Newsletter n. 4 UNIONE INDUSTRIALE PRATESE NEWSLETTER RICERCA E INNOVAZIONE N. 4 MONOGRAFIE Cellulasi: bio-polishing Molti tessuti, realizzati con fibre di natura cellulosica (cotone, lino, viscosa e lyocell), hanno la tendenza a formare lanugine, derivante dalle fibre cortissime presenti sulla superficie del filato. Spesso la superficie del tessuto si ricopre di pallottoline (pills) formate da parte della lanugine che, soprattutto in presenza di fibre sintetiche, può aggregarsi e rimanere ancorata alle suddette fibre sintetiche presenti in mista. Tale fenomeno, negativo, prende il nome di pilling, e riduce il valore commerciale del tessuto. La prevenzione dal pilling, fenomeno assi complesso che dipende da numerosi parametri, può, entro certi limiti, essere anche affrontato con processi enzimatici che, tra l’altro, consentono anche di migliorare la mano del tessuto. Il processo enzimatico che prevede l’utilizzazione della cellulasi, noto come bio-polishing, permette non solo il miglioramento estetico del tessuto legato all’eliminazione della peluria superficiale e delle fibrille morte ma anche il miglioramento del comportamento relativo alla tendenza alla formazione di pilling. La misura della tendenza alla formazione del pilling può essere effettuata con varie tecniche ma il risultato è sempre espresso con un valore numerico nel range 1¸5 (1=massima formazione di pilling, 5=minima formazione di pilling). Nella tabella seguente sono posti a confronto i comportamenti di due tessuti (tal quale e trattato bio-polishing) eseguendo il pilling: test con abrasimetro Martindale. Non trattato Bio-polishing Non lavato 2 5 Dopo 5 lavaggi 2 4 Dopo 20 lavaggi 1 4 Valutazione della durevolezza del trattamento Le cellulasi sono sistemi multienzimatici, costituiti da tre diverse tipologie di enzimi, che degradano, con un’azione sinergica, la cellulosa attraverso reazioni di idrolisi. In tali reazioni la cellulosa viene “spezzata” in molecole più semplici, i suoi mattoni fonda- mentali, accompagnata dalla formazione di acqua. Il processo, grazie a tecniche di automazione, consente una “degradazione controllata” minimizzando gli inconvenienti, presenti nei processi tradizionali, quali, per esempio, la diminuzione della resistenza meccanica. Assume altresì importanza la composizione del sistema cellulasi, in relazione alle tre tipologie di enzimi che lo compongono, per rendere massimi gli effetti positivi (mano e resistenza al pilling) e rendere minima la diminuzione di resistenza meccanica. Con il trattamento, le cellulasi agiscono sulle fibrille “tagliandole” o “indebolendole”. Successivamente, l’azione meccanica delle macchine, rimuove completamente le fibrille dalla superficie. Ricostruzione tridimensionale di una cellulasi Ne consegue che il processo di bio-polishing è una combinazione di azione enzimatica e meccanica. I parametri da tenere sotto controllo sono quindi “chimici” (pH, temperatura…) e “meccanici” (velocità delle macchine, durata del processo…). La cellulasi, ovviamente, comporta una perdita di peso del tessuto che può oscillare dal 27%. Se il bio-polishing è generalmente eseguito dopo trattamenti a umido come la sbozzima, la sbianca o la mercerizzazione, trattamenti che rendono il tessuto più pulito, più idrofilo e più “accessibile” per le cellulasi. In queste condizioni UNIONE INDUSTRIALE PRATESE - Newsletter Ricerca e Innovazione n. 4 del 12/1/2005 1 Newsletter n. 4 UNIONE INDUSTRIALE PRATESE sono richieste minori concentrazioni di enzima rispetto a quelle che sarebbero necessarie, per ottenere gli stessi risultati, operando sul tessuto grezzo Un discorso a parte va fatto per i tessuti già tinti, poiché ci possiamo trovare di fronte a situazioni molto differenziate; più precisamente: · i manufatti tinti con i coloranti al tino, che sono intrappolati all’interno delle fibre, non mostrano significative interferenze con il trattamento enzimatico in oggetto; · i coloranti diretti, che sono generalmente costituiti da grosse molecole ancorate