminari
del codice civile» (EGBGB) relative al diritto internazionale privato dove l’art. 6 dispone che
le norme giuridiche straniere non possono essere applicate se incompatibili con i principî
fondamentali del diritto tedesco. È da notare che la rubrica dell’art. 6 accanto all’espressione
in tedesco («öffentliche Ordnung») menziona quella in francese («ordre public»).
25
L’ordine pubblico consiste nelle «regole fondamentali poste dalla Costituzione e dalle leggi a
base degli istituti giuridici in cui si articola l’ordinamento positivo nel suo perenne adeguarsi
all’evoluzione della società» (Corte cost. sent. 18/1982).
26
Interessante, anche da un punto di vista teorico generale, è l’art. 188 del Codice di procedura
penale («Libertà morale della persona nell’assunzione della prova») secondo cui nell’assunzione
della prova «Non possono essere utilizzati, neppure con il consenso della persona interessata,
metodi o tecniche idonei a influire sulla libertà di autodeterminazione o ad alterare la capacità
di ricordare e di valutare i fatti», cioè anche quando ritenuto per sé vantaggioso la persona
non può autodeterminare la riduzione della propria autodeterminazione (l’art. 64 dispone
analogamente per l’interrogatorio).
27
I. Kant, Grundlegung, cit., p. 429; tr. it. cit., pp. 143-144. È tipicamente kantiana la «Objektformel» elaborata da Josef Wintrich e Günter Dürig, che ha influito in modo decisivo sull’interpretazione della dignità umana data dal Bundesverfassungsgericht.
28
Ivi, p. 428; tr. it. cit., p. 143.
24
83
kantiana, oggetto anche di doveri verso se stessi e, quindi, limite all’autodeterminazione quando divenga volontà irrazionale, non rilevando che gli esiti di
tale arbitrio possano riguardare solo il soggetto della deliberazione (siano, cioè,
privi di esternalità).
In secondo luogo, va segnalato che per Kant il dovere è quello di non
ridurre la persona all’essere solo un mezzo; è evidente, infatti, che ogni uomo
debba trattare necessariamente altri uomini anche come mezzi, ciò che è immorale è considerarli solo come mezzi. A tale proposito, Robert Spaemann ha
correttamente osservato che l’idea di una cooperazione pura è sempre storicamente naufragata in quanto la vita umana è impossibile senza l’utilizzo anche
strumentale degli altri29.
Come ho detto, l’idea kantiana che non si debba ridurre la persona
a mezzo per fini altrui rappresenta un riferimento comune per comprendere
cosa dignità umana sia o, meglio, cosa quella dignità offenda. Mi sembra che
tale idea possa essere sviluppata in modo da meglio rendere conto proprio della
articolata fenomenologia delle offese possibili alla dignità umana: umiliazione,
discriminazione, degradazione, mortificazione, scherno, ridicolizzazione, ... In
particolare, vorrei presentare la seguente ridefinizione: si ha offesa alla dignità
umana quando si riduce una persona ad una sua parte fenomenica, fosse pure una
parte significativa e autentica, e non solo irrilevante o violentemente ascritta. La
singola persona non può mai essere ridotta a qualcosa che definendola la risolva
interamente, anche qualora si utilizzino dati adeguati ad una sua comprensione
operazionale. L’uomo è l’irriducibile per il quale non vi è equivalente: anche ciò
che Karl Marx avrebbe chiamato «das allgemeine Äquivalent» non cattura l’umanità dell’uomo; come scrisse Kant, ciò che ha dignità non ha equivalenti: «Ha un
prezzo [Preis] ciò al cui posto può esser messo anche qualcos’altro di equivalente
[Äquivalent], per contro ciò che si innalza al di sopra di ogni prezzo, e perciò
non comporta equivalenti, ha una dignità [Würde]»30. Quindi, a mio parere, in
estrema sintesi, la cifra di ogni offesa alla dignità umana non è altro che ridurre
l’uomo ad una sua parte: trattare una metonimia come una eguaglianza.
Ciò che il precetto «Non giudicate»31 vieta non è il giudizio stesso, ma la
presunzione di risolvere la persona che è l’altro in quel giudizio. Una persona non
è mai ciò che la travaglia o in qualche modo la possiede e domina. Ad esempio, si
offende la dignità di una persona detenuta quando la si identifica con la sua pena:
quando la persona non è considerata altro che come un detenuto. Si offende la
dignità di una persona malata quando la si identifica con la sua malattia: quando
R. Spaemann, Personen. Versuche über den Unterschied zwischen «etwas» und «jemand»
(1996), trad. it. di L. Allodi, Persone. Sulla differenza tra «qualcosa» e «qualcuno», RomaBari, Laterza, 2005, p. 180.
30
I. Kant, Grundlegung, cit., p. 434; tr. it. cit., p. 157.
31
Luca 6, 37: «Mè krínete», «Nolite iudicare». Solo un infinito in atto può saturare con un
giudizio adeguato la persona nella sua dignità.
29
84
la persona non è considerata altro che come un malato. Ovviamente la persona
può essere anche detenuta o malata (e come tale richiede azioni adeguate), ma
nell’essere detenuta o malata, non è mai solo detenuta o malata. E non rispettano
la dignità umana quelle istituzioni o situazioni in cui tali riduzioni della persona
sono praticate.
