Ann Swidler La cultura in azione: simboli e strategie Il modello tradizionale per lo studio degli effetti della cultura sull'azione è essenzialmente fuorviante. Assume infatti che la cultura dia forma all'azione fornendo i fini o i valori ultimi verso cui quest'ultima si orienta, e in questo modo conferisce ai valori il ruolo di principale elemento causale della cultura. In questo saggio prenderemo in considerazione i limiti concettuali di tale approccio e proporremo un modello alternativo. Ormai da diverse generazioni accademiche, tra sociologi e antropologi è in corso un acceso dibattito sull'interpretazione del termine cultura. A partire dall'opera innovativa di Clifford Geertz [1998a], le definizioni classiche – cultura come sistema di vita di un popolo, includendo anche la sua tecnologia e i suoi manufatti, o come tutto ciò che un individuo deve conoscere per diventare membro operativo di un gruppo (una concezione legata al nome di Ward Goodenough) – sono state abbandonate in favore di un'idea di cultura come insieme di forme simboliche disponibili pubblicamente attraverso cui gli individui esperiscono la realtà ed esprimono significato [Keesing 1974]. Per quanto ci riguarda, la cultura consiste di questi veicoli simbolici di significato che comprendono credenze, pratiche rituali, manifestazioni artistiche e cerimonie - come pure di pratiche culturali informali quali il linguaggio, le chiacchiere, i racconti e i rituali della vita quotidiana. È infatti attraverso queste ultime forme simboliche che hanno luogo “i processi sociali di condivisione di modelli di comportamento e punti di vista all'interno di [una] comunità” [Hannerz 1969, p. 184]. La recente rinascita degli studi culturali ha eluso la questione della causalità, di maggior interesse per la sociologia. Gli approcci interpretativi derivati dall'antropologia (Clifford Geertz, Victor Turner, Mary Douglas e Claude LeviStrauss) e dalla critica letteraria (Kenneth Burke, Roland Barthes) ci permettono di descrivere meglio le caratteristiche dei prodotti e delle esperienze culturali. Allo stesso tempo, Pierre Bourdieu e Michel Foucault hanno avanzato nuove prospettive sul rapporto esistente tra cultura da una parte e stratificazione sociale e potere dall'altra. Tuttavia, per chi fosse interessato ad una spiegazione culturale (in contrapposizione alla “descrizione denza” di Geertz [1998a] o ad una scienza sociale interpretativa [Rabinow e Sullivan 1979]), i valori rimangono il principale collegamento tra cultura e azione. In realtà, questo accade non perché i sociologi credano effettivamente nel paradigma dei valori, che è stato anzi puntualmente criticato, ma perché in assenza di una formulazione alternativa della rilevanza causale della cultura, gli studiosi o evitano la questione o finiscono per accogliere, in modo indiretto, questo modello. L'analisi alternativa che proponiamo si articola su tre punti chiave: prima di tutto, immagina la cultura come una “cassetta degli attrezzi”, fatta di simboli, racconti, rituali, visioni del mondo che gli individui possono utilizzare in configurazioni variabili per risolvere tipi diversi di problemi. In secondo luogo, per analizzare gli effetti causali della cultura si focalizza sulle “strategie d'azione”, forme persistenti di organizzazione dell'azione nel tempo. Infine, individua la rilevanza causale della cultura non nella definizione di scopi per l'azione, quanto piuttosto nella messa a disposizione di elementi culturali che 1 sono poi impiegati nella costruzione di strategie. Procediamo dunque mettendo in evidenza i limiti della spiegazione culturale basata sui valori; illustreremo poi la maggior plausibilità intuitiva e adeguatezza esplicativa del modello alternativo che proponiamo e concluderemo con alcuni spunti per la ricerca. Cultura come valori Gli assunti fondamentali della nostra concezione di cultura derivano da Max Weber, secondo cui gli esseri umani sono mossi da interessi materiali e ideali. Anche gli interessi ideali, come ad esempio il desiderio di essere preservati dalle pene dell'inferno, sono