L'EUROPA CRISTIANA E IL MONDO: ALLE ORIGINI DELL’IDEA DI MISSIONE* Adriano Prosperi Che il mondo europeo avesse una «missione» da compiere nei confronti di quello americano e, in genere, nei confronti delle società extraeuropee, è una convinzione che emerge da buona parte della documentazione europea nell'intera età delle scoperte e delle conquiste coloniali: missione religiosa, missione di civiltà. È una convinzione che ha mosso una quantità imprecisabile ma certo molto alta delle persone che attraversarono i mari in partenza dall'Europa. È anche una convinzione sepolta dalla sua stessa vittoria e, in una certa misura, dall'ironia e dalla critica sempre più aspra che l'etnocentrismo europeo ha incontrato in tempi vicini a noi. Qui ci si vorrebbe limitare a offrire qualche spunto per riflettere sulle origini del termine e sul modo in cui il termine stesso ma anche il tipo umano del missionario sono andati modificandosi tra '500 e '600. Quando la storia dei missionari e delle missioni si è avviata nel rapporto tra Europa e altri mondi - in primo luogo l'America - i precedenti modelli di quell'attività e della coscienza della sua importanza primaria avevano già avuto un largo spazio nel cristianesimo europeo. Con tutto ciò, esistono delle differenze rilevanti che vorremmo, se non analizzare, almeno segnalare. Oggetto di questo discorso è infatti da un lato la «forma» missionaria - cioè quel tipo di coscienza della missione che consiste nell'idea di avere un messaggio, una verità da portare agli altri uomini - e, dall'altro, il processo storico di laicizzazione, mondanizzazione, immanentizzazione di questa coscienza. Ebbene, se la prima parte del discorso coincide in un certo senso con la storia del cristianesimo, la seconda parte caratterizza l'età moderna. L'obiettivo di queste osservazioni è di ritrovare nell'enorme importanza che l'attività missionaria assume nell'età delle scoperte e delle conquiste europee la radice e la causa della sua mondanizzazione, cioè del suo trasferirsi dal messaggio religioso a un messaggio mondano, di civiltà». Ora, sulle radici profonde della coscienza missionaria nel cristianesimo non si possono avere dubbi. Il cristianesimo è religione missionaria, si suol dire. Con questo, si intende affermare che l'identità storica di questa religione è caratterizzata dalla volontà di estendersi a tutta l'umanità: «annunziate il vangelo a ogni creatura». E tuttavia, come in molte altre cose della storia del cristianesimo, chi cerca di capire come un determinato carattere storico si è venuto costituendo, trasformandosi, prendendo determinata coscienza di sé, trova ben poco. Le storie delle missioni cristiane assomigliano a certe storie dell'ecumenismo: si danno origini coincidenti con l'età della Chiesa primitiva o con la nascita di Cristo - salvo poi passare immediatamente a tempi molto pili vicini a noi 1. Partendo dal presupposto di una continuità storica della natura missionaria della Chiesa, si corre il rischio, com'è stato osservato, di produrre letteratura di tipo pastorale piuttosto che storica 2. Per contro, si tende spesso a presupporre una permanenza sovrastorica (o una sua trasparenza di significato, il che è lo stesso) del termine e del concetto di «missione»: solo così si può spiegare il fatto che i migliori conoscitori della storia della presenza cristiana in Amica nel '500 non si siano nemmeno posti il problema di come nascesse e si modificasse quel termine, al quale si richiamano come sinonimo di «civilizzazione» o di «evangelizzazione» 3. E sì che il precedente altomedievale della cristianizzazione dell’Europa germanica e «barbara» stava lì a dimostrare come gli stessi termini coprissero forme di espansione religiosa e politica assai diverse 4. Quel che vorrei qui tentare è circoscrivere il campo dell'indagine e affrontare le origini moderne di un termine e di un concetto che sono entrati a far parte stabilmente dell’etica contemporanea a parecchi livelli e nei pii diversi significati. Il termine può offrire un filo capace di distinguere, all'intero di una storia dove motivi ideologici hanno portato a compattare insieme tante cose, 1 accentuando di volta in volta gli aspetti che facevano comodo: l'espansione militare, la salvezza delle anime, la cancellazione dell’altre religioni, la presenza pacifica e la predicazione del Vangelo. Ora, l’opposizione tradizionale è tra crociata e missione, intesa come opposizione tra modo violento e modo pacifico di propagazione della fede (è pur vero che si è parlato anche di «guerra di missione» 5). Si può considerare rappresentativa del comune senso storiografico - o meglio, del confuso ottimismo retrospettivo del senso comune - quel che disse un esperto studioso delle crociate come Runciman al Congresso di scienze storiche del 1955, che cioè si può disegnare un percorso di lento declino dell'idea di crociata e di sua sostituzione con l’idea di missione 6. Quanto questo sia legato all'ottimistica idea di un progressivo incivilimento del mondo europeo, ognuno può vedere. Certo, non trova conforto nei documenti. Semmai, si potrebbero ricordare le convinzioni di quei teologi medievali che sostenevano essere fuso della forza nei confronti degli infedeli un male minore in attesa di poter diffonde pacificamente il vangelo tra gesti pacifiche: siano giudei, siano saraceni, dobbiamo perseguitarli in quanto ribelli; quando li avremo in nostro potere, non dovremo né ucciderli né costringerli a convertirsi alla nostra fede - così pensava un teologo del XII secolo 7. Come faceva notare Benjamin Z. Kedar studiando il rapporto tra crociata e missione nella storia delle relazioni tra e musulmani, non si può disegnare tanto un progressivo addolcimento della crociata in missione quanto un improvviso emergere - nel contesto della crociata e dell'improvvisa tenenza espansiva del potere europeo sotto le bandiere della religione, dopo una lunga storia di atteggiamenti difensivi – della proposta francescana dell'ire ad infideles con modi pacifici e proposte evangeliche 8. L'esperienza storica dell'età moderna è diametralmente in contrasto con l'idea di un progressivo addolcimento degli approcci europei agli «altri». Proprio la facilità dell'assoggettamento dei popoli non europei fu la molla di un accanimento verso la cancellazione delle differenze religiose e culturali in genere che ebbe i caratteri della crociata. Doveva toccare a Ramòn Menéndez Pidal osservare che, sotto le «ammirevoli leggi» dei Re Cattolici e del Consiglio delle Indie, la civiltà moderna aveva unito l'America all'occidente europeo, proprio perché aveva ignorato proposte come quelle di Las Casas; e lo storico spagnolo lasciava intendere che, se si fosse usata la forza anche col mondo asiatico, il mondo sarebbe stato integralmente europeizzato e culturalmente unificato 9. Come sappiamo, molta acqua è passata sotto i ponti da quando affermazioni di questo genere avevano diritto di cittadinanza tra gli studiosi. Resta il fatto che quella omologazione del mondo americano al mondo europeo, nella quale, Menéndez Pidal vedeva con orgoglio il frutto della conquista spagnola, era stata proprio il risultato di un uso sistematico della forza, tanto più ampio quanto minore era stata la capacità di resistere. La lunga vicenda del colonialismo europeo dell'età moderna è segnata dalla simbiosi con le missioni cristiane, che gli hanno conferito una serie di caratteri originali 10. Ma come è nata l'idea di missione? Varrà la pena chiedere ai papi che cosa ne pensassero ai tempi di Colombo e di Cortés. La questione non fu tra quelle che più li occuparono nel secolo di Lutero e del Sacco di Roma. L'ascesa politica del papato nell'età che va dai concili di Riforma del '400 e il Concilio di Trento fu pagata, com'è noto, con concessioni alle monarchie europee come i concordati; tra queste concessioni, rientra quella per noi fondamentale del «vicariato reale» concesso ai Re cattolici per tutto quello che riguardava le questioni ecclesiastiche nell'impero extraeuropeo. Una delega complessiva di tale portata non è certo una prova di un vitale interesse pontificio alla costruzione delle nuove chiese nel mondo extraeuropeo. Tuttavia, i legami che strinsero il papato ai sovrani spagnoli da un lato e agli Ordini religiosi dall'altro resero, in molti casi, obbligatorio il passaggio attraverso Roma per le questioni relative alla conquista religiosa delle popolazioni extraeuropee. Moltiplicarono le occasioni per la can2 celleria apostolica di redigere lettere e documenti attinenti in qualche modo alle terre extraeuropee. Il linguaggio in uso nella cancelleria pontificia pub dunque valere come registrazione delle maniere di parlare allora di ciò che oggi chiamiamo «missione». E la recente edizione di un «corpus» di tutte le bolle e brevi papali relativi in qualche modo all'America facilita la risposta a questa domanda 11. La scoperta dell'America non cambiò immediatamente gli usi consueti nemmeno in questo campo. Semmai, provocò un intensificarsi dei traffici ecclesiastici dei Re Cattolici e un diffondersi di usi e di formule già attestati nei documenti romani ad essi relativi. Così, può essere utile notare che non di «missione» ma di «orthodoxae fidei propagationem» parlava la bolla di Innocenzo VIII (1432-1492) del 13 dic. 1486 destinata ai re di Castiglia e di Aragona per la questione dei territori sottratti ai Mori: e la propagazione doveva avvenire attraverso la crescita dei cristiani e la repressione e la conversione degli infedeli, nonché la salvezza dei barbari. Questo è affinato come un grande desiderio del papa, alla cui cura è stato affidato il compito di curare quella «propagatio fidei» 12. I «barbari» diventano i protagonisti esclusivi nelle due bolle «Inter caetera» (3 e 4 maggio 1493) di Alessandro VI dove si colgono i primi riflessi del viaggio di Colombo 13. In ogni caso, l'orizzonte che i documenti aprono è quello di una tranquilla attesa di una crescita della fede ortodossa e della conseguente depressione del mondo di barbari e infedeli che circonda i cristiani. Da questo momento in poi, per decenni i documenti papali useranno una serie di termini intercambiabili: evangelizatio», «propagatio Christianae Fidai», «Fides propaganda». In momenti particolarmente significativi, come l'erezione della diocesi di Messico (1530) si sottolinea che ciò viene fatto «ut ...orthodoxae fidai cultus augeatur et christiana religio propagetur» in popolazioni che solo da poco hanno cominciato a conoscere la verità 14. Locuzioni di questo genere fanno riferimento a un campo di attività delimitato da un lato dalla «praedicatio» e dall'altro dalla «conversio», l'una causa e l'altra effetto. Spesso fa capolino anche il termine e il concetto di «conquista», realtà comunque sottintesa che sorregge le altre due e ne è giustificata. Come si ricordava in un’istruzione di Pio IV al nunzio in Spagna, la «conversione