Un aspetto apparentemente paradossale dell’offesa alla dignità umana
(e che rende tale offesa ulteriormente odiosa) è che chi ne sia vittima se ne vergogni. Provi la vergogna di essere identificato con una parte di sé che, anche se
reale, è necessariamente solo una parte e non potrà mai coincidere con l’intero;
la vergogna di incarnare la contraddizione tra l’essere uomo e l’essere ridotto ad
altro che uomo. Kant era consapevole del legame stretto tra offesa alla dignità
umana e vergogna quando con grande sensibilità imponeva di assolvere al dovere della beneficenza con una discreta ipocrisia in modo che non comportasse
un’umiliazione per il beneficiato:
Così noi riconosceremo di essere obbligati a soccorrere il povero, ma poiché
questo favore implica anche che il bene dell’altro dipenda dalla mia generosità,
cosa che umilia in ogni caso il povero, è doveroso assumere un comportamento che presenti questa beneficenza o come un puro e semplice debito o
come un piccolo segno d’affetto, in modo da risparmiargli l’umiliazione [die
Demüthigung] e consentirgli di conservare il rispetto per se stesso32.
In tale prospettiva, è stato sicuramente un progresso l’evoluzione di
alcune sanzioni penali e civili. Ad esempio, erano particolarmente lesive della
dignità umana quelle conseguenze del fallimento che comportavano una sorta di
capitis deminutio33: l’espressione «ridursi al verde» risale proprio ai «berretti che
erano obbligati a portare i falliti», esponendosi così ad una pubblica e integrale
infamia34. Così, su un piano letterario, sono straordinarie le ultime parole di Der
Prozeß in cui a K., mentre muore in una degradante esecuzione capitale, «parve
che la vergogna [die Scham] gli dovesse sopravvivere». Come scrive Martha Nuss�����
baum, offendono la dignità umana quelle punizioni che non «sono impartite per
le azioni commesse», ma che «costituiscono un’umiliazione dell’intera persona»
e «sono un modo per bollare una persona, spesso per tutta la vita, attribuendole
un’identità degradata»35. Pertanto, non rispettano la dignità umana né la dottrina
penalistica del tipo d’autore, Tätertyp, che inscrive la singola persona all’interno
I. Kant, Die Metaphysik der Sitten (1797), in Kant’s gesammelte Schriften, cit., vol. VI,
Berlin, Reimer, 1914, pp. 203-493, pp. 448-449; trad. it. di G. Landolfi Petrone, Metafisica dei
costumi, Milano, Bompiani, 2006, p. 517.
33
G.B. Portale, Dalla «pietra del vituperio» alla nuova concezione del fallimento e delle altre
procedure concorsuali, in «Banca, borsa e titoli di credito», 63, 3, 2010, pp. 389-400, p. 398.
34
Ivi, p. 394.
35
M.C. Nussbaum, Hiding from Humanity: Disgust, Shame, and the Law (2004), trad. it. di
C. Corradi, Nascondere l’umanità: il disgusto, la vergogna, la legge, Roma, Carocci, 2005,
p. 271.
32
85
di tipi criminologici che la esauriscono (il ladro, l’assassino, l’imbroglione, ...),
né la concezione positivistica che connette strettamente situazioni sociali o caratteristiche fisiologiche (come la conformazione del cranio) alla commissione
di determinati reati. Una recente variante della concezione positivistica utilizza
i dati della genetica e delle neuroscienze per ridurre la persona umana a sue
definite parti biologiche (il DNA o il cervello) che ne spiegherebbero in modo
significativo il comportamento.
Venendo al diritto privato, una forma di offesa alla dignità umana (e
che quindi ripete la cifra della riduzione dell’integrità della persona ad una sua
parte) si ha nel caso in cui incapaci naturali vengono esclusi del tutto dalla possibilità di contrattare o di realizzare altri effetti giuridici: la c.d. «emarginazione
dell’incapace naturale dalla società dei contraenti»36. Ciò si produce quando la
questione della capacità di intendere e volere si sviluppa in una semplice logica
binaria si/no che esclude la valorizzazione di eventuali residue capacità. Analogamente, offende la dignità umana l’esclusione di ogni capacità d’agire per il
minore. Infatti, incapaci naturali e minori sono persone di cui il diritto dovrebbe
tutelare, nei limiti del possibile, la soggettività-in-relazione, superando riduzioni
semplicistiche per cui un certo grado di disabilità o immaturità determina che la
persona sia qualificata come interamente incapace.
La connessione con la dignità umana è poi evidente in tema di diritto
alla riservatezza dove è asserita in sede teorica37 ed è costantemente ribadita dalla
giurisprudenza38. Credo che giustificare il diritto alla riservatezza sulla base del
riferimento alla dignità umana sia funzionale proprio ad impedire che una metonimia possa funzionare come una eguaglianza, che una parte sia presa per il
tutto, che una persona sia identificata con le informazioni che la riguardano. In
tale prospettiva, mostra tutta la sua inadeguatezza una concezione proprietaria
dei dati personali (con le conseguenti derive feticistiche) e va configurato anche
lo stesso diritto alla riservatezza (altrimenti problematico rispetto non solo ad
un concetto di soggettività costitutivamente in relazione con altri, ma anche ai
«doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale» di cui all’art. 2
della Costituzione). Ritengo che sia parte di un diritto alla riservatezza (letto alla
luce della dignità umana) il diritto all’oblio che la giurisprudenza civile interpreta
come «giusto interesse di ogni persona a non restare indeterminatamente esposta ai danni ulteriori che arreca al suo onore e alla sua reputazione la reiterata
pubblicazione di una notizia in passato legittimamente divulgata»39.
E. Carbone, Stigma psichiatrico e diritto civile: itinerari privatistici per la realizzazione
personale e il coping, in «Persona e Danno», 2006, http://www.personaedanno.it/, pp. 6 ss.
37
Cfr. V. Mathieu, Privacy e dignità dell’uomo: una teoria della persona, a cura di R. Sanchini,
Torino, Giappichelli, 2004.
38
Ad esempio, vedi Corte costituzionale, sent. 366/1991.
39
Vedi Cassazione civile, sez. III, sent. 3679/1998.