orientati a un fine, che però deriva da realtà simboliche: “gli interessi (materiali e ideali) e non già le idee, dominano immediatamente l'agire dell'uomo. Ma le 'immagini del mondo', create per mezzo di 'idee', hanno molto spesso determinato le vie sulle quali poi la dinamica degli interessi continuò a spingere avanti l'agire” [Weber 2002c, p. 240]. Gli interessi, quindi, costituiscono il motore dell'azione, ciò che la fa avanzare, mentre sono le idee a stabilirne la meta (ad esempio la salvezza terrena o nell'aldilà) e i mezzi per raggiungerla (pratiche di redenzione ascetiche o mistiche). Talcott Parsons ha ripreso il modello di Weber, smorzandone tuttavia la forza esplicativa. Infatti, nel tentativo di individuare un ruolo distintivo per la sociologia nei confronti del paradigma economico dell'attore razionale orientato a massimizzare la propria utilità, lo studioso americano ha affermato che nell'ambito di uno schema mezzi/fini solo la sociologia può rendere conto degli 1 scopi perseguiti dagli attori. All'interesse di Weber per il ruolo storicamente ricoperto dalle idee, Parsons ha sostituito quello per i valori, universali e atemporali. A differenza delle idee, che nella sociologia weberiana sono complesse costruzioni storiche modellate dagli interessi delle istituzioni, dai mutamenti politici e da ragioni pragmatiche, i valori di cui parla Parsons sono astratti, generali e immanenti nei sistemi sociali. D’altra parte, i sistemi sociali esistono proprio per realizzare i loro valori fondamentali e sono nuovamente i valori a spiegare perché gli attori sociali possano prendere decisioni diverse in situazioni simili. In realtà, Parsons non tratta i valori come fatti simbolici specifici (ad esempio dottrine, rituali, miti) dei quali è possibile tracciare la storia e sui quali è plausibile sviluppare un'analisi concreta. Li considera piuttosto essenze attorno a cui si costituiscono le società. I valori costituiscono il primo motore della teoria dell'azione. La teoria volontaristica dell'azione descrive un attore che prende decisioni in una data situazione, decisioni che sono da una parte limitate dalle condizioni oggettive e dall'altra disciplinate dalle norme che regolano i mezzi e gli scopi dell'azione [Warner 1978, p.121]. Secondo Parsons, una “tradizione culturale” fornisce gli “orientamenti di valore”, dove per valore si intende “un elemento di un sistema simbolico che serva come criterio per la selezione tra le alternative di orientamento che una situazione offre intrinsecamente” [1996, p. 19-20]. La cultura, quindi, inciderebbe sull'azione degli individui rendendo disponibili valori che li orientano verso alcuni obiettivi piuttosto che verso altri. Senza dubbio, il fatto che la teoria dei valori tuttora sopravviva è in parte dovuto alla plausibilità - intuitiva nella nostra cultura – dell’assunto per cui l'azione è in definitiva governata da un modello mezzi-scopi: la cultura dà 1 Si veda il capitolo conclusivo de La struttura dell'azione sociale [Parsons 1987, pp. 777826], in cui la teoria dell'azione viene esplicitamente presentata come una correzione alle concezioni utilitaristiche dell'azione. 2 forma all'azione definendo ciò che le persone desiderano ottenere. Tuttavia, le ambizioni degli individui sono di scarso aiuto se intendiamo spiegare le loro azioni. […] L'etica protestante La questione della causalità si ripresenta quando volgiamo la nostra attenzione verso l'argomento paradigmatico a sostegno dell'importanza della cultura nell'azione umana, ovvero L'etica protestante e lo spirito del capitalismo di Max Weber [2002a]. In quest'opera il sociologo tedesco cercò di spiegare il comportamento economico razionale di tipo capitalistico sostenendo che la cultura, nella forma della dottrina calvinista, generò una specifica struttura mentale che incoraggiava un comportamento razionalizzato e ascetico. La dottrina della predestinazione incanalò il desiderio di redenzione in una ricerca delle prove della salvezza nella condotta terrena, stimolando così l'esercizio di un ansioso autoesame