in vario modo (con legami ionici e forze di Van der Waals) alla superficie delle fibre, riducono il contatto degli enzimi con le fibre, rendendo più difficile il processo; · i coloranti reattivi possono, a seconda della specifica tipologia degli enzimi, rendere più o meno difficoltosa l’azione delle cellulasi. E’ importante ricordare inoltre che il trattamento enzimatico su materiale tinto comporta generalmente uno sbiadimento del colore. L’affinità tintoriale tende invece a non cambiare dopo il bio-polishing, in quanto non si ha una modificazione della struttura cristallina delle fibre. Cellulasi: bio-stoning Poiché le cellulasi agiscono sulla parte “superficiale” delle fibre, si intuisce subito come quest’ultime possano risultare particolarmente adatte a generare un aspetto invecchiato nei capi ed, in particolare, in quelli realizzati con tessuto denim (jeans). Nei capi in denim, l’aspetto invecchiato è ottenuto grazie ad una parziale rimozione del colorante indaco, assorbito sulla superficie delle fibre dei filati d’ordito, a causa di un’elevata defibrillazione (degradazione) della superficie. In pratica si realizza la rimozione dell’indaco, operata in modo casuale sul capo, che causa l’esposizione degli strati interni e bianchi (perché non colorati) della fibra. Con la cellulasi si sostituisce il tradizionale stone wash ovvero il lavaggio e sfregamento con pietra pomice il quale produce un’abrasione della superficie con rilascio dell’indaco. L’effetto della cellulasi è analogo a quello dello stone wash tuttavia, la minore azione meccanica, comporta una minore diminuzione della resistenza meccanica del tessuto ed un minor numero di capi danneggiati. Purtroppo, particolari effetti di finissaggio, non si possono ottenere coi i soli enzimi e, pertan- to, può essere necessario un uso combinato di pomice ed enzimi. Uno dei maggiori problemi durante il bio-stoning è la tendenza del colorante distaccato a depositarsi nuovamente sui capi, fenomeno noto come backstaining. Tale fenomeno, che attenua fortemente il contrasto blu/bianco del capo, è indesiderato. Formula chimica del colorante indigo Le cellulasi commercialmente reperibili sono prevalentemente ottenute da Humicola insolens e Trichoderma reesei, e la maggior parte degli studi si concentra su queste ultime. Dati sperimentali indicano che gli enzimi neutri derivati da Humicola insolens danno una rideposizione assai più significativa di quelli acidi derivati dalla Trichoderma reesei. Il pH è dunque un fattore fondamentale nel controllo del backstaining (la classificazione delle cellulasi in neutre e acide è fatta in base al range di pH di utilizzazione). Impiegando cellulasi neutre la rimozione massima la si ha con pH=6 (fino a pH=7 si ha comunque un’ottima rimozione) mentre, impiegando cellulasi acide, la massima rimozione si ha con pH=5. Le cellulasi acide garantiscono lo stesso livello di abrasione di quelle neutre ma ad un concentrazione assai minore. Il motivo della differenza di backstaining fra cellulasi acide e neutre non è noto con esattezza. Alcuni studi indicano che la capacità delle cellulasi di essere assorbite dal substrato di cotone è un altro fattore: queste conclusioni sono confermate dall’uso dei detergenti che desorbiscono le cellulasi per ridurre il backstaining. Il fenomeno backstaining è infatti legato, in prevalenza, alla capacità delle cellulasi di legarsi al colorante rimosso; tale dato è confermato dal miglioramento del fenomeno indotto dall’uso delle proteasi; quest’ultime sono costituite da enzimi che, prevenendo la formazione di legami fra cellulasi e colorante, diminuiscono ovviamente la possibilità di rideposi- UNIONE INDUSTRIALE PRATESE - Newsletter Ricerca e Innovazione n. 4 del 12/1/2005 2 Newsletter n. 4 UNIONE INDUSTRIALE PRATESE zione del colorante stesso (in tal senso esistono sia brevetti che lavori accademici). Ovviamente un ottimo rapporto fra cellulasi e proteasi e un pH ottimale è essenziale per ottimizzare i benefici. Sono in corso studi sull’uso combinato dei due enzimi commercialmente reperibili per ottimizzare il bio-stoning. Un aspetto da non sottovalutare è, infine, il “costo ambientale” del processo. E’ necessario infatti rimuovere dall’aria CO2 o idrocarburi e dalle acque reflue sia prodotti organici inquinanti (COD, per esempio), che soprattutto pomice e sali di cloro. Le quantità di inquinanti sono diverse nei trattamenti stone-wash e bio-stoning; la tabella seguente fornisce un’indicazione delle differenze di costi. Costi ambientali Pomice ................. Pomice + Enzima ....... Enzima Aria 8,31 .................... 