dell'infedeli» era «stato il fine per lo quale fu a i Re Cattolici d'Ispagna concessa la conquista di quei paesi; et però -continuava il documento papale - si ha da provedere di predicatori et sacerdoti, che sappiano predicar 1'evangelio et instruirli nella fede santa, et che siano persone zelose della salute dell'anime, et che con la buona vita oltre la dottrina diano chiaro testimonio della nostra Christiana religione» 15. Compito dei re di Spagna era di curare «ut sacrum Evangelium in eis provinciis praedicaretur ac fides catholica propagaretur», come ribadì Pio V scrivendo a Filippo II nel 1568 16. Documenti come questi portano alla radice del problema, che non è solo quello terminologico, delle origini della idea di missione: la «missio» è l'invio del predicatore destinato a portare il messaggio evangelico. Ma, nella situazione dei rapporti tra il papato e i sovrani iberici, sono le autorità politiche a occuparsi dell’evangelizzazione, perché questa costituisce la giustificazione e la garanzia giuridica della conquista. Non tutti accettarono in silenzio questo ordine delle cose. Le scoperte americane dettero vita a un impulso evangelizzatore ed espansivo del cristianesimo che rese di nuovo attuali modelli antichi; grazie a quelle scoperte, 1'«omnes gentes» del testo scritturale ritrovava una pertinenza che sembrava appannata dalla lunga fase tardo-medievale di assedio mussulmano del mondo cristiano. Certo, durava ancora nella liturgia il ricordo della vasta impresa missionaria promossa da Gregorio Magno 17. Ma questo rendeva ancor più evidente la differenza di comportamento del papato contemporaneo. Documento di un tentativo di modificare lo stato delle cose e di rendere il papato consapevole dei nuovi problemi che si aprivano è un testo tanto celebre negli studi recenti quanto condannato allora al silenzio e all'irrilevanza: il «Libellus» indirizzato a Leone X dai due nobili veneziani Vincenzo 3 Quirini e Tommaso Giustiniani, divenuti monaci camaldolesi coi nomi di Pietro e Paolo 18. La crisi politica veneziana del primo '500 e la crisi religiosa dei due patrizi trovavano un punto d'incontro nella denuncia della politica italiana del papato e nel tentativo di richiamare il papa ai suoi doveri di capo religioso di una chiesa dagli orizzonti mondiali. Nell'ambito delle speranze di riforma della Chiesa suscitate dal concilio lateranense V e dall'elezione del giovane Leone X, i due camaldolesi tracciarono in quel documento un progetto assai ambizioso e dal vastissimo respiro: ebrei, maomettani, idolatri e infedeli dovevano essere investiti da una forte espansione della predicazione del cristianesimo. Non si trattava solo dell’Europa e tanto meno dell'Italia, ma del mondo intero, che doveva riconoscere nel papa romano il capo della vera religione. Gli echi delle scoperte geografiche e dell'allargamento del mondo conosciuto risuonavano attraverso (esperienza indiretta che ne aveva avuto Vincenzo Quirini nella sua carriera diplomatica prima di diventare monaco. Ciò che rimaneva vivo nel suo ricordo era la notizia della disponibilità delle popolazioni americane a convertirsi al cristianesimo: non c'era altra difficoltà che quella di disporre di predicatori che ne conoscessero le lingue 19. Se si trovava i1 modo di superare questa difficoltà - e a tale riguardo Quírini e Giustiniani facevano precise proposte, che dovevano trovare parziale attuazione solo nel secolo successivo - non sarebbero certo mancati volontari entusiasti per l'opera di evangelizzazione. I due autori del «Libellus» ricavavano questa convinzione dall'ardente desiderio che essi stessi provavano di essere mandati a predicare il Vangelo a quelle popolazioni. Ma era qui che si affacciava la questione fondamentale: tante energie restavano inutilizzate se chi ne aveva il potere non dava loro la «missio». «Quomodo praedicabunt nisi mittantur?» 11 passo dell'epistola paolina ai Romani (10, 14) concludeva anche qui un'identica incalzante serie di domande: come potevano quei popoli accettare il cristianesimo se non veniva loro predicato? e come potevano i predicatori svolgere il loro compito se chi ne aveva il potere non li inviava? È qui che si pone in maniera chiarissima la questione della “missione” è un problema di poteri. Assente il papato, dilagano invece i privilegi degli ordini religiosi - e al Concilio Lateranense V la questione dovette almeno essere dibattuta - e, nel mondo extraeuropeo, tutto è affidato alla discrezione dei sovrani iberici. Non mancarono altre voci in Italia a sollevare la questione in termini analoghi a quelli dei due camaldolesi. L'elezione di un papa mite giovanissimo (38 anni) sembrava l'occasione opportuna per voltare pagina rispetto ai truci anni di Alessandro VI e Giulio II: c'era bisogno di una lunga vita per correggere le cose del mondo, osservò Aldo Manuzio nel settembre 1513; e il Manuzio intendeva riferirsi proprio all'intero mondo, «ubique terrarum». Erano state scoperte tante cose sconosciute agli antichi, «tantum terrarum, tantum maris, tot varios populos»: occorreva che il papa mandasse a loro i suoi «apostoli» e in breve tempo, vista la docilità di quelle popolazioni delle Indie orientali e occidentali, si sarebbe fatto un solo ovile e un solo pastore 20. La questione della «missio» nasce dunque come questione dei poteri di invio di predicatori evangelici - gli Apostoli, destinati a imitare e completare l'opera dei primi apostoli in un mondo che, come si veniva scoprendo, non aveva sentito l'annunzio del Vangelo - in un contesto dominato dall'idea di una facile espansione del cristianesimo nel mondo. L'ardore con cui si attendeva un possibile invio (una «missio») è attestato dalle più varie parti: non solo Querini e Giustiniani erano pronti a partire per le Indie; voci analoghe arrivavano da vari ambienti e dovevano essere confermate in seguito dal reclutamento di candidati alle missioni fatto dalla Compagnia di Gesù (gli «Indipetae»). Ma, perdurando l'assorbimento del papato nelle questioni politiche italiane, non è un caso che le testimonianze più significative del modo di avvertire e di vivere i problemi missionari venissero ancora dagli Ordini religiosi tradizionali e trovassero adeguato ascolto solo nel mondo iberico. E fu dall'ordine francescano che vennero i segni più notevoli, di disponibilità ad accogliere la «missio» e di ardore profetico nella pratica della predicazione. 4 Secondo un predicatore dell'Osservanza francescana, i suoi confratelli erano «infiammati» dall'ardore di estendere il campo della religione cristiana 21; e che non fossero soltanto parole se ne ebbe ben presto la prova. È inevitabile citare, a questo proposito, il primo documento degli anni successivi alla scoperta dell'America che si qualifichi col termine di «missio»: la lettera con la quale, nel 1523, il generale dell'ordine francescano, fra Francisco de los Angeles de Quifones, ordinò a dodici frati di andare nel continente americano per portare il Vangelo ai sudditi dell'impero azteco conquistato da Cortés. Documento già allora circondato da grande attenzione e più tardi posto al centro della storiografia dell'ordine elaborata sotto l'impulso dell'opera missionaria, esso non fu certo un atto amministrativo banale. L'autore, i destinatari, il contesto e infine il contenuto stesso del documento introducono in un ambiente assai particolare: fra Francisco de los Angeles, intanto, fu un esponente della tradizione francescana spirituale, portato a leggere gli avvenimenti del suo tempo in chiave di «segni» del realizzarsi di profezie. Dalle sue mani passarono i testi profetici che tentarono di garantirsi un ascolto negli anni del grande conflitto tra Carlo V e Francesco I e della Riforma: quelli di Pietro Galatino, come pure la celebre Apochalypsis nova attribuita a Amadeo Menes da Silva e rielaborata da Giorgio Benigno Salviati 22. Erano testi caratterizzati da schemi gioachimitici, nel senso che vi si annunziava un prossimo avvento dell'età dello Spirito, del millennio felice, con l'unificazione del mondo sotto un solo pastore e il governo della chiesa affidato a un papa angelico. Ora, il testo della «missio» del 1523 è tessuto di questo genere di attese: i destinatari sono operai dell'undecima ora, il mondo è sul finire, ad essi è rivolto l'invito a farsi operai nella vigna del Signore per chiamare gli ultimi invitati al regno dei cieli; sono dodici, come dodici erano stati gli apostoli, perché debbono completare l'opera apostolica. Dunque, la loro opera è quella di strumenti della Provvidenza divina per far sì che il mondo sia finalmente l'ovile unito sotto il buon pastore «unum ovile et unus pastor». La pienezza dei tempi e la unificazione degli spazi sono il punto d'arrivo profetizzato, desiderato e atteso all'interno di una concezione della storia come storia provvidenziale che, per avere senso, deve rispettare quelle attese, preannunziarle e realizzarle. Il potere ecclesiastico che manda, che dà la «missio», è la diretta continuazione del potere di Cristo di costituirsi degli apostoli, mandarli e compiere attraverso di loro il miracolo del trionfo della Chiesa cristiana. I destinatari della «missio» del Quifones possono essere considerati dunque i primi missionari del Nuovo Mondo: e il «Nuovo Mondo» è però per loro più vicino al «nuovo cielo e nuova terra» dell'Apocalisse citata da Colombo che al «Mondo nuovo» annunciato nella celebre lettera di Amerigo Vespucci. Il gruppo dei dodici, per quel che sappiamo dei suoi singoli membri e del luogo di origine conventuale, affronta il suo compito partendo da convinzioni spirituali radicate nella tradizione francescana. Intorno ad esso, nasce immediatamente una tradizione storiografica che li presenta esattamente per ciò che si dice della loro «missio» nella lettera del Quifones: strumenti della Provvidenza per riunire sotto un solo pastore un mondo che attende solo questo per marciare a passi spediti verso il compimento della sua storia. La storia è nota ed è stata largamente studiata, da Robert Ricard a Marcel Bataillon a Georges Baudot 23. La si deve qui ricordare per alcuni elementi molto importanti per definire questa prima interpretazione e pratica della missione nell'età delle scoperte. Va detto, intanto, che se il documento è formalmente una «missio», l'attività di predicazione di cui vi si parla continua a essere indicata con termini tradizionali. Si usa l'espressione francescana dell'«ire ad infideles» unita a quella ancor più antica di «pellegrinaggio» («Siguiendo las pisadas de nuestro glorioso padre Sant Francisco, el qual enbiava frailes a las partes de nos ynfieles, acordé enbiaros, padre, vos a aquellas partes... Este trabajoso peregrinaje..» 