Inizia con il numero quattro dei “QUADERNI” e proseguirà nel tempo, ma
NON CONSECUTIVAMENTE, il racconto della Storia dell’ANTICA ROMA
dalla sua fondazione nel 753 A.C. alla fine, avvenuta nel 476 D.C. Ben 1229 anni
di dominio civilizzatore sull’ITALIA e l’EUROPA. Oltre un millennio di Storia
che può aver lasciato traccia in noi… moderni (sic!) abitatori di quelle lande che
videro le gesta di NUMA POMPILIO, di SCIPIONE L’AFRICANO, e di CAIO
GIULIO CESARE. Loro ci hanno lasciato in eredità un mondo di principi e di
valori; un’impronta spirituale cui si è conformato tutto il Medioevo.
Ora sembra, per esempio, che non si possa fare a meno di parlare l’INGLESE,
una lingua arida e povera; diversamente dall’ITALIANO, parlato universale di
poeti, artisti e uomini di scienza. I nostri politici e i nostri intellettuali, ruffiani
del padrone di turno, ci spingono sempre più ad usare termini inglesi, a
mangiare schifosi cibi americani, ad ascoltare musiche afroamericane e ad
assimilare ridicoli e pagliacceschi comportamenti da COW-BOY.
Il latino era già una lingua universale 800 ANNI PRIMA che BUFFALO BILL
desse inizio alla “CIVILTA’ ” americana, sterminando indiani e bisonti e
deportando MILIONI d’africani in catene.
Ora sembra che occorra imparare dall’America come si governa una nazione,
importandone, anno dopo anno, tutti i bubboni creati dai nuovi civilizzatori
come DROGA, SERIAL KILLER, PORNOGRAFIA, VIOLENZA MINORILE,
ABORTO, MANIPOLAZIONI GENETICHE.
Il tutto all’insegna del DIO DENARO e del motto IO solo esisto; solo ciò che va
a MIO vantaggio è importante; tutti gli altri sono potenziali nemici; IO devo
AVERE più di loro!
Queste sono le conquiste moderne dovute al buon cuore dei “LIBERATORI”
DEL MONDO.
Il nostro piccolo impegno è teso a risvegliare in qualcuno degli Italiani, che
ancora tengono a tale appellativo, un po’ d’ORGOGLIO per le nostre grandi
origini e la sana volontà di resistere, come si può, nelle piccole cose d’ogni
giorno, alla pianificata distruzione della nostra Cultura e Storia.
Per ciò ci apprestiamo a ricordare qui i nostri grandi Avi Latini, creatori di
Civiltà (QUELLA VERA); una civiltà del lavoro, del sacrificio, del coraggio e
della gioia di vivere.
Uno stile di vita che mai prescindeva da un sacro rispetto per l’Essere Divino.
RIFLETTIAMO GENTE, RIFLETTIAMO!
Post Scriptum: le pagine di storia contenute dai “QUADERNI” sono, per
quanto possibile, scritte in maniera chiara, semplice e didattica.
Questo per rendere piacevole e facilmente comprensibile, a tutta la
gente, la loro lettura
I DESTINATARI DEI “QUADERNI” SONO I LAVORATORI, UOMINI E
DONNE, DELLA GENTE ITALIANA!
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Dve parole… sv Roma
antica (parte prima: i sette Re) di Ezio Sangalli
Ai piccoli scolari romani veniva insegnato che………………….
I greci di Agamennone, Ulisse e Achille quando conquistarono Troia, nell’Asia
minore, e la misero a ferro e fuoco, uno dei pochi difensori che si salvò fu Enea,
fortunatamente “raccomandato” (certe cose si usavano anche a quei tempi) da sua
madre, che era la dea Venere Afrodite. Dopo anni di viaggi ed avventure, egli sbarcò
in Italia; prese a risalirla verso il nord, giunse nel Lazio, vi sposò la figlia del re
latino, Lavinia, e col suo nome fondò una città. Suo figlio, Ascanio, fondò
Albalonga facendone la capitale. Otto generazioni dopo Enea, sul trono d’Albalonga
sedevano due suoi discendenti: Numitore e Amulio. Purtroppo, sui troni, in due si è
già stretti; così, un giorno, Amulio scacciò il fratello e gli uccise i figli tranne una:
Rea Silvia. Chissà perché, non mettesse al mondo qualche figlio, la volle come
sacerdotessa della Dea Vesta, vale a dire monaca. Un giorno, Rea prendeva il fresco
in riva al fiume e s’addormentò. In quei paraggi passava, casualmente, il Dio Marte
che scendeva sovente sulla terra, un po’ per farvi qualche guerricciola (che era il suo
mestiere abituale), un po’ per cercare delle ragazze (che era la sua passione favorita).