e di un'inflessibile autodisciplina. Gli scopi generati dalle idee (cioè il desiderio di redenzione), influenzarono quindi potentemente il comportamento. Tuttavia, se assumiamo il modello causale di Weber così come emerge da L'etica protestante e dagli altri saggi sulla religione, non riusciamo a comprendere la sua tesi più ampia, ovvero che l'ethos del Protestantesimo sia sopravvissuto all'affievolimento dell'impulso calvinista per la ricerca dei segni di salvezza. Se sono le idee a modellare l'ethos, perché quello del Protestantesimo ascetico è sopravvissuto alle sue idee? Weber sostiene l'esistenza di una continuità tra il desiderio dei primi calvinisti di conoscere il loro destino di salvezza o di dannazione e l'etica secolare di Benjamin Franklin. Noi riconosciamo anche altre continuità: nelle richieste metodiste di sobrietà, umiltà, autocontrollo nella classe operaia e nell'ansiosa autoanalisi che i cittadini statunitensi compiono oggi alla ricerca del benessere psicologico, del successo materiale, dell'autenticità personale. Come possiamo, quindi, interpretare la continuità nello stile o nell'ethos dell'azione quando le idee - e gli scopi dell'azione che esse sostengono - cambiano? Questa continuità suggerisce che ciò che permane è il modo in cui l'azione è organizzata, e non i suoi scopi. Ad esempio, nell'Occidente protestante e in particolare nell'America puritana si assume che l'azione dipenda dalle scelte individuali, per cui prima di agire le persone devono chiedersi: “Che genere di persona sono? Salvo o dannato? Retto o dissoluto? Sono intraprendente o mi limito a sopravvivere? Sono autentico o falso?” Anche l'azione collettiva si ritiene sia fondata sulle scelte dei singoli attori. Di conseguenza i gruppi sono concepiti come insiemi di individui con opinioni simili che si riuniscono per perseguire i loro comuni interessi. Persino gli obiettivi sociali su grande scala si presume siano meglio realizzati attraverso movimenti di riforma morale o di educazione che trasformano i singoli. Ci si richiama spesso a questo approccio culturale all'azione nei termini di “valore” dell'individualismo, un'etichetta che però non coglie il punto essenziale. Questo modo individualistico di organizzare l'azione può essere infatti orientato verso molti valori, tra cui anche l'istituzione di una “comunità” [Bellah et al. 1996]. La fiducia nel “lavoro” morale sul singolo per organizzare l'azione è quindi un elemento della cultura protestante più longevo degli scopi specifici verso cui questo lavoro è stato indirizzato. Tali esempi sottolineano la necessità di pensare la spiegazione culturale in nuovi termini. Questi due casi illustrano le difficoltà croniche in cui incorrono i tentativi tradizionali di adottare la cultura come una variabile esplicativa e suggeriscono 3 perché molti hanno considerato questi tentativi, nel complesso, fallimentari. La spiegazione culturale La prospettiva secondo cui l'azione è governata da “interessi” è inadeguata quanto quella secondo cui l'azione è governata da valori non razionali. I due modelli hanno una logica esplicativa comune, che differisce solo per quelli che si assumono essere gli scopi dell'azione: “propensioni” individualistiche e arbitrarie piuttosto che “valori” consensuali e culturali. Entrambi gli approcci sono invalidati da un'enfasi eccessiva sull'“unità d'azione”, sull'idea che le persone scelgano le loro azioni una per una, a seconda dei loro interessi o valori. Ma le persone non costruiscono – e a dire il vero non possono costruire – una sequenza di azioni pezzo per pezzo, sforzandosi con ciascuna di massimizzare un dato risultato: questi pezzi sono necessariamente integrati in 2 strutture più ampie, che qui chiamiamo “strategie d'azione”. In questo processo la cultura svolge un ruolo causale indipendente, modellando le competenze in base a cui vengono costruite tali strategie. Il termine “strategia” non è qui adottato nel senso convenzionale di un piano consapevolmente ideato per raggiungere un obiettivo. Si tratta, piuttosto, di un modo generale di organizzare