24). E nel pellegrinaggio, lo strumento del pellegrino è quello dell'esempio personale: «la vida y la conversación» debbono 5 essere evangeliche. E queste sono «tanta parte para ayudar a la conversión como las palabras y predicaciones». Il potere di «mittere» appartiene ai superiori; coloro che vanno, non hanno altra nota distintiva che quella dell'«ire ad infideles». Si tenga presente questo, che è un dato comune all'epoca; anche alle origini della Compagnia di Gesù troviamo la vocazione del «pellegrino» Ignazio. Intanto, bisogna sottolineare i caratteri di questo momento che noi possiamo definire «a posteriori» missionario. Fondamentale appare il principio che 1'«ire ad infideles» fa parte di una «peregrinatier» o percorso di affinamento spirituale soggettivo sulle orme di san Francesco e di Cristo. Per questo, non è tanto importante il risultato esterno - il profitto delle anime altrui, la quantità delle conversioni procurate -quanto, piuttosto, la propria fedeltà al modello evangelico. Anzi, si fa espresso invito affinché, «por el provecho de nos otros n'os descuidés del vuestro». Si tenga ben presente questo punto. È un tema tradizionale: peregrinare, seguire Cristo, rispondere a un bisogno e a una chiamata personale. L'immagine dei «peregrinantes», magari «cum signo crucis», che con la bella stagione si affollavano ai porti e lungo le vie dell'Oriente era entrata nelle abitudini tanto che Pio II aveva parlato di «passagium», cioè di migrazione stagionale degli uccelli di passo u. Certo, i «peregrini» potevano essere anche dei guerrieri: i cavalieri teutonici erano stati definiti da Innocenzo III dei «peregrinantes contro paganos cum signo Crucis». Si distingueva tra «crux cismarina» per indicare la crociata contro gli Albigesi e «crux transmarina» per indicare quella contro i musulmani: ma se la croce era un segno di guerra, si tendeva a distinguere la pacifica «peregrinatio» dalla guerra. I nuovi orientamenti della vita religiosa che si fecero strada tra'400 e'500, insistendo sull’interiorità dell'esperienza e della meditazione e sulla pratica delle virtù evangeliche, avevano fatto declinare il fascino del pellegrinaggio, almeno ai livelli superiori della società cristiana. Ma era rimasta viva l'attrazione del modello francescano del predicatore che dava vivo esempio della pratica del vangelo: il successo dei «romiti» nell'Italia dei torbidi anni di guerra tra'400 e'500 sta a dimostrarlo. Questo pacifico pellegrinaggio era quel che attirava Quifiones. Già nel 1521 egli si era fatto concedere una serie di facoltà per i frati che intendevano recarsi nelle parti degli «infedeli». II documento papale firmato da Leone X faceva riferimento a una preoccupazione che è facile immaginare suggerita dalla supplica del Quifiones: nel mondo non ci sono più gli Apostoli, ma c'è bisogno di un'opera apostolica; da qui la necessità di scegliere membri dell'ordine francescano per la «propagatio (idei», visto che quell'ordine si ispirava all'esempio di Cristo e degli apostoli 27. Quel progetto di riprendere l'eredità apostolica era stato vissuto dal Quiftones in maniera personale e diretta: egli stesso voleva recarsi in America. La cosa non si era realizzata, ma gliene era rimasto il desiderio; ne resta traccia,all'inizio della «missio» del 1523, in una citazione dai Salmi: «Zelus domus tuae comedit me». Ma, nell’inquietudine spirituale della «peregrinatio», si affacciano altri elementi che renderanno sempre più forte l'attesa e il desiderio di successi quantitativi, di grandi e diffuse conversioni di massa Fondamentale fra tutti questi elementi è l'attesa del compimento dei tempi connessa all'esperienza del compimento degli spazi: e il compimento dei tempi, nella Spagna dell'Osservanza francescana, prende l'aspetto del millenarismo gioachimita.║La «missione» moderna nasce dunque sotto il segno del ritorno dell'antico; è la continuazione e il compimento dell'opera degli apostoli: opera che si credeva conclusa («in omnem terram exivit sonus eorum») e che invece improvvisamente appariva solo avviata e da completare. I predicatori del Vangelo sono dunque «figure» degli Apostoli: la loro opera rinverdisce e completa la predicazione apostolica e fa da battistrada al ritorno estremo di Cristo. 6 Sappiamo che queste idee erano familiari a molti e sappiamo anche che Colombo, attento a quel che circolava nella cultura della corte dei Re cattolici, ne aveva fatto tesoro nel suo «libro de las profecfas». Ma ci volevano i segni di crisi drammatica della società europea negli anni della Riforma e la grandiosa realtà dell'impero di Carlo V perché, da rivoli marginali, occupassero il punto centrale dello scenario (il Quifiones, generale dell'ordine francescano, poi cardinale, era allora confessore e uomo di fiducia di Carlo V; e fu riformatore del Breviario nel senso di restaurare testi evangelici alleggerendo sostanzialmente il carico di agiografia e di «meraviglioso» medievale). L'unificazione del mondo sotto un solo pastore era un ideale politico-religioso che aveva nell'impero mondiale di Carlo V il suo referente obbligato. È a partire da questo momento che perde forza l'interpretazione filofrancese dell'Apochatypsis nova, cara agli ambienti che circondavano il cardinal Briconnet. Ma più ancora che per Quifiones, lo schema gioachimitico vale per il destinatario della sua «missio» del 1523, per fra Martin de Valencia. La notizia biografica di fra Martin che si pub ricostruire sulla base della biografia di fra Francisco Jiménez e di quel che racconta fra Toribio de Benavente detto Motolinia nella sua Historia de los Indios, lo mostra ansiosamente preoccupato della profezia della conversione degli infedeli; ci dice anche che egli era convinto di vivere nell'ultima età del mondo; in più, risulta che andò a consigliarsi, «sobre el cumplimiento de su deseo que era de ir entre infieles» con la «beata del Barco de Avila», una di quelle beate che popolano la vita religiosa spagnola tra '500 e'600, sospettata dall'Inquisizione per aver diffuso profezie apocalittiche negli anni post-savoneroliani 28. La storia di queste attese legate più o meno al filone gioachimitico é nota. Spettò soprattutto all'ordine francescano farsi promotore di questa interpretazione storiografica e mostrarsene il realizzatore provvidenziale; ma il fascino della costruzione era troppo radicato nella cultura europea perché non si affacciassero anche molti altri candidati. Così, accanto agli storici francescani Bernardino de Sahagún, Girolamo di Mendieta, Juan de Torquemada, fino a Francesco Gonzaga e a Lukas Wadding - troviamo un continuo riaffacciarsi nel corso del secolo di tentazioni millenaristiche e apocalittiche nella lettura del significato della scoperta dell'America, pronte a applicarsi anche a altri ordini missionari. Così, per il fiammingo Lummen (Lumnius) che scrive sotto l'emozione della grande rivolta dei Paesi Bassi, sono i gesuiti a configurarsi come gli angeli inviati («missi») da Dio verso le isole sconosciute della profezia di Isaia per preparare il millennio felice e il giudizio finale 29. Del resto, di quella prima ispirazione profetica e di quel forte impulso interiore in uomini che si sentivano chiamati a compiere un grande disegno divino rimasero tracce in tutto il secolo, nei più vari ambienti, e qualcosa si depositò stabilmente nella stessa idea di missione. Come si ammetteva comunemente, accanto alla «missio» come atto del potere ecclesiastico ordinario, c'era l'invio come atto diretto di Dio, inteso per ispirazione interna 30. Di quella prima fase restò anche traccia nella durevole coloritura evangelica del vocabolario relativo all'attività missionaria: fin da allora, il linguaggio della comunicazione ordinaria tra chi svolgeva compiti di quel tipo trabocca di immagini tratte dalle parabole evangeliche e dagli Atti degli Apostoli. Così, il gesuita Cristoforo Landini, scrivendo dalla Corsica a Ignazio di Loyola nel 1553, invocava «che si mandono buoni pastori, et santi operarij»; e col termine «operarii» alludeva nelle sue lettere sia al lavoro nella «vigna del Signore» che egli stesso stava svolgendo sia a quello, ai suoi occhi ben più importante, che i suoi confratelli svolgevano fuori d'Europa 31. Erano immagini e aspirazioni fortemente radicate, alle quali lo spettacolo della crisi delle istituzioni ecclesiastiche tradizionali portava nuovo impulso. Si era tentati di inserire la scoperta e la cristianizzazione delle popolazioni americane in un disegno provvidenziale di soluzione dei conflitti per intervento divino, con l'affidamento a un agente 7 politico-religioso del compito di rappresentare il disegno divino: la monarchia spagnola fu, nella celebre interpretazione di Tommaso Campanella, l'ultimo e il più consistente soggetto capace di incannare quel disegno di abolizione delle divisioni, di costruzione di un solo ovile sotto un solo pastore. Questo intreccio fra rappresentazioni mentali e referenti politici è evidente anche quando si abbandonano del tutto gli ancoraggi europei e si compie l'ultimo passo sulla via dell'interpretazione della scoperta dell'America come segno di un progetto della Provvidenza: è questo il caso della congiura scoperta nel Perù coloniale alla fine del '500 che aveva l'obiettivo di realizzare in terra americana la nuova chiesa, senza le macchie dell'antica, capace di governare il mondo durante il millennio felice. Il processo che l'Inquisizione fece contro l'animatore del gruppo peruviano Francisco de la Cruz mise in luce le radici che quelle attese e quelle idee avevano messo nella società «criolla» e nei nuovi ordini religiosi protagonisti dell'attività missionaria, i gesuiti in particolare. Per reagire a pericoli come questi, fu proprio un gesuita a sottoporre a analisi le attese apocalittiche e il modello di storia su cui poggiavano - l'idea di una storia il cui senso e i cui passaggi fondamentali venivano messia disposizione degli uomini per mezzo di segni speciali (e uno di questi segni era appunto la scoperta dell'America e la facilità e rapidità della conversione al cristianesimo dei suoi abitanti). José de Acosta - questo il nane del gesuita - propose invece un atteggiamento che era quello di rifiutare ogni sapienza profetica e ogni disegno «chiuso» della storia e, conseguentemente, ogni fretta nel processo di diffusione del cristianesimo. Non più una storia a termine né, soprattutto, una storia capace di prevedere e controllare il futuro, ma solo una storia «natural y moral», una descrizione dei dati della realtà fisica e del patrimonio di memorie, per conoscere meglio il mondo nel quale si trattava di operare indefinitamente. La svolta en importante e non restò isolata. Lo scritto di José de Acosta ha un poste significativo nelle pezze d'appoggio con le quali il cardinale Scaglia propose nella sua «Prattica» di non cercare cause divine o demoniache ai fenomeni religiosi delle possessioni, delle visioni e rivelazioni, dei malefizi stregoneschi 32. La scelta di muoversi sul terreno tutto umana degli inganni e autoinganni coinvolse allora scelte decisive: quelle della conquista