36
86
Se il rispetto della dignità umana significa non ridurre la persona ad
una parte di essa, questo implica la non disponibilità dell’interezza della persona
(né da parte di altri, né da parte di se stessi). Sul piano teoretico ciò si riferisce
alla realtà noumenica che ogni persona è, ma sul piano pratico ciò attiene anche
all’interezza della fenomenicità personale che, come tale, non può essere ridotta
a materia di deliberazione. A tale riguardo, è interessante quanto scrive Kant
relativamente ad un tema che potremmo definire di diritto del lavoro: il contratto
di lavoro subordinato può avere come suo oggetto solo prestazioni determinate
(in qualità e grado, cioè mansioni definite), e non invece la totalità delle energie
lavorative (come nei casi della servitù della gleba, o di un ipotetico e contraddittorio contratto di schiavitù). Secondo Kant, un uomo non può «obbligarsi
nei confronti di un altro con un contratto di prestazione (locatio conductio) a
fornirgli certi servizi leciti per loro natura, ma indeterminati riguardo al grado»; può «impegnarsi soltanto in lavori determinati per natura e grado: come
lavorare a giornata o come colono»40. Più in generale, secondo Kant, «nessuno
può per contratto obbligare se stesso a una dipendenza tale da smettere di essere
una persona»41.
Incidentalmente, va osservato che l’indisponibilità dell’interezza della
persona umana spiega la centralità che il contratto assume per il sadico ed il
masochista: l’atto formale di asservimento costituisce già come tale un’offesa
alla dignità della persona che vi si impegna. Emblematico in questo senso è il
contratto stipulato fra Aurora Rümelin, poi Wanda von Sacher-Masoch, e ����
Leopold von Sacher-Masoch, contratto che imponeva a quest’ultimo, come prima
condizione, la rinuncia totale all’Io42.
Se la cifra di ogni offesa alla dignità umana è la riduzione dell’uomo
ad una sua parte, non vi è alcuna opposizione tra dignità umana e dignità sociale, ma la seconda diventa un caso della prima. Se la violazione della dignità
umana si ha quando l’apertura propria dell’uomo si chiude su un particolare che
lo assorbe interamente, si ha un caso di tale violazione quando un uomo non
soddisfi i suoi bisogni fondamentali. La dignità sociale è esplicitamente menzionata dall’art. 3 della Costituzione ed è sviluppata dall’art. 36 nel diritto ad una
«esistenza libera e dignitosa» per il lavoratore e la sua famiglia. Da ricordare
anche la bella espressione «esigenze di vita» dell’art. 38, oltre che la significativa
citazione della «personalità morale dei prestatori di lavoro» fatta dall’art. 2087
del Codice civile.
Un’analoga riconduzione della dignità sociale alla dignità umana è
quella che si ritrova nelle controverse tesi aristoteliche sull’impossibilità per un
I. Kant, Die Metaphysik der Sitten, cit., p. 330; tr. it. cit., pp. 269-271.
Ivi, p. 330; tr. it. cit., p. 269.
42
C.F. Schlichtegroll, Wanda ohne Maske und Pelz, Leipzig, Leipziger Verlag, 1906, pp. 2425.
40
41
87
operaio o un contadino di conseguire l’eccellenza delle virtù (Politica, 1329a)
e sul fatto che allo schiavo sia preclusa la felicità (Politica, 1280a): se il lavoro
assorbe l’intera esistenza della persona e se la persona è solo strumento di quel
lavoro, in quella persona è conculcata la sua umanità, ciò che la differenzia dagli
altri esseri viventi. Mi sembra che Hannah Arendt abbia, su questo punto, bene
interpretato Aristotele quando ella scrive che «He denied not the slave’s capacity
to be human, but only the use of the word “men” for members of the species
man-kind as long as they are totally subject to necessity»43.
4. Dignità umana e differenza antropologica
In relazione al tema della dignità umana, il sintagma «differenza antropologica»
assume due significati entrambi rilevanti. In primo luogo, «differenza antropologica» sta a significare la differenza dell’uomo da ogni altro essere vivente per
cui la dignità umana può essere vista sia come il segno, sia come il fondamento
di tale differenza. In secondo luogo, «differenza antropologica» può essere intesa
come análogon della differenza ontologica di cui scriveva Martin Heidegger per
distinguere l’essere dall’ente (l’irriducibilità dell’essere all’ente) e altresì per
affermare la loro costitutiva relazione (la necessaria manifestatività dell’essere
nell’ente): la dignità dell’uomo è irriducibile alla sua ontica fenomenicità anche
se in essa necessariamente si manifesta. È tale secondo senso che mi pare particolarmente fecondo per un’antropologia filosofica adeguata ad affrontare le
questioni etiche e giuridiche.
Appartiene alla tradizione filosofica la connessione tra persona e dignità e il loro riferimento all’uomo in quanto soggetto di natura razionale. A
tale riguardo deve essere ricordata la celebre definizione, presente in più punti
dell’opera di Tommaso d’Aquino, secondo cui «persona est hypostasis proprietate
distincta ad dignitatem pertinente», «la persona è una sostanza che si distingue
per una proprietà relativa alla dignità»44. Per Tommaso «il nome “persona” fu
imposto per significare soggetti aventi dignità» e «poiché è una grande dignità
sussistere come soggetto di natura razionale, ogni individuo di tale natura fu
detto persona»45.
H. Arendt, The Human Condition, Chicago, Chicago University Press, 1958, p. 84; trad. it.
di S. Finzi, Vita activa: la condizione umana, Milano, Bompiani, 1966, p. 61. Arendt ricorda
che Aristotele, pur avendo sostenuto la teoria della natura non-umana dello schiavo, in modo
non incoerente poi liberò i suoi schiavi sul letto di morte.
44
Tale definizione risale ad Alessandro di Hales (morto nel 1245), Glossa (1, 23, 9) e riprende
quella di Alano di Lille (Alano ab Insulis), Theologicae regulae (M.P.L. 210, 899a) che definì
la persona «aliquis aliqua dignitate praeditus». Cfr. B. Kible, Person II, in «Historisches Wörterbuch der Philosophie», Basel, Schwabe, 1989, vol. VII, pp. 283-299, p. 287.