l'azione - facendo assegnamento su una rete di familiari e amici, ad esempio, o sulla possibilità di offrire le proprie competenze sul mercato - che potrebbe permettere di raggiungere molteplici obiettivi di vita tra loro diversi. Le strategie d'azione incorporano, e quindi dipendono da, abitudini, stati d'animo, sensibilità e visioni del mondo [Geertz 1998a]. Le persone non costruiscono linee d'azione dal nulla, scegliendo le mosse una alla volta come mezzi efficienti per obiettivi stabiliti; piuttosto, esse costruiscono catene d'azione partendo con almeno qualche anello già precostituito. La cultura influenza l'azione modellando e organizzando questi anelli, non fissando gli scopi verso cui sono orientati. Il nostro modello alternativo si fonda inoltre sul fatto che all'interno di tutte le culture reali si trovano simboli, rituali, storie, guide per l'azione tra loro eterogenee e spesso contraddittorie. Il lettore della Bibbia può quasi sempre trovare un brano con cui giustificare le sue azioni, e la saggezza popolare si presenta comunemente nella forma di coppie di adagi che consigliano comportamenti opposti. Una cultura, quindi, non è un sistema unificato che spinge l'azione in una direzione coerente, ma piuttosto somiglia a una “cassetta degli attrezzi” o a un repertorio [Hannerz 1969, pp. 186-88] da cui gli attori estraggono elementi diversi per costruire linee d'azione. Sia gli individui che i gruppi sanno infatti muoversi diversamente in circostanze diverse (si veda, ad esempio, Gilbert e Mulkay 1984). Le persone possono recuperare prontamente capacità e competenze culturali di cui si servono di rado e hanno a disposizione un bagaglio culturale più ampio di quello che utilizzano effettivamente, fosse anche solo per il fatto che alle loro orecchie arriva molto più di ciò a cui poi 2 Lo stesso Bourdieu [2003] enfatizza il concetto di strategia, e questo termine è centrale anche per tutta una tradizione antropologica…È estremamente preziosa la critica che Bourdieu rivolge all'idea di cultura come “regole”, e lo è anche la sua insistenza sul fatto che possiamo comprendere il significato delle tradizioni culturali solo se osserviamo i modi in cui esse si svelano e in cui possono essere modificate nel tempo. Secondo il sociologo francese, i modelli culturali forniscono la struttura in opposizione alla quale gli individui possono sviluppare specifiche strategie (si veda la brillante analisi del matrimonio in Bourdieu 2003, pp. 147-170). A mio avviso, invece, le strategie sono modi più ampi di cercare di organizzare la vita (ad esempio, assicurarsi una posizione imparentandosi con famiglie prestigiose attraverso il matrimonio) nell'ambito dei quali specifiche scelte acquistano significato e per cui sono utili determinate abitudini e capacità culturalmente plasmate, ciò che Bourdieu chiama “habitus”. 4 danno importanza.3 Una teoria realistica della cultura dovrebbe quindi portarci a pensare non in termini di “drogati culturali” passivi [Garfinkel 1967, Wrong 1961], bensì di utilizzatori di cultura attivi – e talvolta esperti – come quelli che effettivamente osserviamo nella realtà. Se la cultura influenza l'azione attraverso valori che orientano gli scopi, allora al modificarsi delle situazioni gli individui dovrebbero tenere fermi i loro obiettivi aggiustando invece le strategie per raggiungerli. Se invece la cultura fornisce gli strumenti grazie a cui le persone costruiscono linee d'azione, allora gli stili o le strategie d'azione saranno più durature, più stabili degli scopi e gli attori terranno in considerazione quegli scopi per cui i loro equipaggiamento culturale è adeguato [si veda Mancini 1980]. Tornando all'esempio della cultura della povertà, un giovane esperto nel “leggere” segni di amicizia e lealtà [Hannerz 1969] o abile e acuto nel riconoscere minacce al proprio territorio o alla propria dignità [Horowitz 1983] potrebbe perseguire scopi che pongono la lealtà al gruppo più in alto della realizzazione individuale. Questo non perché disdegni i vantaggi che potrebbero derivare dal successo