5,57 ........................ 4,13 Acqua 28,10 .................. 20,16 ...................... 16,37 Prodotti di scarto 8,01 .................... 1,26 ........................ 0,62 Totale 38,42 ................. 26,99 ..................... 21,12 I costi (Fonte OECD), espressi in dollari, si riferiscono alla produzione di 100 Kg di jeans Cellulasi: detergenti Gli enzimi sono stati usati nell’industria dei detergenti fino dalla metà degli anni ’60. Essi forniscono una soluzione ecologica alternativa all’uso dei tradizionali prodotti chimici quali fosfati o agenti sbiancanti. In genere si usano “cocktail” enzimatici composti da lipasi, amilasi e cellulasi. Le cellulasi, capaci di modificare la struttura della cellulosa intervenendo sulle fibrille, vengono aggiunte ai detergenti per migliorare la brillantezza del colore, per migliorare la mano e rimuovere lo sporco. In particolare i capi di cotone o di sue miste, a causa dei ripetuti lavaggi, tendono a ricoprirsi di peluria. Ciò è principalmente dovuto alla presenza di fibrille, parzialmente staccate sulla su- perficie del capo, che devono essere rimosse per ridare al capo una mano gradevole e l’aspetto originale. Inoltre, la rimozione delle fibrille, dona sofficità al capo e rimuove lo sporco che vi rimane intrappolato. Questo risultato si ottiene aggiungendo cellulasi ottenute dal microrganismo Humicola insolens, attivo in condizioni debolmente alcaline (pH 8,5-9) ed a temperature attorno a 50°C, nelle comuni polveri. Negli ultimi anni si è iniziato ad utilizzare le cellulasi per prevenire la formazione di schiuma durante l’uso dei detergenti. Sebbene il costo totale relativo alle cellulasi all’interno del detergente rappresenti solamente lo 0,4%, alcune industrie lo giudicano troppo elevato, per cui stanno cercando soluzioni alternative e più economiche. Ricostruzione tridimensionale di una cellulasi per detergenti PUBBLICAZIONI Finissaggio a raggi elettronici L’assorbimento e la permeabilità all’acqua, così come al vapore acqueo, sono proprietà importanti, specialmente per quei capi a diretto contatto con il corpo, in quanto ne aumentano il confort. Tecnicamente è possibile migliorare le proprietà delle fibre naturali e sintetiche rendendole più idrofile. Per far questo i ricercatori sono partiti da una soluzione di polivinil alcol, ottenuta sciogliendo l’alcool in polvere in acqua a 95°C e aggiungendo, in un secondo momento, un picco- lo quantitativo di acido acrilico. Con la soluzione ottenuta che ha, più o meno, la densità del miele, è stato spalmato un piccolo strato (circa 25 mm) sul tessuto che, successivamente, è stato sottoposto ad un bombardamento con fascio di elettroni. Il polivinil alcool reagisce così con l’acido acrilico ed, attraverso quella che in chimica è definita come una reazione di reticolazione, costituisce una sorta di “rete” superficiale sul tessuto. La Figura 1, a pagina seguente, mostra come, su tessuti di cotone, cotone/poliestere nylon, aumenti significativamente la capacità di as- UNIONE INDUSTRIALE PRATESE - Newsletter Ricerca e Innovazione n. 4 del 12/1/2005 3 Newsletter n. 4 UNIONE INDUSTRIALE PRATESE sorbire acqua all’aumentare della quantità di acido acrilico. In particolare questo si verifica per il nylon. I ricercatori hanno sottoposto i tessuti trattati a numerosi lavaggi verificando la variazione dell’idrofilia: il processo può essere definito durevole, come si evince