missionaria e della polizia interna al mondo cristiano contro la presenza del demonio - la missione e l'inquisizione. A togliere a questa storia l'aspetto di una vicenda tutta svolta nell'empireo delle idee, si dovrà ricordare che quelle attese apocalittiche e mflenaristiche, anche se non furono sempre esplicite o almeno non esplicitamente documentabili, poggiarono su concrete basi storiche e soprattutto contribuirono a conferire al concetto di «missione» e dà «missionario» dei tratti dei tutto moderni. Le basi storiche furono quelle offerte dalla conoscenza di un nuovo tipo di umanità: non solo i «selvaggi» allo «stato di natura» delle isole e delle coste, ma i grandi imperi precolombiani del centro America fecero conoscere agli europei una situazione del tutto insolita: quella di un incontro con popolazioni che non davano prova di conoscenza del cristianesimo e che sembravano pronte ad accogliere con grande facilità la nuova religione. Era un fatto sconvolgente rispetto alla tradizione medievale di una lunga e logorante guerra di posizione coi musulmani e di un confronto mai risolta con gli ebrei (per non parlare degli eretici interni). Invece, una serie di immagini e di concetti nuovi - la «bontà naturale», ad esempio, con la connessa idea di una bontà della natura - fecero rapidamente contorno, nelle relazioni di viaggio, al punto centrale, che potremmo sintetizzare con le parole di Giuliano Dati: «ma quel che so che molto più apprezzate - son quest'anime a Cristo apparecchiate». Il Dato, che contribuì alla circolazione della prima lettera di Colombo, fu anche membro della Confraternita del Divino Amore 33 e, senza fare niente di particolarmente notevole, appartenne comunque a quegli ambienti che sognavano una riforma morale e disciplinare della vita cristiana e dei costumi del clero. Disponibilità delle popolazioni americane ad accogliere il cristianesimo, 8 necessità di un nuovo fervore di vita cristiana e di una riforma della Chiesa, nel suo capo e nei suoi membri, sono anche i concetti che circolano, ad esempio, nella dedica di Aldo Manuzio a Leone X della sua celebre edizione delle opere di Platone. L'America, dunque, era un buon pretesto o specchio del bisogno di cambiamento e di rinnovamento che si avvertiva in ambienti europei relativamente alla religione. Ma soprattutto era l'inedita possibilità di una grande espansione del cristianesimo in tutto il mondo a far brillare la speranza, del tutto insolita, della unificazione religiosa del mondo. Questa speranza conferì, come si diceva, alcuni tratti nuovi ai predicatori del cristianesimo che affiancarono la conquista: la fretta, l'ansia di completare quanto prima l'opera di predicazione, la coscienza di costituire la parte valida di tutta l'impresa della conquista. Nasce così il predicatore apostolico dominato dall'ansia di compiere i tempi e unificare gli spazi: è un uomo che percorre grandi estensioni di terra, inventa strumenti nuovi e soprattutto è convinto di operare come strumento provvidenziale nell'opera che più di ogni altra sta al centro dei piani della Provvidenza divina. Modello di questa epoca è fra Martin de Valencia, opposto a Martin Lutero in tutta questa tradizione di lettura provvidenziale del percorso storico: la conquista religiosa del resto del mondo era il compenso celeste alla perdita della Germania. Non a caso, dunque, era stato mandato un fra Martino a punire i peccatori e un altro fra Martino a apparecchiare il riscatto. Ora, fra Martin veniva dalla Spagna della cacciata degli Ebrei: era lui che come racconta il suo biografo - aveva meditato a lungo il versetto dei Salmi «convertentur ad vesperam et famem patientur ut canes» - un versetto che si intendeva normalmente come riferito agli ebrei, destinati a convertirsi alla fine del mondo - e lo aveva adattato agli indios americani, pronti a convertirsi sul crepuscolo della storia del mondo e privi di chi spezzasse per loro il pane della buona novella. Il contesto a cui siamo rimandati dal maturare della coscienza missionaria di fra Martin è dunque quello del problema ebraico; in terra iberica, negli anni che videro le origini dell'Inquisizione spagnola e la cacciata degli ebrei. Il missionario ha da essere armato o disarmato? Deve usare 1a persuasione o la forza? La fretta imposta dalla necessità di accordar l'impresa della conversione coi tempi fissati da Dio per la fine della storia rese indifferenti i missionari della prima ondata alla questione dei mezzi e dei modi: si può citare, come emblematica a questo propositi. la posizione assunta da un francescano influente davanti al dibattito tra Las Casas e Sepúlveda: «mas vale bueno por fuerza que malo por grado». Questa coscienza dell'importanza della forza apparteneva al -l'esperienza storica del mondo iberico. La tormentata vicenda della na scita dell'Inquisizione spagnola fa da sfondo al modello missionari (espresso da figure come Martin de Valencia o Toribio KMotolinia». Negli stati iberici la questione dell'uso della forza era stata affrontar.. a proposito della posizione degli ebrei convertiti: era per accertane l'eventuale e sospettato crimine dell'apostasia che si era messa in piecl una istituzione nuova, capace di usare un procedimento già noto, ma ai servizio di uno stato unitario, minato dal sospetto sull'autenticità de; cristianesimo dei suoi membri. Questa era stata appunto 1'Inquisizionc spagnola, giunta a maturazione attraverso una storia lunga e complicata proprio nelle immediate adiacenze del viaggio di Colombo. Il missionario d'America, nella sua forma iniziale quale è possibile vedere nel gruppo dei «dodici», nasce dunque da un'esperienza di uso della forza in materia di fede - questo vuol dire che esiste un legame storico tra inquisizione e missione. E si tenga presente che si tratta qui dell'Inquisizione spagnola, cioè di un tipo di inquisizione del tutto nuova rispetto ai modelli medievali. 9 La disponibilità ad accettare senza sforzo il cristianesimo, manifestata dagli indios» americani, aveva fatto balenare due possibilità, che non si escludevano ma potevano integrarsi: che il cristianesimo, a lungo bloccato in Europa, potesse espandersi al di fuori di essa con miracolosa facilità; che la comparsiA delle popolazioni americane fosse nient'altro che l'annuncio della pienezza delle genti e della pienezza dei tempi. E non sarà inutile ricordare che dall'integrazione di queste due possibilità nacque l'idea dell'origine delle popolazioni americane dalle dieci tribù ebraiche scomparse, che riapparivano ora per convertirsi alla fine dei tempi. Queste ipotesi e queste fantasie nascevano comunque da un fatto indiscutibile: 1'espansione del cristianesimo in America attraverso l'opera dei missionari procedeva con una rapidità e con una facilità straordinaria e lo faceva con tecniche evangeliche: annuncio e battesimo, senza posa. Sembra possibile rilevare che - quale che fosse la posizione personale di Cristoforo Colombo - la carica di intolleranza e la volontà di procedere all'omologazione religiosa dei non cristiani erano maturate nel contesto iberico ben prima della scoperta dell'America. Solo che l'uso della forza e il ricorso alla coercizione in materia di fede sembrarono, per un certo tempo, fuori luogo nell'esperienza americana. La letteratura missionaria prodotta in questa prima parte del '500 - una letteratura prevalentemente ma non esclusivamente francescana - sottolineò la facilità della predicazione e il successo incontrato dai predicatori, come tratti che rinviavano appunto all'opera della Provvidenza e chiedevano di essere spiegati come segni della realizzazione di un disegno profetico. La disponibilità delle popolazioni indigene a ricevere la nuova religione, la loro mitezza, l'assoluta mancanza di resistenze sono i luoghi comuni delle relazioni dei religiosi europei, a prescindere dall'appartenenza a questo o a quell'Ordine; nella tradizione domenicana, com'è noto, queste osservazioni assunsero l'aspetto di argomenti a favore del riconoscimento della piena natura umana delle nuove popolazioni. Ma anche in questo caso non mancarono sottolineature apocalittiche e messianiche: la celebre lettera di fra Julian Garcés, con la cui pubblicazione nel 1537 l'Ordine domenicano fece sentire la sua voce autorevole nella questione della schiavitù degli indios, citava la profezia di Elia e alludeva alla prossima fine dei tempi - Kplenitudo gentium» e Kplenitudo temporum» 34. Fu proprio allora, in perfetta coincidenza con questi nobili accenti, che esplose la crisi che doveva rendere di nuovo attuale l'uso della forza. I suoi tratti ricordano una crisi già avvenuta nella Spagna dei Re cattolici: la molla iniziale scattò con la rivelazione della sopravvivenza, segreta degli antichi culti, nel processo indetto contro il cacique di Texcoco, don Carlos (1539). L'apparire dell'Inquisizione a Città del Messico ha il volto di un francescano molto vicino ai missionari del gruppe apostolico del Quifones, Juan de Zumarraga; e porta alla scoperta dello stesso problema che aveva dato occasione alla nascita dell'Inquisizione spagnola: la finta conversione, l'inaffidabilità dei «conversos». Allora, confessioni come quella dei conversos Benito García e Yucé Franco, a Segovia nel 1490, avevano dato corpo alle fantasie antiebraiche dell'infanticidio rituale: e da qui era nato il culto del «Santo Nido de La Guardia» (che sarebbe stato assassinato il venerdì santo del 1480). Era stato un processo eccezionale - per la prima volta, l'Inquisizione aveva processato degli ebrei non battezzati - e si era concluso con molte condanne al rogo (eseguite il 16 nov. 1491) per sboccare in seguito nel celebre editto di espulsione dei non convertiti 33. Altrettanto grave di conseguenze fu il processo contro don Carlos: nella «giunta» ecclesiastica che si riunì a Città del Messico nel 1539 si scatenò la polemica contro i metodi missionari e i primi evangelizzatori furono accusati di non essere stati sufficientemente astuti, essendosi contentati di praticare battesimi di massa senza adeguata preparazione. La questione che si aprì allora occupò largamente tutta la discussione successiva sull'opera del missionario: accanto al problema dell'uso della forza e a quello della legittimità della pratica schiavistica, che sono gli aspetti più noti, ci fu invece un lungo dibattere sul modo di rendere efficace la predicazione missionaria in una situazione 10 in cui il dubbio sull'autenticità delle conversioni riapriva fuori di Spagna la stessa drammatica spaccatura che si era avuta in Spagna tra «vecchi» e «nuovi cristiani». È in questo contesto che si accende la polemica sull'uso della forza e la discussione interminabile sul tema del «compelle intrare». Alla nettezza della posizione di Bartolomé de Las Casas e alla sua dubbia vittoria nella disputa di Valladolid fa riscontro il fioccare di difese delle più varie forme di violenza, dalla guerra