personale, ma perché i significati culturali e le competenze sociali necessarie per giocare quel gioco richiederebbero un riequipaggiamento culturale drastico e costoso. Rivedere la nostra idea di cultura – una cassetta degli attrezzi per costruire strategie d'azione e non un dispositivo che indirizza un'azione alimentata dagli interessi –, significa anche spostare la nostra attenzione su tematiche causali differenti rispetto a quelli di cui si è occupata la sociologia della cultura tradizionale. Quando invochiamo il concetto di spiegazione culturale? E per spiegare cosa? Solitamente si fa appello alla cultura per motivare forme di continuità nell'azione di fronte a cambiamenti strutturali. Si dice, ad esempio, che gli immigrati agiscano in modi culturalmente determinati quando preservano le loro tradizioni e i loro costumi nel nuovo contesto [Thomas e Znaniecki 1968]. Più in generale, utilizziamo la cultura per spiegare perché gruppi diversi si comportano diversamente in situazioni strutturalmente identiche. Infine, assumiamo che la cultura dia conto di qualunque elemento di continuità osservato nel sistema di vita di specifici gruppi, un assunto intuitivamente affascinante ma teoricamente privo di senso. La cultura, infatti, può spiegare l'esistenza di una continuità nell'azione autonoma rispetto alle circostanze strutturali, ma lo fa secondo modalità diverse da quelle che predirrebbe un approccio convenzionale. Torniamo alle difficoltà in termini di spiegazione culturale che solleva L'etica protestante, stavolta per esaminare il più ampio progetto storico-comparativo di Weber. Nelle sue opere su Cina e India [Weber 2002d e 2002e] e nel suo più generale discorso sulla sociologia della religione [Weber 1995] Weber sostenne che le idee religiose fornirono un contributo causale autonomo rispetto alle traiettorie economiche delle diverse società: religiosità orientate ad una 3 A proposito della partecipazione simultanea degli abitanti del ghetto alla cultura tradizionale e alle sottoculture del ghetto, Ulf Hannerz nota: “L'uomo non è un automa culturale privo di ragione. [...] Innanzitutto, il fatto che le persone sviluppino un repertorio culturale in una posizione di ricezione rispetto alla catena di trasmissione culturale non implica affatto che ne metteranno in pratica ogni parte. Un repertorio costituisce piuttosto un potenziale in parte adattabile. Una volta calati nelle situazioni, alcuni dei vantaggi culturali ricevuti potrebbero non essere pertinenti – è il caso di quasi tutto ciò che si impara al cinema, di buona parte delle conoscenze scolastiche e talvolta persino di quelle acquisite all'interno della comunità del ghetto –, mentre altre parti dei repertori individuali potrebbero risultare di maggior utilità” [Hannerz 1969, p. 186]. Anche Bourdieu [2003, p. 211] sottolinea come un habitus fornisca risorse per la costruzione di linee d'azione tra loro diverse: un habitus è un “sistema di disposizioni durature e trasferibili che, integrando tutte le esperienze passate, funziona in ogni momento come matrice delle percezioni, delle valutazioni e delle azioni, e rende possibile il compimento di compiti infinitamente differenziati, grazie al trasferimento analogico di schemi che permettono di risolvere i problemi aventi la stessa forma” (corsivo nell'originale). 5 dimensione mistica ed extra-mondana hanno allontanato gli individui da un'azione economica razionale. Se la cultura giocasse questo ruolo causale indipendente, essa dovrebbe modificarsi meno facilmente di quanto non facciano i modelli strutturali ed economici che è supposta modellare. Ma proprio su questo punto la teoria di Weber non regge empiricamente: gli studiosi della cultura d'impostazione weberiana sono stati messi a disagio dall'aver riscontrato equivalenti funzionali all'etica protestante in società che Weber avrebbe considerato mistiche, orientate ad una dimensione extra-mondana o in altro modo avverse all'attività economica razionale. L'individuazione di fonti religiose autonome alla base di un'etica trascendentale, ascetica e