dai risultati riportati in Tabella 1. E’ stata anche preparata una nuova soluzione di polivinil alcool aggiungendo alla precedente un piccolo quantitativo di metilenbisacrilammide, cioè un composto che facilita la reazione di reticolazione. Questa nuova formulazione, pur aumentando l’idrofila dei singoli tessuti, non ha dato i brillanti risultati di resistenza ai lavaggi descritti per il precedente trattamento. Un altro dato che vale la pena di sottolineare è l’incremento di tingibilità di tessuti trattati con coloranti cationici, diretti e reattivi; questo effetto è legato ad un netto aumento dell’affinità tintoriale dei tessuti trattati nei riguardi delle classi di coloranti citate. Figura 1 Tabella 1 Acido acrilico Cicli di lavaggio Cotone Assorbimento di acqua (%) Cotone /poliestere 50/50 Cotone /poliestere 35/65 Nylon-6 6% 6% 6% 6% nessuno 10 15 25 85 83,5 83,5 83,5 97 92,3 91,2 91,2 165 150 135 131 138 134 129 129 Fotografie al microscopio a scansione elettronica (SEM): tessuto di cotone non trattato (sinistra) e tessuto trattato (destra) UNIONE INDUSTRIALE PRATESE - Newsletter Ricerca e Innovazione n. 4 del 12/1/2005 4 Newsletter n. 4 UNIONE INDUSTRIALE PRATESE RICERCHE Lavaggio ad “alta” pressione di tessuti Uno dei processi più lunghi e costosi, nella produzione di tessuti, è la rimozione degli ausiliari della tintura e del colorante non fissato. Peraltro un corretto lavaggio è fondamentale per la qualità dei prodotti finiti. Nel caso di processi continui esso può essere realizzato con una serie di 12 o, addirittura, 20 vasche. L’operazione, ovviamente, implica l’utilizzazione di rilevanti quantità d’acqua. Tr a e n d o spunto dal fatto che, in molti settori industriali, per aumentare l’efficienza dei lavaggi, si usano getti d’acqua ad alta pressione, è stata sviluppata una macchina (per ora è in realtà un prototipo da laboratorio) in grado di lavare tessuti ad “alta pressione” minimizzando, così il fabbisogno di acqua e, quindi, riducendo i costi. I primi test, eseguiti su un tessuto di cotone standard, hanno evidenziato problemi di migrazione del colore nel caso di tinture con coloranti diretti che, invece, non sono stati osservati con coloranti reattivi. I test successivi sono stati condotti col medesimo tessuto di cotone standard, tinto con coloranti reattivi, misurando il pH nelle acque di scarico come parametro per la valutazione dell’efficienza del processo. La macchina è costituita da ugelli in grado spruzzare acqua fino ad una pressione di 150 psi (circa 10,5 bar). Quella in eccesso è raccolta in un’apposita vasca da cui, una volta decontaminata parzialmente dagli inquinanti chimici, viene riciclata. Non si è superata la pressione di 150 psi, in quanto, al di sopra di questa, il tessuto di cotone usato come standard può deformarsi. Figura 1: efficienza del lavaggio al variare della pressione Si è passati quindi a studiare quale fosse l’angolo ottimale d’incidenza dell’acqua sul tessuto (Figura 2) e, solo successivamente, si è deciso di insufflare aria a 73 psi (circa 5 bar) in modo da aumentare la superficie di contatto dell’acqua col tessuto stesso. Questo ha comportato un aumento di efficacia dei lavaggi (Figura 3). Per aumentare ulteriormente le proprietà detergenti l’acqua viene riscaldata fino a 140 °F (60°C). Il tessuto viene lavato ad una velocità di circa 15 m/minuto. La ricerca, attualmente in corso, è effettuata dal National Textile Center statunitense. Figura 2 (sinistra) e Figura 3 (destra): le serie di test state condotte a 125 psi (circa 8,5 bar) UNIONE INDUSTRIALE PRATESE - Newsletter Ricerca e Innovazione n. 4 del 12/1/2005 5 Newsletter n. 4 UNIONE INDUSTRIALE PRATESE Capi ad alta visibilità Alta visibilità e luminosità sono requisiti richiesti ai capi indossati dalla protezione civile, dai soccorritori, ecc. Esistono comunque, per questa particolare tipologia di prodotti, numerose altre applicazioni di tipo industriale, domestico e sportivo. I tessuti utilizzati a tale scopo devono rispondere alle norme