Vide Rea Silvia. Se ne innamorò. Senza neppure destarla, la rese incinta. Amulio
prese i due gemelli che lei aveva partorito, li fece deporre su una piccola zattera che
affidò al fiume perché li portasse al mare e lì li lasciasse affogare; ma la zattera si
arenò poco lontano. I pianti disperati dei due pargoli richiamarono l’attenzione di una
lupa che corse ad allattarli. In questo modo, la bestia è divenuta il simbolo di Roma.
I due gemelli, Romolo e Remo, adulti, tornarono nel luogo dove la lupa li aveva
trovati, in riva al Tevere, e decisero di fondare la loro città. Litigarono per la scelta
del colle su cui costruire il primo insediamento; la spuntò Romolo. Remo, infuriato,
sfidò il fratello che lo uccise. Era il 21 aprile 753 a.C. e da quel giorno si contarono
gli anni “Ab Urbe Condita”, in pratica, dalla fondazione di Roma. Il fondamento
religioso che infusero a tutta la vita di Roma queste antiche “leggende”, rinsaldò il
sentimento di comunità dando gran fierezza e capacità di sacrificio. Roma diventò ciò
quel che fu grazie alla sua umiltà, dovuta alla consapevolezza di dipendere dai Dei e
nel loro nome agire; cosa sono, infatti, le leggende se non le gesta degli antichi,
tramandate di generazione in generazione. Lasceremo a voi, lettori,
l’approfondimento archeologico ed etnologico dei fatti. Le origini dei popoli latini
sono, in ogni modo, si dice, da ricercarsi nella discesa, nel 2000 a. C, dall’Europa
centrale, di tribù da qualche tempo in marcia dalla loro patria d’origine.
Alla morte di Romolo, i suoi concittadini lo elevarono al rango di Dio
ribattezzandolo Quirino, affermando che era stato il Dio Marte a rapirlo ed a
condurlo in cielo.
Salì al “trono” Numa Pompilio, un saggio re, mezzo santo e metà filosofo. Durante
il suo regno, delle basi furono poste per la futura grandezza di Roma. I re vi erano
eletti direttamente dal popolo e al medesimo rispondevano, avvalendosi del Senato.
Nasce il primo “ministero” per volere di Numa Pompilio che ebbe la necessità di
governare una città popolosa con tutte le problematiche ad essa collegate.
Amministrare la giustizia; provvedere alle strade, all’igiene, al censo. Il cosiddetto
consiglio degli anziani (o Senato) era composto di un centinaio di membri che erano
discendenti, per diritto di primogenitura, degli avventurosi arrivati con Romolo a
fondare Roma. Essi, in un primo tempo, hanno solo il compito d’aiutare il sovrano,
ma col tempo diverranno sempre più influenti. La città era divisa in tribù: quella dei
Latini, dei Sabini e degli Etruschi. Ogni tribù era divisa in famiglie. Le curie si
riunivano due volte l’anno nel Comizio Curiato dove si prendevano le decisioni
importanti, tra cui l’elezione del re.
Roma era una società patriarcale in cui l’uomo, sia come padre sia come marito
aveva il potere assoluto sulla donna. I bimbi, sin dalla più tenera età, non crescevano
vezzeggiati e coccolati; s’insegnava loro che la famiglia, di cui erano membri,
costituiva una vera e propria Unità Militare, in cui tutti i poteri era concentrati sul
capo, cioè… sul Paterfamilias. Egli solo poteva comprare e vendere, perché egli solo
era il proprietario di tutto, compresa la dote della moglie. Di costei, se lo tradiva o gli
rubava il vino dalla botte, egli poteva ucciderla senza processo. Identici diritti aveva
sui figli che poteva anche vendere come schiavi! Questa ferrea organizzazione
sociale, la fede religiosa e lo stile di vita sobria e volitiva, resero i romani più forti
tutti i loro vicini del Lazio.