alla «sollecitazione della conversione» 36. Le questioni religiose europee degli stessi anni, del resto, dovevano rafforzare la convinzione che il ricorso alla forza fosse una condizione necessaria anche se non sufficiente per la conservazione e l'ampliamento della fede ortodossa. Un polemista cattolico dell'inizio del '600, riprendendo in esame la questione del «Compelle intrare» e 1'esegesi agostiniana del passo, doveva costatare che anche le nuove chiese luterane e calviniste non rifuggivano dall'uso della forza e del timore per mantenere ed estendere il loro dominio 37. Il modello del missionario-battezzatore, per così dire, entra in crisi: è un modello che implica necessariamente il personaggio dell'inquisitore accanto a quello del missionario. Uno predica e battezza, l'altro accerta l'autenticità della conversione sottoponendo a processo il battezzato sospetto di apostasia. La cultura della prima ondata missionaria francescana non offre altro. Anche l'opera di un personaggio straordinario come Bernardino de Sahagún, che svolse la sua celebre inchiesta etnografica raccogliendo ogni genere di informazione sui culti precristiani, può essere vista in un quadro del genere: occorreva conoscere esattamente i culti diabolici del mondo pagano affiorante sotto la superficiale crosta di cristianesimo per meglio combatterli. Dunque, la conoscenza è raccolta in funzione di un più adeguato smascheramento delle apostasie nascoste. L'associazione di questi due aspetti - missione e inquisizione - ha dunque qualcosa di necessario nella prima esperienza dei francescani spagnoli: è una necessità che rinvia all'esperienza tutta spagnola del '400. Al missionario spetta il compito di far entrare nella chiesa cristiana chi ne è fuori; all'inquisitore garantire con la forza che quell'appartenenza non sia finta. Tanto è necessaria l'associazione che la troviamo riproposta su di un piano generale nella lettera enciclica con cui fu annunciata nel 1622 la nascita della Congregazione «de propaganda fide». In antitesi a questo modello, che possiamo definire per comodità di tipo «millenaristico» - necessità di produrre in breve tempo una unità perfetta del gregge umano, usando la forza per impedire fratture al suo interno - si pone un modello che viene elaborandosi nel corso del '500 e che si identifica con certi aspetti dell'opera della Compagnia di Gesù. Esso comporta i seguenti aspetti: a. b. c. d. e. passaggio dalla «peregrinatio» come pura estrinsecazione di una inquietudine religiosa personale, o - per usare i termini delle fonti dell'epoca - come un «ire ad infideles» per portare la testimonianza della vita evangelica come unica predicazione, alla missione come pratica di trasformazione effettiva e efficace di intere società. Questo comporta la rinunzia all'attesa millenaristica e alla implicita convinzione di poter decifrare i segni del futuro; preparazione a un impegno dai tempi indefinitamente lunghi; passaggio dalla «missione» come invio di predicatori itineranti, che attraversano apostolicarnente grandi spazi, alla anissione» come residenza stabile; avvio di un rapporto di scambio con l'umanità «altra»; distinzione tra «infidelitas» e barbarie, tra diffusione del cristianesimo e trasmissione di valori politici e culturali europei. 11 Il punto decisivo è quest'ultimo, nel senso che gli altri ne dipendono. Il passaggio dall’astratta «evangelizatio» o «propagatio fidei» alla missione in senso moderno si ha quando si stabilisce il principio che la fede europea si può innestare solo su di una società costruita con moduli europei. Ora, la resistenza maggiore veniva proprio da quei caratteri delle popolazioni americane che erano stati descritti dai primi viaggiatori col «topos» umanistico della «età dell'oro». Le popolazioni nomadi, senza caratteri politici e sociali di stabilità e di organizzazione del potere, erano una realtà inafferrabile, sfuggente. Bisognava, come prima cosa, conferir loro alcuni tratti della società europea e solo in un secondo momento si sarebbe potuto predicare il Vangelo. Ma questo richiedeva una presenza stabile di un nucleo di religiosi che si doveva incaricare di dare forma di società cittadina a una cultura primitiva. Dunque, dalla «missio» come termine che significava movimento si passerà alla missione come denominazione di residenze stabili. E qui i protagonisti sono i gesuiti. Si è già detto della critica di Acosta alle attese millenaristiche e apocalittiche; essa giungeva al termine di un mezzo secolo durante il quale la Compagnia di Gesù si era affermata come un Ordine di nuovo tipo, caratterizzato in maniera particolare dall'attività missionaria. Quella dei Gesuiti era una posizione peculiare, tale da presentarsi come distinta se non opposta rispetto al modello che associava inquisizione a missione come due vie complementari. È ben noto, del resto, che la Congregazione de Propaganda fide, nel cui atto di nascita si poneva la distinzione e il collegamento tra inquisizione e missione, non ebbe certo rapporti facili e scorrevoli con la Compagnia di Gesù. Negli anni in cui Acosta scriveva, erano state elaborate regole specifiche per le missioni della Compagnia, raccogliendo e organizzando in forma sistematica le norme via via elaborate; inoltre, a quella data la fenomenologia missionaria che la Compagnia poteva esibire era particolarmente ricca: si andava dagli «indipetae», i moltissimi che chiedevano di andare nelle Indie tra i quali venivano selezionati i missionari per i territori extraeuropei, a coloro che venivano utilizzati nelle campagne e sulle montagne italiane per predicare il catechismo (passando attraverso i vari tipi di inviati nelle aree europee non soggette a Roma, dall'Inghilterra di Elisabetta I alla Russia ortodossa di Ivan il Terribile). Diversi tipi di «missioni» e diverse forme di intervento; se nelle colonie africane portoghesi ci si limitava all'intervento tradizionale della catechesi e del battesimo sfruttando le condizioni di privilegio create dal potere portoghese, nell'Estremo Oriente si erano avviate ardite pratiche di adattamento alle culture indigene che avevano portato i gesuiti a indossare le vesti dei monaci buddisti «zen» (in Giappone) e dei «mandarini» in Cina. Vale la pena risalire ai caratteri originari della Compagnia per cercar di capire perché proprio da li fossero nati quegli esperimenti. Certo, non dalle origini tutto discende e anche la Compagnia dovette trovare la sua strada attraverso una selezione paziente tra le possibilità che storicamente le si presentarono. Ma qui ci sono alcuni punti fermi: Ignazio - quando da Iíiigo diventa Ignazio - si chiama il «Pellegrino» e fa il voto di andare a Gerusalemme. Andare a Gerusalemme è anche il voto di Montmartre del 1534 fatto da Ignazio e dal nucleo di sei compagni: le testimonianze oscillano a proposito del rapporto tra l'andare a Gerusalemme e l'obbedire al papa (secondo Pedro Fabro, il sacerdote che allora celebrò la messa, le due parti del voto erano da intendersi cronologicamente in serie: «andare a Gerusalemme e una volta tornati mettersi sotto l'obbedienza del Romano Pontefice»; secondo Laínez, la successione era da legarsi all'eventuale impossibilità di fermarsi a Gerusalemme; e Lafnez insiste sul fatto che comunque il voto li obbligava a «aiutare gli altri, fedeli e infedeli»). Del resto, l'andata a Parigi e gli studi universitari furono determinati dal proposito di andare a predicare il vangelo a Gerusalemme e dalla necessità di studiare «sembrandogli -come scrisse Polanco - che per la maggior gloria di Dio e per aiutar il prossimo gli sarebbero serviti gli studi» 38. E quella necessità di studiare gli 12 era apparsa chiara proprio in seguito agli incontri-scontri con l'Inquisizione, che furono numerosi nella carriera di Ignazio com'è noto. Aiutare gli altri è dunque connesso col pellegrinaggio a Gerusalemme e con la possibilità - negata - di restarvi: Gerusalemme è dunque il luogo centrale del mondo, il punto d'incontro di cristiani e non cristiani, non è il punto d'arrivo della crociata e della «reconquista». Le «Costituzioni», le bolle d'approvazione e gli «Esercizi spirituali» aiutano a capire meglio il singolare complesso di elementi che caratterizzano questo progetto nel suo definirsi: gli «esercizi», com'è noto, sono i primi a formarsi, fra tutti questi documenti. Non sarà inutile rilevare che, prima della comparsa di quelli ignaziani, ci fu un Esercizio spirituale a stampa composto da un frate che era anche stato guardiano del convento francescano di Gerusalemme e che presenta non pochi punti di contatto con l'opera ignaziana 39. Ora, anche se è difficile costruire una stratigrafia certa degli «Esercizi» su cui dovevano formarsi i gesuiti, la tradizione accreditata dallo stesso Ignazio pone nella visione di Manresa (sulla riva del Cardoner, agosto-settembre 1522)1'intuizione dello statuto della Compagnia e gli esercizi «del re e delle due bandiere» 40. Sono i temi della seconda settimana degli «esercizi»: il tema del Regno di Cristo, con la visione del mondo canee un globo - visione impressionante, se la si ricolloca nella sua epoca, per la forte spinta espansiva e per la collocazione che il contemplante assume, guardando al globo terracqueo con l'occhio di Dio - e con la meditazione sulle «due bandiere» dei due eserciti contrapposti. A questa visione Ignazio rinviava per spiegare quando aveva pensato alla Compagnia come a qualcosa che non sarebbe stato un ordine monastico: fece riferimento ad essa per alludere al momento in cui aveva escluso «l'abito monastico», «il coro», la scelta delle «pellegrinazioni», per rispondere a precise domande del suo biografo Gongalves da Camara. Sarà da tener presente la singolare coincidenza nelle date con la scelta della «missio» francescana che pochi mesi dopo doveva fare il Quifiones. Non ci sono tracce di una particolare attenzione di Ignazio a quel che accadeva in Messico; e tuttavia, quella visione che i biografi hanno avuto tanto da fare a indagare, se si è veramente depositata nelle pagine degli «Esercizi» relative alla visione del mondo come un globo dove si trattava di combattere e di vincere una battaglia spirituale di conquista, certo ha avuto tra le sue condizioni determinanti anche l'immagine dell'impero spagnolo così come le conquiste di Cortés lo stavano allargando. Molte cose si definirono in quei primi anni (lo stesso nome «gesuiti» - è stato notato - fu probabilmente suggerito a Ignazio dalla «Vita Christi» di Ludolfo il Certosino, dove dice che nella vita celeste i santi saranno chiamati gesuiti). Le «Costituzioni» e le bolle di approvazione insisteranno poi sulla disponibilità dei gesuiti a recarsi dovunque a seconda della volontà del papa per operare il bene delle anime. Qui, nell'incontro tra l'offerta dei gesuiti e la ripresa papale di un'azione a sfondo universale nascono k missioni moderne, come termine e come