EN 471 (visibilità) e DIN 67510 parte 4 (luminosità). Esistono due tipi di coloranti luminosi: uno a base di solfuro di zinco e l’altro a base di alluminati di stronzio. Entrambi sono facilmente reperibili e possono garantire una notevole varietà di effetti luminosi; purtroppo i coloranti luminosi non possono essere combinati con pigmenti colorati Un’azienda scozzese ha sviluppato una pasta che contiene, miscelati, pigmenti colorati e luminosi. La pasta presenta i seguenti aspetti innovativi: · i colori incorporati garantiscono un’elevata visibilità diurna, mentre i pigmenti fluorescenti un’elevata visibilità notturna; · non è né tossica né radioattiva; · può essere addizionata con additivi in modo da rendere il capo resistente alla fiamma e al fuoco; · può essere applicata con i normali impianti senza necessità di modifiche; · gli effetti luminosi sono di notevole durata. In un primo momento sono stati prodotti una serie di colori/pigmenti luminosi e fluorescenti che consentono di ottenere capi ad elevata visibilità diurna e notevole luminosità notturna. I capi prodotti rispondono ampiamente ai limiti della normativa DIN 67510 parte 4: il Deutchse Institut Number è oggi l’unico test certificato per la luminosità e richiede, in estrema sintesi, che un prodotto emetta un minimo di 2,8 millicandele dopo 60 minuti. Sono, fino ad ora, stati preparati due tessuti con le seguenti caratteristiche: · L-Tex medium che emette 5 millicandele dopo 60 minuti L-Tex Heavyweight che emette 9 millicandele dopo 60 minuti Ovviamente le performance dei due tessuti possono essere aumentate o diminuite aumentando o diminuendo la quantità di pasta. L’azienda sta attualmente migliorando il prodotto e sta cercando partner a livello tecnico, commerciale e produttivo. · BREVETTI Biostoning L’oggetto di questa invenzione è un processo enzimatico per l’ottenimento dei tessuti denim dall’aspetto invecchiato, minimizzando o rendendo nulla la perdita di resistenza del capo. Tale processo si configura come un’alternativa enzimatica al tradizionale stone-wash; esso, tuttavia, può essere adattato per ottenere tutti gli effetti che comportano una riduzione localizzata del colore. Il trattamento consta di varie fasi: 1. Rivestimento con un polimero biodegradabile: si riveste o il filato o il tessuto o il capo con un polimero biodegradabile (si usa lo xiloglucano perché esso è capace di instaurare forti legami con la cellulosa). Il rivestimento è ottenuto per immersione del filato o del tessuto o del capo in una soluzione del polimero con concentrazione variabile da 0,005% a 50% in dipendenza dalla purezza del polimero stesso. 2. Tintura: si tinge il filato o il tessuto o il capo con l’indaco coi metodi tradizionali (nel brevetto comunque si danno ricette di massima) 3. Sbozzima: è una fase di lavorazione opzionale, ma consigliata, che si esegue coi metodi tradizionali (nel brevetto comunque si danno ricette indicative). I trattamenti successivi possono solamente avvenire in capo o in pezza. 4. Biostoning: il trattamento avviene per immersione in un bagno acquoso contenente xiloglucanasi (particolari enzimi prodotti da funghi o batteri), che, degradando lo xiloglucano, provoca un’abrasione chimica che scopre le parti bianche del tessuto sottostante. E’ possibile usare, contemporaneamente, pietra pomice (da 0,25 a 1Kg per kg di jeans a seconda dell’enzima specifico usato e dell’effetto da ottenere) causando, tuttavia, una maggiore riduzione della resistenza del tessuto/capo. Se si usa per esempio l’enzima prodotto dall’Aspergillus aculeatus le condizioni di processo sono: pH 3-6, 30-60°C, 0,1¸1000 mg di enzima per g UNIONE INDUSTRIALE PRATESE - Newsletter Ricerca e Innovazione n. 4 del 12/1/2005 6 Newsletter n. 4 UNIONE INDUSTRIALE PRATESE di tessuto/capo da trattare, 10-120 minuti. L’inattivazione dell’enzima, da attuarsi quando l’effetto desiderato è raggiunto, consiste nel portare il bagno ad una temperatura di 70100°C e un pH>9,5 per 10-20 minuti. 