45
Tommaso d’Aquino, Summa theologiae, Ia, q. 29, a. 2, ad 2; trad. it. a cura dei Domenicani
italiani, La Somma teologica, Bologna, Edizioni Studio Domenicano, 1984, vol. III, p. 82.
43
88
Il senso della dignità umana è poi, con grande efficacia, sintetizzato da
Tommaso nel seguente passo:
homo peccando ab ordine rationis recedit, et ideo decidit a dignitate humana, prout scilicet homo est naturaliter liber et propter seipsum existens, et
incidit quodammodo in servitutem bestiarum, ut scilicet de ipso ordinetur
secundum quod est utile aliis 46.
Dunque, per Tommaso la dignità umana comporta la libertà e l’autosussistenza (due caratteristiche che in un lessico moderno potremmo riferire
all’autonomia), ma se l’uomo agisce in modo non conforme all’ordine della
ragione (attraverso un’autodeterminazione arbitraria) offende la sua dignità e
in qualche modo si assimila agli animali (privi di ragione) e diviene strumento
di altri.
Ma è attraverso un’opposizione concettuale definita da Kant che è possibile caratterizzare con esattezza il secondo senso di «differenza antropologica»
e precisamente quello secondo cui la dignità dell’uomo è irriducibile alla sua
ontica fenomenicità anche se in essa necessariamente si manifesta. Mi riferisco
all’opposizione di homo noumenon e di homo phaenomenon. All’interno di tale
paradigma, la differenza antropologica può essere definita come la differenza tra
homo noumenon e homo phaenomenon: l’irriducibilità dell’homo noumenon
all’homo phaenomenon e la necessaria manifestatività dell’homo noumenon
nell’homo phaenomenon.
L’homo phaenomenon è l’uomo considerato nel «sistema della natura»,
«animal rationale» che «condivide con gli altri animali [...] un valore comune
(pretium vulgare)». La superiorità dell’homo phaenomenon sugli altri animali
per il suo intelletto e la sua capacità di porsi degli scopi, «non gli dà se non il
valore esterno della sua utilità (pretium usus)». All’homo phaenomenon «viene
conferito un prezzo», ma – nota Kant con una finezza da economista classico – il
suo valore è «più basso rispetto al mezzo di scambio universale, il denaro, il cui
valore perciò viene dichiarato eminente (pretium eminens)»47.
Invece, l’homo noumenon «è superiore ad ogni prezzo»: «egli possiede
una dignità [Würde] (un valore [Werth] intrinseco assoluto), con la quale costringe tutti gli altri esseri razionali ad avere rispetto per lui e grazie alla quale
può misurarsi con ognuno di loro e valutarsi su un piano di parità». L’uomo, in
quanto homo noumenon, «va valutato non soltanto come mezzo per gli scopi
altrui oltre che per i propri, ma anche come scopo a se stesso»48.
Tommaso d’Aquino, Summa theologiae, cit., IIa-IIae, q. 64, a. 2, ad 3; trad. it. cit., vol. XVII, p.
171: «Con il peccato l’uomo abbandona l’ordine della ragione: egli perciò decade dalla dignità
umana, che consiste nell’essere liberi e nell’esistere per sé stessi, finendo in qualche modo
nell’asservimento delle bestie, che implica la subordinazione all’altrui utile».
47
I. Kant, Die Metaphysik der Sitten, cit., p. 434; tr. it. cit., p. 485.
48
Ivi, pp. 434-435; tr. it. cit., p. 485.
46
89
La differenza tra homo noumenon e homo phaenomenon comporta due
rilevanti conseguenze in tema di dignità umana e diritto privato. La prima conseguenza riguarda la responsabilità civile: l’offesa alla dignità umana è offesa ad ogni
uomo in quanto trascende il singolo homo phaenomenon che ne è destinatario per
colpire l’homo noumenon che ogni uomo è. Così, ad esempio, se la pornografia
fosse una violazione della dignità umana, avrebbe una qualche giustificazione la
proposta di Catharine MacKinnon e di altre femministe americane di estendere
ad ogni donna il diritto di chiedere un risarcimento ai produttori e distributori
di materiale pornografico49. Al di là di queste tesi che possono apparire estreme
(anche se, com’è noto, per esse è stato proposto, e provvisoriamente ottenuto,
un certo riconoscimento giuridico negli USA50), secondo alcuni autori è lo stesso
concetto di danno non patrimoniale a presupporre un riferimento non solo all’homo phaenomenon, ma anche all’homo noumenon51. A tale proposito, ritengo
che l’elaborazione della categoria di danno esistenziale sia stata un importante
contributo all’antropologia (intesa come conoscenza dell’umano) il cui valore
filosofico travalica l’ambito originario e quindi resta indipendentemente dalle
diverse tipizzazioni giurisprudenziali (danno esistenziale come voce autonoma
o come categoria descrittiva entro il danno non patrimoniale).
La seconda conseguenza è ampiamente presente nello stesso Kant e
riguarda l’esistenza di doveri verso se stessi: ogni uomo è tenuto a rispettare
l’homo noumenon non solo negli altri uomini, ma anche in se stesso: l’uomo
«possiede una dignità inalienabile [eine unverlierbare Würde] (dignitas interna),
che gli infonde il rispetto (reverentia) verso se stesso»52; «il dovere verso se stessi
consiste [...] nel conservare la dignità della natura umana nella propria persona
[die Würde der Menschheit in seiner eignen Person]»53. Esattamente Antonio
Rosmini nota che l’espressione «doveri verso noi stessi» «ha qualcosa d’inesatto»: andrebbe sostituita con l’espressione «doveri verso quell’uomo che è noi
Cfr. L. Parisoli, La pornografia come lesione della dignità sessuale, in «Materiali per una
storia della cultura giuridica», 27, 1997, pp. 149-189.