realtà. Non è un caso che i due significati complementari del termine - «mandato apostolico di predicazione del Vangelo, specialmente tra le popolazioni non cristiane» e «sede, organizzazione di missione in terra non cristiana» - si trovino registrati nella letteratura gesuitica41. Difficile dire quando per la prima volta queste due accezioni siano apparse: uno studio della ingentissima letteratura epistolare di cui Sant'Ignazio fu il promotore all'interno della Compagnia potrebbe fornire una risposta42. Di fatto, c'è una fase di lento accumulo che comincia intorno alla metà del secolo e trova un esito formale molto tardi, in una istruzione ufficiale della Compagnia del 1606 43; ma già intorno al 1580 le fonti registrano un uso normale del termine per indicare dei luoghi dove si esercita il compito di predicare: «I predicatori che hanno la missione loro ne' luoghi della Diocese dove per l'ordinario sono persone imperite di lettere e elle di continuo stanno occupate nelle fatiche e lavorieri, devono avere sopra tutto questo giudicio di accommodarsi alla capacità loro e 13 predicare prencipalmente non per essercitare se stessi ...ma solo per giovare loro», scriveva il Paleotti nel 1578 44. Negli stessi anni le fonti gesuitiche fanno uso del termine per indicare non solo l'incarico di predicare ma anche altri tipi di incarichi che comportano un ordine e un viaggio; e, sempre nelle fonti della Compagnia, «missio» si avvia sempre più a indicare i luoghi concreti, dove i gesuiti si fermavano per la loro attività 45. Dal viaggio alla residenza stabile:dalle «Regulae peregrinantium» elaborate da Polanco e Nadal e pubblicate da Lafnez alle «Instructiones» pubblicate dall'Acquaviva per chi si reca «ad missiones». Ci sono anche mutamenti tra gli obiettivi delle missioni, che furono i più diversi e compresero l'attività antiereticale 46 accanto a quella polideo-diplomatica e a molte altre. Eppure, un momento unificante esiste. Sono attività indicate generalmente sotto la categoria dell'«aiuto» agli altri: e il tipo d'aiuto poteva cambiare a seconda delle situazioni. Col tempo, nei confronti delle popolazioni extraeuropee e delle aree marginali, l'aiuto si doveva fissare nell'attività di alfabetizzazione e di insegnamento del catechismo: il fine di queste missioni - scrive 1'Acquaviva - «est auxilium tot animarum, quae ex ignoratione rerum ad saIutem suam necessariarum, in statu peccati... versantur» 47. Ora questi caratteri poterono affermarsi grazie all'incontro tra una speciale disponibilità ad «aiutare» gli altri da parte della Compagnia e il suo proporsi al papato come strumento docile e obbediente, pronto ad accogliere ogni eventuale «missio». Quanto alla percezione che si ebbe di questa speciale disponibilità missionaria della Compagnia, basta sfogliare i documenti ufficiali. La bolla «Exposcit debitum» di Giulio III (21 luglio 1550) vi si sofferma particolarmente a lungo: il voto speciale è quello «in forza del quale tutto quello che l'attuale o i romani pontefici suoi successori comanderanno come pertinente al profitto delle anime e alla propagazione della fede, lo compiremo, per quanto dipenderà da noi, qualunque sia il paese dove vogliono mandarci, sia tra i turchi o tra qualsiasi altri infedeli, anche se fosse nelle parti che chiamano Indie, oppure tra gli eretici, gli scismatici o i fedeli» 48. Su questa specifica finalità missionaria della Compagnia, è stato scritto moltissimo, né qui si potrà aggiungere niente. Varrà la pena ricordare solo che, accanto al continuo richiamo alfine delle missioni, le fonti gesuitiche sono percorse da un altrettanto costante spirito di diffidenza nei confronti dell'Inquisizione. Un Ordine dalle capacità intellettuali e dalla affidabilità del genere offerto dalla Compagnia poteva evidentemente essere desiderabile come strumento per un esercizio adeguato della sorveglianza poliziesca e più volte si ebbero casi di gesuiti inviati a fianco di spedizioni militari, in supporto inquisitoriale (vedi i casi del p. Rodriguez in Calabria e in Puglia, e del Possevino nelle valli del Piemonte). Inoltre, non c'era nessuna riserva né da parte di Ignazio né da parte dei suoi, a proposito dell'uso di mezzi duri contro gli eretici: in una lettera del 13 agosto 1554 a Pietro Canisio - ma diretta in realtà a Ferdinando d'Austria - Ignazio suggerì di dare «qualche punizione, castigando alcuni con la pena di morte», al fine di estirpare l'eresia. E si deve registrare anche il cinico commento di p. Manareo alla notte di S. Bartolomeo: «Il re nostro - scrisse al p. Nad ai - con questo suo catechismo ha convertito più anime a Christo in questo Regno et confirmato più catholici che tutti li catechisti et predicato, i da vent'anni in qua» 49. Ma un conto era approvare l'inquisizione (o in guerra di religione) un conto esercitarla in prima persona. Ogni volta , sia pur piegandosi all'eventuale pressione papale, la Compagnia fece avvertire la sua volontà di non invischiarsi nell'Inquisizione perché cos si sarebbe persa la fiducia dei fedeli che accorrevano al tribunale prediletto dai Gesuiti, il confessionale. Per fare il bene delle anime occorreva averne la fiducia, ascoltarlo, riuscire a capirle: agire e, però, adattarsi agli altri e ai loro bisogni. qui che si incontra 14 la nota peculiare dell'intervento dei gesuiti, quella che caratterizza tanto le strategie dell'adattamento di un Valignano e un Matteo Ricci e quelle di inserimento nelle corti e presso i principi cristiani (e che ha fatto parlare di un «segreto della potenza»). Il bene delle anime e la «maggiore gloria di Dio» (un comparativo che Webx-t usò attribuendolo a Calvino, che preferiva parlare semplicemente della gloria di Dio, come qualcosa che non era possibile all'uomo aumettare: intervento attivo, dunque. Ora, l'autobiografia di Ignazio insiste molto su questa esigenza di fare il bene degli altri - intendendo bene spirituale, naturalmente. E proprio su questo punto si ebbe il contrasto più significativo tra lui e un'altra figura emblematica del mondo religioso italiano dell'epoca, Gian Pietro Carafa (poi papa Paolo IV creatore dell'Inquisizione romana). Il Carafa fece leggere a Ignazio le regole della congregazione dei chierici regolari teatini, un ordine che per tanti aspetti precorse le scelte della Compagnia. Le osservazioni: furono franche e piuttosto severe: la posizione di preminenza e i segni distintivi di tipo nobiliare che il Carafa conservava non andavano bene a Ignazio, che gli ricordò gli esempi di S. Francesco e S. Domenico. Ma soprattutto non gli andava bene l'assenza di opere di carità dei teatini a favore del popolo: «Potrebbero apparire davanti al popolo le loro opere, come predicare... seppellire i defunti, pregare per loro ; dire messe gratis... il popolo si muoverebbe di più per sostentarli e con molta più carità» 50. Dunque, la ricerca della perfezione aveva il difetto di isolare dal popolo la congregazione, che restava fatta di pochissimi uomini, «mentre se foste più accompagnato... (con compagni più numerosi) potrebbe servire e lodare meglio il Signore». Per crescere bisogna fare opere di carità, aiutare non solo le anime ma i corpi. La critica lasciò certamente il segno sul Carafa, ma è indicativa della posizione di Ignazio sul punto per noi decisivo dell'aiutare gli altri. Da dove gli venisse quella particolare sensibilità, è difficile dire: certo, quel mondo spagnolo in cui maturò la vocazione di Ignazio è lo stesso di fra Martin de Valencia; e bisognerà ricordare che, se Martin chiese aiuto alla «beata» del Barco di Avila, Ignazio fece altrettanto con un'altra «beata». O si dovrà pensare all'educazione cortigiana e militare del giovane Ifiigo di Loyola? Sta di fatto, comunque, che quella dell'aiutare gli altri restò la nota tipica della Compagnia. Di lì a pochi anni, le relazioni sull'opera dei missionari gesuiti, da quelle delle campagne italiane a quelle indiane, giapponesi e americane, raccontarono storie analoghe: inserimento nella vita delle comunità, esibizione di capacità di governo (le «paci», ad esempio) e di competenze di vario genere, fino a conquistare la fiducia della gente e da lì avviare - ma solo molto lentamente - un discorso di persuasione religiosa. È in questo contesto che la «missione» diventa una realtà istituzionale, identificandosi non solo col compito generale della predicazione ma col luogo e con gli strumenti grazie ai quali quella predicazione avveniva. L'opera dei gesuiti si offre, in tal senso, come lo strumento di un papato che, diversamente da quello del primo '500, tende a occuparsi direttamente dell'invio di predicatori: la chiesa della Controriforma è una chiesa che accentua i tratti universalistici e assume in proprio la direzione della «conquista spirituale» 51. D'altra parte, nell'atteggiamento della Compagnia un altro dei tratti nuovi che si percepiscono è quello dell'attenzione ai risultati. Quel che è decisiva è l'efficacia dell'ira, la sua capacità di modificare la realtà esterna e non soltanto il suo essere un segno della devozione di chi la compie. Il campo di verifica e di precisazione di questi nuovi termini della questione è il mondo americano. Campo significativo: sulle coste brasiliane negli stessi anni si concentrarono allora anche le esperienze missionarie protestanti, con la celebre spedizione di Villegagnon e le riflessioni di Jean de Léry che tanto contribuirono alla critica del concetto di «barbarie» fatta da Montaigne. L'etnocentrismo europeo cominciava a subire le prime vere critiche da chi, testimone delle violenze dell'intolleranza religiosa cristiana, finiva col trovare più comprensibile il cannibalismo rituale dei Tupinamba di quello prodotto dall'odio religioso tra cristiani. Invece, 15 quell'etnocentrismo usciva rafforzato dall'esperienza missionaria gesuitica in Brasile e in Perù. Come si è accennato, è qui che si passa dall'astratta «missio» alle concrete «missioni» (e, parallelamente, dall'astratto «ridurre» al cristianesimo, alle concrete «reducciones»). I Gesuiti non potevano, a norma di costituzioni, accettare compiti stabili di tipo parrocchiale; eppure, è proprio quello che finirono col fare quando accettarono di recarsi nella «dottrina» di Iuli. L'argomento che permise di aggirare il divieto delle costituzioni fu trovato dal Torres, che parlò di quella residenza stabile in termini militari, come di una piazzaforte ai confini («plaza de armas» 52). Era una scelta segnata dall'efficacia: non a caso, Richard Hakluyt, riflettendo sull'azione dei predicatori calvinisti in Brasile, doveva registrare il loro sostanziale fallimento: alla domanda «quanti infedeli sono stati convertiti» la risposta era negativa, mentre i cattolici potevano rinfacciargli ben altri risultati 5'. La cosa è notevole, anche perché le premesse protestanti non erano in questo diverse da quelle cattoliche: se il mondo tedesco appare più defilato dall'impresa