Nacque l’Esercito organizzato in maniera stabile. Ognuna delle trenta curie in cui
era divisa la città, doveva fornire cento fanti, in pratica una Centuria, e dieci cavalieri,
in altre parole, una Decuria. Le trenta centurie e le altrettante decurie, insieme,
formavano la Legione che fu l’unico corpo d’armata della Roma prerepubblicana. Il
re n’era comandante supremo ed aveva i suoi soldati o Legionari, diritto molto
importante. Questo potere militare non lo esercitava in maniera assoluta e senza
controllo. Egli dirige le operazioni chiedendo consiglio al Comizio Centuriato, in
pratica alle legioni in armi; da lì, sollecita l’approvazione per la nomina degli
ufficiali, che a quei tempi, si chiamavano pretori. In epoca Repubblicana la struttura
militare romana diverrà sempre imponente, sia nel numero delle legioni sia
nell’abilità tattica e strategica dei suoi comandanti.
A Numa Pompilio che aveva rappresentato, soprattutto, la guida spirituale di Roma,
stabilendo tra l’altro un ordine di precedenza fra i vari Dei, successe Tullo Ostilio cui
è legata la vicenda della sfida tra Orazi e Curiazi, tre gemelli romani e, stesso
numero, quelli d’Albalonga, ai quali fu rimessa la sorte della guerra. I tre albalongani
uccisero due Orazi, ma il romano superstite ammazzò i tre Curiazi offrendo la vittoria
a Roma. I vincitori non furono teneri con la città che aveva dato i natali a Romolo e
remo. Albalonga fu distrutta e il suo re legato con le gambe a due carri che, lanciati in
direzione opposta, lo squarciarono!
Tullo Ostilio, così come il suo successore Anco Marzio, pensò bene che, dopo i
quarant’anni di pace assicurati da Numa Pompilio, era ora di cominciare a menar le
mani. Egli si diede da fare, immediatamente, affrontando uno ad uno tutti i popoli
vicini, tanto che il giorno della successione sul trono della dinastia etrusca, Roma era
già il nemico pubblico numero uno di quella regione che doveva estendersi,
presubilmente, fino a Civitavecchia a nord, fino verso Rieti ad est e in quel di
Frosinone a sud.
In Roma, in ogni modo, sino al primo re etrusco, prevalse un’economia contadina
con una popolazione di circa trentamila anime. Gli uomini, il mattino (tra loro anche i
membri del senato) scendevano dai colli dove abitavano, per lavorare la terra.
Aggiogavano i buoi, aravano e mietevano aiutati da ragazzi che non avevano altra
scuola che quella della natura. I padri approfittavano dell’occasione per trasmettere
loro gli insegnamenti tradizionali: il seme dava il frutto se sole e pioggia lo nutrivano,
e il sole e l’acqua venivano per volere dei vari Dei, e che gli dei li concedevano solo
quando gli uomini avessero compiuto il loro dovere verso di loro, e che il primo dei
doveri consisteva nell’obbedienza dei giovani verso gli anziani. Non s’indulgeva a
nessun vizio, nemmeno al piacere della gola.
Contro le moderne teorie degli scienziati americani sul rapporto direttamente
proporzionale tra quantità e varietà di cibo e forza dei popoli, i romani dimostrarono
che si può conquistare il mondo mangiando un impasto mal cotto d’acqua e farina,
due olive e un po’ di formaggio, accompagnati nelle feste da un bicchiere di vino. I
costumi di quei primi cittadini romani erano modesti e sobri. Anco Marzio, ultimo re
latino, coltivava il proprio podere, andava tra la gente senza la sua scorta e riuniva il
senato sotto un albero ombroso. Le vesti erano semplici; il re ne vestiva una speciale
in occasione di una cerimonia religiosa o di un sacrificio. In guerra, i pretori non
portavano insegne del grado e le armi erano rudimentali: bastoni, sassi e rozze spade.
Le campagne militari dei primi re di Roma si svolsero, probabilmente, senza grandi
strategie, uomo contro uomo e gran mazzate, e la legione le vinse non tanto per la
maggior forza degli uomini ma per la loro ostinata e fanatica certezza che la loro
Patria era stata fondata da alcuni Dei e, da loro, destinata alla grandezza e alla gloria,
e che morire per essa costituiva il pagamento di un debito contratto al momento della
nascita.
Intorno al 600 a. C. iniziò la successione etrusca alla guida della ancor
relativamente piccola città di Roma. Alla morte di Marzio fu eletto re Lucio
Tarquinio che prese nome di Tarquinio Prisco. Non era uomo del posto; egli veniva
da Tarquinia, una città etrusca, ed era figlio del greco Demarcato e di una donna
etrusca. Uomo abile, spregiudicato e ambizioso, era guardato dai romani con un misto
d’ammirazione e diffidenza. Era ricco e scialacquatore; conosceva filosofia, geografia
e matematica.