50
Un principio affine è del resto affermato dall’art. 29 della L. 39/2002 (L. comunitaria 2001)
relativamente all’attuazione della Direttiva 2000/43/CE, che attua il principio della parità di
trattamento fra le persone indipendentemente dalla razza e dall’origine etnica, dove è concessa
in caso di discriminazione collettiva «la legittimazione ad agire nei procedimenti giurisdizionali
e amministrativi anche ad associazioni rappresentative degli interessi lesi dalla discriminazione,
[...] anche quando non siano individuabili in modo immediato e diretto le persone lese dalla
discriminazione»; cfr. G. Piepoli, Dignità e autonomia privata, in «Politica del diritto», 34, 1,
2003, pp. 45-67, pp. 62-63.
51
In questo senso A. Nicolussi, Danno non patrimoniale in Europa, in S. Delle Monache (a
cura di), Responsabilità civile: danno non patrimoniale, Milano, Utet-Wolters Kluwer, 2010,
pp. 51-82, p. 56, n. 19, che riporta il pensiero di Karl Larenz e Claus-Wilhelm Canaris in
Lehrbuch des Schuldrechts.
52
I. Kant, Die Metaphysik der Sitten, cit., p. 436; tr. it. cit., p. 489.
53
I. Kant, Über Pädagogik (1803), in Kant’s gesammelte Schriften, cit., vol. IX, Berlin, Reimer,
1923, pp. 437-499, p. 489.
49
90
stessi»54. Il più celebre dei doveri verso sé stessi analizzati da Kant è senz’altro
quello (particolarmente attuale nel dibattito su eutanasia e suicidio assistito) di
non abbreviarsi la vita nemmeno «se essa, protraendosi, minaccia più male di
quanto prometta piacere»; infatti, secondo Kant, «una natura, della quale fosse
legge che quello stesso sentimento, il quale è destinato a promuovere la vita,
distrugga la vita stessa, sarebbe una natura autocontraddittoria e, quindi, non
sussisterebbe come natura»55, sarebbe «svilire l’umanità nella propria persona
(homo noumenon), alla quale tuttavia era affidata la conservazione dell’uomo
(homo phaenomenon)»56.
La categoria dei doveri verso se stessi è problematica in etica, e ancora
più nel diritto57, ma, nella prospettiva della differenza tra homo noumenon e homo
phaenomenon, i doveri verso se stessi e i doveri verso altri si coimplicano come
le facce di un anello di Möbius: ogni offesa alla dignità altrui è anche un’offesa
alla propria (ad esempio, chi umilia l’altro, in una certa misura umilia anche se
stesso), ma anche ogni offesa alla propria dignità offende l’umanità di ogni altro
uomo (questa è forse la ragione per cui in Kant vi è un’oscillazione tassonomica
per il dovere di non mentire che viene alternamente caratterizzato come dovere
verso altri o come dovere verso se stessi58). In questo senso, Rosmini scriveva
che «tutti gli offici morali si possono ridurre, quanto alla forma, ad offici che
l’uomo ha verso se stesso»59. Si può parlare comunque di doveri verso se stessi
quando essi permarrebbero anche prescindendo dalla considerazione dell’offesa
ad ogni altro soggetto.
Nel diritto privato italiano il tema dei doveri verso sé stessi ha una
importanza operativa in relazione all’art. 5 del Codice civile («Atti di disposizione del proprio corpo») e alla connessa questione della possibilità di rifiutare o
rinunciare a trattamenti salva-vita60. Credo che l’ascrizione della dignità umana
A. Rosmini, Filosofia del diritto (1841-1843), Padova, Cedam, 1967, vol. I., p. 134, n. 1.
I. Kant, Grundlegung, cit., p. 422; tr. it. cit., p. 153. Cfr. G. Azzoni, Filosofia dell’atto giuridico
in Immanuel Kant, Padova, Cedam, 1998, pp. 6-7.
56
I. Kant, Die Metaphysik der Sitten, cit., p. 423; tr. it. cit., p. 461.
57
I. Kant, Vorlesung zur Moralphilosophie, hrsg. v. W. Stark, Berlin, de Gruyter, 2004, p. 169;
trad. it. di A. Guerra, Lezioni di etica, Roma-Bari, Laterza, 1991, p. 133, ritiene che i doveri
verso sé stessi «non possono essere considerati dal punto di vista giuridico, perché il diritto
riguarda soltanto i rapporti con altri uomini». La stessa tesi è sostenuta da A. Rosmini, Filosofia del diritto, cit., p. 134: «i doveri che ho verso di me, sebbene morali, non potrebbero
ricevere l’appellativo di giuridici, per la stessa ragione [...] per la quale niuno può aver diritti
verso se stesso». Sui doveri verso se stessi in Kant, vedi A. Ponchio, Etica e diritto in Kant:
un’interpretazione comprensiva della morale kantiana, Pisa, ETS, 2011, pp. 90-100.
58
R. Mordacci, Un’introduzione alle teorie morali: confronto con la bioetica, Milano, Feltrinelli, 2003, p. 354, n. 53.
59
A. Rosmini, Compendio di etica, Roma, Edizioni Roma, 1937, § 335.
60
Se Kant e Rosmini asseriscono che i doveri verso se stessi attengono alla sfera morale e
non a quella giuridica, alcuni giuristi ritengono (mi sembra correttamene) che vi siano doveri
giuridici verso se stessi, almeno omissivi. Così G. Piepoli, Dignità e autonomia privata, cit.,
54
55
91
ad elemento dell’ordine pubblico ed il rilievo da essa assunto attraverso la Carta
dei diritti fondamentali dell’Unione europea abbiano offerto una rifondazione
costituzionale dell’art. 561. In tale prospettiva si collocano alcune norme della
stessa Carta come il divieto, nell’ambito della medicina e della biologia, di fare
del corpo umano e delle sue parti in quanto tali una fonte di lucro (art. 3, c. 2).