d'America, i documenti inglesi del tardo '500 rivelano una tendenza all'interpretazione apocalittica delle scoperte e delle conquiste extraeuropee che non si differenzia da quella che aveva dominato l'era dei francescani nel primo '500. Se ne ha un esempio nella relazione del viaggio di sir Humphrey Gilbert del 1583:sia un nuovo inizio in Oriente, e abbia origine un nuovo mondo. Ma le profezie di Cristo ci confermano che ciò è impossibile; sappiamo che quando la parola di Dio sarà stata predicata a tutta l'umanità, verrà li fine dei mondo 54. La elaborazione concettuale dei nuovi termini della questione fu fatta ancora da Acosta quando, ragionando sull'esperienza della realtà peruviana, compose il suo trattato De promulgando Evangelio apud Barbaros sive de procurando Indorum salute 55. La teoria degli stadi attraverso i quali deve passare l'evoluzione dell'umanità colloca le popolazioni selvagge alle spalle del mondo europeo, come una forma arcaica che appartiene al passato e che deve essere sostituita da altre sulla via di una approssimazione allo stadio finale della vita sociale rappresentato appunto dall'Europa. È qui che si pone la funzione del missionario: presenza stabile di un rappresentante dello stadio politico e sociale da raggiungere che si preoccupa inizialmente ben poco della predicazione del Vangelo e molto delle strutture istituzionali e politiche della vita sociale. In questa accezione si fissa il termine «missione» e il suo derivato «missionario»; l'opera di propaganda religiosa e la trasmissione di modelli politici e sociali tratti dal mondo europeo fanno tutt'uno. L'aiuto materiale offerto a un popolo che ha perso tutto - anche grazie alla conquista europea - è l'ambiguo veicolo di una educazione a concepire i modelli politici e religiosi europei come gli unici validi. Al posto della propaganda religiosa una missione di «civiltà». Qui l'opera missionaria nel Nuovo Mondo e quella nelle campagne e tra i diseredati delle città europee trovano il loro punto d'incontro. Preminente, nel primo '600, la giustificazione della conquista religiosa come fine, essa finisce poi col lasciare il campo a interventi caritativi e assistenziali. La tipologia del missionario che incontreremo nel corso del '600 e del primo '700 sarà sempre più caratterizzata da tentativi di aiutare il popolo, i poveri, sul piano delle opere di carità. E qui la vittoria del modello gesuitico è evidente nelle proposte di congregazioni e ordini che avanzano da più parti. Non per questo si può dire che il missionario sia completamente mondanizzato. Il suo attivismo è sempre più rivolto agli aspetti della vita sociale, per correggere le ingiustizie e alleviare le sofferenze. È uno stile di vita che attira i giovani, che trascina chi è colpito dalle sofferenze dell'umanità e vuole rendere migliore il mondo - questo mondo. E sulla strada del migliorare il mondo la tradizione missionaria aveva sperimentato tutti i segreti della cospirazione e tutte le astuzie e le risorse dell'agitazione politica e sociale 56. Sarà un allievo di un collegio tenuto da religiosi a formulare, nell'avvio della sua attività di cospiratore e di rivoluzionario di professione, un celebre principio evangelico al quale però farà una lieve ma significativa correzione: non più 16 «non fare agli altri quel che non vuoi che sia fatto a te stesso», ma: «fa' agli altri quel che vuoi sia fatto a te stesso» 5'. E con questo Filippo Buonarroti coglieva, laicizzandolo, il principio attivo e interventistico che aveva dominato il tipo moderno del missionario, elaborato soprattutto nel rapporto tra l'Europa e gli altri mondi (da quello asiatico e americano a quello, altrettanto radicalmente «altro», delle plebi interne al mondo europeo).║ ║║* Si pubblica qui per gentile concessione degli organizzatori la relazione presentata al corso della Fondazione Cm del settembre 1991.║║1. Cfr. ad compio: S. Delicrobt, ed., Histoirs wtivsrselJs des ntissions catholiques, 4 voli., Paris, - Monaco, 1956-59: S.C. Neill, A History of Clvistian Missions, Hamtondswwostó, 1964.║2. L'osservazione t di A. Va~ Prfssntation, in Fairs croirs. Modalitf de la d~f fusion st de lo rEception dsa nvsaagss rsligista da XIls ott XVe sricle, Boole Ftanqaiae de Roma, 1981, p. 7.║3. Tipico ma san unico t il caso di P. Basges, A(isión y civili:ación sn AntErica, Madrid, 1987.║4. Cfr. S. Boeach Cujano, Missione, criatianisrasionscortvsrsions. In margini a un recente convegno, in «Rivista di storia della Chiesi in Italias, XXI, 1967, pp. 147-166.║5. M «guerra missionaria» part Anna Masisi, a ptnposito della lettera inviata da Bramo di Quecfutt a Enrico B del 1008, dove si leggano fiate come questa: aHw (i "pagani') propter Chzirtianimum glorioso certamina debellare, quod est iubente evangelir compellere intsare»: espugnare con pagaois ~a Christianisimuma (A. Morisi, La guerra nel psnsism cristiano dalle origini alle crociate, Firenze, 1963, pp. 218-20).║6. S. Ruacimsn, The Dscli»s of Nk CrwadLtg Idea, m X Cowssso ~nazionale di scienze storiche, Roma, 1955, Relazioni, voi. 3, pp. 650-652.║7. «Sive simt Sanarti sive Judaei, dmebelles fuaint, debemw cm persoqui. Postquam vero cm subiugaverimus, segue inteàici, nec ad fidar oogere debemus» (Summa Parisiensia, 1160; ii~ la citazione da BZ Kedu, Crwaods owd blission. Ewopean ApProaches toward the Muslints, Prinoetaa, 1984, p. 73).║8. 112. Kedar, op. cit., pp. 116 ss. Ma v. anche P. Rousset, Histoire des croisades, Paia, 1957.║9. R. Menéndez Pidal, Las Casas y Vitoria con otras temas de lori siglos XVI y XVII, Madrid, 1958, p. 48.║10. Cfr. W. Reinhard, CIYrisdichs Mission wd Dialsktik des Kolonialismus, in «Historisches Jahtbudta, 109, 1989, pp. 353-370.║11. Si tratta di America Pontificia primi saseuli evangeliwtionia 1493-1592. Documenta Pontificia ex registrit et ~is praessrtirn in Archivo Secreto Vaticano ezistentibus, oollegit, edidit Josef Metzler, Città del Vaticano, 1991. L'intento apologetico di questa raccolta è dichiarato fan dalla prefazione: «Mens quidem et fnnis huius editionis est demansuate panem activam studiutnque caotinuum Summorum Pontifxum in mundo evangelizando...s (p. 5). n risultato, però, mostra i danni che l'apologetica pub fare alla conoscenza storica. Intanto, per insiste= sul legame tra papato e America, si è trascurato tutto quello che avvenne prima del 1493, col risultato di perdere di vista le bolle e i brevi legati alla ascatquistaa della penisola iberica (oltre all'ironia involontaria di proporci un Alessandro VI continuamente preoccupato dal pensiero dell'evangelizzazione degli indios americani Inoltre, sempre per enfatizzare la presenza papale, si sono pubblicati i documenti ufficiali pontifici senza le suppliche che ne costituivano L premessa e la causa e dalle quali presumibilmente il documento papale riprendeva alla lettera L formulazione dei problemi.║12. KOrthodoxae fidei ptopagationan nostre tare celitua cammissam et Christianae religionis augumentum et anima~ salutem harbarantm quoqtus nationum et aliorum infidelium quontmlibet depresianem et ad fidem canversionem supremi« desiderantes affectibusa (testo originale latino e traduzione inglese sono editi da WR Shiela S.I., King and Chureh. The Rin and Fall of tAs Patronato Real, Chicago, 1961, p. 277).║13. kFides catholica et chcistiana religio nostris pcaeectim tempocibus exaltetur et ubilibet amplietur et dilatetur animatumque sales procucedtr ac barbarae nationes depcimantur et ad fidem ìpsam reducantur ...» (Anurica Pontfficia, I, pp. 72, 80).║14. America Pontificia, I, 39, p. 198.║15. lui. II, 195, p. 741 (il documento t del 1566║16. /vi, II, 222. p. 805.║17. Ecco alcuni passi della lidcrgia per commemorare il giorno natalizio di S. Gregorio (12 marzo): «...Quod Apostoli generali impecio pcaeceplisti: "ice, dovete omnes gentes". Praedicandi officium felicitar complevit. Nam, miccia praedicstoribus in occidmtem quo nondum fidai splendor illuxetat gente& bacbacas ad fidem convertit, et idolorum calcai dediVs evangelica doctrina saccisque baptirmatis onde regeneratas caelesti patciae participes efficit...».║18. Edito in Anadss Camaldiilsnus di J.B. Mi~ e A.Costadani (vol. IX, Venezia, 1773, coli. 612-719 Cfr. H. Jedin, EiR Vorschfag 19r die Anwikamissioa ami dam lahrs 1513, in «New Zeitschrift fàr Missionswissenscóafb, 2, 1946, pp. 81-84.║19. aDum enim sputi cos negea (sc. Hispniae) ego pettua pro Venetorum Republica, cui tunc inserviebam, Legatus agerem, hoc ab omnibus aperte praedicari &udivi, nullamque prorsua aliam ad eorum gentium oaeversiaaem difcultatem esse accepi, quam coram linguam addiscere» (Annalss Camaldulanses, col. 626; a proposito delle esperienze diplomatiche di Quirini e del suo interesse per L materia delle Indie, a cui dedicò anche una relazione nel 1506, cfr. H. Jedin, Vincenzo Qwirini ehd Pietro Bembo in Miscellanea Giovanni Mercati, IV, Roma, 1946 pp. 407 sa.; H. Lutz, Vincenzo Querini in Augsburg 1507, in kHistoricbes Jahtbuch», 74, 1955, pp. 200-212.║20. Aldi Pii M~i ad Leonsns X Pontificsns Max. pro Republica Christiana proque re literaria supplicano, in Omnia Platonis 0pwa, Venetiis in aedibus Aldi et Andrese soceri, mense septembri 1513.║21. «Nonne iam plurimi ex hoc nos<m corpore, uque ordine miro infiammati augendae rekgionis ardore ac zelo fldei pieni, simulq- anirnaru- saluti. ardentissimo conepti desiderio patres inquam plurimi ad remotissimas, et insolitas immo et pmrsas ignoratas antea gentes petmaxime penetranmt7» (Oratio Venerandi P. Fratris Francarci de Castrocaro ordinis Minorwm Observantiaa proviMiae Bonon. habita in comitiis Carpensibus praesertim adversus Martinum Lrterwn, Bonornae per H. de Benedictis 1521, c. B III r.).║22. Secondo una 17 testimonianza poro di Potino de Alcíntara, riportata da F. Secret (introduction in G. Postel, U Thrèsor des Prophftiss de l'Univtrs, L Haye 1969, p. 19, n. 44) il cardinal Quitiones portò dallItslia in Spagna una copia della Apochalypsis nova. Quanto al rapporto con Pietro Galatino, cfr. R. Rusooni, Un papa angelico prima del sacco di Roma, in «Florensia», III-1V, 1989-1990, pp. 37-70.║23. Cfr. G. Baudot, Utopie et histoirs au Mísiqut. Lss pra clrroniqwmrrs di la civilisntion ~aine (1520-1569), Toulouse, 1976.║24. Di questo celebre documento non esiste un'edizione attendibile. Accanto alla più nota redazione latina (ripo~ dal Wadding) è conosciuta una redazione originale castigliana dell'istruzione per fra Martin de Valencia, conservata alla Biblioteca lmperiale di Vienna e riprodotta in S. Garcia. Ga svangelitacidn de America sn la ltgislacion gareral de la Orden francescana sn el siglo XVI, in Actas del Il Congreso lnterrncional sobre Los Franciscanos sn cl Nuevo Mwrdo (siglo XVI) la Róbida, 21-26 de scptianbrs de 1987, Madrid, 1988, pp. 205-296; v. pp. 241-244. Le citazioni sono riprese da qui. Per il testo latino v. L. Wadding, Annales Minor^ XVI, pp. 183-190, amissio» e cànatructio».