potenzialmente razionalizzante in un importante modernizzatore non occidentale come il Giappone [Bellah 1957] è stata inizialmente accolta con esultanza. In seguito, tuttavia, la frequenza con cui sono stati tracciati paralleli di questo tipo ha minato il fondamento stesso della tesi sull'influenza causale del Protestantesimo (si veda Eisenstadt 1970a). In base al modello weberiano la cultura dovrebbe produrre effetti duraturi sull'azione economica; tuttavia, le culture cambiano, e gli scopi perseguiti dalle società si sono trasformati drammaticamente nell'epoca contemporanea... Posti di fronte alla sfida del moderno Occidente, nazioni di recente sviluppo hanno costruito ideologie ascetiche intra-mondane e modernizzatrici [Wuthnow 1980]. Lungi dal mantenimento della continuità malgrado il mutato contesto, una fonte di attività di tipo religioso e ideologico ha alimentato le trasformazioni cercate da queste società sulla via della modernizzazione. La cultura, pertanto, ricopre un ruolo cruciale nel cambiamento delle società contemporanee, ma non si tratta del ruolo che le assegnano i modelli convenzionali di cui abbiamo parlato. Due modelli di influenza culturale Abbiamo bisogno di due modelli distinti per comprendere situazioni in cui la cultura agisce secondo modalità profondamente diverse. In un primo caso, essa permette di spiegare gli elementi di continuità nell'ambito di “vite stabili”, in cui la cultura è intimamente integrata con l'azione. È soprattutto a questo proposito che siamo tentati di pensare che i valori organizzino e ancorino i modelli d'azione, e sempre in questi contesti è particolarmente complesso districare ciò che è strettamente “culturale”, dal momento che cultura e circostanze strutturali sembrano rafforzarsi a vicenda. Questo è il tipo di situazione su cui teorici come Clifford Geertz [1998b] scrivono in modo tanto convincente: la cultura costituisce un modello di e per l'esperienza e i simboli culturali consolidano un ethos, rendendo così plausibile una visione del mondo che a sua volta giustifica l'ethos. Il secondo caso è quello delle “vite instabili”. La distinzione non è tanto tra i due tipi di vita quanto piuttosto sul ruolo della cultura nel sostenere le strategie d'azione esistenti e nel costruirne di nuove. Non si tratta, in ogni caso, di un contrasto assolutamente netto: le persone svolgono un intenso lavoro culturale per mantenere o raffinare le proprie competenze anche quando conducono una vita stabile. D'altra parte, anche il movimento ideologico più fanatico, che cerchi di rifondare le competenze culturali dei suoi membri, attingerà inevitabilmente a una serie di assunti taciti derivanti dalla cultura esistente. Esistono, comunque, vite più e vite meno stabili, e la stessa affermazione può essere fatta a proposito dei periodi culturali. Gli individui (in talune fasi della loro vita) e i gruppi o le società nel loro complesso (in taluni periodi storici) sono impegnati nel costruire nuove strategie d'azione. È proprio per questo secondo caso che i modelli comunemente adottati nello studio degli effetti della cultura risultano più inadeguati. 6 […] Conclusioni L'approccio che abbiamo illustrato potrebbe dare l'impressione di relegare la cultura a un ruolo subordinato e puramente strumentale nell'ambito della vita sociale. Ad una lettura attenta, tuttavia, risulta evidente il contrario. Le strategie d'azione, infatti, sono prodotti culturali; a loro volta, le esperienze simboliche, le tradizioni mitologiche e le pratiche rituali di un gruppo o di una società generano gli elementi costitutivi delle risorse adottate nella messa a punto di strategie: stati d'animo e motivazioni, forme di strutturazione dell'esperienza e di classificazione della realtà, modalità di regolazione della condotta e di costituzione di legami sociali. Ogni volta che osserviamo differenze sul piano culturale, riconosciamo che le persone non affrontano la vita nello stesso modo, ma secondo approcci plasmati dalla loro cultura. Il problema, tuttavia, è sviluppare un modello teorico più raffinato per