Ricordo che Kant riconduceva nella sfera del «suicidio parziale» e
quindi «fra i delitti contro la propria persona» (che, come tali, violavano un
dovere verso se stessi) tutti gli atti di mutilazione che non fossero giustificati
da ragioni mediche e con esiti permanenti come «farsi castrare per poter vivere
più comodamente come cantante»62.
5. La dignità umana «in gioco»: due casi di scuola stranieri e
una anticipazione italiana
Come ho detto, in alcune sentenze è stata affermata (o presupposta) la tesi della
sostanziale riduzione della dignità umana ad autodeterminazione. Vi è però
anche un orientamento diverso secondo cui la dignità umana si configura come
limite all’autodeterminazione. In coerenza con la mia tesi secondo cui la dignità
umana è un modo dell’autonomia, ma un limite all’autodeterminazione, credo che tale secondo orientamento giurisprudenziale sia più corretto dal punto
di vista teoretico e da quello giuridico-positivo, sempre che si ritenga che la
dignità umana sia un concetto rilevante per le scienze normative e abbia avuto
una sua ricezione tra i principî fondamentali dell’ordinamento. Ma il fatto che
la direzione sia corretta non implica ovviamente che appaiano corretti i singoli
concreti esiti decisionali.
pp. 58-59, scrive che anche il «soggetto in cui si radica il valore di persona» «è tenuto, al pari
di tutti gli altri soggetti, al dovere di astenersi dal compiere azioni che possano ledere il valore giuridico della propria persona, ossia la qualità umana in essa racchiusa, che rappresenta
un ambito protetto per il suo stesso valore nell’ordinamento». L’A. riprende D. Messinetti,
Personalità (diritti della), in «Enciclopedia del diritto», Milano, Giuffrè, vol. XXXIII, 1983,
pp. 355-406, p. 362. Sulla possibilità di rifiutare o rinunciare a trattamenti salva-vita, mi
permetto di rinviare a G. Azzoni, Valori e fondamenti costituzionali del consenso informato,
in Comunicazione della salute: un manuale, a cura della Fondazione Zoé, Milano, Raffaello
Cortina, 2009, pp. 314-322.
61
L’art. 5 del Codice civile che vieta gli atti di disposizione del proprio corpo «quando cagionino
una diminuzione permanente della integrità fisica, o quando siano altrimenti contrari alla
legge, all’ordine pubblico o al buon costume» è coerente con un principio del diritto romano
trasmesso da Ulpiano secondo cui «dominus membrorum suorum nemo videtur» (D. 9.2.13).
È interessante che in base a tale principio chi subisse quello che oggi si chiamerebbe «danno
biologico» aveva l’azione della legge Aquilia solo in via utile e non in via diretta.
62
I. Kant, Die Metaphysik der Sitten, cit., p. 423; tr. it. cit., p. 461.
92
Innanzitutto, si hanno per la dignità umana le stesse difficoltà ermeneutiche ed applicative proprie dei principî e delle clausole generali63. Si tratta
sia di difficoltà intensionali che ripetono quella dialettica di natura e storicità
propria della relazione tra lex aeterna e lex naturalis64 (nel senso che l’analitica
della dignità umana è sempre incompleta e dipende ultimamente dalla nostra
comprensione dell’uomo), sia di difficoltà estensionali che richiedono attenzione
ai fenomeni e un’adeguata attitudine phronetica, di autentica iuris-prudentia.
Ma soprattutto, dal mio punto di vista è necessario, che il concetto di
dignità umana sia visto non solo come limite all’autodeterminazione, ma, insieme, come modo dell’autonomia, cioè di una volontà libera (non eteronoma e
non contraddittoria) che consideri la persona nella sua integrità e non la riduca
ad una sua parte.
Paradigmatica dell’orientamento secondo cui la dignità umana si configura come limite all’autodeterminazione è la sentenza che «viene ancora oggi
considerata il punto di riferimento in tema di tutela della dignità nell’Unione
europea»65, cioè quella pronunciata nel 2004 dalla Corte di Giustizia dell’Unione
Europea nel cosiddetto «caso Omega»66. In questione era un gioco che avveniva
in una speciale arena in cui i partecipanti simulavano omicidi attraverso l’utilizzo
di pistole a raggi infrarossi.
Le autorità amministrative e giudiziarie tedesche lo vietarono ritenendo
che, pure essendo praticato in altri paesi dell’Unione, costituisse una minaccia
all’ordine pubblico in quanto lesivo della dignità umana delle persone così come
garantita dall’art. 1 del Grundgesetz. In particolare, si era ritenuto che la dignità
umana fosse un valore tale che non potesse essere offeso nemmeno nello spazio
del gioco e che venisse violato non perché vi fosse un trattamento degradante
dell’avversario, ma perché, attraverso la rappresentazione di atti fittizi di violenza, si risvegliava o rafforzava nel giocatore un’attitudine che negava il diritto
fondamentale di ogni persona ad essere riconosciuta e rispettata.
Essendo coinvolta una società britannica che avrebbe fornito parte delle
attrezzature, la Corte di Giustizia fu chiamata a decidere se il divieto tedesco fosse
contrario ai principî di libera prestazione dei servizi e di libera circolazione delle
merci previsti dal Trattato che istituisce la Comunità economica europea. E la
Corte di Giustizia dichiarò che «il diritto comunitario non osta a che un’attività
economica consistente nello sfruttamento commerciale di giochi di simulazione
Cfr. V. Velluzzi, Le clausole generali: semantica e politica del diritto, Milano, Giuffrè,
2010.
64
Cfr. G. Azzoni, Lex aeterna e lex naturalis: attualità di una distinzione concettuale, in F.