║25. Lo segnala M. Villey, Ga croiaads. Esrsi sw !a fo~iow d'ws théoris juridique, Paris, 1942, p. 249.║26. «Uttum...petegrimri vel bellaie», è la questione posta dallbaticnse nella «Summa aurea» (v. Villey, p. 251; ivi, p. 250, il passo di Innocenzo III relativo ai cavalieri Teutonici). Sul modo in cui «peregtinatio» e gumra santa si erano sommate v. EO. Blake, The Forniation of the «Cnuade Idear, in «Tbe Joumal af Ecclesiastical History», 21, 1970, pp. 11-31.║27. «...Considerantes, quod vestri Oidinis munda Religio a Cbristo Domino ezemplie ac verba Apoatolia aura tradita, ac Beato Francisco et cum sequeauibus inspirata fuerit: ac quod nonnulloa eiusdem 0idinie professore: pro (idei psopagatione ad infidelium partes, cum iam Apostoli in orbe non exiataat, destinare opra essa... ~ica Pontificia, I, p. 161, 25 aprile 1521). II documento è rivolto a ~or^ e a Glapion.║28. Cfr. G. Baudot. Utopie et histoire art MExiqwe, p. 84.║29. Cfr. Jo.F. Lumnius, De exdemo Dei iudicio et Indorutm vocatione libri duo, Antverpiae, apud Tilenium Brechtanum, 1567. Su di lui si veda, di chi scrive, America e Apocalisse, in «Critica storica», J1, 1976, pp. 1-67 e J. Gil, Miti e utopie della scoperta. Cristoforo Colombo e il sto tempo, (1989) tr. it, Milano, 1991, ad nomen.║30. «Mittuntur enim aliqui a Domino dupliciter, ulto modo immediate ab ipso Deo per intemam inspirationem, iuxta illud Bsaiae: "& nunc Dominus Deus misit me et spiritus eius". Alio modo mittuntur aliqui a Deo, mediante autoritate praelatorum, qui gerunt vicem Dei...»: questa messa a punto risale al 1580 e si legge in un trattatello dello spagnolo Cristóbal de Cabrera (cfr. HM. Ortiz, La coacción de irrfwles ala fa segtin C. de Cabrera, in «Cammunio», V, 1972, p. 420).║31. Lettera del 17 giugno 1553, in Epistola* mixtae ex variis Eturopae locis ab anno 1537 ad 1556 scriptae..., t III, 1553, Madrid, 1900, p. 344. Ma v. anche la lettera dell'8 luglio, ivi, p. 385: «Il Signore manda operarii nella sta messe». S il cardinal Morone scriveva a Ignazio di Loyola il 16 agosto 1553, a proposito della sua richiesta di avere dei gesuiti nella propria diocesi: «...Quelli che har s'affaticano di lavorare in vinca Domini...» (ivi, p. 433). ,║32. Si veda di chi scrive G éiemosto storico ndk pWsn,iclu stalla santità, in Finzione e santità tra Medioevo ad età moderna, a cuor di G. Zaai, Tesino, 1991, pp. 88-118; v. p. 113. Su Acosta è sempre importante lo studio di 1.6on Lapategui, El P. Jasí de Acosta y lai misiones, Madrid, 1942.║33. Una lapide settecentesca che ricordava 1'apparteuanza del Dati alla confraternita e ne elencava i membri fu posta nella chiesa dei Sa. Silvestro e Datotea; la riposta l'editore di G. Dati, La Lsusra dsll'iaots ciis ha trovato maramaNS il Rs di Spagna, poemetto in ottava rima (Scelta di annosità lau~ inedite o rane, Commissione per i testi di lingua, Bologna, 1968, p. ?CJOÚX). ,║34. Si tratta di un testo celebre, di datazione incerta ma la ari pubblicazione nel 1537 a Roma va letta insieme alla pubblicazione delle bolle di Paolo III sulla catechesi degli indios americani e sulla illiceità della schiavitù (cfr. America Pontificia, 1, 84, pp. 364 sa.). Parlando dell' «emporio indico», come luogo dove approvvigionarsi dell'oro necessario per combattere i Turchi, Garoés sottolinea il carattere provvidenziale della scoperta itin termino iam iam labentia acculi in quo fmes aeculomm devenenmt» (De habilitate at capacitata gsntium siva Indorwn navi mundi nwrcwpati ad fidem Christi capessendam, at quam libenter suscipiant, Romae, anno 1537 cc.n.n.). II testo, preceduto da una dedica del provinciale domenicano Bernardino da Mmsya al amaestto del sacro palazzo» Tommaso Badia, doveva casere poi riproposto dalla letteratura ufficiale dell'ordine come un momento significativo della propria attività missionaria: lo si trova, ad esempio, in Gio. Michele Piò, Della vite de gli hromini illustri di san Domenico, in Bologna, per S. Bonomi 1620, p. II, pp. 133-140).║35. Si rinvia all'opera di cara~ generale di L Suúez Femfndea, Los Reyes caffilicos. la expaneión de la fE, Madrid 1990, pp. 100 so. Sulla storia dellInquisizione nell'America spagnola, segnata dall'episodio di don Carloc, v. ara gli atti di un convegno di studio della Ucla a cura di M.E. Peay e A.J. Cruz, Cultwal Encowrtsrs. The Impact of the lnquisition in Spain and che New WorK Berkeley. 1991.║36. Alla aaollicitatio conversionis» è dedicato il già citato scritto composto a Roma nel 1580 dallo spagnolo Càstóbal de Cahrcra, e dedicato a proporre come modello di attività apostolica l'opera di Vasco de Quiroga (il trattato De soiicitanda infidelium conversione, insta illud svangslicwn Lrcae XIV «cornpslls intrars», è stato edito da E. Martin Ortiz. La coacción da infulss a b fa ssgdn Cristóóal da Cabrera, in ccCommunio», V, 1972. pp. 23-176, 257-461). Ne ha segnalato l'importanza G. Imbruglia, L'invenzione del Paraguay. Studio sull'idea di comunità tra Seicento s Settecento. Napoli, 1983, p. 60 e n.║37. E dunque, «si pro errore homines et danmabili dissensione... tanta praesumunt... quanto magis aequum est, et opoatet cos qui pacis et unitatis christianae assenmt veritatem... satagere inatanter acque integre. non solum pro eorum munimine, qui iam catholici sunt, vammtamen pro eaaum corroctiene qui nondum wnt» (Co~le intrare, hoc est, sententia S.Augustini super illa ~ione, nam hetsrodoxi nwtu poenarwn ad fidem catholicam cogi possint... a Matthaeo Msrula tanti doctoris indigno disciprlo, Comopoli, ex officina Lucae Molinaei Preci f., 1620, p. 26).║38. Chronicon, 1, 51. (dt. da Villoalada 1016║39. Si tratta dello F.xercitio spiritwals... comporto noramwnts dal venerabile Patre frate Antonio do Atri Frate de la oburvantia de monto Francisco .... in Veaetia per Marchio Sessa, 1536.║40. MHSI, 18 Nadal V, 40. Cfr. Leturia, aEat. Ign.a, II, 3-35.║41. Nel Dizionario urologico della lingua italiana di M. Camlazzo e P. Zolfi (vol. 3, Bologna. 1983, pp. 762-763) à :invia, per le due accezioni sopra riportate, rispettivamente a G.P. Maffei e a D. Bartoli.║42. II temúne «missi~ non figura tra quelli scelti per r1 sondaggio di cui riferisce D. Bertrand S.I., La politiqwe do saiet lgnacs de LoyobL analyss sociale, Parà, 1985; più utile, per questo aapdto, lo studio di D. Spaau, Inviati in edsaions. Le istruzioni date da san Ignazio, Roma, 1979. ,║43. $ L Vigesimaqraria lnrtructio pro iia qui ad mia&iowsa fructifuxirrdi causa proficiscu~, raooolta in Ordinatiohas Praspatitorum Gensraliwrr. Instsuctiones et formulati communss toti Socistati ~ori~ V Congregatiorris recognitas, Romae, in Collegio Romano eiusdem Societatia 1606, pp. 196-200. Redatta da Claudio Acquaviva, l'«Insttuctio» definisce la missione nome un luogo e come un'attività e caratterizza questa attività prevalente come dertinata a pone rimedio alla ignoranza.║44. lnstruaions per tutti quelli eAs havrorrwo licenza da predicare .... 1578. in Episcopale Bononisrrsis Civitatis st Diocesis, io Bdogra per Alessandro Bmtacci 1580. p 34r.║45. M. Scaduto ha segnalato gli usi diamo» per indicare il viaggio nelle fonti gesuitiche intorno alla metà del 'S00 e ha notato mcóe che b scopo della emissio» pub riguardare non solo L predicazione ma molte altre cose, «dai disbrigo di affari della Compagnia, ai ministeri, al "pellegrinaggio°. peràno allo svago» (La strada e i primi gesuiti, in aArohivum liistosicvm Soci~ Iesu», 40, 1971, fase. 80, pp. 323-390: v. p. 327). «Missionen antierdicali in Piemonte sola cm~ ad esempio, nelle Litterae societatis Isso duorum awiwirm MDLXXXVI tt MDLXxXXY11. Ad patres et fratres eiusdem Societatis, Romae, io collegio eiwdam Soc~ 1589, p. 101; ma v. anche p. 197.║46. Cfr. per un caso esempine lo studio dello s~ M. So~ wr Ls missioni di A. Possevino in Piemonte. Propaganda calvinista e rsffaurnsione cattolica 1560-1563, in «Archivum Historicum Societatis Iesu», 28, 1959, pp. 51-191.║47. Instructio, cit, p. 196.║48. La traduzione è quella di R. Garda Vino~. SantIgnosio di Loyola, Cinisello Balsamo, 1990, pp. 1016-17; il tento originale è in MHSI, Constitutiones Soc. lesa, II, Roma, 1934, pp. 373-383. La particolare disponibilità dei gesuiti a recarsi nelle varie parti del mondo a predicare è sottolineata in molti documenti papali: cfr. ad es. America Pontificia, II, 211, pp. 777s. È fondamentale il saggio di M. Batllori, Note sull'ambiente missionario nell'Italia del Cinquecento, in Problemi di vita religiosa in Italia nel Cinquecento, Padova, 1960, pp. 83-89. '║49. Cfr A. Lynn Martin, Jsmitr and St. Bartholamsws Day, in «Arcbivum liistoricu .; Societatia Iesu», 1974, p. 85. Riprendo la citarione dal saggio di M. Olivari, I G~á~ s la clondistiniM. La prima miviows della Compagnia in Irlanda, in «Dimensioni», :: 1984, pp. 45-54.║50. MHSI, Ignatii Epistolas, I, 114-118. La lettera è del 1536.║51. ll tese si trova in ma proposta avanzata da Gregor;o JCIB a Filippo B nel 1579 di istituire nunnanrm nubili nelle «Indie occidastati». Cfr. America Pontificia, II, 384, pp. 1143-1146. La nostra fede è nata in Oriente, e ha in seguito acquistato cammino fino a raggiungere (Occidente; è probabile che questo sia il suo limite ultimo, a meno che non ci║52. Cfr. A. Echanove, Origen y tvolución de !a idea jeartltiea de Rsdncciones in las misionu del Virreinato dal Pnd, in «Misàooalia Hispanicas, XII. 1955, p. 139. Cfr. anche lmbruglia, L'invsn:ione del Paraguay, p. 74. Gli atti della congregazione provinciale di Lima del 1576 nella quale si disause di «dotffixa, missioni, residenze e collegi come di forme diverse della attività gesuitica in Peni si leggono in MHSI, Monumento P`ruana, ed. A.de Egafa S.I., voi. II, 1576-1580, Ramac, 1958, doc. 17.║53. Ll passo di H"yt è del 1584 ed è d~ da P.B.H.Hair, Protss~ as Pirates, Slavsrs, and Protomissionariv: Sisma Ltons 1568 arti 1582, in aloumal of Ecclesiastical Hi~, 21, 190, pp. 203-224: v. p. 221 e n.║54. Lr relazione fu scritta da E. Hayes e pubblicata in R. ~yt, Tlu Principali Navigations, Voiagss and Discovsrias of ths English Nation, London 1589, ff. 679-697 (tr. di F. Marenco in Nuovo mondo. Gli Inglesi, 1496-1640, Tosino, 1990, p. 93).║55. Edito a Salamanca nel 1589, insieme al De retttro Novi Orbis libri duo, ma redatto in Perd dove nel 1584 fu firmato il permesso di stamparlo: cfr José R. Carracido, El P. José de Acasta y su importancia sn la litaadoa cisntifica e~, Madrid , 1899, p. 78.║56. $ un aspetto importante, solitamente non tenuto presente nella letteratura missionologiea; ma v. Olivari, l G~i s la elandestinW.║57. «Le devoir de 1'homme juste, qui vsut fairs aux autres ce qu'il voudroit qu ón lui fit...» (testo dell'intervento davanti all'Alta Carte di giustizia del 3 marco 1797; riprendo la citazione da A. Saitta, Filippo Bwonasroti. Contributo alla storia della sua vita e del suo pensiero, seconda edizione accresciuta, Roma, 1972, vol. I, p. 6; corsivo nell'originale). 19