comprendere come la cultura modelli o costringa l'azione e, più in generale, come essa interagisca con la struttura sociale. In queste pagine abbiamo sostenuto che questo rapporto varia nel tempo e in base al contesto storico: all'interno di sistemi di vita stabili, la cultura offre un repertorio di competenze a partire dalle quali possono essere formulate diverse strategie. Per questa ragione, sembra che la cultura dia forma all'azione solo attraverso la limitazione della gamma di possibili strategie imposta dal repertorio. Questo non significa però che le culture stabili non esercitino una forte influenza: esse alimentano le tradizioni rituali che regolano i normali modelli di autorità e cooperazione e danno concretezza al senso comune, al punto che modi alternativi di organizzare l'azione sembrano inimmaginabili o per lo meno poco credibili. Le culture stabili, quindi, esercitano nel tempo una pressione sull'azione, a causa del costo elevato del riequipaggiamento culturale indispensabile per adottare nuovi d'azione. Nei periodi instabili, al contrario, i significati culturali sono molto più espliciti e articolati, poiché danno forma a modelli d'azione non automatici o spontanei. Le credenze e le pratiche rituali guidano direttamente le azioni della comunità che aderisce a una certa ideologia. Questa è però in competizione con altri insiemi di presupposti culturali, e sono le contingenze storiche e strutturali a determinare quali strategie – e quindi quali sistemi culturali – avranno infine successo. In entrambi i casi non sono i valori ultimi stabiliti su base culturale a dare forma all'azione nel lungo periodo: la cultura produce conseguenze durature su chi la possiede non dettando gli obiettivi da perseguire, ma fornendo un repertorio specifico con cui comporre linee d'azione. La sociologia è stata affascinata dalla possibilità di porre al centro dell'analisi i valori culturali, poiché questo suggeriva indirettamente che la cultura e non le fattori materiali fossero in ultima istanza decisive. Nell'ingegnoso modello cibernetico di Parsons [1966], è possibile che la struttura sociale restringa le prospettive d'azione, ma sono gli obiettivi culturali a dirigere l’azione. Tuttavia, oggi la sfida per la sociologia della cultura non è stimare quanto la cultura influenzi l'azione, ma individuare nuove prospettive analitiche in grado di inquadrare in modo più efficace come gli attori sociali utilizzino la cultura, in che modo i fattori culturali limitino o agevolino determinati modelli d'azione, quali dimensioni di un'eredità culturale abbiano effetti duraturi sull'azione e, infine, quali specifici cambiamenti storici indeboliscano la vitalità di alcuni modelli culturali originandone altri. Il suggerimento che tanto l'influenza quanto il destino dei significati culturali 7 dipendano dalle strategie d'azione che essi sostengono è un tentativo di colmare queste lacune: la produzione di modelli causali differenziati e sistematici può contribuire a riportare lo studio della cultura in una posizione centrale tra le scienze sociali contemporanee. Bibliografia Bellah R.N., Madsen R., Sullivan W.M., Swidler A., Tipton S.M. 1996 Le abitudini del cuore : individualismo e impegno nella società complessa, Roma, Armando (ed. orig.: Habits of the Heart: Individualism and Commitment in American Life, Berkeley, University of California Press, 1985). Bourdieu P. 2003 Per una teoria della pratica: con tre studi di etnologia cabila, Milano, Cortina Editore (ed. orig.: Esquisse d'une theorie de la pratique : precede de trois etudes d'ethnologie kabyle, Geneve, Droz, 1972). Cancian F.M. 1975 What Are Norms? A Study of Beliefs and Action in a Maya Community, London, Cambridge University Press. Davis N.Z. 1980 Le culture del popolo: sapere, rituali e resistenze nella Francia del Cinquecento,Torino, Einaudi (ed. orig.: Society and Culture in Early Modern France, Stanford, Stanford University Press, 1975). Eisenstadt S.N. 1970a The Protestant Ethic and Modernization, New York, Basic Books. 