5. Processi successivi: si possono prevedere successivi processi di finissaggio come lavaggi per pulire il tessuto, blande sbianche con acqua ossigenata (di cui si danno ricette indicative) per variare il tono di blu o trattamenti con agenti brillantanti (brightening agents) o ammorbidenti. I tessuti trattabili sono ovviamente cellulosici (cotone, viscose, rayon, ecc), ma è possibile lavorare anche loro miste sia con fibre sintetiche, sia naturali. Il brevetto è stato realizzato dalla società Novozymes, leader mondiale nella produzione di enzimi. Bio-sbozzima e bio-stoning contemporanei La presente invenzione riguarda un trattamento enzimatico dei tessuti denim, che opera, contemporaneamente, sbozzima e stone-wash, garantendo una buona distribuzione/uniformità del colore ed un ottimo grado d’invecchiamento. Il processo prevede l’uso contemporaneo di un cocktail enzimatico costituito da: · Endoglucanasi abrasiva: è una cellulasi che, attaccando/degradando superficialmente le fibre del tessuto di cotone, provoca una variazione di colore locale e quindi un effetto d’invecchiamento (è l’enzima responsabile del bio-stoning). · Endoglucanase livellante: è una cellulasi capace di minimizzare la formazione di striature che comunemente si formano sui tessuti durante i processi di stone-wash con pomice o enzimatici (è un enzima che ottimizza il bio-stoning). · Enzima amilolitico: è un enzima capace di scindere l’amido (polimero naturale costituente la bozzima presente nei filati di ordito) nelle sue unità di base fondamentali e cioè nel D-glucosio (monomero costituito da uno zucchero semplice). Quest’ultimo essendo solubile in acqua viene perciò rimosso dal substrato tessile. A causa di questa G1 G2 G3 G4 Valutarore 1 A1 A3 B4 B2 Valutarore 2 A3 A1 B2 B4 trasformazione viene minimizzata, se non impedita, la sua successiva riprecipitazione sul tessuto migliorando la mano, il grado di colore e rendendo il tessuto più ricettivo verso i successivi trattamenti (è l’enzima responsabile della bio-sbozzima). Per comprendere l’importanza dell’endoglucanase livellante, è stato un test comparativo fra un tessuto trattato con un sistema a tre enzimi (endoglucanasi abrasiva, endoglucanase livellante, enzima amilolitico) ed uno a due, cioè privo di endoglucanase livellante. Da ogni tessuto trattato sono stati estratti due campioni: A1 e A3 per quello trattato con il sistema a tre enzimi e B2 e B4 per quello trattato con due enzimi. I risultati sono stati valutati da 5 persone che hanno espresso con valori da G1 a G4 il grado di striatura (G1 indica il minimo grado di striatura, mentre G4 indica il massimo: vedi Tabella 1). Come si vede dalla tabella, il sistema a tre enzimi permette di ottenere un minor grado di striatura ed una maggiore distribuzione/uniformità del colore. Ambedue le cellulasi sono ottenuti da funghi, ovviamente diversi, attraverso tecniche di ingegneria genetica. L’enzima amilolitico è un’amilasi di origine batterica: nel brevetto si citano quelle più efficaci. Il processo è condotto in batch ad un pH compreso fra 5 e 8, per un tempo variabile da 1 a 24 ore e con un rapporto tessuto/bagno far 15:1 e 5:1; le quantità degli enzimi devono essere comprese fra: · 5 e 8000 ECU* per litro per le endoglucanasi · 10 e 10000 KNU* per litro per l’enzima amilolitico E’ possibile inoltre aggiungere un agente stabilizzante, quale il Ca2+, nella quantità di 10-10 mMol e un tampone (fosfati, borati, acetati..) per tenere sotto controllo il pH durante il processo. * Sia ECU (acronimo di Endo-cellulase Unit) che KNO (acronimo di Kilo Novo alfa Amylase) sono due unità di misura che quantificano l’attività catalitica in condizioni standard: la differenza fra ECU e KNO consiste nelle diverse condizioni standard utilizzate. Tabella 1 Valutarore 3 A3 A1 B2 B4 Valutarore 4 A3 A1 B2 B4 UNIONE INDUSTRIALE PRATESE - Newsletter Ricerca e Innovazione n. 4 del 12/1/2005 Valutarore 5 A3 A1 B2 B4 7 Newsletter n. 4 UNIONE INDUSTRIALE PRATESE CURIOSITA’ Proprietà intellettuale Tutti pensano che il