Di Blasi, P. Heritier (a cura di), Vitalità del diritto naturale, Palermo, Phronesis, 2008, pp.
159-209.
65
G. Monaco, La tutela della dignità umana: sviluppi giurisprudenziali e difficoltà applicative,
in «Politica del diritto», 42, 1, 2011, pp. 45-77, p. 55.
66
Corte di Giustizia dell’Unione Europea, sentenza 14 ottobre 2004, C-36/02.
63
93
di omicidi sia vietata da un provvedimento nazionale adottato per motivi di salvaguardia dell’ordine pubblico perché tale attività viola la dignità umana».
Il caso più celebre in cui la dignità umana è stata considerata come
un limite all’autodeterminazione è quello del cosiddetto «lancio del nano», «un
contentieux fort médiatisé dont les étudiants des facultés de droit ne cessent
de débattre depuis quelques années»67. Il «lancio del nano» è una competizione
che pare sia nata in Australia (dwarf tossing) e da lì si sia diffusa negli USA e in
altri paesi. In essa una persona affetta da nanismo, adeguatamente protetta, viene
lanciata da un concorrente il più lontano possibile su dei materassi. I sindaci dei
comuni francesi di Morsang-sur-Orge e di Aix-en-Provence vietarono lo spettacolo. Contro tali decisioni la società organizzatrice e (elemento rilevante ai fini
del nesso tra dignità umana ed autodeterminazione) la stessa persona che (dietro
compenso) veniva lanciata si rivolsero ai Tribunali amministrativi di Versailles
e di Marsiglia che diedero loro ragione, annullando i divieti e condannando le
amministrazioni al risarcimento dei danni. La questione venne esaminata in
secondo grado dal Consiglio di Stato francese il 27 ottobre 1995, che annullò le
decisioni dei Tribunali amministrativi confermando la legittimità dei divieti.
La pronuncia del Consiglio di Stato è rilevante in quanto basata sul
rispetto dovuto alla dignità umana che, dopo essere stata riconosciuta come «principe à valeur constitutionnelle» da parte del Conseil constitutionnel68, per la prima
volta in Francia, viene ritenuta una componente essenziale dell’ordine pubblico
integrando così la tradizionale triade di sécurité, tranquillité e salubrité publique.
Le argomentazioni del Consiglio di Stato sono in uno stile tipicamente kantiano:
il lancio del nano porta a «utiliser comme un projectile une personne affectée
d’un handicap physique et présentée comme telle» e così implica «atteinte, par
son objet même, à la dignité de la personne humaine». Quindi, a giudizio del
Consiglio di Stato, essendo la dignità umana parte dell’ordine pubblico, qualora
essa possa essere offesa, si giustifica il divieto di attività altrimenti lecite, anche
se così vengono compresse la «liberté du travail» e la «liberté du commerce et
de l’industrie».
La persona che veniva lanciata lamentò una violazione del proprio
diritto al lavoro e quindi della propria dignità; si rivolse pertanto alle Nazioni
unite accusando la Francia di avere violato nei suoi confronti l’articolo 26 del
Patto internazionale sui diritti civili e politici (divieto di discriminazione). Il
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Comitato dei diritti dell’uomo ha prodotto un’articolata ed interessante decisione
in cui conclude che «l’interdiction du lancer de nains [...] ne constituait pas une
M. Levinet, Dignité contre dignité: l’épilogue de l’affaire du «lancer de nains» devant
le Comité des droits de l’homme des Nations Unies, in «Revue trimestrielle des droits de
l’homme», 55, 2003, pp. 1024-1042, p. 1024. Cfr. A. Massarenti, Il lancio del nano e altri
esercizi di filosofia minima, Milano, Guanda, 2006, pp. 7-8.
68
Conseil constitutionnel, Decisione n. 94-343/344 DC, del 27 luglio 1994.
67
94
mesure abusive mais était nécessaire afin de protéger l’ordre public, celui-ci
faisant notamment intervenir des considérations de dignité humaine»69.
Va infine detto che in vari paesi del mondo altre persone affette da
nanismo e diverse associazioni che le difendono hanno chiesto (e, in taluni casi,
ottenuto) di vietare lo spettacolo del lancio del nano.
Il caso tedesco degli omicidi simulati e quello francese del lancio
del nano sono esempi noti (e ormai imprescindibili anche se problematici)
dell’orientamento giurisprudenziale secondo cui la dignità umana è un limite
all’autodeterminazione: infatti, in entrambi i casi tutte le persone coinvolte, pur
essendo capaci e consenzienti, non hanno potuto realizzare le attività programmate altrimenti lecite.
Non mi risulta invece che sia mai stato citato, nell’ormai ricca letteratura sulla dignità umana, un precedente italiano, assai simile, in cui si legittimava
l’illiceità di una tipologia di giochi utilizzando specificamente l’argomento della
dignità umana quale limite all’autodeterminazione. Mi riferisco alla sentenza
125/1963 della Corte costituzionale in cui venne esaminata la questione della
legittimità del divieto di «concedere licenze per l’uso, nei luoghi pubblici o aperti
al pubblico, di apparecchi, meccanismi o congegni automatici da giuoco o da
trattenimento di qualsiasi specie»70 e all’affine e ancora più rilevante sentenza
12/1970.