1970b The Protestant Ethic Thesis in an Analytical and Comparative Framework, in Eisenstadt S.N. (a cura di), “The Protestant Ethic and Modernization”, New York, Basic Books, pp. 3-45. Garfinkel H. 1967 Studies in Ethnomethodology, Englewood Cliffs (NJ), Prentice-Hall. Geertz C. 1963 Primordial Sentiments and Civil Politics in the New States, in Geertz C. (a cura di), “Old Societies and New States”, New York, Free Press, pp. 105157. 1973 Ethos, World View, and the Analysis of Sacred Symbols, in Geertz C., “The Interpretation of Cultures”, pp. 126-141. 1974 Islam: analisi socio-culturale dello sviluppo religioso in Marocco e in Indonesia, Brescia, Morcelliana (ed. orig.: Islam Observed: Religious Development in Morocco and Indonesia, New Haven, Yale University Press, 1968). 1975 Common Sense as a Cultural System, in “Antioch Review”, n. 33, pp. 526. 1976 Art as a Cultural System, in “Modern Language Notes”, n. 91, pp. 473499. 1998a Interpretazione di culture, Bologna, il Mulino (ed. orig.: The 8 Interpretation of Cultures, New York, Basic Books, 1973). 1998b La religione come sistema culturale, in Geertz C., “Interpretazione di culture”, Bologna, il Mulino (ed. orig.: Religion as a Cultural System, in Geertz C., “The Interpretation of Cultures”, pp.87-125). 1998c Ideologia come sistema culturale, in Geertz C., “Interpretazione di culture”, Bologna, il Mulino (ed. orig.: Ideology as a Cultural System, in Geertz C., “The Interpretation of Cultures”, pp.87-125). Hannerz U. 1969 Soulside: Inquiries into Ghetto Culture and Community, New York, Columbia University Press. Horowitz R. 1983 Honor and the American Dream: Culture and Identity in a Chicano Community, New Brunswick (NJ), Rutgers University Press. Keesing R.M. 1974 Theories of Culture, in “Annual Review of Anthropology”, n. 3, Palo Alto, Annual Reviews Inc, pp. 73-97. Parsons T. 1987 La struttura dell'azione sociale, Bologna, il Mulino (ed. orig: The Structure of Social Action. New York, Free Press, 1937). 1996 Il sistema sociale, Milano, Edizioni di Comunità (ed. orig.: The Social System, New York, Free Press, 1951). 1966 Societies: Evolutionary and Comparative Perspectives, Englewood Cliffs (NJ), Prentice-Hall. Rabinow P., Sullivan W.M. (a cura di) 1979 Interpretive Social Science: A Reader, Berkeley, University of California Press. Thomas W.I., Znaniecki F. 1968 Il contadino polacco in Europa e in America, Milano, Edizioni di Comunità (ed. orig.: The Polish Peasant in Europe and America, New York, Knopf, 1918). Warner R.S. 1978 Toward a Redefinition of Action Theory: Paying the Cognitive Element its Due, in “American Journal of Sociology”, n. 83, pp.1317-1349. Weber M. 1995 Sociologia della religione (Tipi di comunità religiose), in “Economia e Società”, milano, Edizioni di Comunità, pp. 411-617(ed. prec., controllare). 2002a L'etica protestante e lo spirito del capitalismo, in “Sociologia della religione”, Milano, Edizioni di Comunità, vol I, pp. 17-194. 2002b Le sette protestanti e lo spirito del capitalismo, in “Sociologia della religione”, Milano, Edizioni di Comunità, vol. I, pp. 195-224. 2002c Introduzione a “L'etica economica delle religioni universali”, in “Sociologia della religione”, Milano, Edizioni di Comunità, vol. I, pp. 227-261. 2002d Confucianesimo e Taoismo, in “L'etica economica delle religioni universali”, in “Sociologia della religione”, Milano, Edizioni di Comunità, vol. I, pp. 263-523. 2002e Induismo e Buddhismo, in “L'etica economica delle religioni universali”, in “Sociologia della religione”, Milano, Edizioni di Comunità, vol. II, pp. 1362. 9 Wrong D. 1961 The Oversocialized Conception of Man in Modern Sociology, in “American Sociological Review”, n. 26, pp. 183-193. Wuthnow R. 1980 World Order and Religious Movements, in Bergeson A. (a curdi), “Studies of the Modern World System”, New York, Academic, pp. 5775). Fonte: A. Swidler, La cultura in azione, in Studiare la cultura. Nuove prospettive sociologiche, a cura di M. Santoro e R. Sassatelli, Bologna, Il Mulino 2009. Allegato al volume Progetto Sociologia – Guida all’immaginazione sociologica © Pearson Italia SpA 10