brevetto sia un modo, che la legge fornisce, per avere l’esclusivo diritto di produrre, e quindi commercializzare, una propria invenzione. Il temporaneo “monopolio” che ne deriva consente di ripagare gli investimenti della ricerca. Il “mondo” dei brevetti è, in realtà, sorprendentemente più articolato e nasconde parecchie insidie per gli sprovveduti che lo affrontano senza conoscerlo. Quando si fa una scoperta o si realizza, per esempio, un nuovo macchinario, per prima cosa si deve decidere se sia conveniente, o meno, brevettarla; questa prima decisione è forse la più importante. Brevettando, infatti, si è costretti a fornire importanti informazioni, che potrebbero essere sfruttate da altre aziende per entrare in concorrenza. Alcuni uffici, che si occupano di brevetti, sostengono che, con il conseguimento del brevetto, si perde almeno l’80% del segreto. Non brevettando, si mantiene totalmente il segreto ma, in questo caso, la discrezione dei dipendenti è fondamentale; alla minima fuga di notizie qualcun altro ci può sottrarre la paternità dell’idea, rivendicarne i diritti e, facendola sua, impedirci addirittura di sfruttarla. Quando si decide di brevettare è opportuno aver regolato, con tutti i dipendenti che abbiano partecipato alla ricerca, i rapporti per lo sfruttamento dei diritti, magari ricorrendo a scritture che integrino i contratti collettivi. Senza questo accorgimento potrebbero insorgere, successivamente, spiacevoli contenziosi. Le cose sono assai più complicate se, per esempio, la ricerca è stata condotta da istituiti esterni. In questi casi gli accordi devono essere stipulati valutando attentamente la normativa vigente nonché eventuali regolamenti interni e le posizioni lavorative di tutti coloro che partecipano alla ricerca. Per esempio, nel caso in cui vi sia un accordo con un’università, essa può avere uno specifico regolamento interno, che prevede che il lavoro di supervisione sia svolto da un ricercatore (dipendente diretto dell’università), mentre il lavoro materiale possa essere svolto da laureandi (cioè studenti), borsisti (collaboratori a contratto con l’università o con l’azienda) o dottorandi (formalmente ancora studenti). In questo caso è opportuno valutare la posizione di tutte le figure professionali in gio- co ed, eventualmente, prevedere accordi specifici con i singoli. Se più aziende partecipano alla ricerca occorre formulare accordi ben precisi per la definizione delle relative responsabilità in fase di ricerca, ma anche dei rispettivi diritti in fase di sfruttamento della scoperta. Il tutto si complica se i partner sono di diverse nazioni; in tal caso ci si può avvalere del progetto europeo (IPR-Helpdesk) che fornisce un’assistenza legale continuativa durante la fase di sviluppo. Quando si è deciso di brevettare la scoperta si pone il problema di come brevettarla (ovviamente si dà per scontato che si sappia che non esistono altri brevetti, precedenti, che lo impediscano). Nel brevettare la scoperta si deve fornire solo l’informazione tecnica essenziale per tentare di minimizzare i rischi di concorrenza da parte di altre aziende. E’ altresì importante definire in quali stati si desidera che il brevetto abbia valore, dal momento che non esiste un brevetto mondiale e, neppure, europeo. Questo è un fattore rilevante perché ottenere un brevetto in uno stato ove non si ha mercato, comporta un notevole spreco di tempo, energie e capitali! E’ opportuno far rilevare che le procedure di apertura di un brevetto possono richiedere uno o due anni, ma esse possono essere “artificiosamente” prolungate fino, addirittura, a dieci anni. Esiste, infatti, un altro aspetto, meno etico, del problema che consiste nell’uso del brevetto come “arma” per colpire gli interessi dei concorrenti. Mediante brevetti costruiti “artificiosamente” da abili consulenti e/o procedure brevettuali che sono mantenute “volutamente” sempre aperte, è possibile tutelare i propri interessi a danno di altri. Superato il problema del brevetto si pone quello