Le corporazioni durante il regime fascista Il corporativismo è una dottrina propria del Fascismo, codificata nella Carta del Lavoro del 1927 e poi sviluppata. Il corporativismo regolò la vita economica e sindacale italiana durante il fascismo prima e la Repubblica Sociale Italiana poi, in ottica di collaborazione di classe, nel dichiarato intento del regime di creare una "terza via" tra capitalismo e marxismo per la risoluzione dei conflitti tra le classi sociali. Il concetto di fondo si basava sulla diversa concezione che la dottrina fascista aveva del rapporto tra l'Uomo, lo Stato e l'economia. I precedenti governi liberali ritenevano che lo Stato dovesse limitarsi a garantire le libertà individuali con l'ordine, assistendo indifferenti a scioperi e serrate, senza considerare il fatto che, anche se tali lotte interessavano solo singole categorie, tutta la nazione riceveva comunque un danno. Il fascismo partì invece da un principio del tutto opposto. Esso considera i cittadini non come entità particolari, ma altresì organiche di un tutto che è lo Stato, affermando quindi che il dovere dello Stato è di intervenire per mantenere non solo l'ordine, ma anche la giustizia e la pace sociale tra le diverse classi. Questo perché ritiene che l'interesse supremo sia non quello dell'individuo, quanto quello nazionale. A questo proposito tutti i cittadini vennero inquadrati all'interno di sindacati, suddivisi in base alle affinità professionali e giuridicamente riconosciuti come organi dello Stato stesso. I vari sindacati fascisti rappresentano quindi una determinata categoria di persone, che esercita una certa attività produttiva e che stipula contratti collettivi di lavoro, che acquistano valore per tutta la categoria stessa. I sindacati si raggruppano in tre confederazioni: Confederazione dei Datori di Lavoro (suddivisa in settori di attività: agricoltura, industria, commercio, credito); Confederazione dei Lavoratori (suddivisa in settori di attività: agricoltura, industria, commercio, credito); Confederazione dei Professionisti ed Artisti. A questo livello datori di lavoro e lavoratori erano separati dalla tutela dei rispettivi interessi ma, siccome la priorità va all'interesse collettivo, i rappresentanti dei vari sindacati fascisti (sia dei datori che dei lavoratori quindi) si riuniscono nelle corporazioni, che comprendono tutti i fattori di produzione. La legge del 5 febbraio 1934 stabilì le 22 corporazioni: Cereali Orto-floro-frutticoltura Viti-vinicola e olearia Zootecnia e pesca Legno Tessile Abbigliamento Siderurgia e metallurgia Meccanica Chimica Combustibili liquidi e carburanti Carta e stampa Costruzioni edili Acqua, gas ed elettricità Industrie estrattive Vetro e ceramica Comunicazioni interne Mare e aria Spettacolo Ospitalità Professioni e arti Previdenza e credito[7] all'interno di esse, i sindacati si distribuiscono secondo il ciclo produttivo: ogni corporazione comprende infatti tutti i sindacati di ogni ramo di produzione, andando a formare tre gruppi: a) Corporazioni a ciclo produttivo agricolo, industriale e commerciale; b) Corporazioni a ciclo produttivo industriale e commerciale; c) Corporazioni per le attività produttrici di servizi. Obbiettivo risulta quindi il tentativo di armonizzare, nell'interesse nazionale, gli interessi divergenti dei vari rami e categorie produttive, dando rappresentanza a tutte e riunendole in modo da concorrere al bene collettivo. Si tenta quindi di elevare la figura del lavoratore dipendente con vari istituti, tra i quali spicca l'Opera Nazionale Dopolavoro, creata nel 1925. Dal sindacalismo fascista alle Corporazioni La Confederazione nazionale delle Corporazioni sindacali nacque nel gennaio 1922 in occasione del I Convegno di Studi sindacali e corporativi di Bologna. In quest'occasione si svilupparono le basi del sindacalismo fascista, con la risoluzione dello scontro tra autonomisti (capeggiati da Edmondo Rossoni e Dino Grandi) e dipendenti (appoggiati da Michele Bianchi e Massimo Rocca) dei sindacati dalla politica. Vinsero i secondi, apportando l'inserimento delle strutture sindacali fasciste all'interno del Partito Nazionale Fascista (PNF), la conferma del superamento della lotta di classe a favore della collaborazione di classe e della supremazia dell'interesse comune nazionale nei confronti di quello individuale o di categoria. In quest'occasione nacque appunto anche la Confederazione nazionale delle Corporazioni sindacali. Tali Corporazioni non furono sindacati misti tra lavoratori e datori di lavoro (che si formarono invece nel 1934), ma sindacati autonomi divisi in cinque Corporazioni suddivise per categorie lavorative. Immediatamente scoppiò una polemica che si ripercosse anche in ambito internazionale, nata dal fatto che la sinistra operaia internazionale, in sede di Organizzazione Internazionale del Lavoro (ILO), contestava il titolo alla rappresentanza operaia e, quindi, la possibilità di partecipare all'assemblea. Polemica che non venne accettata, in quanto l'ILO permise alle Corporazioni di partecipare alle sedute rinnovando il mandato annualmente Nei mesi successivi, con l'ormai tramontato biennio rosso e l'offensiva militare del fascismo con le squadre d'azione, venne operato lo sfondamento politico in campo sindacale, con il passaggio di interi settori operai dalle strutture del Partito Socialista Italiano e della CGdL al fascismo. Tanto che, nell'estate del 1922 la Confederazione nazionale delle Corporazioni sindacali contava 800.000 iscritti. Con gli accordi di Palazzo Vidoni (2 ottobre 1925), in cui venne riconosciuto dalla Confederazione nazionale delle Corporazioni sindacali e da Confindustria la reciproca esclusività di rappresentanza di lavoratori e datori di lavoro, con l'impegno al conseguimento prioritario dell'interesse nazionale; ma soprattutto la legge del 3 aprile 1926. Con questa legge vennero infatti, tra l'altro, realizzata l'istituzionalizzazione dei sindacati fascisti e legalizzato il loro monopolio per la rappresentanza dei lavoratori. Ciò andava a significare che le Corporazioni divennero organi dell'amministrazione statale, con "funzioni di conciliazione, di coordinamento ed organizzazione della produzione". Dopo questa vittoria per Rossoni si ebbe la redazione della Carta del Lavoro (1927) ma, nel novembre 1928, con Farinacci non più alla segreteria nazionale del PNF, ebbero sfogo gli attacchi alla Conferenza nazionale delle Corporazioni sindacali, che venne smembrata dai circoli conservatori, capeggiati da Giuseppe Bottai (sottosegretario al Ministero delle Corporazioni) ed Augusto Turati (nuovo segretario del partito), in sei separate confederazioni di sindacati, facendo diminuire il potere contrattuale dell'organismo, disperdendolo in strutture più piccole e limitate.[19] Nel periodo che intercorse da questo momento alla legge del 5 febbraio 1934, istitutiva delle Corporazioni, si ebbe uno blocco totale dell'azione nel settore, in cui intervenne positivamente soltanto il II Convegno di Studi sindacali e corporativi, tenutosi a Ferrara nel maggio del 1932, nel quale emerse il concetto di corporazione proprietaria proposta da Ugo Spirito. Nel 1934 viene approvata, attraversa una legge, la creazione dello Stato corporativo che, con le nomine dall'alto al posto delle cariche elettive e l'abolizione (fino al 1939) del fiduciario di fabbrica, aveva dato tra l'altro alle corporazioni, divenute veri e propri sindacati formati dai rappresentanti dei lavoratori e dei datori di lavoro ed istituzionalizzati nello Stato, la facoltà di stipulare i contratti collettivi di lavoro. In ogni caso il cambiamento di assetto istituzionale e la rivoluzione nel mondo del lavoro, non pregiudicarono i risultati effettivi che il sindacalismo fascista aveva ottenuto negli anni. Tra le più importanti si possono elencare: ferie pagate; indennità di licenziamento; conservazione del posto in caso di malattia; divieto di licenziamento in caso di maternità; assegni familiari; diffusione delle casse mutue aziendali; assistenza sociale dell'Opera Nazionale Dopolavoro (ad es. centri ricreativi, viaggi collettivi a prezzo simbolico, manifestazioni teatrali, etc). Il 21 aprile 1930 fu Mussolini stesso a rivendicare alle corporazioni la funzione di esaurire in sé il compito del sindacalismo fascista, superando ed andando oltre al sindacalismo stesso, inserendosi nel solco della Rivoluzione continua: « E' nella corporazione che il sindacalismo fascista trova infatti la sua meta. Il sindacalismo, di ogni scuola, ha un decorso che potrebbe dirsi comune, salvo i metodi: s'incomincia con l'educazione dei singoli alla vita associativa; si continua con la stipulazione dei contratti collettivi; si attua la solidarietà assistenziale o mutualistica; si perfeziona l'abilità professionale. Ma mentre il sindacalismo socialista, per la strada della lotta di classe, sfocia sul terreno politico, avente a programma finale la soppressione della proprietà privata e dell'iniziativa individuale, il sindacalismo fascista, attraverso la collaborazione di classe, sbocca nella corporazione, che tale collaborazione deve rendere sistematica e armonica, salvaguardando la proprietà, ma elevandola a funzione sociale, rispettando l'iniziativa individuale, ma nell'ambito della vita e dell'economia della Nazione. Il sindacalismo non può essere fine a sè stesso: o si esaurisce nel socialismo politico o nella corporazione fascista. E' solo nella corporazione che si realizza l'unità economica nei suoi diversi elementi: capitale, lavoro, tecnica; è solo attraverso la corporazione, cioè attraverso la collaborazione di tutte le forze convergenti a un solo fine, che la vitalità del sindacalismo è assicurata. »