Nella sentenza 12/1963 la Corte costituzionale distingue due tipi di
apparecchi o congegni automatici. Il primo tipo riguarda quegli apparecchi o
congegni che «offrono soltanto svago o divertimento, e cioè che in nessun caso
possono stimolare attività riprovevoli» e, in particolare, «che danno una onesta
ricreazione non collegata a giuochi o scommesse». A giudizio della Corte costituzionale per tale tipo di apparecchi e congegni è costituzionalmente illegittimo
il divieto di concedere licenze per l’uso nei luoghi pubblici o aperti al pubblico. Il
secondo tipo riguarda quegli apparecchi o congegni che, invece, «subordinano lo
svago alla loro utilizzazione come mezzo di giuoco o di scommesse». A giudizio
della Corte costituzionale, per tale tipo di apparecchi e congegni è costituzionalmente legittimo il divieto di concedere licenze per l’uso nei luoghi pubblici
o aperti al pubblico. Ciò che qui rileva è uno degli argomenti utilizzati dalla
Corte per giustificare costituzionalmente la scelta del legislatore di apporre tale
divieto: «impedire che la dignità umana ricevesse offesa dallo sterile impiego
dell’autonomia individuale».
Il riferimento alla dignità umana viene poi significativamente ampliato
nella sentenza 12/1970 dove viene ritenuto costituzionalmente legittimo il divieto
Comitato dei diritti dell’uomo delle Nazioni unite, 26 luglio 2002, Wackenheim vs. France
(Communication n. 854/1999). Cfr. M. Levinet, Dignité contre dignité, cit.
70
Il divieto era previsto dall’art. 110, commi terzo, quarto e quinto, del R.D. 18 giugno 1931,
n. 773, che approva il T.U. delle leggi di pubblica sicurezza.
69
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di uso nei luoghi pubblici o aperti al pubblico di quei flippers che collegavano al
raggiungimento di un certo punteggio la ripetizione della partita o, comunque,
un suo prolungamento senza altra dazione di denaro. Infatti, secondo la Corte
costituzionale, appare «quanto mai opportuno o addirittura necessario [...] che i
cittadini ed in particolare i giovani non diano vita a situazioni o comportamenti
(perdita di tempo e di denaro, dedizione all’ozio, vita in comune con persone
disponibili anche per attività moralmente e socialmente riprovevoli, ecc.) non
del tutto compatibili con il rispetto della stessa dignità umana».
Cioè già nel 1963 e nel 1970 la dignità umana era utilizzata, con
riferimento a dei giochi, in un senso ulteriore rispetto a quello presente nella
Costituzione e assai simile a quello che si sarebbe ritrovato decenni dopo nelle
sentenze della Corte di Giustizia dell’Unione Europea e del Consiglio di Stato francese. Ma le due sentenze della Corte costituzionale (e specialmente la
12/1970) ci appaiono altresì assai condizionate da una certa temperie culturale71 e
mostrano con evidenza tutte le difficoltà nel riferirsi alla dignità umana di cui s’è
detto all’inizio di questo capitolo e pertanto la necessità di un approfondimento
concettuale sul piano antropologico e di fenomenologia sociale.
6. Dignità umana e dignità dell’ente
Da quanto s’è detto e da quanto emerge anche dalla problematica giurisprudenza
che s’è ricordato, il rispetto della dignità umana ha a che fare con il riconoscere
ed il prendersi cura di ciò che più di essenziale vi è nell’uomo. La dignità umana
non dipende da un ordine eteronomo, né è nella disponibilità del soggetto a cui
si predica, perché essa non è riducibile ad alcunché di fenomenico. In estrema
sintesi, dignità umana è ciò che deve essere prima di tutto attribuito all’uomo
perché all’uomo originariamente appartiene.
Dunque, la dignità umana è la declinazione, categorialmente specifica all’uomo, del rispetto che si deve a ogni ente72. Nella tradizione giuridica
dell’Occidente, l’attribuire all’ente il diritto che all’ente appartiene, è stato chiamato con il nome di «giustizia». Questo è il senso dell’insuperata definizione
ulpianea (D. 1, 1, 10 pr.): «Iustitia est constans et perpetua voluntas ius suum
La sentenza 12/1970 era comunque allora forse ragionevole anche nel merito; va ricordato
infatti che i flippers suscitarono un grande scandalo al loro apparire e non solo in Italia (vedi
ad esempio il ruolo che essi occupano nell’opera Tommy dei Who apparsa nel 1969, solo un
anno prima della sentenza di cui si tratta).
72
Nelle arti visive la poetica del ready-made è stato forse il più importante contributo del
XX secolo ad una comprensione della dignità propria di ogni ente non vivente. Mentre le
opere dell’artista contemporaneo belga Wim Delvoye giocano il loro effetto estetico proprio
sulla (provocatoria) violazione di tale dignità: maiali tatuati, assi da stiro decorati come scudi
araldici, bombole del gas dipinte come vasi greci, ...
71
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cuique tribuendi», «La giustizia è la costante e perpetua volontà di attribuire a
ciascuno il suo diritto»73. Queste fondamentali parole sono meglio comprese se
si segue l’autentico colpo di genio ermeneutico di Michel Villey, secondo cui il
termine ‘cuique’ può «être entendu au neutre»: «Le rôle du juriste sera donc […]
d’attribuer à chacun et à chaque chose la condition juridique qui lui revient»74.
Su questa linea è Antonio Rosmini quando scrive del principio di «riconoscere
praticamente le cose per quello che sono»75.
Il presente articolo si apriva con il sospetto che la dignità umana potesse
apparire come una sorta di masso erratico nel diritto privato contemporaneo e
si chiude con l’ipotesi che la dignità umana, in realtà, abbia la stessa forma e
materia della giustizia.
La definizione di Ulpiano è stata ripresa da Tommaso, Summa theologiae, cit., Ia-IIae, q.
58, a. 1, co.; Ia-IIae, q. 58, a. 4, co., ed è ancora quella che si legge nel Catechismo della Chiesa
Cattolica: «Iustitia virtus est moralis quae in constanti et firma consistit voluntate Deo et
proximo tribuendi id, quod illis debetur» (§ 1807).
74
M. Villey, Suum jus cuique tribuens, in Studi in onore di Pietro De Francisci, Milano, Giuffrè,
1956, vol. I, pp. 361-371, p. 365.
75
A. Rosmini, Filosofia del diritto, cit., p. 192.
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