della produzione. Se si decide di far produrre la scoperta a terzi, è opportuno, anche in questo caso, tutelarsi accordandosi con il produttore sia per lo sfruttamento dei diritti dell’invenzione, sia per “costringerlo” a produrre almeno un lotto minimo. Non è raro, infatti, che talune aziende abbiano interesse ad acquisire i diritti di una scoperta per impedirne, di fatto, la produzione. Chi produce un modello obsoleto di una macchina, che tuttavia trova ancora collocazione sul mercato, ha interesse ad acquisire i diritti di quella nuova per farla entrare in produzione solamente quando quella obsoleta risulterà invendibile, magari dopo diversi anni. UNIONE INDUSTRIALE PRATESE - Newsletter Ricerca e Innovazione n. 4 del 12/1/2005 8 Newsletter n. 4 UNIONE INDUSTRIALE PRATESE Gli argomenti sopra descritti sono stati ultimamente discussi nel seminario informativo organizzato da Firenze Tecnologia sulla “Proprietà Intellettuale” – Firenze, 13 dicembre 2004. Catene da neve in poliestere Quando Henry Ford aveva problemi ad uscire di garage a causa della neve o del ghiaccio, sua moglie era solita stendere un tappeto davanti ai pneumatici, cosicché Henry poteva tranquillamente andare a lavoro. L’idea di usare tessuti come “catene da neve” rimase nell’aria fino a che, Bard Lotveit, scoprì che il cotone aveva sorprendenti proprietà di aderenza. Successivamente Bard Lotveit ebbe l’idea di sostituire il cotone col poliestere viste le sue migliori caratteristiche di resistenza. Da qui, dopo successivi sviluppi, dovuti anche a un gruppo di ingegneri norvegesi che hanno collaborato negli anni ’90 con un laboratorio statunitense, sono nati gli attuali dispositivi in tessuto che sostituiscono le catene da neve, cioè i “calzini da neve” (AutoSock). In realtà, in condizioni estreme e per lunghe percorrenze, le catene tradizionali non sono sostituibili. I calzini da neve sono adatti solo per le situazioni in cui la durata del percorso ghiacciato o innevato è breve (alcuni chilometri) e non giustifica il tempo e la difficoltà di montaggio delle normali catene. La difficoltà di guida, che si riscontra in presenza di fondo ghiacciato od innevato, deriva dalla diminuzione del coefficiente d’attrito. Un sottile film d’acqua, che si forma tra il pneumatico ed il terreno ghiacciato o innevato, determina il valore di tale coefficiente. Laddove il film è più sottile (frizione secca) si ha maggior coefficiente di attrito e quindi una maggiore aderenza; mentre, laddove il film è più spesso (frizione umida) si ha minor coefficiente di attrito e quindi difficoltà di guida. I “calzini da neve”, grazie alla loro struttura, rendono massima la superficie di contatto fra pneumatico e ghiaccio o neve, cosicché si verifica un aumento del coefficiente di attrito sia nella zona di frizione secca, sia in quella di frizione umida. In generale sia ha un significativo aumento di aderenza della vettura. Immagine di un “calzino da neve” di prima generazione UNIONE INDUSTRIALE PRATESE - Newsletter Ricerca e Innovazione n. 4 del 12/1/2005 9 Newsletter n. 4 UNIONE INDUSTRIALE PRATESE I tessuti utilizzati per produrre i “calzini da neve” sono di tipo ortogonale, doppia faccia d’ordito realizzati con multifilamenti paralleli in poliestere sia in ordito, sia in trama. I “calzini da neve” hanno il vantaggio di presentare una bassa rumorosità in fase di marcia, di poter essere agevolmente montati, di essere lavabili in lavatrice, di essere compatibili con l’ABS che, invece, deve essere disinserito utilizzando le catene da neve. Inoltre essi possono essere montati anche sulle vetture per le quali non è possibile montare le normali catene. I calzini da neve però non rientrano (almeno per la legge italiana) nella categoria delle catene da neve propriamente dette, per cui non possono essere impiegati qualora sia previsto l’obbligo di transito con catene o pneumatici da neve (è in corso la procedura di omologazione). UNIONE INDUSTRIALE PRATESE - Newsletter Ricerca e Innovazione n. 4 del 12/1/2005 10