Tarquinio Prisco ebbe, probabilmente, l’appoggio della plebe (termine nuovo,
questo, nella Roma antica). Nei Comizi Curiati, che procedevano all’investitura del
sovrano, non esistevano differenze sociali. Ogni cittadino aveva pari dignità; ognuno
era proprietario di un pezzo di terreno e diritto di voto. Alla morte di Marzio, le cose
erano cambiate. Le guerre davano impulso all’industria e al commercio, favorendo
l’elemento etrusco ed attirando, a Roma, falegnami, fabbri, armieri e mercanti. Le
vittorie avevano fatto confluire, in città, frotte di schiavi, e soldati che desideravano
non tornare a “sgobbare” nei campi potendo, a Roma, trovare donne e vino. Tutta
quest’eterogenea moltitudine formava il Plenium: da qui, è estratta la parola Plebe.
Essa voleva rappresentanza; Tarquinio Prisco gliela diede. Lo stesso, abile nelle armi
quanto negli affari, soggiogò tutto il Lazio e parte della Sabina. In campo civile, la
sua opera importante resta la Cloaca Massima (fogne che liberarono i cittadini romani
dei loro rifiuti).
L’Urbe iniziò un processo trasformatore dei costumi di vita poco graditi al Senato,
custode dell’antica tradizione; così, dopo trentotto anni di regno, i Patrizi (discendenti
dei primi senatori, Patres) lo tolsero di mezzo a pugnalate. La plebe, grata a
Tarquinio per la sua opera di magnate e imprenditore (a lui si devono le prime vere
costruzioni di case, con tanto di finestre e tetti spioventi, strade bene tracciate e una
piazza centrale per le riunioni, detta il Foro) consentì prima a sua moglie Tanaquilla
e, quindi, al genero Servio, di continuare la dinastia.
Servio Tullio, d’origini latine, proseguì l’opera del suocero. Fece costruire una
gran cerchia di mura intorno alla città, offrendo lavoro a muratori, tecnici e artigiani,
e mise mano ad una riforma politica e sociale di stampo capitalista o plutocratica (che
dir si voglia). La popolazione cresceva; dentro le mura si contava centocinquantamila
anime. Occorrevano nuove abitazioni e altro lavoro. Servio Tullio diede la
cittadinanza ai Liberti (figli degli schiavi liberati). Abolì le tradizionali curie per
installare le classi (5) diverse non più in base al domicilio e con parità di peso
elettivo, ma in base al loro Patrimonio. Su 193 Centurie aventi diritto al voto, 98
appartenevano alla prima classe e quindi… In sostanza, il potere legislativo passava
dalle mani della Federterra, il Senato, a quelle della Confindustria che lo stesso
Servio aveva arricchito. Il Senato decise di ricorrere al metodo efficace: il pugnale! Il
sicario, suo nipote Tarquinio, si dimostrò subito più tirannico dello zio e, infatti, fu
chiamato il Superbo.
Re guerriero, Tarquinio il Superbo, conquistò l’intera Sabina, l’Etruria e le sue
colonie meridionali fino a Gaeta. Da qui, sin quasi alle foci del fiume Arno, Roma
faceva il buono e il cattivo tempo; per il resto, Tarquinio si alienò le simpatie dei
romani e, un giorno, il giovane senatore Lucio Giunio Bruto, cui il Superbo aveva
ucciso il padre, convinse le legioni a ribellarsi e a marciare, con lui, su Roma. Il
tiranno fuggì e si rifugiò a Clusium (Chiusi) sotto la protezione di Porsenna, Primo
magistrato della città. Correva l’anno 509 a. C. N’erano 246 Ab Urbe Condita.
Chi desiderasse approfondire l’argomento
trattato, offriamo una breve bibliografia:
1.
2.
3.
4.
Howard H. Scullard - Storia del mondo romano, Biblioteca Universale Rizzoli;
Massimo Vigna – Roma, un millennio di sacralità, Edizioni Settimo Sigillo;
Massimo Vigna – Roma, simbologia del periodo regio, Edizioni Settimo Sigillo;
Julius Evola – La tradizione di Roma, Edizioni di Ar.
Chi desiderasse altre informazioni sull’argomento trattato o
più in generale sui “QVADERNI DI STORIA” ci può scrivere
al nostro indirizzo: casella postale, 88 – 25121 Brescia
Non temere di nuotare contro il torrente: è delle anime sordide
pensare come il volgo solo perché il volgo è maggioranza.
Giordano Bruno